E dopo quasi due mesi
eccomi qua…pensavate fossi morta? Beh non è così XD!
Onde evitare di
perdermi in inutili chiacchiere, vi annuncio che in questo capitolo ci saranno
un bel po’ di colpi di scena e proprio per questo sarei curiosa di sentire
pareri a proposito. E’ vero, è un capitolo molto lungo, ma contando tutta la
mia assenza, diciamo che così mi sono fatta perdonare!
Voglio precisare anche che sebbene la data riporti 2 giugno, la linea temporale di BisB non è quella presente, perchè la storia è ambientata nel passato, come poteva essere inteso dalle parti iniziali prima della pagina di diario.
Ho introdotto nella narrazione anche un nuovo personaggio che rivedrete in futuro, in una forma un po' cambiata rispetto ad ora, nel seguito di BisB, dove sarà tra i protagonisti :)
La traduzione della
canzone iniziale è la mia, anche se l’ho fatta in fretta quindi non garantisco
sia correttissima, né letterale, ma in ogni caso dovrebbe dare un’idea generale
dell’ispirazione che mi ha spinta a scrivere.
Ringrazio
infinitamente ninfea306, balakov, nikoletta89 e Kobe90 per le
gentilissime recensioni, e vi do appuntamento al prossimo aggiornamento!
Enjoy!
Ecco
il promo del
capitolo 18:
"Sabato sera in discoteca ho incontrato il tuo amico..."
Le sue parole mi hanno lasciata interdetta.
"Mi ha chiesto di te, sai? Voleva sapere come stavi..."
"Ma di chi stai parlando?"
Mi sono immediatamente pentita di averglielo domandato.
I’m just a man Sono solo un uomo
Not even a great one nemmeno qualcuno importante
I’m too vain
for greatness non
sono fatto per la grandezza
Is this what they call love E’ questo quello che
chiamano amore
on a Saturday night? di
sabato sera?
Time for the night clubs E’
tempo dei night club,
Providing the soundtrack for preparando la giusta colonna
Dry humping on dance floors strusciarsi sulla pista da ballo
Is this what they call sex E’ questo quello che
chiamano sesso
on a Saturday night?
di sabato sera?
Broken BEER bottles
Bottiglie di birra rotte,
Thrown like American footballs gettate come palle da football
Is this what they call hate E’ questo quello che chiamano
odio
on a Saturday night?
di sabato sera?
{Saturday Night – The Thrills}
C'è
una bella differenza tra l'apparenza di qualcosa e la sua vera essenza.
Come
la differenza abissale tra cielo e terra.
Eppure,
Roxanne era certamente convinta di aver assistito almeno una volta nella sua
vita alla fusione di queste due realtà opposte.
Proprio
su quel palco.
Proprio
lì dove, splendente di luci multicolori, aveva visto un angelo ancorato al
suolo solo grazie ad un paio di tacchi a spillo.
Roxanne
alzò il suo calice di cristallo in alto, solennemente.
Un
brindisi alla libertà. Alla scuola che stava per terminare. Al baratro del
futuro che stava per aprirsi davanti a lei.
Bevve
velocemente il suo champagne sotto lo sguardo mezzo severo e mezzo divertito
dell’angelo.
Poi,
delle mani spuntate da chissà dove, afferrarono il viso di quella creatura
perfetta, interrompendo la sua risata, e una bocca avida cercò di impossessarsi
di quelle labbra rosee e divine.
Roxanne
distolse lo sguardo con repulsione, allontanandosi velocemente in un vano
tentativo di ignorare la realtà.
Nella
sua vita aveva visto troppi esseri innocenti diventare corrotti.
Compresa
se stessa.
2 giugno
Sono
contenta di aver già fatto precedentemente un riassunto di tutta la settimana
visto che, sebbene si tratti di un solo giorno, ho molto da raccontare.
Ovviamente
non mi perderò in chiacchiere ma andrò dritta al
punto.
Ieri
non c’era scuola, come ogni sabato, e quindi ho detto a Roxanne di passare da
me durante il pomeriggio, perché dovevo farle vedere una cosa.
Lei
è arrivata, leggermente in ritardo, stritolando una borsetta marrone tra le
mani e sfoggiando un look coloratissimo e decisamente stravagante.
Non
so come altro si potrebbe definire una T-shirt arancione con grandi pois rossi,
abbinata ad un’ampia gonna in stile gitana in cui tutti i colori dello spettro
visibile si susseguivano senza alcun ritegno.
«Uhm…carina quella gonna…adorabile», ho commentato in modo affabile, invitandola ad entrare
in casa mia.
«Oh,
grazie», ha sorriso Roxanne, superando l’uscio, senza afferrare minimamente la
mia ironia.
«Salve…»,
ha detto, guardandosi intorno per il soggiorno, aspettandosi apparentemente che
qualcun altro apparisse da un momento all’altro per darle il benvenuto.
«Mia
madre e la domestica non ci sono», le ho risposto, risolvendo i suoi dubbi.
Eravamo sole. Era anche per questo che l’avevo fatta venire. Visto che Harriet - esatto, mia madre in versione isterica - chiede
sempre di lei, le avrei fatto un dispetto accogliendola in sua assenza per poi
dire: “Oh mamma! Non indovinerai mai chi è passato di qui prima!” e così
ammirare la sua esilarante faccia sconsolata.
Lo
so, mi divertono dei giochetti piuttosto stupidi, ma son fatta così. Mi piace fare irritare le persone almeno
tanto quanto amo scaricare la mia rabbia su soggetti innocenti.
Ma,
ritornando ora a noi, avevo invitato Roxanne per un motivo ben preciso, di cui
lei non sapeva nemmeno l’esistenza.
«Allora…»,
ha mormorato, spostando il peso da un piede all’altro, titubante, «cos’è che
dovevi farmi vedere?»
«Vieni
con me», le ho detto, salendo le scale e facendomi strada verso la mia stanza.
Roxanne
sembrava essere ormai diventata familiare con i dintorni e con l’arredamento
immacolato della mia personalissima reggia. Con grazia si è appollaiata sul
bordo del mio letto, senza staccarmi gli occhi di dosso
mentre io entravo nell’armadio.
Tutta
la sua essenza appariva in netto contrasto con i dintorni. Se ne stava lì, come
un ammasso di colori vivaci messi a caso, i capelli mossi sciolti lungo la
schiena e un paio di sandali ai piedi.
Lo stile gitana le calzava a pennello, talmente bene che se non la
conoscessi l’avrei scambiata per una di quelle hippy degli anni 60.
«Ehi!
Cos’hai lì?», ha interrotto i miei pensieri, scorgendo qualcosa tra le mie
mani.
Ho
sistemato l’oggetto che aveva catturato la sua attenzione sul letto accanto a
lei, permettendole di vederlo meglio.
Si
trattava di un vestito rosa pallido, pinzettato in vita da due cuciture
laterali e lungo appena sopra al ginocchio. La gonna, scendeva morbida sui
fianchi fino a terminare in un orlo di tulle bianco appositamente stropicciato
che emergeva dal tessuto esterno rosa.
Roxanne
si è coperta la bocca con le mani, boccheggiando.
Io
ho ridacchiato per quella reazione plateale.
«E’…E’…E’…»
«Carino?
Accettabile? Appena presentabile?», le ho suggerito, annoiata.
«STUPENDO!»,
ha detto lei, emettendo gridolini eccitati. Poi si è alzata e ha iniziato a
vagare attorno al letto, studiando il vestito appoggiato sul materasso da ogni
angolazione.
Un
lieve sorriso si è formato immediatamente sulle mie labbra.
«Bene.
Sono contenta che ti piaccia…puoi anche tenerlo se lo vuoi.»
In
un millesimo di secondo, Roxanne ha puntato i suoi occhi zaffiro su di me.
«Cosa?!
Stai scherzando?»
«E
perché dovrei?», le ho risposto, scrollando le spalle, «ho un
armadio grande quanto una casa pieno di vestiti che non userò più. Per
di più questo risale a quando avevo circa tredici-quattordici anni e scarseggiavo nel reparto
tette…quindi per te è perfetto.»
Sono
certa di non aver immaginato la scintilla omicida nel suo sguardo a
quell’affermazione.
Io,
in ogni caso, ho continuato a sorridere, lasciando che i miei denti
bianchissimi scintillassero, come ogni altro oggetto nella stanza.
«No,
davvero, non posso», ha detto, scuotendo il capo dopo un primo istante di incertezza, «E perché hai deciso di farmi questo regalo
poi?»
«Parlare
di regalo è esagerato…Non è nemmeno nuovo!», ho replicato fervente, sentendomi
a disagio al pensiero che io le stessi realmente donando qualcosa.
«Ma
guardalo…il tessuto è morbidissimo e per niente rovinato!»
Ne
accarezzava la superficie con le punte delle dita, con delicatezza, come osasse appena permettersi di sfiorarlo.
«Beh…l’ho
messo solo…una volta», ho risposto, schiarendomi la gola, sentendo, mio
malgrado, la voce venir meno alla fine della frase.
Ed
è stato allora che ho ricordato. All’improvviso, come se il mio personalissimo
vaso di Pandora fosse stato aperto, i ricordi hanno iniziato ad affollare la
mia mente.
«Kate?», ha chiamato Roxanne, con tono allarmato.
Io
ho alzato gli occhi e lei non mi è mai sembrata così lontana. Le distanze non
sembravano combaciare, come se il suo corpo si trovasse in una prospettiva completamente
estranea a quella della mia realtà.
«Scusami
un attimo, devo andare in bagno», sono riuscita a dire, prima di precipitarmi
con passo forzatamente rigido sino alla toilette.
Ho
aperto il rubinetto, lasciando che l’acqua fredda scorresse sui miei palmi
accaldati.
Poi,
ho abbassato la testa, cercando refrigerio nelle mani bagnate.
Respiravo
affannosamente e non riuscivo a calmarmi.
«Tranquilla»,
ho mormorato a me stessa, socchiudendo le palpebre.
Ma
quando le ho riaperte e mi sono guardata nello specchio, tutto ad un tratto la
persona riflessa non sembrava più me.
Boccheggiando,
con il sottofondo dell’acqua che ancora scorreva con un flusso violento, mi
sono ritrovata davanti alla versione quattordicenne di Kate
Hudson.
Lei
non mi ha detto niente, mi ha solo fissato, con la stessa espressione vuota di quella sera. Con la stessa
espressione di qualcuno che, avendo troppe cose da dire, ha deciso di
sbarazzarsene per cercare un po’ di conforto nell’oblio dell’ignoranza.
Okay…forse
dovrei essere meno criptica. Almeno qui me lo posso permettere: posso
permettermi di essere sincera almeno per una volta.
La
prima vera volta che racconto a qualcuno questa storia.
Avevo
quattordici anni, quella (non so se definirla dannata o maledetta o ormai troppo lontana) notte. Io e le
Gallinelle eravamo riuscite a procurarci dei biglietti per il gran concerto dei
Blue, che a quell’epoca adoravamo e andavano tanto di moda, e il nostro sogno
di incontrarli dal vivo stava per avverarsi.
Avevo
pregato mio padre di chiedere al suo amico, un pezzo grosso della casa
discografica dei cantanti, di procurarci anche cinque pass per il backstage per
me e le mie amiche, ma lui aveva
ignorato le mie richieste, troppo preso dal suo lavoro.
Le
Gallinelle si erano lagnate.
Ci
saremmo dovute accontentare di vedere i nostri amati Blue da sotto il palco,
tra migliaia di persone dalle ascelle puzzolenti e l’alito cattivo, che si
dimenavano cercando di catturare l’attenzione dei cantanti?
No,
no. Questo mai.
Nel
mio solito impeto eroico avevo promesso loro che avrei trovato un modo per
poter assistere a tutto il concerto dal backstage…e tenni
fede alla mia parola.
Loro
non hanno mai notato le mie guance arrossate, i capelli spettinati, il rossetto
sparito dalle mie labbra e il vestito rosa - quello stesso vestito che ho prestato
poi a Roxanne - stropicciato e sollevato fin sopra alle mie cosce ancora
pallide in vista dell’estate, quando le avevo raggiunte dopo una breve assenza.
Dieci
minuti, appena dieci minuti.
Non
ho mai detto loro delle sue mani e di quella orrida barba che pungeva le mie
guance sensibili, né della lingua ruvida che si era insinuata impietosa nella
mia bocca serrata.
E
la cosa più importante: non ho mai rivelato loro il dolore provato sentendo
quel completo estraneo spingere dentro di
me, privandomi di quell’ultima innocenza che mi era rimasta.
Se
glielo avessi detto, credo che mi avrebbero risposto
qualcosa del genere: «Mannò, è impossibile, Kate. Lo sanno tutti! La tua prima volta va ufficialmente Keith Derry, un tipo che hai
conosciuto quella stessa estate e con cui sei stata per un paio di mesi. Non te
lo ricordi?»
Come
avrei potuto mai ammettere di aver venduto la mia verginità per un
backstage-pass del concerto dei Blue?
Impossibile:
Kate Hudson non lo farebbe mai.
E
così ho cancellato totalmente quel ricordo, lasciando che un alibi inventato
prendesse il posto della verità in tutti i racconti che erano seguiti.
Potevo
quasi immaginare Keith sopra di me, mentre mi
accarezzava e mi prometteva amore eterno prima di farmi sua per la prima volta.
Era un ottimo materiale per incantare i miei ascoltatori. Una notte terminata
in modo assolutamente romantico, dopo aver cenato a lume di candela in riva al
mare.
Niente
di squallido, insomma.
Quando
ero ritornata dalle Gallinelle con cinque pass in mano, loro, troppo eccitate
dalla notizia, mi erano saltate addosso, ringraziandomi, senza nemmeno chiedere
come ci fossi riuscita.
Probabilmente
erano convinte che una come fosse capace di ottenere
qualsiasi cosa semplicemente aprendo bocca. Probabilmente lo pensano ancora tutt’oggi.
Eppure,
chiunque tu sia, c’è un’unica grande regola a cui
tutti dobbiamo sottostare: un prezzo si paga sempre.
Io
l’ho capito quel giorno.
Al
termine della performance dei Blue, dopo aver gridato promesse d’amore ai
cantanti per tutto il tempo, abbiamo finalmente incontrato di persona Duncan James, Lee
Ryan, Simon Webbe e Anthony Costa. Persino quel pulsare sordo che avvertivo in
mezzo alle gambe aveva perso importanza, in confronto alla felicità nei volti delle
Gallinelle, e di conseguenza anche la mia.
I
quattro cantanti inglesi avevano persino azzardato un complimento caloroso
sulla bellezza delle fanciulle americane.
Le
mie labbra si erano aperte in un piccolo sorriso, sentendomi subito capacissima
di fingere in maniera eccellente.
Chiaramente
stavano parlando solo di me, ma le Gallinelle, quanto meno onorate, si erano
perse in gridolini eccitati, ringraziando a destra e a manca.
Eravamo
tornate a casa con un sacco di foto memorabili e un autografo da ciascuno dei
membri della band.
“Ne
è valsa la pena”, mi dissi, ma raggiunto il sicuro perimetro della mia
cameretta, corsi in bagno a vomitare.
Il
mio corpo tremava.
Schifo,
schifo, schifo. Quando i conati sembravano essere ormai cessati, riecco che il
disgusto tornava alle stelle e io ero costretta a ripiegarmi sul gabinetto con
gli occhi lucidi per lo sforzo.
Quando
il flusso di vomito si era ormai arrestato, barcollando raggiunsi il lavandino
e alzai il capo verso lo specchio a muro.
Mi
restituivano lo sguardo un paio di occhi vuoti, sopra un volto stanco. Era la
prima volta che vedevo me stessa in quelle condizioni.
Mi
sono odiata. Ho odiato quegli zigomi alti ed incavati che tutti mi invidiano,
ho odiato la curva della mia stessa bocca e la fronte contratta dal disgusto.
Ho
osato persino odiare me stessa, perché quella non ero io.
Perché
nemmeno quel volto che ho visto ieri pomeriggio nello specchio ero io.
Era
una versione fragile e debole di me, una versione che non ho voluto mai
accettare.
Una
parte di me che ho ricacciato immediatamente nelle profondità del mio essere.
Io
amo solo me stessa, ma in quel momento mi è sembrato
di perdere persino l’unica forma di affetto che mi è stato mai concesso di
provare.
L’incanto
spazio-temporale si è spezzato qualche secondo dopo, mentre l’acqua continuava
a scorrere tra le mie mani e io mi ero persa a
contemplare le iridi chiare di una Kate tornata
diciottenne.
«Ehi?
Stai bene?», ha chiesto una voce soffocata da dietro la porta chiusa a chiave.
“Roxanne”, ho pensato. La mia unica
reazione è stata sbattere le palpebre.
Era
già fin troppo strano che fosse stata così silenziosa per tutto quel tempo.
Sospirando
ho chiuso il rubinetto. Mi sono asciugata le mani ormai congelate contro un
asciugamano e mi sono rassettata, controllando spasmodicamente il mio riflesso
nello specchio.
«KATE?»
Ho
sorriso, prima di disserrare la porta e trovarmi di
fronte una Roxanne molto preoccupata.
«E’
tutto ok», le ho risposto cordialmente, cancellando
il disagio dal suo volto.
Averla
di nuovo davanti, ha fatto scattare una sorta di conforto anche dentro di me.
Al
tempo stesso, però, avuto la conferma ai miei dubbi precedenti: Roxanne non mi
conosce. Non può conoscermi davvero.
Se
avesse capito davvero come sono fatta in quel momento non avrebbe ricambiato il
mio sorriso. Non mi avrebbe creduto e mi avrebbe costretto ad ammettere la
verità.
Ma
così non è andata.
Lei
ha accettato le mie parole e si è comportata di conseguenza, perché così tutto
era più facile. Perché quando ci chiedono : “Come
stai?”, noi rispondiamo sempre con un vago “Bene” per evitare complicazioni, e
nessuno si azzarda a domandare di più, nel timore di rovinare anche quel
briciolo di conversazione semi-decente.
Io,
d’altra parte non avevo alcuna intenzione di espormi di più, perciò quel
compromesso omertoso mi stava bene.
Roxanne,
semi sorridente, ha esitato un istante, un istante
solo, lanciandomi uno sguardo da sotto le sue ciglia brune, che mi ha fatto
dubitare realmente delle sue reazioni.
Ma
si è trattato appena di un attimo, un lasso di tempo troppo piccolo per
riuscire a capire cosa le passasse per la testa.
Magari
stavamo fingendo entrambe, senza sapere che l’altra stesse pensando la stessa
cosa.
Chissà…
«Tornando
a noi…», è intervenuta Roxanne, interrompendo bruscamente quell’istante di
silenzio, «il vestito è perfetto, Kate, però…»
«Come
fai a dire che è perfetto se non l’hai neanche provato?», le ho domandato a
bruciapelo.
Roxanne
ha sbattuto le palpebre, indecisa.
«Su,
mettilo! Puoi cambiarti nell’armadio se vuoi…»
«No,
no, va bene, posso cambiarmi anche qui», ha aggiunto lei frettolosamente, prima
di liberarsi della sua T-shirt e della lunga gonna.
Guardandola
solo in biancheria intima ho potuto notare quanto fosse
magra sotto i vestiti, anche se niente di eccessivamente esasperato. La sua
pelle, di una tonalità di colore decisamente più chiara rispetto a quando
l’avevo conosciuta, ricopriva una figura naturalmente longilinea
ma al tempo stesso morbida, senza curve troppo pronunciate, quasi ad
angolo smussato.
Sembrava
una bambina in tutto e per tutto.
Ovviamente
mi sono ben guardata dal fissarla apertamente per non crearle disagio.
Quando
poi ha infilato il vestito a partire dalle gambe, mi sono avvicinata per
aiutarla a richiudere la zip.
Le
stava a pennello, con mia grandissima soddisfazione.
«Lo
dicevo io che era perfetto», ha detto lei, lanciandomi un’occhiata attraverso
lo specchio.
Io
per qualche motivo, probabilmente ancora scioccata da quello che era successo
poco prima, ho evitato accuratamente di intercettare ancora il mio riflesso.
«Sì,
modestamente ho buon gusto nel
scegliere», ho buttato lì, nient’affatto modestamente, lasciando che Roxanne si
liberasse in una piccola risata.
Poi
qualcosa alle mie spalle è sembrato catturare la sua attenzione.
«Oh!
Siete voi quelle?», ha squittito, avvicinandosi all’oggetto di tanto interesse.
Io
mi sono voltata per accertarmi di cosa si trattasse,
altrettanto confusa.
Era
una fotografia. Quella fotografia.
«Sì»,
ho risposto, dissimulando senza troppo successo il mio tono di disagio.
«Che
carine! Sembrate così piccole! Però tu sei sempre uguale, a parte l’espressione
un po’ più infantile…», ha commentato a ruota libera riferendosi a me e alle Gallinelle, «Ehi, ma qui indossi questo vestito rosa,
giusto? E chi sono questi quattro? Aspetta…non saranno mica quella band famosa…»
Mio
malgrado, le ho risposto con un’espressione mesta: «Sì, sono i Blue…»
«Incredibile!
A quanto risale? E voi eravate già amiche?», ha chiesto Roxanne, infervorandosi
di curiosità.
Mi
è scappato un sorrisetto che tuttavia non andava oltre gli angoli piegati
all’insù della mia bocca.
«Poco
più di quattro anni fa. Sì, io e le Gal-…ehm, le
altre, siamo amiche dalle
elementari.»
Considerare
quei polletti microcefali mie amiche va oltre le più grandi falsità che ho
detto in tutta la mia vita, ma in questo caso sono stata costretta a fingere.
«Oh»,
ha detto lei, dimostrandosi pensierosa per un attimo, «deve essere bellissimo
avere un’amicizia che dura da così tanto tempo.»
«Già»,
ho mormorato io, giusto per assecondarla. Se avesse avuto
le Gallinelle tra le calcagna per più di dieci anni, sono sicura che non la
penserebbe più in questa maniera.
«Sai,
un po’ vi invidio», ha ammesso
Si è stretta nelle spalle con un sorriso debole, quasi
volesse scusarsi della sua inadeguatezza.
«E
poi quando ho incontrato Liam…beh, devo ammettere di
aver lasciato perdere qualsiasi altro contatto umano per stargli accanto…», ha
riso nervosamente, tenendo lo sguardo basso sul pavimento.
Sentivo
ancora il suo disagio nel parlarmi di lui, ma essendo l’unica a conoscere
veramente tutta la storia, sono diventata quasi una sorta di “valvola di sfogo”
per lei.
E’
come se non potesse fare a meno di parlarmene ogni tanto.
«Che
stupida che sono stata…Non posso nemmeno dare la colpa a lui, a questo punto.
Sono stata io a volere tutto questo»,
ha detto, quasi parlando con se stessa. Poi finalmente ha deciso di guardarmi.
Io
sono stata un po’ presa contropiede dalla vista di
quegli occhi blu così scuri e dalle lunghe onde mogano che si adagiavano
morbidamente sulle spalline del vestito.
«Però
venire qui ha cambiato le cose: sto cercando un nuovo
equilibrio in me stessa…e le tue parole dell’altro giorno mi hanno aiutata
molto…», ha confessato, in modo disarmante.
«Le
mie parole?», ho domandato, non afferrando il riferimento.
«Sì»,
ha ripetuto Roxanne, facendosi appena più timida, «Ho
capito di avere un obiettivo da raggiungere e amici con cui condividere il mio
futuro…per la prima volta mi sembra di avere in mano la mia vita!»
«Oh…»
«E
senza di te non ce l’avrei mai fatta, sai? Se tu non
mi avessi spinta ad affrontarlo, se tu non mi avessi
detto quelle parole…», ha continuato a dire.
Io
l’ho fermata, mettendole un palmo davanti a mo’ di stop.
Poi
ho scosso la testa, cercando di convincermi delle mie stesse parole: «No. Io
non ho fatto niente…»
«E
invece non è vero», si è ostinata Roxanne con quel cipiglio tanto familiare, «Senza di te adesso sarei ancora a piangermi
addosso…Sei stata il grilletto che mi ha spinto ad uscire fuori
da quell’incubo che stavo vivendo…»
«Ti
ripeto che io non ho fatto veramente niente…Ho solo aperto la bocca a
sproposito un sacco di volte e non credo si possa considerare questo “aiutare”
una persona. Abbiamo anche litigato spesso per questo, no?», le ho detto,
cercando in tutti i modi di distoglierla dalle sue stupide idee. Mi ero
stancata dei fraintendimenti: doveva aprire gli occhi ed imparare che non ci si
può fidare sempre delle persone…men che meno di me.
Oppure questo era solo un modo per nascondere a me stessa quello che
avevo fatto davvero per lei?
«Non è quello che mi hai detto che ha importanza…ma
è come l’hai fatto», l’ho vista
perdersi in un piccolo sorriso diretto nel vuoto, «So benissimo di essere un
po’…testarda, ecco, e preferirei di
gran lunga fare a modo mio ed evitare di affrontare i problemi, ma tu mi hai in
qualche modo costretta a sistemare le cose, perché c’era in ballo la nostra
amicizia e io non volevo perderla…»
Sono restata ad ascoltare, con la bocca serrata e mille pensieri in
testa.
«E io non so come ricambiare tutte queste cose che fai per me, tutte
le volte che a modo tuo ti preoccupi per me…Non so nemmeno come ringraziarti
perché un grazie non sarebbe abbastanza…»
Ho cercato di buttarla sul ridere per interrompere quella speculazione
interiore che tanto mi stava infastidendo: «E chi ti dice che tutto questo sia
gratis? Guarda che mi devi cento dollari», l’ho presa in giro, mostrandole la
mano aperta in attesa della sua “mancia”.
«Mannaggia! E io che speravo di avere uno
sconto addolcendoti con questo discorso!», ha replicato lei stando al gioco.
«Non è facile addolcirmi», ho asserito, alzando il mento con orgoglio.
«Ah davvero?», mi ha chiesto, scettica.
Io ho annuito convinta e lei ha ghignato, sfidandomi apertamente.
«Sei la migliore amica che abbia mai avuto»,
mi ha detto, rendendo la sua voce appena più infantile nello spudorato intento
di scatenare una mia qualche reazione.
Io ho scosso la testa, ignorando la strana sensazione di sentire
quelle parole provenire direttamente dalla sua voce e non più da un foglietto
di carta.
«Niente da fare.»
«Mhm…», ha mugugnato, massaggiandosi il
mento, pensando evidentemente ad un’altra strategia da adottare per
costringermi a soccombere.
«Sei taaaaaaaaanto bella e simpatica!», ha riprovato,
adulandomi con il tono lamentoso di una bambinetta.
Io ho scosso di nuovo la testa, dimostrandomi impassibile,
ma incapace di non sorridere al pensiero di quello stupido giochetto che
ci eravamo inventate lì su due piedi.
«Aha! Hai sorriso!», si è infervorata
Roxanne, puntandomi contro un dito.
«Ma non mi sono addolcita!», ho replicato in modo tenace.
«E allora come faccio a capire se ho vinto o no?»
«Non lo saprai mai, semplice»,
ho concluso con un ghigno furbesco.
Roxanne esibiva in volto un’espressione a dir poco oltraggiata che mi
ha fatto ridere di gusto.
Lo sguardo allora mi è caduto accidentalmente sull’orologio.
«Oddio!», ho esclamato.
Roxanne mi ha fissato, confusa: «C-cosa
c’è?»
«La maschera facciale! Devo tenerla per due ore, o altrimenti non farò
in tempo…»
«Ma in tempo per cosa?», ha chiesto lei, senza apparentemente capire di cosa stessi parlando.
«Oh insomma, Roxanne! Te lo ricordi che stasera c’è la
serata in discoteca, vero?»
Dalle sue sopracciglia alzate in un moto di sorpresa ho capito che se
n’era sicuramente scordata. Non so come sia materialmente possibile
dimenticarsi dell’evento più chiacchierato della settimana, quando, come
Roxanne, si è circondate per tutto il giorno da quattro vivaci Galline che ne
parlano costantemente.
«Oh…adesso capisco…il vestito», ha mormorato, iniziando a ricollegare
i tasselli.
«E’
per stasera, esatto», ho sospirato, dirigendomi in bagno,
«Vieni ad aiutarmi oppure no?», l’ho poi chiamata a raggiungermi.
Lei
mi ha seguita in fretta e dopo una mezz’ora di battibecchi, è riuscita
finalmente ad applicare correttamente la maschera facciale sul mio viso.
«Non
capisco perché devi sempre ostinarti a fare diversamente», l’ho sgridata.
«Ma
diceva di mescolare due volte e poi una volta e io l’ho mescolato tre volte,
non ci vedo nulla di male nel fare così!»
«Se
dice di mescolare prima due volte e poi una volta un motivo ci sarà, no?
Altrimenti avrebbero scritto semplicemente di mescolare per tre volte!»
«Pff», ha riso lei sotto i baffi.
«Ah
e adesso ridi pure?», ho esclamato, incredula.
«Beh…è
difficile stare seri parlando con qualcuno che ha la faccia verde come il Grintch», ha confessato, ridendo più apertamente.
Con
un ghigno nascosto, ho affondato la mano destra nella
vaschetta dove avevamo preparato la poltiglia verde della maschera. Con un
guizzo, sono riuscita a sporcare la guancia di Roxanne, lasciandole una scia
melmosa fino al collo.
«Ugh! Che schifo!», ha esclamato, spostandosi
immediatamente. Adesso finalmente non si sarebbe più azzardata a ridere di me.
«Ma
quale schifo! Questa mistura è capace di rendere la tua pelle liscia come
seta!»
Roxanne
ha storto le labbra, poco convinta, tentando di pulirsi.
Le
ho afferrato il braccio e l’ho affrontata con la mia faccia verde ed
inquietante.
«Io
la uso sempre…non vedi i risultati?», l’ho minacciata con voce suadente.
«Beh
se il tuo intento è travestirti da rospa per trovare
un rospo che si trasformi in principe azzurro, direi che il risultato è quello
più appropriato», ha ironizzato lei, cercando di liberarsi della mia presa. Io
però l’ho placcata, sorridendo maleficamente al suo indirizzo.
Dopo
una estenuante lotta sono riuscita a convincerla a
provare definitivamente la maschera, visto che ormai le avevo impiastricciato
già tutto il viso con la mistura.
«Okay,
adesso siamo pari», ho decretato.
Lei
ha tentato di fare una smorfia, ma l’intruglio denso sulle sue gote gliel’ha
impedito.
«Di
grazia, a cosa servirebbe questa maschera di bellezza?»
«Ad
idratare la pelle, mantenendola in uno stato di relax e naturalmente a
prevenire le rughe», le ho risposto prontamente, quasi come un libro stampato.
«Crema
anti-rughe?», ha chiesto Roxanne, scioccata, «Ma Kate, abbiamo appena 18 anni, che tipo di rughe possiamo
avere?»
«Meglio
prevenire che curare», ho risposto, scrollando le spalle. Lei ha riso,
convivendo con l’espressione perennemente rigida che la maschera le imponeva.
«Sei
adorabile così», mi ha poi complimentata, indicandomi con un cenno del capo.
«Grazie»,
ho replicato con orgoglio, «nemmeno tu sei niente male», ho aggiunto con un
occhiolino, «ma se credi di avermi addolcita, mi dispiace deluderti, ma non ci
sei riuscita.»
Roxanne
ha finto di essere stata colpita da una pugnalata al cuore, in modo molto
teatrale.
«Oh
povera me! E io che volevo persino dirti quanto tu sia sexy con quell’intruglio
in faccia!»
«So
di esserlo di più senza», le ho risposto, lasciando
scintillare i miei occhi di malizia.
Roxanne
ha riso di gusto, prima di illuminarsi, apparentemente
colpita da un’idea improvvisa. Ha battuto le mani, entusiasta, dicendo: «Ehi!
Hai per caso una macchina fotografica?»
«Uhm…sì,
perché?»
«Dobbiamo
commemorare questo momento!», mi ha risposto, alzandosi in piedi di scatto.
«No,
no, no, no», ho asserito categorica, «Non possiamo
farci delle foto conciate così!»
«E
chi ce lo impedisce?», mi ha domandato lei, con un
tono innocente.
«Maddai! Sembriamo oltremodo ridicole!», ho protestato,
cercando di dissuaderla.
«Andiamo!»,
mi ha incitata, «è solo per gioco!»
L’ho
fissata interdetta.
«Daiiiiiii!», ha insistito, lagnandosi come una poppante,
tirando il mio braccio destro.
E
io per qualche motivo mi sono arresa. Ho preso da un cassetto la mia fotocamera digitale e l’ho accesa. Roxanne mi si è
avvicinata, prendendomi per il fianco ed avvicinando il suo viso al mio.
Non
indossavo tacchi e sono stata abbastanza sorpresa nel trovarla quasi al mio
stesso livello d’altezza.
Ho
puntato l’obiettivo verso di noi, allungando il braccio il più possibile.
«Oddio!
Non posso sorridere», ha esclamato Roxanne, quasi in panico.
Mi
sono voltata a guardare con una pseudo tenerezza i
suoi connotati celati dall’ impiastro verde oliva:
«Non preoccuparti, tesoro, sei bella
lo stesso».
E
poi ho scattato.
Roxanne
ha rimirato a lungo la foto, attraverso il piccolo schermo della fotocamera, ridendo come una pazza. Io mi sono accodata a
lei, incapace di resistere a quella risata così allegra.
«Esigo
che tu la incornici», mi ha poi detto, restituendomi la macchina fotografica.
«Ma
scherzi? E perché dovrei tenere questo obbrobrio nella mia stanza?», le ho risposto,
rimettendo l’aggeggio a posto.
Sebbene
la sua espressione fosse diventata più rigida a causa della maschera, ho visto
benissimo la delusione sui suoi lineamenti a questa mia affermazione.
Sprofondando
a terra sul tappeto bianco di fronte al mio letto, l’ho vista lanciare una
breve occhiata alla foto accanto al mio comodino. Più precisamente quella
raffigurante me, le Gallinelle e i Blue.
«Che
hai?», le ho domandato, sedendomi sul bordo del materasso, alle sue spalle.
Lei
si è girata verso di me e mi ha detto che non aveva niente, sebbene la sua voce
e la sua espressione suggerissero il contrario.
«A
me sembri verde di rabbia», ho scherzato, canzonandola con un sorrisetto sulle
labbra.
«Sì,
come Hulk», ha risposto ironica, con un sorriso amaro
sulle labbra.
Ho
fissato per qualche minuto il suo mezzo profilo, senza dire nulla. Lei
continuava a fissare il candido tappeto su cui era seduta a gambe incrociate.
«Credo
che…farò stampare quella foto», ho esordito dopo un po’, facendola quasi sussultare, «In fondo è piuttosto divertente, no? In questa
stanza non ci sono molte cose buffe», ho continuato, lanciando uno sguardo
d’insieme ai mobili e ai suppellettili che mi
circondavano. Bianco, bianco e ancora bianco. Un poster con una mia foto sul
muro, la foto con le Gallinelle accanto al comodino, e una con i miei genitori.
Una facciata. Cose e persone di cui non m’importa assolutamente nulla –
tralasciando il poster.
Persone
che, tuttavia, fanno parte della mia vita, che ci sono state sempre o quasi,
durante tutto il corso dei miei diciotto anni.
E
adesso nella mia vita c’è anche Roxanne.
Lei
occupa un posto strano, non ben definito, ma è lì, senza alcun dubbio e senza
nessuno che cerchi di rubarle il posto. E’ come se quel ruolo fosse sempre
stato il suo; come un’eredità indiscutibile.
Roxanne
è rimasta colpita dalle mie parole per un attimo e poi ha tentato di sorridere,
senza riuscirci completamente per ovvi impedimenti.
«Ugh. Per quanto altro tempo ancora dovrò tenere questa
robaccia?»
«Per
quanto altro tempo dovrò dirti che non è della semplice robaccia?», ho
replicato prontamente. Lei ha scosso la testa, apparentemente esausta e poi si
è alzata in piedi con un fluido movimento, il vestito rosa che le danzava
attorno ai fianchi, e ha recuperato il telecomando della tv.
Abbiamo
fatto zapping per due ore, guardando prima mtv e poi
una soap drammatica e parecchio sdolcinata.
Verso
la fine della puntata, ho visto Roxanne portarsi una mano al viso, come per
scacciare una lacrimuccia, ma avendo davanti semplicemente la sua schiena non
ho potuto vedere di più.
Dopodiché,
quando l’orario iniziava ad avvicinarsi, abbiamo iniziato ad affrettarci su e
giù, cercando di rimuovere la maschera facciale che ormai era diventata dura
come la pietra. Roxanne l’ha staccata così bruscamente da procurarsi un rossore
evidente su tutto il viso, perciò ho dovuto amarmi di un bel po’ di fondotinta
per rendere la cosa meno evidente, dopo averla sgridata almeno per mezz’ora.
Io, invece, mi sono ripulita, facendo attenzione a non esagerare con la forza e
mi sono ritrovata con una pelle liscissima, dal
profumo di agrumi.
Poi sono entrata nell’armadio e ne sono emersa con un Hervé Léger monospalla
a tubino, in raso bordeaux, dalla fattura ridicolosamente
pregiata.
Non
sto qui a riportare i commenti entusiastici di Roxanne, perché è ormai cosa
nota, ma posso dire per certo che le è molto piaciuto.
Io
ho scelto di lasciare i capelli sciolti e lisci, mentre Roxanne li ha raccolti
ai lati in una treccia che impedisse al resto dei capelli di scivolarle davanti
alla frangia.
«Wow»,
ha detto guardandosi allo specchio, «E’ strano…entro
in casa tua vestita in un modo e ne esco conciata in
maniera completamente diversa…chissà cosa penseranno i vicini…»
Io
ho ridacchiato, pescando una collana di perle scure dagli altri gioielli, e
indossandola seduta stante.
«I
nostri vicini sanno farsi gli affari propri», ho risposto. Vivere in un
quartiere residenziale ha sempre garantito una certa privacy.
«Però
quelle scarpe non vanno bene. Andiamo, vuoi continuare ad indossare quei
sandali?», le ho domandato, adocchiando in maniera sospetta i suoi piedi.
«Beh
non ho altro qui con me…e non sapevo neanche che ci fosse la serata in
discoteca e allora-»
«Che
numero calzi?», le ho domandato, interrompendo i suoi stupidi sproloqui.
«Trentasei»,
ha risposto prontamente, senza capire dove volessi arrivare.
«Ok», ho detto, prima di scomparire nel guardaroba per poi
riapparirne con un paio di decoltee della stessa
tonalità del vestito.
Roxanne
le ha prese, continuando a guardarmi confusa.
«Fortunatamente
a quattordici anni portavo ancora il trentasei», le ho risposto, accennando un
sorriso.
«Oddio!
Non so come ringraziarti!», ha detto lei, entusiasta.
«Te
l’ho già detto: dopo devi pagarmi», ho scherzato, ridendo in modo un po’ troppo
forzato, forse perché non riuscivo a non sentirmi turbata da quella visione.
Roxanne
stava in piedi, davanti a me, con quello stesso vestito, quelle stesse scarpe e
gli stessi lunghi capelli di quella notte. I suoi occhi erano certamente di una
gradazione più scura dei miei, come la sua chioma mogano era ben lontana da
essere uguale alla mia…eppure non ho potuto fare a meno di rivedere me stessa
in lei. Lo stesso corpo dalle curve acerbe, gli occhi accesi da una scintilla
di ingenuità, i piedini stretti in quelle calzature dal tacco ancora ridotto.
Ho
deglutito, incontrando il suo sguardo incuriosito, per poi distoglierlo
immediatamente.
«Ah!»,
ho esclamato, «chissà dov’è andato a finire il mio cellulare! George ha detto che mi avrebbe fatto uno squillo
quando sarebbe venuto a prendermi…»
Sentendo
nominare il nome di un nostro comune amico, Roxanne si è subito animata.
«Sicura
che ci sia posto anche per me? Non vorrei che la macchina fosse già
completamente piena…»
«Ma
certo! E poi che importa, uno in più, uno in meno!», ho risposto, agitando la
mano in aria, come per scacciare delle mosche.
Roxanne
non ne è sembrata molto entusiasta.
«In
questo mondo ci sono delle regole chiamate “Codice Stradale”, lo sai Kate?», mi ha domandato, alzando un sopracciglio.
Ho
scollato le spalle, prima di aprire bocca e fare un grandissimo errore: «Non
sono cose che mi riguardano. Non ho nessunissima
intenzione di imparare a guidare, d’altronde!»
Roxanne
ha sbattuto le palpebre ricoperte da un velo leggero di ombretto,
«E perché mai?»
«Oh»,
ho detto, censurando l’esclamazione che mi era saltata in mente.
Come
avevo potuto parlare senza prima riflettere sulle mie parole?!
«E’
che…beh, non mi va…», ho farfugliato, cercando di fuggire al suo sguardo
interessato.
«In
che sens-», Roxanne è stata interrotta da uno squillo
del mio cellulare che ci segnalava l’arrivo di George.
«Sono
venuti a prenderci», ho tagliato corto, afferrando la mia borsetta e
trascinando Roxanne con me giù per le scale.
In
salotto abbiamo incontrato anche mia madre, arrivata da chissà quanto tempo,
che alla vista di Roxanne si è subito illuminata e ha cercato di intavolare un
discorso, finché io non l’ho letteralmente azzittita e mi sono diretta verso la
porta, per poi girarmi e lanciare uno sguardo eloquente a Roxanne.
Lei
si è scusata, il più cordialmente possibile, facendo sì che mia madre
riacquistasse il sorriso dopo le mie dure parole, e poi mi ha raggiunta subito.
La
macchina di George era parcheggiata fuori dal mio cancello, per cui abbiamo dovuto attraversare
tutto il vialetto, caracollando con i tacchi sull’erba fin troppo soffice del
giardino.
Con
enorme sollievo di Roxanne, la macchina era completamente vuota, salvo per il
guidatore, il quale mi è sembrato un tantino deluso da non poter restare solo
con me per tutto il viaggio.
L’ho
visto squadrarmi totalmente, mentre mi accomodavo nel sedile del passeggero
accanto a lui e Roxanne zampettava nei sedili posteriori, stravaccandosi come
più le pareva.
George
ha lanciato uno sguardo interessato anche a lei dallo specchietto, che io ho
intercettato con un sorriso saputo: «Ciao, George.»
«Sarai
tu il nostro chaperon allora?», ha domandato allegramente Roxanne, sporgendosi
in avanti.
George
ha riso, facendole un cenno di saluto: «Sì e sono fortunato di esserlo», ha
detto poi, lanciandomi uno sguardo fugace che io ho fatto finta di non notare.
Siamo
arrivati davanti alla discoteca venti minuti dopo e fortunatamente non eravamo
stati i primi ad arrivare.
Ad
accoglierci c’erano un paio di persone che conoscevo solo di vista e Thelma; il
corpo rotondo e lo sguardo felino sempre attivo e vibrante.
Malgrado i soliti convenevoli di circostanza, non sembrava essere molto felice
di vedermi. Molto probabilmente era ancora arrabbiata con me per la settimana
precedente: quando l’avevo usata solo per non restare da sola in mancanza di
Roxanne e delle Gallinelle.
I
suoi occhietti verdi, appesantiti da una dose fin troppo generosa di matita
scura sulle palpebre, si sono soffermati a lungo sul mio vestito con mal celata
invidia.
La
situazione era così palese che se n’è accorta persino Roxanne.
«Ehi,
ma le hai ucciso il gatto o cosa?», mi ha sussurrato all’orecchio, quando Thelma
ha iniziato a conversare un po’ con George e gli
altri che non conoscevo, ma che, ovviamente, non potevano fare a meno di
lanciarmi sguardi ammirati, piuttosto che concentrarsi sulla loro noiosa
interlocutrice.
«Che
io sappia no», ho replicato, con finta ingenuità. Beh potevano anche esserci un
po’ di cose che le avevo fatto, ma non di certo avrei rivelato questa
informazione a Roxanne.
«Lei, però, mi ha accusato di tingermi i
capelli. E’ una iena», ho detto
allora, stringendo le braccia al petto con un broncio che so bene essere
adorabile.
Poco
importa che avessi risposto alle accuse della suddetta
iena con tutt’ altri mezzi.
Mi
ero scopata il suo ragazzo, costringendolo al silenzio, e poi avevo fatto in
modo che Thelma venisse a sapere della sua infedeltà (senza far scoprire
qualsiasi mio tipo di coinvolgimento nella vicenda) attraverso la sua peggior
nemica che, neanche a dirlo, è Ashley, una delle mie
adorate pupille.
Sì,
lo so. Gli scandali delle superiori sono talmente
stupidi al punto di diventare morbosamente divertenti.
Credo
che mi mancheranno molto questi momenti al college.
Per
provocarmi, Roxanne ha osato mettere in discussione le mie parole, benché fosse
palese il suo sarcasmo: «Oh davvero?»
L’ho
fulminata con lo sguardo, roteando poi gli occhi con uno sbuffo: «Quello è
stato il peggior insulto che mi è stato rivolto in tutta la mia vita.»
«E
questo tu lo chiami un insulto?», ha domandato, con gli occhi danzanti di
ilarità.
«E
se accusassero te di tingerti i
capelli di color mogano, cosa avresti risposto?», ho ribadito piccata.
Roxanne
è sembrata gradevolmente sorpresa: «Come fai a sapere la gradazione di colore
della mia tintura?»
A
quel punto la mia bocca si è spalancata in assoluta incredulità: «Cosa?!», è stato il mio strillo strozzato.
Roxanne
è scoppiata a ridere e la sua voglia di prendermi in giro mi ha un po’ offesa.
«Scherzavo»,
ha ammesso, mordendosi la punta della lingua in un’espressione esilarante.
Io
ho continuato a fissarla oltraggiata e sospettosa, come se fosse un animale
potenzialmente pericoloso; fino a che non sono arrivati anche gli altri. Erano
presenti tutti gli studenti dell’ultimo anno, o per lo meno tutti gli studenti
dell’ultimo anno che contano,
il che, sinceramente, non è affatto la stessa cosa.
Ho
visto Roxanne, accanto a me, rabbuiarsi per un momento, prima di entrare
circondata dagli altri.
«Cosa
c’è?», ho domandato scocciata. Si prospettava una serata da sballo e non avevo di certo intenzione di passarla assieme a dei musi lunghi.
«Mi
spiace che Patty ed Eve non
siano qui», ha commentato abbattuta, riferendosi alle sue amichette sfigate che
per quella sera erano rimaste a casa, dove per quanto mi riguardava potevano
anche restarci per tutta l’eternità.
Ho
sbuffato ancora e non le ho risposto, sorridendo, invece, all’arrivo delle
Gallinelle con la loro squadra di rugby, pentendomi poi di essere stata felice
di vederle pochi minuti dopo, quando sono affogata nelle loro braccia e sono
stata intontita da una fragranza troppo forte. Che fosse Dior
o Chanel poco importava: era assurdamente esagerato.
Una volta entrati nel club, dopo aver superato un paio di bestioni
umani, o meglio i buttafuori, ci siamo accomodati tutti attorno ad un tavolino,
sprofondando nei divani di pelle rossa sparpagliati al bordo della pista da
ballo.
La
sala era ancora piuttosto tranquilla, perché le danze non erano ancora
iniziate. Ne abbiamo approfittato per prendere qualche cocktail assieme a dei
vari stuzzichini.
Stanca
di vedere Roxanne armeggiare con il suo cellulare, piuttosto che godersi la
serata, l’ho trascinata con me direttamente al bancone per andare ad ordinare
il mio Martini.
Il
barista ha cercato di flirtare un po’ con noi, ma Roxanne semplicemente non ci
ha fatto caso, perché troppo impegnata a fissare qualcosa, mentre io cercavo di
capire cosa le passasse per la testa.
Ho
cercato di localizzare il punto che stava guardando, senza successo.
«Stanno
distribuendo mentine», ha detto dopo un po’ con voce scettica, «in una
discoteca?»
Sincronizzandomi
con la sua linea visiva sono riuscita a vedere di cosa si trattava. Per poco
non ho sputato il Martini che avevo appena sorseggiato.
Davanti
a noi, un tipo di colore robusto, come se niente fosse, faceva scivolare delle
“mentine” con nonchalance nella mano di coloro che
gli si avvicinavano.
Scambiarle
per delle semplici mentine era una cosa tipicamente “da Roxanne”,
ma io non ho potuto evitare di restare turbata da quella scena.
Era
come se il passato avesse deciso improvvisamente di iniziare a tormentarmi. Non
bastava che cercassi di evitare continuamente di guardare il vestito che così
stupidamente avevo prestato a Roxanne; adesso persino i ricordi di un’altra
notte maledetta si facevano strada nella mia mente.
Mi
trovavo in un locale, un club buio, nel quale si diffondeva una musica
assordante. Mi avevano proposto una mentina
e io, pur sapendo esattamente di cosa si trattasse in realtà, avevo accettato.
Non so perché l’avessi fatto. Probabilmente una
semplice sbronza non mi sarebbe bastata. Volevo divertirmi in un altro modo.
Una
ragazza, in fila prima di me, ingoiò la sua mentina deglutendo a secco, mentre
io stavo pagando il pusher per la mia dose.
Successe tutto in un secondo. Nello stesso istante in cui la mano contenente la
pasticca raggiunse la mia bocca, la ragazza si accasciò
a terra. Le sue ginocchia cedettero sotto il suo peso, e le sue braccia si mossero
spasmodicamente in un ritmo febbrile come alla ricerca di qualcosa di
irraggiungibile. Qualcuno gridò aiuto, mentre il pusher, mormorando
un’imprecazione, scappava via, facendosi largo a spintoni tra la folla che si
era immediatamente creata. Le mentine che avevo comprato caddero a terra,
scivolando dal mio pugno improvvisamente spalancato. Non reagii in alcun modo. Non mi affrettai accanto a lei; né chiesi aiuto; né corsi via.
Restai a guardare il suo corpo tremante mentre la
scintilla nei suoi occhi si affievoliva, fino a diventare totalmente assente.
Roxanne,
accanto a me, ha accennato una risata: «Non ti pare buffo? E’ forse qualche
iniziativa per eliminare l’alito cattivo?»
L’ho
guardata gravemente, senza ascoltarla davvero: «Il tuo alito sa di menta.
Stanne lontana.»
Ho
mandato giù tutto il resto del mio Martini, sentendo la mia gola bruciare per
qualche secondo. Probabilmente anche quella ragazza aveva sentito la gola andare
a fuoco; il suo corpo ridursi in cenere. Si era dimenata disperatamente in un
mare di fiamme, senza trovare uscita, senza trovare alcun appoggio in quelle
braccia che la sollevavano e le massaggiavano il cuore.
Cosa
sarebbe successo se io avessi preso per prima quella
pasticca me lo sono chiesta tante volte.
L’unica
risposta che sono riuscita a darmi è stata che di sicuro non mi sarei trovata
lì in quel momento, davanti ad una Roxanne incuriosita, un Martini svuotato
troppo velocemente e una bella schiera di amici con cui divertirmi per tutta la
sera.
Al
nostro ritorno, due nuovi arrivati avevano preso il nostro posto.
Non
è stato difficile trovarne un altro, in quanto tutti gli esseri di sesso
maschile nel raggio di
Jason,
ma certo. Mancava solo lui, d’altronde. Mi sono sorpresa di non averlo notarlo
prima. Roxanne si è mossa un po’ a disagio al mio fianco, lanciandomi
un’occhiata poco discreta.
Io
sono restata assolutamente calma.
Persino
le Gallinelle, che prima si erano sedute doverosamente accanto a me, e ora di
conseguenza sedevano accanto a lui, mi fissavano come aspettandosi una mia
qualche reazione.
Ma
non c’è stata, non c’è stato assolutamente nulla. E’ questo quello che ha sorpreso
tutti.
«Ciao»,
ho salutato cordialmente e Roxanne, come se si fosse improvvisamente svegliata
da una trance, si è affrettata a fare lo stesso. Poi ho allungato la mia mano
tesa verso quella della sua accompagnatrice, come se niente fosse.
«Piacere,
io sono Kate», mi sono presentata con il miglior sorriso, «Tu sei…»
«Amanda»,
ha risposto con una vocetta debole la ragazza al
fianco di Jason, ritraendosi impercettibilmente.
Bene.
Ero riuscita, con così poco a stabilire chi comandava tra le due. Adesso potevo
anche rilassarmi un po’…
Lo
sguardo di Jason non mi turbava. Lo percepivo
sbirciare verso di me, mentre dicevo qualcosa all’orecchio di Matt o ridevo con Roxanne e con George,
persino quando in un impeto di magnanimità ho deciso di prestare attenzione
agli schiamazzi delle Gallinelle.
Che
stupido. Credeva che farmi conoscere la sua nuova troietta
potesse scatenare in me una qualche reazione? Che stupido, davvero.
Quando
finalmente ho riportato il mio sguardo in avanti, lui si è affrettato a posare
un lieve bacio sulla gota di Amanda, la quale è arrossita terribilmente.
«Che
carini!», ho squittito, imitando il solito entusiasmo ingiustificato delle
Gallinelle.
Molti
mi hanno guardata come se avessi perso la testa. Lo sapevano tutti d’altronde
che Jason era stato il mio ex, o per
meglio dire, qualsiasi cosa realmente
fosse. Tutti tranne Amanda, a quanto pare, visto il sorriso colmo di
gratitudine che mi ha rivolto al complimento.
Per
rassicurare Roxanne che continuava a fissarmi preoccupata, l’ho stritolata in
un abbraccio, ritrovandomi più cordiale e festaiola del solito. Qualche drink
in più e lo sarei stata per tutta la sera, senza nemmeno dover fingere.
Le
ordinazioni a quel punto sono arrivate, mentre continuavamo a chiacchierare
allegramente, e le mani volavano ad afferrare le bottiglie di birra o di
alcolici vari disposti sul tavolo.
Quando
ho notato Roxanne adocchiare interessata un calice di champagne, l’ho colpita
nel fianco con un gomito.
«Per
stasera niente alcolici. Sarebbe meglio che tu non dessi troppo spettacolo con
le tue attitudini affettuose da sbronza», l’ho minacciata, ricordando quella
serata solitaria in cui io e Roxanne ci eravamo consolate per la festa andata a
monte, ubriacandoci e affrontando strani discorsi sulle stelle e sulla luna.
Senza dimenticare, ovviamente, il modo in cui si era aggrappata a me, come se
la sua vita dipendesse da questo, e aveva finito per addormentarsi nel mio
letto senza lasciarmi andare.
Roxanne
mi ha lanciato un’occhiata contrariata, ma io non mi sono lasciata intimorire.
«No»,
ho ripetuto severa e lei ha sbuffato sonoramente, mantenendo le mani
rigorosamente sul suo grembo.
Ho
osservato il modo in cui era seduta sulla poltrona di pelle: le spalle curve,
la schiena inclinata molto più del necessario e le sue gambe casualmente
divaricate, come se avesse scordato di indossare una gonna. L’ho spinta un po’,
stuzzicando il suo ginocchio con il mio per costringerla a sedersi in modo
composto. Lei ha resistito un po’, ma rendendosi conto della sua posizione
leggermente compromettente, si è raddrizzata, guardandosi intorno per
assicurarsi che nessuno l’avesse notato.
«Imbranata»,
l’ho rimproverata, senza essere realmente arrabbiata con lei. Lei ha fatto
finta di non sentirmi, continuando a restare imbronciata, guardandosi intorno
annoiata per tutto il tempo, mentre gli altri potevano bere liberamente, al
contrario suo.
Ho
sogghignato leggermente alla scena, segretamente divertita, quando
all’improvviso ho avvertito uno strano formicolio all’altezza del collo che mi
ha spinta a voltarmi.
Jason
mi stava guardando, o meglio guardava le mie gambe ora abbondantemente scoperte
che, nell’impresa di riportare Roxanne alla decenza, si erano aperte
inequivocabilmente, permettendo al suo sguardo di vagare sotto l’orlo del
vestito.
Non
si trattava di nessun posto che non avesse già visto, è chiaro, ma era ormai
passato parecchio tempo dall’ultima volta che ne aveva avuto accesso.
Amanda,
distratta dalle chiacchiere delle Gallinelle, non si è accorta di nulla.
Io
ho sorriso maliziosamente quando i suoi occhi hanno
incontrato di nuovo i miei e il suo volto si è colorito di un intensa tonalità
di rosa. Con grazia ed eleganza, ho riaccavallato le
gambe, non prima di lasciargli vedere almeno la mia biancheria intima.
Lui
a questo punto è diventato rosso porpora, la sua fronte imperlata da un lieve
strato di sudore, cercando in tutti i modi di evitare il mio sorriso saputo e
vittorioso.
Non
so cosa sia più patetico: se il suo disperato
tentativo di ingelosirmi, oppure la constatazione che ancora dopo tutto questo
tempo lui non è riuscito a dimenticarmi completamente.
«Patetico»,
ho mormorato tra me e me, prima di prendere un altro sorso dalla birra che
Roxanne guardava con desiderio.
«Andiamo,
non comportarti come se tu fossi un bambino del terzo
mondo che sta morendo di fame e io fossi l’uomo bianco che non vuole nutrirti»,
ho risposto piccata alla sua muta domanda, senza staccare gli occhi da Jason e
dal suo miserabile tentativo di non guardare le mie gambe.
«Sei
crudele», ha replicato lei, imbronciata, e io non ho potuto fare a meno di
ridere, sadicamente divertita dalla verità di quell’affermazione.
Mezz’ora dopo, o giù di
lì, il DJ ha iniziato il programma della serata con della musica house.
Tutti si sono precipitati
in pista, eccitati, e io ho dovuto solo fare un po’ di resistenza per portare
con me anche Roxanne, la quale molto presto aveva perso tutta la sua allegria
iniziale. Le Gallinelle, supportandomi, l’hanno presa a braccetto e trascinata
al centro della sala.
Le luci fosforescenti che
come piccole stelle illuminavano il soffitto e le facce di tantissimi altri
sconosciuti attorno a noi, rendevano l’atmosfera eterea, mano a mano che la
musica passava da un ritmo più lento ad uno molto più movimentato, per poi
scoppiare letteralmente in un boato di urla e di mani che si levavano in aria
in sincronia al “tum tum” proveniente dagli amplificatori.
Incapace di resistere, ho
gridato assieme agli altri, ridendo assieme alle Gallinelle che, abbandonati i
loro ragazzi, hanno iniziato a ballare tra di loro,
scuotendo febbrilmente le anche al tempo dei battiti della musica.
Ashley, invece, staccandosi brevemente da loro, si è
avvicinata a me e premendo la sua schiena contro la mia, ha iniziato a ballare
assieme a me, in un ritmo sensuale che ha fatto girare molte teste maschili nei
paraggi.
Roxanne ha ridacchiato
nell’assistere al nostro spettacolo, come del resto anche gli altri, che si
sono avvicinati sempre di più fino a formare un cerchio attorno a noi.
Jason era a bordo pista,
con Amanda, che sembrava intenta a dirgli qualcosa, e mi fissava a dir poco
rapito.
Accortosi di essere stato
sorpreso con le mani nel sacco, però, si è subito ripreso e, prendendo per i
fianchi la sua ragazza, che stava ancora parlando a vuoto, l’ha baciata sotto i
miei occhi.
Io ho allungato un
braccio, divertita da quella sfida, sino a toccare il petto sul quale si apriva
la camicia leggermente aperta di George. Ho lasciato
che le mie mani scivolassero voluttuosamente sui suoi pettorali appena
ricoperti dal tessuto e George in un guizzo ha
afferrato la mia mano vagante e l’ha portata alle sue labbra per posarvi un
bacio.
I suoi occhi, scuri come
l’onice, sembravano turbati da un alone di inquietudine e di eccitazione, tutto
sapientemente diluito dietro quel gesto da vero gentleman.
Per niente impressionata
da questo, mi sono scostata delicatamente da lui, senza perdere il ritmo e ho
annuito in un segno di ringraziamento, tornando a ballare tra le altre ragazze.
Jason sembrava aver ormai
mollato del tutto il pretesto di farmi ingelosire, incapace di togliermi gli
occhi di dosso. Roxanne, accanto a me, continuava a ridere, riacquistando la
sua solita vivacità nel guardare gli altri scatenarsi e liberarsi dagli schemi pre-imposti dalla società.
Si è avvicinata al mio
orecchio, per dirmi una cosa, ma la musica assordante gliel’ha impedito.
«Che cosa?!», ho ripetuto io, aggrottando le sopracciglia.
«Credo che ricorderò
questa notte per sempre!», ha ripetuto lei in un tono di voce più forte che,
fortunatamente, sono riuscita ad afferrare.
Non ho potuto fare a meno
di sorridere, ricambiando il suo sguardo per quello che mi era permesso a causa
del buio illuminato brevemente solo da alcuni flash intermittenti.
Ed è stato allora che ho
notato il palco. Accanto al DJ c’erano due grossi cubi colorati, capaci di
contenere anche più persone, che piano piano
iniziavano ad essere affollati da coloro che si consideravano i più audaci.
Il ricordo della sera dei concerto dei Blue, come quella della mentina, era
lontano. Entrambi gli eventi avevano cambiato la mia vita in un giorno
qualunque: l’avevano condannata e poi salvata dall’oblio.
Mi hanno plasmata e,
perché no, anche condizionata nel pensare che Kate
Hudson che balla tra i suoi amici è la cosa più giusta, mentre Kate Hudson sul cubo sarebbe…
Un altro breve sguardo al
sorriso di Roxanne è bastato a convincermi.
Neanche io volevo dimenticare quella notte. Volevo ricordarla per qualcosa di positivo: una
memoria innocente, divertente e soprattutto libera da qualsiasi altra
condizione.
Qualcosa che in futuro mi
avrebbe coperto di finto imbarazzo e segreta soddisfazione.
Ed è stato così, che a
grandi falcate, tra le occhiate confuse dei miei compagni, mi sono avvicinata
al bancone del disc jockey e senza tante cerimonie, mi sono arrampicata su uno
dei due cubi e ho iniziato la mia danza di fronte a tutto il club.
Era il mio palco. Il mio
pubblico. Il mio spettacolo. L’ora del mio riscatto.
Un coro di cori e fischi
di apprezzamento si è levato oltre la musica, spingendomi a sorridere e mandare
baci volanti a chi conoscevo con ampi gesti delle mani, mentre i miei fianchi
si muovevano con un ritmo frammentato a destra e sinistra.
Due ragazzi che mi
fissavano insistentemente ai piedi del palco, allora, si sono fatti coraggio e
mi hanno raggiunta lassù, circondandomi in un abbraccio governato dal movimento
del mio corpo.
Mi hanno afferrata per i
fianchi e io ho giocato con le loro mani, ridendo e strusciandomi contro di
loro senza alcuna pudicizia.
I cori di incoraggiamento
sono aumentati e io ho lanciato uno sguardo di sotto dove alcuni dei miei amici esibivano un’espressione
ammirata, altri sembravano totalmente estasiati e alcuni esterrefatti.
L’unica a non dimostrare
alcun tipo di reazione è stata proprio Roxanne, la quale, con un bicchiere di
champagne in mano – spuntato da chissà dove – mi guardava in modo neutrale.
Quando ha intercettato il mio sguardo, però, ha sollevato il calice verso di me
come per dire: «Alla salute!», prima di prendere un sorso del suo drink.
Tra le braccia di quei
completi sconosciuti che continuavano a muoversi in sincronia, sono scoppiata a
ridere al suo indirizzo, comprendendo perfettamente il suo muto messaggio.
Entrambe avevamo
trasgredito le regole che c’erano state imposte quel sabato sera. Io ero salita
su di un palco, costretta in un sandwich umano, mentre lei aveva disubbidito ai
miei rimproveri sul non ubriacarsi e aveva tutta la seria intenzione di farlo
ancora.
Nessuno ha notato il
nostro scambio non verbale in corso. Era come se quello sguardo zaffiro fosse
diverso dagli altri. Come se non si limitasse a guardare con distacco, ma condividesse il momento con me, completamente.
Qualche secondo dopo, il
ragazzo che mi stava di fronte mi ha distratta, prendendomi per il mento, e ha
tentato di baciarmi. Fortunatamente sono riuscita a voltare la testa appena in
tempo, cavandomela con un semplice bacio sulla guancia.
Dal di sotto i cori sono aumentati a dismisura, mentre
l’altro ragazzo alle mie spalle faceva scivolare le mani sui miei fianchi e mi
stringeva a sé ancora di più. Allora mi sono irrigidita: sembrava ormai di
assistere all’inizio di un film porno incentrato sul menage a trois. Con grazia, sono scivolata via dalla loro presa e
sono scesa giù, cercando il mio gruppo.
«WOW!», hanno gridato le
Gallinelle, prendendomi le mani e squittendo deliziate. Io ho sorriso loro,
facendo un occhiolino. Poi mi sono guardata meglio intorno.
«Dov’è Roxanne?», ho
domandato.
Rita si è voltata,
convinta di trovarla alle sue spalle: «Non lo so», ha risposto, «fino ad un
momento fa era qui!»
«Probabilmente è andata in
bagno», ha suggerito Nancy, «Kate
è stato strepitoso!»
«Lo so», ho accettato i
complimenti senza alcuna modestia, urlando come una pazza per farmi sentire.
«Ora che ci penso avrei bisogno anche io di andare alla toilette.»
Tutte e quattro hanno
annuito, guardandomi andare via.
Individuato il bagno delle
ragazze, l’ho trovato insolitamente vuoto.
Mi sono sciacquata le
mani, trovando le cabine tutte vuote tranne una, ovviamente
occupata.
Probabilmente Roxanne si
trovava lì. «Roxanne?», ho chiamato, sperando di non sbagliarmi.
Nessuno mi ha risposto, ma
qualche secondo dopo mi è giunto alle orecchie un mugugno non ben distinto.
«Roxanne?», ho riprovato,
avvicinandomi all’unica cabina chiusa.
«Mhm,
mhm», è stato l’unico rumore che sono riuscita a
captare.
Era lei allora lì dentro?
Si era sentita male? Aveva bevuto troppo?
Accidenti a quella stupida testarda, se solo avesse
seguito i miei consigli non si sarebbe ridotta a vomitare nel bagno di una
discoteca!
«Roxanne?», ho ripetuto,
bussando lievemente alla porta della cabina, «Stai
male?»
All’improvviso, si è udito
un verso strozzato, più forte dei precedenti e un fruscio di vestiti.
Ho bussato nuovamente un
po’ allarmata.
«Rox-»,
prima che potessi terminare il suo nome, la porta si è spalancata davanti a me,
rivelando una donna spettinata, con il rossetto applicato piuttosto male,
intenta nel tirarsi su il vestito. Alle sue spalle, un ragazzo molto più giovane di lei, cercava di rassettarsi alla stessa
maniera, lanciandomi uno sguardo allucinato.
Li ho guardati scioccata.
Avevo davvero interrotto un rendevouz romantico in
bagno senza saperlo?
La donna sembrava
piuttosto contrariata e mi ha sorpassata velocemente, spintonandomi con la sua
spalla.
In un’altra situazione
avrei quantomeno protestato o detto qualcosa, ma in quel momento sono riuscita
solo a guardarla andare via senza pronunciare alcuna parola. Voltandomi ho
notato il ragazzo ancora lì in piedi, gli occhi nocciola spalancati dallo
stupore e la camicia abbottonata male. Una zazzera di capelli scurissimi
ricadeva scompostamente sulla sua fronte imperlata di sudore e una traccia di
rossetto era perfettamente visibile sulla sua guancia destra.
Il suo aspetto era un vero
e proprio casino. Avrei anche riso di
lui, se non fossi stata così dannatamente e fottutamente
imbarazzata.
«Ehm», ho mormorato a
disagio, percependo le mie gote accaldate, «mi dispiace, io non volevo…»
«No», mi ha interrotta
lui, scuotendo la testa, «è a me che dispiace.», si è preso la testa fra le
mani, mormorando frettolosamente, in un gesto che mi ha fatto tenerezza, « Dio,
ma che diamine stavo pensando?»
Ho risposto a quello che
era stato poco più di un sospiro: «Semplice. Non stavi affatto pensando.»
Non era certo il momento
più adatto per dimostrarmi zelante e pignola, soprattutto rivolgendomi a lui in
modo così informale semplicemente perché dimostrava appena un paio d’anni più
di me, ma non sono stata capace di trattenermi.
«Giusto», ha annuito lui,
tenendo lo sguardo basso. Questo, stranamente, mi ha fatto sentire meno a
disagio.
Mi sollevava il fatto che
lui fosse il più umiliato tra i due.
«Beh suppongo che io debba
andare…», ha detto, pronunciando le parole ancora più velocemente di prima,
«questo è il bagno delle donne giusto?», ha chiesto ironicamente.
«Sì», ho risposto e ho
ghignato, senza che lui mi notasse, discretamente divertita.
Mi sarei aspettata un
comportamento decisamente diverso da qualcuno che era stato appena sorpreso in
un bagno pubblico con la sua amante. Per di più, lui non si era nemmeno
preoccupato di inseguire quella donna nella sua ritirata.
La situazione era a dir
poco strana.
Il ragazzo ha frugato
nelle sue tasche in cerca di qualcosa e poi ha grugnito infastidito, portando
le mani in aria teatralmente.
«Quella maledetta mi ha
pure fregato il cellulare!», ha protestato, tornando a guardarmi.
Io ho dovuto lottare
ferocemente contro me stessa per non scoppiare in una
risata fragorosa.
«Mi dispiace…ne avevi
bisogno adesso?», ho domandato cortesemente, chiedendo a me stessa cosa ci
facessi ancora lì, piuttosto che cercare Roxanne.
«Sì», ha ammesso lui,
«Devo assolutamente trovare mio fratello, altrimenti non saprei come tornare a
casa.»
«Oh…beh, se vuoi posso
prestarti il mio telefonino per una chiamata», ho offerto la mia disponibilità.
Lui mi ha sorriso e il suo
volto si è illuminato improvvisamente, risaltando quei connotati che all’inizio
mi erano sembrati così anonimi e comuni.
Suo fratello, tuttavia,
aveva il cellulare staccato.
«Grazie lo stesso», ha
detto, tornando stranamente depresso, restituendomi il cellulare.
In quello stesso momento
la porta del bagno si è spalancata, rivelando una ragazza, che ha guardato me e
lo sconosciuto in maniera allibita.
Il ragazzo è sembrato
nuovamente imbarazzato, ma inghiottendo diverse volte, come a voler dissimulare
la stranezza della situazione, ha protestato con quel particolare tono frettoloso
che aveva usato anche prima: «Non capisco perché i bagni delle donne debbano
essere sempre i più profumati! E’ un’ingiustizia verso l’igiene maschile! Dovrò
farlo immediatamente presente
al direttore!»
E così dicendo, è uscito
fuori di gran carriera, strofinandosi forte la guancia per cancellare il segno
di rossetto.
La ragazza mi ha guardata,
sconcertata, cercando in me una spiegazione, ma io ho scrollato semplicemente
le spalle con un sorrisetto, uscendo a mia volta.
«Io devo cercare una mia amica»,
gli ho gridato all’orecchio, ritrovandolo fuori a pochi metri dalla toilette,
tra la musica a tutto volume e una marea di gente, con le spalle ricurve e le
mani nelle tasche dei suoi pantaloni neri, «Se vuoi
possiamo cercare insieme lei e tuo fratello», gli ho proposto.
Perché avessi
scelto di avvicinarlo nuovamente, quando avrei potuto benissimo
ritrovare Roxanne da sola me lo sto chiedendo ancora adesso mentre scrivo.
Lui ha annuito e mi ha
seguita, guardandosi spasmodicamente intorno. Se avessi dovuto descriverlo con
un aggettivo, l’avrei definito così: perso. Sembrava che fosse finito in tutta
quella situazione senza nemmeno saperne il perché.
C’era in lui un mix di
innocenza e nervosismo che non avrei saputo descrivere in altro modo.
Osservandolo di sottecchi, e notando che più lo guardavo più appariva carino ai
miei occhi, ho pensato che suo fratello dovesse contare molto per lui, se solo
perderlo di vista era in grado di portarlo alla nevrastenia.
Il
fatto che non si fosse nemmeno girato a guardarmi per tutto il tempo mi ha
lasciata un tantino offesa; il fatto che non avesse chiesto
il mio nome poi mi ha praticamente infuriata.
Davvero
pensava di poter ignorare me?
Eppure
il mio obiettivo non era punire questo tizio,
ma trovare Roxanne. Dove diamine si era andata a cacciare quell’ubriacona?
Nella
folla ho individuato Thelma e mi sono subito avvicinata a lei, per chiedere se
l’avesse vista, senza curarmi che il ragazzo mi seguisse. Se lui aveva osato fregarsene di me, gli avrei risposto con la
stessa moneta. Chi si credeva di essere?
«Ehi
hai visto per caso Roxanne?», ho domandato alla iena, lasciando perdere la nostra reciproca antipatia per un
momento.
Lei,
però, non sembrava ancora pronta a stipulare una tregua.
«No,
non l’ho vista, ma ho visto il tuo bello spettacolo»,
ha ghignato, portandosi una ciocca di capelli scuri dietro l’orecchio.
«Sono
contenta di sapere che ti sia piaciuto», ho risposto a
tono, cercando di allontanarmi.
Thelma,
però mi ha afferrato con quelle sue manine tozze e un po’ grassocce. Io l’ho
guardata a dir poco adirata.
«Ma
alla fine ti hanno lasciata da sola, no? Nessun altro da usare per alleviare la
tua solitudine?», ha chiesto con voce innocente e un sorriso angelico su quella
bocca troppo larga.
Jason
alle sue spalle mi scrutava severo, ascoltando la conversazione.
La
mia mascella si è contratta in una morsa rabbiosa, ma mi sono ripresa subito,
fingendo un tono tranquillo.
«Non
preoccuparti, se avessi mai bisogno di un tappa buchi
saprei a chi rivolgermi», ho detto, facendo un cenno con il mento nella sua
direzione (o a quella di Jason, chi lo sa?), «Tanto sappiamo benissimo entrambe
che faresti di tutto per un solo momento sotto i riflettori.»
Prima
che la iena potesse rispondere, amareggiata e
infuriata, lo sconosciuto del bagno mi ha raggiunto.
«Oh,
eccoti», ha detto, apparendo un po’ affannato, «mi sono voltato un attimo e non
c’eri più.»
Io
ho sorriso, guardando con sfida Thelma, che respirava in modo affannoso, e Jason,
il quale inconsciamente si era avvicinato più a noi.
«Ero
solo passata a salutare i miei amici per assicurarli che sono in perfetta compagnia», ho dichiarato
dolcemente, voltandomi con un sorriso di adorazione verso il ragazzo, il quale
mi ha restituito uno sguardo confuso, senza ribattere niente.
Con
una mossa fluida, l’ho afferrato per la nuca e ho portato le mie labbra a le sue, spingendomi sulle punte.
Quando
ho riaperto gli occhi ho notato con piacere che sia Thelma che Jason avevano
avuto la delicatezza di sparire dalla circolazione.
«Cosa?»,
mi ha domandato lo sconosciuto atterrito, con il carnoso labbro inferiore rosso
per i miei morsi.
Ti sto semplicemente trasformando in un’altra delle
mie pedine, ho pensato, prima di
trascinarlo di nuovo verso di me.
Lui
ha continuato a fissarmi interdetto durante tutto il bacio in cui siamo restati
con gli occhi mezzi aperti, ma non ha resistito alla mia insistenza contro la
sua bocca. Ho strattonato con più forza i capelli
corti sul retro del suo capo e l’ho spinto ad arrendersi completamente,
chiudendo le palpebre e afferrandomi a sua volta per i fianchi.
Non
so perché lo stavo facendo. Forse per vendetta, per riscoprire il mio senso di
potere, per rassicurare me stessa contro le parole di Thelma.
Io
non sono sola. Non sono le mie pedine
a stancarsi di me; sono io ad
abbandonarle.
Ecco
perché mi sono trovata a trascinarlo con me in uno dei privè,
quello più isolato possibile, spingendolo contro il divano e salendo a cavalcioni su di lui.
Lui
ha chiuso gli occhi allora, staccandosi, scuotendo la testa e ritornando alla
realtà. Lo sentivo eccitato e sudato, ma quel suo
carattere nevrotico non voleva lasciarlo andare. Mi ha scostata e io l’ho
guardato malissimo.
«No,
no, no. Stasera ne ho abbastanza di queste imboscate,
per favore. Ti ha mandata mio fratello?»
«Non
so di cosa parli», ho mormorato, prima di spingerlo di nuovo contro il divano.
Era buio e non riuscivo a vedere la sua espressione, ma ho sentito i suoi gemiti
nella mia bocca.
Che
sporco ipocrita, prima fa tutto il perbenista e adesso ansima sotto di me. Ma chi sono io per giudicare, visto che piuttosto che
perdere tempo con uno sconosciuto avrei dovuto cercare Roxanne?
All’improvviso,
però, lui ha invertito le posizioni e si è sistemato sopra di me a quattro zampe,
staccando ferocemente le mie mani dai suoi capelli e fermandole sopra la mia
testa.
Affannata,
ho guardato truce il suo viso parzialmente illuminato dalle luci che, insieme alla musica, erano ormai lontane. La sua bocca era stretta in una morsa severa.
Non
mi piace non poter reggere il gioco.
«Devo
pensare di essere così irrimediabilmente irresistibile se due donne in meno di
un’ora cercano di scoparmi, oppure è tutta una cosa organizzata?», ha ripetuto
con un tono severo.
Io
ho quasi riso.
«Posso
assicurarti che questa non è affatto una cosa organizzata, ma confermare la
prima opzione andrebbe sicuramente ad aumentare la tua totale mancanza di
modestia.»
E’
sembrato piacevolmente interdetto dalla mia risposta e mi ha guardata a lungo,
come non aveva fatto prima, caricando i suoi occhi scuri di una scintilla di
desiderio che stranamente mi ha sorpresa.
«Chi
sei?», ha domandato, dopo un lungo silenzio, senza diminuire l’intensità di
quello sguardo.
«Sarah,
tu?», ho risposto immediatamente, senza chiedermi due volte perché avessi mentito
sulla mia identità.
«Reeve».
«Piacere,
Reeve. Ti stringerei anche la mano, ma al momento è bloccata tra le tue», ho
tentato di ironizzare, scatenando tutto il fascino che sono ben consapevole di
avere.
Ridendo,
suo malgrado, mi ha liberato immediatamente le mani.
Dopo
qualche secondo di stallo in cui ci siamo semplicemente guardati senza dire
nulla, lui è piombato su di me, baciandomi quasi affamato.
Aggrappandomi
alle sue spalle, ho soffocato i miei respiri sulla sua bocca.
Lo
sconosciuto ha accarezzato il mio
corpo, rendendomi consapevole della sua erezione, spingendosi contro i miei
fianchi da sopra i vestiti.
Sconosciuto, ha ripetuto una parte di me che dapprima ho voluto ignorare. Le mie
mani si sono bloccate sul colletto della sua camicia, mentre lui mi sollevava
piano piano il vestito.
Sconosciuto.
La
sensazione che ho percepito in quel momento è stata molto strana. Sono stata
con uomini che sono venuti a letto con me per soddisfare il loro appetito
sessuale, o con altri che cercavano disperatamente di appagarmi per concedere
loro una seconda possibilità.
Nessuno
è mai stato così libero con me, a parte quella
volta.
Sconosciuto.
Ho
ripetuto a me stessa che la situazione era diversa da quella volta. C’era
sincronia, adesso, una sincronia che non mi era mai capitata prima. Una
sincronia che portava il mio corpo a strusciarsi contro il suo in un moto non
programmato, ma semplicemente naturale.
E
naturale non è un sinonimo di brutale.
Sconosciuto.
Ancora
quella dannata voce. E quelle dannate mani violente che avevano sollevato il
mio vestito rosa confetto, quelle mani che nella foga avevano quasi strappato
le mie mutandine e a lavoro finito, mi avevano lanciato contro quei dannati
backstage pass per il concerto dei Blue, come un cliente che paga la sua
puttana.
Sconosciuto.
Ho
cercato di convincermi che questo non era un semplice sconosciuto, il suo nome
era Reeve e cercava suo fratello.
Era
giovane e snello e non grassoccio come quell’uomo,
le sue mani erano delicate e non ruvide come quell’uomo, le sue labbra erano le più morbide e succose che avessi
mai assaggiato e non deformate in un gemito disgustoso come quell’uomo.
Eppure,
malgrado abbia cercato di trattenermi, Reeve, ha
sentito lo stesso il mio corpo irrigidirsi e iniziare a tremare. Si è staccato
immediatamente da me, guardandomi allarmato.
«Ehi,
stai bene?», ha chiesto, con un tono di voce più acuto, un tono che non gli
avevo mai sentito usare, proprio perché per me era uno sconosciuto.
Mi
sono portata un braccio sugli occhi, malgrado il buio
celasse già abbastanza il mio volto, come se tentassi di nascondere la mia
debolezza. Quella debolezza che quattro anni fa ho nascosto dietro un sorriso
affabile.
«Sarah,
stai bene?», ha domandato nuovamente Reeve e la sua voce mi è giunta ovattata
alle orecchie.
Sconosciuto. Non sapeva nemmeno il mio nome.
Ho
strizzato ancora di più gli occhi, riparati dal mio braccio, sentendo qualcosa
pizzicare oltre le palpebre serrate ostinatamente.
Ho
percepito il corpo di Reeve staccarsi dal mio e non ho potuto fare a meno di
tirare un sospiro di sollievo, sebbene stessi maledicendo con tutte le forze me
stessa per quello spettacolo patetico.
«Okay»,
l’ho sentito dire, malgrado il profumo dei suoi
capelli mi indicasse che non era andato poi così tanto lontano, «Vuoi che ti
racconti la mia storia? E’ una storia talmente sfigata che sono certo potrà
tirarti su l’umore.»
Io
non ho risposto, ma ho semplicemente annuito, cercando disperatamente qualcosa
con cui distrarmi.
«Perfetto»,
ha ripetuto lui, «Per cominciare posso parlarti della mia famiglia. Mio padre
fa l’avvocato, mio fratello è un avvocato e io sto studiando per diventare…»
«Un
avvocato?», ho suggerito, constatando con piacere che la mia voce non era poi
tanto malferma.
«Già»,
ha risposto, il fantasma di un sorriso nella voce. Per un momento ho pensato
che mi sarebbe piaciuto vederlo, ma non mi sentivo ancora in grado di aprire
gli occhi, spaventata da quel tumulto interno che avevo
faticosamente cercato di arginare.
«Non
so nemmeno perché ho scelto di fare questo lavoro. Insomma non è che sia una
materia che mi appassioni poi molto. Però, sai…è stupido ammetterlo, ma ho
sempre sperato che se avessi intrapreso la stessa carriera di mio fratello,
magari mio padre mi avrebbe guardato per un momento con quella soddisfazione e
orgoglio che riserva solo a lui. E mio fratello avrebbe imparato a considerarmi
un suo simile e non semplicemente il fratellino
minore che non ha niente di meglio da fare che rompergli le palle.»
Ho
sorriso per metà, non un ghigno, né un sorrisetto che nasconde secondi fini.
In
un’altra occasione avrei aborrito l’idea di perdere il mio tempo ascoltando
qualcuno di cui non me ne fregava assolutamente niente, piuttosto che
scoparmelo sullo stesso divano su cui ero sdraiata mollemente con un braccio a
coprirmi gli occhi.
Ma
ero io stata io a dimostrarmi debole. La colpa era stata mia e adesso non
potevo fare a meno di ascoltare, sebbene una parte di me adesso premesse sempre
di più per trovare Roxanne, per chiacchierare un po’ con lei e scaricare tutta
quella tensione. Dovevo trovare
Roxanne se volevo rimettermi in sesto, ma volevo stare anche ad ascoltare le
avventure di questo quasi-avvocato in una famiglia di
avvocati. Anche io ho in fondo ho una mezza idea di studiare legge al college, ad essere sinceri.
«Così
quando ieri mi ha detto che oggi aveva un appuntamento a Milwaukee con un
cliente importante, ho deciso di lasciare New York e raggiungerlo per essergli
di supporto», ha continuato Reeve.
«Sei
di New York?», ho domandato, quasi distratta. Lo sconosciuto iniziava a
diventare un po’ meno sconosciuto e il mio cuore aveva nuovamente acquisito un
ritmo accettabile.
«Beh
il nostro studio legale si trova lì», ha risposto senza svelarmi di più, poi ha
continuato, «Insomma, mio fratello all’inizio è stato
contento di vedermi. “Mi darai una mano”, ha detto, ma quando sono atterrato
all’aeroporto non è venuto a prendermi. Ho fatto varie ricerche, facendo
credere agli agenti che credevo si stesse per suicidare per spingerli a
rivelarmi almeno con quale volo fosse arrivato.»
Io
ho sorriso ancora, più forte e questa volta lui mi ha sentito.
«Sì»,
ha ammesso lui, sorridendo a sua volta, «ero anche pronto a fare una
sceneggiata sul tetto io stesso per spingerli a confessare, ma fortunatamente non
è stato necessario.
Facendo
delle ricerche poi ho scoperto dove mio fratello aveva usato l’ultima volta la
carta di credito, e l’ho finalmente raggiunto. Lui mi ha detto che credeva che
sarei arrivato con l’ultimo volo della giornata e mi ha portato al suo albergo.
All’inizio ci ho pure creduto, in fondo capita a tutti di fare uno sbaglio. Ma
poi, mi ha detto che avrebbe incontrato il suo cliente in un club di notte e, anche se la cosa mi
insospettiva, gli ho creduto. Che stupido. Poco dopo essere arrivati qui l’ho perso di vista e io sono stato sbattuto da una
donna che avrebbe potuto benissimo essere mia madre nel bagno delle donne…e chi
sono io per dire di no?», ha scherzato e io ho questa volta sono scoppiata a
ridere, sollevando lievemente il braccio dai miei occhi.
Ho
fissato il soffitto scuro sopra di me, continuando ad ascoltare.
«Questo
finché una certa ragazza dai capelli
biondi, non ha quasi praticamente abbattuto la porta della cabina dove
c’eravamo appartati e ci ha interrotto», ha ricordato, con un tranquillo
sorriso sulle labbra, la camicia nuovamente abbottonata e i capelli sistemati.
Sembrava
quasi assurdo pensare che fino a dieci minuti prima
stessimo…
«Il
resto è storia nota, no?», ha domandato e io mi sono voltata a guardarlo
finalmente, ritrovandolo seduto in un divanetto vicino.
«Ascolta…io…mi
dispiace, forse ho accelerato troppo le cose…non so nemmeno cosa ho fatto esattamente…ma questa serata è stata un casino totale», mi
ha detto.
Io
ho scosso la testa, rimettendomi seduta correttamente.
«Cosa
farai adesso?», ho domandato semplicemente.
«Ritrovare
mio fratello, se possibile», ha risposto lui, guardandomi cauto.
«Io
gliela farei pagare», ho precisato, «Insomma se ha fatto tutto questo per
toglierti dai piedi, poteva semplicemente dirti di restare a New York.»
«Lo
so, ma…», ha tentato di dire.
«Ma
continuerai a cercare di renderlo orgoglioso di te?», ho domandato,
«E’ inutile, lui userà semplicemente la tua buona indole.»
E
chi meglio di me, in qualità di manipolatrice innata, poteva saperlo?
D’altronde anche io avevo ammesso di volerlo usare poco prima, ma lui non aveva usato me. E per quanto potesse sembrare irrilevante, aveva cambiato le cose tra di
noi.
Si
è preso la testa tra le mani, peggiorando il suo aspetto: «E cosa dovrei fare
allora?»
«Sii
te stesso. Se qualcosa non ti va bene, protesta, se
lui non ti ascolta, alza la voce. Non farti più mettere i piedi in testa.»
Dicendo
queste parole, non ho potuto fare a meno di visionare me stessa a terra,
impotente, tra le gambe di quell’uomo
rozzo e orribile.
L’uomo
nero che ho nascosto a lungo con gli altri scheletri nel mio armadio.
L’uomo
nero che sabato sera è riemerso dai meandri della mia memoria per la prima
volta in quatto anni.
Improvvisamente,
mi sono alzata in piedi, sollevando l’unica spallina del mio vestito,
lasciandolo scorrere più in basso lungo i fianchi.
Non
andava meglio, non andava affatto meglio. La mia testa pulsava chiamando il
nome di Roxanne.
«Devo
andare», ho dichiarato e lui ha annuito, istantaneamente pensieroso.
«Grazie»,
ha risposto.
«E
per cosa? Per aver rovinato il tuo rendevouz in
bagno?», ho domandato curiosa.
«Anche»,
ha replicato con un sorriso.
«Ehi,
Sarah?», mi ha chiamato qualche secondo dopo, mentre io sgattaiolavo via dal privè. All’inizio non mi sono girata, prima di ricordarmi
che sì, effettivamente per quella sera il mio nome era Sarah.
«Sì?»
«Gliela
farò pagare», mi ha detto, con un sorrisetto che assomigliava stranamente al
mio.
Sono
andata via, chiedendomi se avessi creato davvero un nuovo mostro.
Ho
esaminato gli altri privè, affannosamente, senza
risultato, poiché Roxanne non rispondeva al cellulare. Poi ho sentito delle
voci, a qualche metro di distanza e mi sono avvicinata cautamente, visto che era
molto buio.
«Sembra
carina», ha detto una voce maschile.
«Sì»,
ha confermato il suo amico.
«E
sola…»
«Nessuno che possa guastare le feste…»
Sentendo
una strana pesantezza dentro di me nel sentire quelle due voci ridacchiare tra di loro, ho continuato ad avvicinarmi inesorabilmente.
Ho
visto un piccolo bozzolo umano raggomitolato su un divano, con i capelli lunghi
e il vestito che terminava in tulle.
Due
uomini le stavano davanti e piano piano le hanno
sollevato la gonna, bisbigliando tra di loro.
La
gola mi si è seccata all’istante.
Ho
cercato di fare il minimo rumore con i miei tacchi, ma non è stato abbastanza.
Gli
uomini si sono voltati immediatamente verso di me, togliendole le mani di
dosso.
Ho
sentito il disgusto montare ancora una volta dentro di me, ma ho camuffato il
tutto con un bel sorriso provocatorio, ancheggiando in modo più pronunciato
passo dopo passo.
Uno
di loro ha fischiato quando la mia figura è stata
debolmente illuminata da uno dei fari della pista da ballo.
«Ehi
bella, come mai tutta sola?», ha domandato quello che aveva osato sollevare la
gonna di Roxanne.
«Forse
stavo aspettando voi», ho replicato, stando al gioco.
I
due si sono guardati con un sorriso complice.
«Ti
andrebbe di darmi il tuo numero?», ha chiesto l’altro.
«Certo»,
ho detto avvicinandomi in modo esasperatamente lento, adesso che sembravano
essersi dimenticati di Roxanne. Ho preso il mio cellulare e ho scritto
velocemente le 3 cifre, pausando il mio indice sul tasto verde.
«9…»,
ho iniziato a dire, facendo un altro passo.
«Sì…»
«1…»
«1…»
«Bene,
911 e poi?», ha detto quello che stava prendendo nota, prima di rendersi conto
di cosa rappresentasse davvero quel numero.
«Ci
prendi in giro?», ha detto l’altro in un tono minaccioso.
«No,
affatto, perché il numero della polizia è l’unico numero che chiamerò se non ve
ne andate immediatamente di qui», ho detto, modulando la mia voce in modo che
risultasse un vero e proprio distillato di zucchero al veleno.
Ho
portato il cellulare all’orecchio, pronta a premere il
tasto verde, per dimostrare le mie chiare intenzioni. Uno dei due si è deciso per
primo ad afferrare l’antifona e ha spinto il suo compagno a seguirlo, sparendo
subito dalla mia visuale.
Io
mi sono affrettata accanto a Roxanne, che continuava a dormire sonoramente,
come se non fosse successo niente.
Inginocchiandomi
davanti al divano su cui era accovacciata, l’ho
guardata per qualche secondo, ritrovando fortunatamente quello strano senso di
sollievo che la sua presenza mi regalava.
Le
mie mani sono finite inesplicabilmente tra le onde dei suoi capelli, come
surfisti impervi che cavalcano il mare, pur affondandoci dentro qualche volta.
«Roxanne?»,
ho chiamato, senza ricevere risposta.
«Che
stai facendo?», mi ha domandato una voce familiare e la mia testa è scattata
subito nella sua direzione, così come le mie mani sono tornate in un lampo sul
mio grembo.
«Sì
è addormentata», ho risposto, serrando i denti allo sguardo inquisitore di
Jason.
«Dov’è
la tua ragazza?», ho domandato, allora, spingendolo ad andarsene.
«Non
lo so», ha detto lui, scrollando le spalle, «E il tuo ragazzo?»
«Doveva
tornare a New York», ho replicato apparentemente tranquilla, ignorando uno dei
suoi nuovi attacchi di gelosia che mi avevano divertito per tutta la notte.
«Roxanne?
Svegliati, dai!»
Roxanne
ha mormorato qualcosa, prima di girarsi e darmi le spalle.
«EHI!»,
ho gridato, «ROXANNE, questo non è né il LUOGO né il MOMENTO più adatto per
ADDORMENTARSI!»
Lei
ha fatto finta di niente, aumentando la mia irritazione.
«Roxanne?»,
ha tentato Jason, affettuosamente.
Quasi
immediatamente Roxanne ha aperto le palpebre, come se il suo fosse uno sforzo
immane e quelle fossero incollate.
«Mhm. Che è succeeeesso?», ha
domandato con una voce strascicata, eruppendo in un
piccolo singhiozzo che l’ha fatta ridere.
Bene.
Era ubriaca, ci mancava solo questo.
«Vieni»,
le ho ordinato, strattonandola per il braccio. Lei ha protestato, fino a che
Jason non è venuto ad aiutarmi per reggerla in piedi.
Passandole
le mani sui fianchi, Roxanne si è immediatamente aggrappata al suo collo.
Quella
vista mi turbava e così con uno spintone, l’ho staccata immediatamente da lui.
«Va
a prendere la macchina, dobbiamo portarla a casa», gli ho ordinato.
Lui
mi ha fissato per qualche secondo con gli occhi chiari annebbiati da qualcosa
che non ho saputo riconoscere, per poi fare come gli avevo detto.
Dopo
aver fatto sdraiare una protestante Roxanne sui sedili posteriori della coupè
di Jason, io ho preso posto nel sedile del passeggero accanto a lui.
Stranamente
infastidita da quel silenzio, sono sbottata: «Perché non mi dici niente?»
Avevamo
passato tutta la serata a provocarci a vicenda e ora faceva finta di non
conoscermi nemmeno?
«Perché
non ho niente da dirti», è stata la sua unica e secca risposta.
Io
ho guardato crucciata il paesaggio fino a quando non siamo
arrivati a destinazione.
Quando
sono andata a recuperarla, Roxanne è stata più che felice di stringermi in un
abbraccio alla boa constrictor che mi ha fatto ridere
fragorosamente.
Jason
ha guardato la scena incuriosito, senza dire niente.
Afferrando
le chiavi dalla sua borsetta, sono riuscita ad aprire il cancello e la porta
d’ingresso della piccola villetta a schiera delle due sorelle Miller.
Madison
non sembrava essere a casa, perciò senza troppe cerimonie mi sono fatta largo
lungo i corridoi e mi sono diretta in camera di Roxanne, spingendola con poca
delicatezza sul suo letto. Le ho tolto le scarpe e allentato la
zip del vestito, mentre lei, seppur sveglia, continuava a guardarmi
quasi in trance.
«Grazie,
Kate», ha risposto a lavoro terminato e io ho pensato
che fosse realmente sobria a quel punto.
«Prego»,
ho risposto, «ma spero che la prossima volta ci penserai due volte prima di
prendere un bicchierino.»
«Almeno
verrai tu a salvarmi», ha riso lei, confermando ancora di
essere ubriaca.
«Sì,
sì certo. Per chi mi hai presa adesso? Per il tuo principe azzurro?», ho
ironizzato, scrutandola dall’alto e ridendo senza alcun pensiero cupo pronto a
tormentarmi.
«No,
ma tu sei la mia forza, Kate», ha detto allora
Roxanne, apparendo molto convinta delle sue parole.
Per
un momento l’ho guardata senza parole. Ma si stava davvero riferendo a me?
«Ah!
Ho vinto!», ha esclamato lei, tutta contenta, agitando le gambe sul materasso.
«Eh?»,
ho domandato, confusa.
«La
tua faccia! Ho vinto! Sono riuscita a farti addolcire!
Ho vinto!»
Io
ho scosso la testa, esasperata, non riuscendo a reprimere un sorriso.
«Okay.
Ti concedo questa vittoria visto che domani mattina non ricorderai praticamente
nulla.»
Roxanne
ha protestato debolmente, lamentandosi, fino a che io
ridendo ancora, non ho raggiunto l’interruttore della luce e l’ho spento, prima
di augurarle buona notte.
Jason
ha visto la mia espressione serena, quando sono uscita da casa di Roxanne, ma
non ha commentato, limitandosi a mettere in moto ed accompagnarmi a casa.