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Autore: Lunaticalene    27/02/2017    3 recensioni
« Ah, a proposito di quello. » un passo nella sua direzione, la mano sinistra che scivola nella tasca, in maniera quasi distratta. «Chiudi gli occhi » un comando, che non appare come un'imposizione ma che costruisce un principio di attesa che lo porta a deglutire, piano, mentre chiude gli occhi.
La sensazione delle punte di pelle che sfiora il collo e qualcosa di gelido che che pizzica la pelle, nascosta sotto al calore della sciarpa. Il movimento leggero, di una mano che scivola sfiorare l'altezza del cuore.
« Buon compleanno soldato » e il leggero tintinnio del metallo di una mostrina che adesso pende, ancora oscura ai suoi occhi, a un frammento di stoffa dal suo cuore.
Genere: Fluff, Introspettivo, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Mila Babicheva, Otabek Altin, Victor Nikiforov, Yuri Plisetsky, Yuuri Katsuki
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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« Io danzo sui quattro cignetti » o devo essere diventato scemo o Victor Nikiforov fa degli scherzi davvero idioti.

Una superficie ghiacciata, semplicemente illuminata dalla luce della luna. Qualche punta di stella che, indifferente, ricama sul gelo una trapunta silenziosa. Il rumore, leggero, di una lama contro il ghiaccio.

Raggi d’argento che sfiorano i dettagli di un corpo vestito di piume bianche, che lentamente cresce e muta nella forma e nella dimensione. Un battito d’ali che diventano braccia candide quasi quanto quel cigno, che riflesso nel lago, ridiventa umano. Passi pesanti che giungono dalla foresta, un movimento netto di rami spezzati. Il clangore appena accennato di un’armatura che cozza nei tronchi e si imbatte a tratti nei gusci di noce. Lo sguardo, di smeraldo annacquato, si volta, in una soggettiva distorta nella direzione in cui la foresta si schiude. Il desiderio di un’emozione che si genera piano, che spinge il corpo in quella direzione. Fende la neve, che si sgretola lentamente sotto il filo dei pattini. Un movimento armonico e la genesi di un sorriso. Una risata, diabolica, che fende la notte, invisibile agli occhi. La superficie del lago che si proietta in una ragnatela di crepe. Un passo in avanti e la solidità crolla in un oceano di niente. Un grido spezzato e una mano protesa che da niente viene raggiunta.

Gli occhi si spalancano osservando rigidamente il soffitto della camera da letto. A poco o niente serve dire e ripetere come un mantra che si tratta solo di un stupido sogno. Un training nella testa, nel tentativo di calmare il battito del cuore e la consapevolezza di un peso leggero e peloso acciambellato sul proprio letto, poco sotto l’altezza delle ginocchia. Un movimento appena accennato della mano destra, a ricercare nel buio il cellulare, seminascosto sotto il cuscino. Il filo bianco delle cuffie, sfuggito dalle orecchie che non restituisce nemmeno più la suggestione iniziale del sogno. L’apertura vaga di un social network, alla ricerca di una distrazione, sia pure vaga. Qualunque cosa andrebbe bene in quel momento. Persino la revisione delle cadute più fallimentari della storia del pattinaggio. Il video di un gatto vestito da pompiere. Persino il più stupido dei selfie tailandesi. Il pollice raggiunge oltre il touch la linea di selezione, in modo da poter digitare il nome del pattinatore in questione. Arriva appena ad avvicinarsi alla P quando nella schermata delle foto ne compare una che, istintivamente, attiva il doppio click che genera un cuore. Una smorfia della bocca mentre osserva l’inquadratura di un palazzo randomico, in quella che per lui è una randomica città della Kazakistan. Lo sguardo che scivola in direzione dell’ora di caricamento, segnale che lui non è l’unica persona sveglia, indipendentemente dall’ora che sia. L’apertura di una delle tante applicazioni che permettono la comunicazione a distanza via internet, ottemperando alla distruzione del patrimonio economico di una sim card, di qualunque genere. Quella spia di presenza on-line che distruggere ogni possibilità di spiare dal buco della serratura la presenza di qualcuno.

[ Credevo dormissi ]

Le palpebre si spalancano contro lo schermo del telefono.

[E come lo sai che sono sveglio?]

[….hai messo un mi piace alla mia foto. ]

«Oh.» un sospiro, al buio della camera, mentre il corpo si arrotola su sé stesso, in una pallina simile a quella composta dal gatto che, un poco disturbato dal movimento non autorizzato, muove la propria remora in un “meow” assonnato. La mano sinistra si allunga in direzione della testolina che si arrampica sulle coperte, fino a piazzarsi direttamente davanti allo schermo del cellulare, obbligandolo ad avvicinarlo maggiormente al naso.

[ Dormivo, mi sono svegliato. ] l’indecisione che preme sulle dita [ ho fatto un incubo ]

[ Mi dispiace. Vuoi raccontarmelo? ]

[ Credo che mi avessero appena cosparso di bandierine del Canada con scritto sopra “It’s J.J. Style”. BRRRRRR. ] l’impressione di sentir ridere l’altro lato dello schermo. La quieta realizzazione di voler produrre quella reazione, malgrado la bugia inutile appena dedicata.

[ Decisamente non so immaginare incubo peggiore. Io sto andando a dormire adesso. Domani devo alzarmi presto ]

[Allenamento? ]

[Si. Tu hai deciso i nuovi programmi? ]

[ Ci sto lavorando ]

L’emoticon di un pollice sollevato. E ora è lui a sorridere piano, la guancia contro il cuscino. Un po’ come se vedesse al posto del tratto in discutibile 3D la pelle autentica e vera, correlata a quella persona. Un pensiero un poco assurdo che si accavalla nella mente mentre inizia a prendere di nuovo sonno. L’idea due braccia che nel buio semplicemente lo stringano. Che quelle dita, solo immaginate, sfiorino le spalle. Un respiro regolare, quasi ad abbandonarsi sul corpo invisibile di una presenza amica. L’eco di una buonanotte che non viene digitata davvero. Una risposta mancante mentre gli occhi lentamente si richiudono. Senza memoria di sogni adesso. Solo il vago rumore delle fusa di un gatto.

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«Quindi non hai ancora deciso niente dei programmi nuovi. » una smorfia in labbra lucidate, le mani affondate in un piumino azzurro, tecnico, che permette alla pattinatrice di non somigliare ad una sorta di omino Michelin, come invece accade a Lilia, che li anticipa di qualche passo in quella che alla fine somiglia unicamente ad una passeggiata piuttosto che al principio di una riunione di un qualche genere. Un brick in tetrapack, di un succo di frutta consegnato da suo nonno prima di uscire di casa, portato alla bocca, la piccola cannuccia bicolore appena mordicchiata.

«Non guardarmi con la faccia di chi ha già deciso tutto, vecchia. Sto solo vagliando le varie ipotesi »
Stralci di conversazione interrotta da una piccola mandria di ragazzine, grosso modo della sua età. Nessuno che le ferma, nemmeno Yakov che si limita a borbottare qualcosa sulla celebrità e sul fatto che, portarsi Victor a presso, eviterebbe quella perdita di tempo o almeno la direzionerebbe altrove. Non è abituato ancora a gestirla, soprattutto quando si riflette in un improbabile disegno di lui vestito da fatina. Deglutisce con la peggiore delle smorfie possibili, mentre è proprio Mila a salvarlo in corner, proponendo alla fan – che si definisce la numero uno – una fotografia con il piccolo campione. Anche se il braccio che lo avvolge lo fa sentire scomodo, come un gatto pettinato in contro pelo, uno sguardo, in quella piccola folla, cattura la sua attenzione. È banale e un po’ idiota il suono che esce dalla sua bocca.
« …ma io ti conosco. »
Un sorriso, che si distende su una bocca dalle guance paffute, in quel sovrappeso tipico delle adolescenti che hanno davanti a loro ancora troppo tempo prima di diventare donne. «Eravamo in classe insieme alle elementari » suggerisce lei, scavando in un tempo in cui quella bambina era una creatura rotondetta e lui un soldino di cacio esattamente del pari.
«Tu mi hai prestato i tuoi pattini alla pista di pattinaggio quando i miei si sono rotti » una scena, precisa, che risorge. In quel tempo lei indossava un piumino rosa, il volto circondato da un cappuccio di pelo bianco. Lui aveva i piedi semplicemente troppo piccoli per quelli da poter prendere a noleggio e la sua lama, non troppo buona, si era irrimediabilmente storta. Quella bambina pasciuta aveva semplicemente offerto il suo paio in cambio e lui li aveva presi, senza curarsi troppo delle due farfalline di strass poste ai lati.
«Decisamente tu eri più bravo di me. Io non mi sono mai staccata dalla recinzione della pista- poi insomma, direi che sono stati più utili a te che a me».
Un prestito effettivamente durato quasi un mese, in concomitanza di uno stipendio che permettesse un nuovo acquisto. Si avvicina a lei, adesso che il nero ha preso il posto del rosa. Un cappotto che raggiunge il ginocchio, che copre il corpo e lo nasconde, coordinato ad un enorme sciarpa di lana, che gira più volte attorno al collo non troppo sottile. I capelli, che nella sua memoria avevano una punta di smorto biondo cenere sono colorati di nero, una punta di ricrescita che tenta di fare capolino. Un ciuffo sul viso, come se volesse nasconderlo un po’ di più.
«Grazie » lo ripete a distanza di qualche anno, senza sapere di preciso che cosa aggiungere.
«Di niente. Spero tu possa continuare a vincere.» l’onesta di un sorriso prima che il congedo da lei e dal gruppo venga effettuato. I passi successivi, durante i quali Mila prende a parlare al cellulare con qualcuno di indefinito e di scarso interesse, sono spesi a ricercare quella ragazza nei profili social. Nomi e cognomi che tornano, identici, fino a trovare lei, nascosta dietro l’immagine della sua stessa versione animata. Lentamente scorre la home, senza ancora richiedere effettivamente l’amicizia. Un post, con la foto di una moto, attira semplicemente la sua attenzione, mentre Lilia gli sbraita contro qualcosa, richiamandolo alla realtà e alla minaccia di sequestro di un cellulare. Programma. Il nuovo programma.
«Quanto è banale il lago dei cigni? » propone d’improvviso.
«Quanto il flamenco ballato da uno spagnolo. » replica Mila, distraendosi dalla sua chiamata.
«Decisamente troppo Yuri. » sentenzia Lilia «Ma Bourne insegna quando quel balletto possa non essere banale. »
«Bianco o nero? » domanda scettica Mila, sollevando un sopracciglio.
«I quattro cignetti »
« Eh? » un coro di tre, che si rivolge al lui.
«SIETE DIVENTATI SORDI? HO DETTO IL BALLETTO DEI CIGNETTI »
«Non siamo sordi Yuri, probabilmente sei tu che sei diventato scemo. »

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Come di tutti i movimenti del Lago dei Cigni gli sia venuto in mente proprio quello non ne ha idea. Non è dei più famosi, nemmeno dei più significativi.
Una scelta istintiva, anche banale, a cui riflette mentre l’acqua della doccia lava via i principi di un’improvvisazione di movimenti fuori pista. Il profumo di uno shampoo economico che si impregna nei capelli, incapace ancora di fare attenzione a dettagli come quelli. Poco importano le crociate contro i parabeni di Victor. Lui si accontenta della camomilla basic che, in una parte ostile della sua testa, più che fare bene al biondo lo rende un ragazzino imberbe. Il volto si solleva, accogliendo le gocce calde sulle palpebre prima di frizionare il volto con le mani pulite.
La vaga sensazione di un paio di occhi contro di lui, nonostante lo schermo a cabina della doccia e un paio di piedi, che spuntano oltre la soglia chiusa che rivelano l’effettiva presenza a raggi x.
Si ferma a guardarle, senza che possa riconoscerne il padrone.
«Yuri? Ci sono ospiti per te» è la voce nitida di Victor, che gli fa sollevare un sopracciglio.
«E chi accidenti verrebbe a trovarmi? Cerca un’altra scusa per prenderti la mia doccia tsk» l’eco di un silenzio che fa pregustare una vittoria.
«Yurii » il suono, che con intonazione diversa viene ovviamente rivolto al suo omonimo «Credo che questo significhi che puoi dire a Otabek che può anche non aspettare il nostro gattino, dato che sembra intenzionato a difendere la propria doccia a costo della vita »
Un nome. E la prima replica pungente che muore sostituita dal battito del cuore. La porta che viene quasi sbattuta in faccia al Zar, tornato all’ovile.
«Tsk. So perfettamente che mi stai prendendo in giro. Ma se ci tieni così tanto alla mia doccia fai pure. » mantiene una linea di difesa, camminando lentamente fino alla propria cabina di cambio. L’acqua lasciata a scrociare, quasi per dispetto, per obbligare la giacca del completo di Victor a bagnarsi. Giacca di Completo.
L’idea che quell’affermazione sia reale si fa strada mentre si veste. Il capo scosso di nuovo.
Uno scherzo. Incomprensibile dato che effettivamente Victor non conosce di certo i dettagli della sua amicizia con Otabek. Avrebbe potuto usare suo nonno per obbligarlo ad uscire dalla doccia. Per lamentarsi, a distanza, del suo shampoo dozzinale. L’asciugamano di microfibra friziona i capelli, mentre la tuta, tiepida, lo riveste. La mano destra che corre al cellulare, recuperando immediatamente la conversazione, ferma alla sera prima.

[ Victor è veramente un idiota sai? ] digita, mettendosi a sedere sulla panchina di plastica gialla, incastrata nella cabina prefabbricata. Una qualche realtà sarebbe stata riflessa in un messaggio. Le improvvisate di quel genere funzionano solo nella finzione e in un qualche fotoromanzo ingiallito.
[ Come mai? ]
[ Sostiene che tu mi stia aspettando fuori dagli spogliatoi. Decisamente assurdo vero? ]
[ Abbastanza. Ti darebbe fastidio? ]
[ Cosa? ]
[ Se fossi davvero qua fuori ad aspettarti] La voglia di correre fuori, di verificare il senso di quelle parole. Di vederlo, nella sua giacca di pelle. Un entusiasmo che lo solletica appena, e che desidera smorzare attraverso le parole.
[ Nah. Non così tanto. ]
[ Allora starò qui ancora dieci minuti]
Le pupille che si dilatano. Il cuore che accelera. Una deglutizione a vuoto mentre si perde nei caratteri dello schermo.
«Stai scherzando. Lo so che stai scherzando.» la zip della felpa che viene chiusa. L’asciugamano, ancora bagnato, gettato nel borsone. Un passo, che si finge regolare verso la Hall. L’ombra di un paio di persone oltre il bancone di reception del palazzetto dello sport. Occhi che cercano e registrano un’assenza mentre il cellulare vibra tra le dita, che lo stringono, deluse.
«Ovviamente non ci sono, ma approfitto del tuo tempo per essere sicuro di una cosa.» la voce, a differenza delle dichiarazioni sino ad ora ricevute è reale oltre l’invisibile filo del telefono. «La prossima settimana è il tuo compleanno. Pensavo di venire a trovarti. TI da fastidio sì o no? »
«Se è uno scherzo del cazzo tipo questo ti mando a fanculo senza nemmeno passare dal via.» è una risposta automatica, mentre una sorta di risentimento si genera, assurdo, nella gola.
«…no. Anche se non pensavo di star giocando a Monopoli. Ma immagino che sia una sì.» una pausa «Scusami. Non pensavo che ti saresti arrabbiato»
«Beh, tu non saresti arrabbiato se fossi appena uscito da uno spogliatoio coi capelli bagnati per niente?» Ridi. Una preghiera che si genera piano nella sua mente. Il desiderio che quelle parole generino un vago senso di ilarità più che un rimprovero «Questo implica che sì, puoi venire a farmi gli auguri di persona, ma che mi dovrai aspettare almeno un’ora qui fuori. Per punizione.»
«Ok. »
« No, aspetta, come ok? »
«Ci vediamo tra una settimana Soldato.»
«Beka…»
«Si?»
«Ci vediamo tra una settimana e un’ora»


 


...e ci proviamo di nuovo. In realtà esiste un'altra one shot su questo fandom e forse mi deciderò a pubblicarla. 
Questa viene condivisa dato che il compleanno di Yurio è soon to come ed è l'ambientazione di base di questa storia.
Sono un po' scettica riguardo al risultato perchè - ahimè - non ho più 15 anni da troppi anni. Sob.
Al solito ringrazio AryDubhe per le correzioni e le revisioni <3
   
 
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