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Autore: Liaris_Giu_1D    28/02/2017    0 recensioni
A ventisei anni, Clair Roberts è uno dei migliori agenti della squadra omicidi dell'FBI di New York. Un caso apparentemente impossibile da risolvere, un fastidiosissimo e affascinante capo con cui collaborare, un misterioso nuovo vicino di casa, un serial killer in libertà... Sono solo alcune delle cose che sconvolgeranno la vita di Clair, che si ritroverà a combattere per difendere ciò in cui crede: la giustizia.
Dal primo capitolo:
"Roberts, questa notte è stato ritrovato il cadavere di una donna di trent'anni, bianca, proprio qui, a New York. Indossava un abito nero, e delle scarpe lucide. Si tratta della terza donna che troviamo in queste condizioni. La seconda è stata rinvenuta quasi un anno fa vicino a Los Angeles, ma hanno riconosciuto che era lo stesso killer solo di recente" disse piano.
Sollevai la testa di scatto e lo fissai. Tre donne. Stesso modus operandi di colui che due anni fa aveva ucciso Adelaide Reinolds. Quel caso mi aveva perseguitato per mesi, ma non ero riuscita a trovare l'assassino.
"Non è più un mio caso" mormorai riabbassando lo sguardo sul computer davanti a me. Iniziai a stilare il rapporto ma fui nuovamente distratta dal mio capo.
"Ora è ufficialmente un nostro caso"
Genere: Mistero, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 3




Non potevo crederci. Finalmente avevamo una pista e subito qualcosa ci impediva di risolvere il caso. Zack si portò una mano alla bocca e la morse, probabilmente per trattenere un'imprecazione. Io fui meno delicata.

"Dannazione!" urlai dando un pugno al muro. Un dolore acuto si irradiò su per il braccio e mi strinsi la mano ferita al petto. So che poteva sembrare una reazione esagerata, ma ci avevo perso la testa, il sonno, mesi della mia vita, su quel caso. Sarah si precipitò da me con un'esclamazione sorpresa, mi afferrò la mano e la esaminò, da vero medico. Mi lasciai visitare, quando lei decise che era solo una botta molto forte, mi voltai e uscii senza una parola. La sentii chiamarmi ma la ignorai. Digitai velocemente il numero di mio padre e portai il cellulare all'orecchio. Rispose al terzo squillo.

"Clair, che succede?" chiese con voce preoccupata.

"Abbiamo una pista, ma non porta a nulla. Sono così frustrata!" esclamai entrando in ascensore. 

"Spiegati meglio"

"Sarah, il medico legale, ha trovato tracce di DNA sulla vittima, ma sono inutilizzabili dato che non abbiamo riscontri nel database"

"Hai provato con i campioni di amici e familiari delle vittime?"

"Dubito sia stato uno di loro, non avevano amici in comune, ma credo tenterò, non si sa mai..."

"Non abbatterti, tesoro. Ce la farai." mi rassicurò.

"Grazie papà, ci vediamo sabato" lo salutai e riattaccai. L'ascensore si fermò al mio piano e scesi, bloccandomi subito dopo. Mi aspettavano ancora due giorni e mezzo prima di partire, questo significava che io e Zack dovevamo concentrare tutti gli interrogatori in quel breve lasso di tempo. Andai dritta nel suo ufficio e mi sedetti davanti alla sua scrivania ad aspettarlo. Non attesi molto prima che si facesse vivo.

"Che ci fai qui, Roberts?" mi chiese entrando e chiudendosi la porta alle spalle.

"Lo sai, vero, che abbiamo due giorni per interrogare tutti gli amici più stretti della vittima?"

"Ce la faremo, infondo sappiamo già chi cercare" rispose lui serio sistemando qualcosa nel cassetto.

"Ah si? E cosa cerchiamo?" chiesi io scettica mentre accavallavo le gambe.

"Cerchiamo qualcuno che sia stato a Los Angeles due volte negli ultimi due anni durante i periodi degli omicidi"

"Non hai torto, tutto sommato, infondo abbiamo già il profilo psicologico della vittima, visto che tu la conoscevi"

"Sono passati due anni, Clair" rispose stanco massaggiandosi la radice del naso.

"Sempre meglio di niente" risposi facendo spallucce.

"Vai a mangiare, così andiamo dall'ultimo fidanzato che ha avuto"

"Zack... In questo caso allora sei un sospettato, sai?" ridacchiai. Lui mi guardò truce e mi lanciò una penna, scherzoso. Mi alzai ridendo e mi fermai sulla soglia.

"Mangiamo insieme? Devo controllare che tu non inquini le prove" lo stuzzicai. Chiusi la porta giusto in tempo per evitare un'altra penna scagliata contro di me.

"Ora vi lanciate anche le cose, eh?" chiese una voce alle mie spalle. Mi voltai trovando Hope con un mezzo sorriso che mi osservava.

"Già e andremo anche a pranzo insieme" asserii guidandola fino all'ascensore. Non potei fare a meno di notare come gli agenti mi fissavano con un'espressione a metà tra il dubbioso e lo sconcertato. Probabilmente si aspettavano che uscissi dall'ufficio del mio capo urlando e lanciando le cose. C'era stato un periodo, appena dopo che ero arrivata, in cui gli agenti facevano scommesse, domandandosi se saremmo arrivati prima a un letto o alla tomba. Io avei scommesso sulla seconda opzione: alcune volte ero davvero stata sul punto di ucciderlo, tanto ero arrabbiata.

"Dove mi porti?" chiese Hope uscendo con me dal dipartimento.

"Al ristorante cinese qui di fronte, devo prendere da mangiare" le feci l'occhiolino mentre aspettavo che il traffico si riducesse quel tanto che bastava a farmi passare.

"Tu, piuttosto. Come va con Theo?" le chiesi per distrarla.

"Ha ammesso di essersi ubriacato perché hanno concluso il lavoro e i suoi operai l'hanno portato a festeggiare"

"E il mio nipotino preferito?"

"Si chiede se mai avrà un fratellino" sospirò. Hope veniva da una famiglia strana. Suo padre aveva ben tre mogli, quattordici figli, un cane e due gatti. Già, erano poligami. Rimasi sconvolta quando lo scoprii, ma imparai presto ad apprezzare quella bizzarra famiglia. Ci avevo messo due anni per riuscire a riconoscere chi fosse figlio di chi e come si chiamasse. Hope era la quarta figlia in ordine di età, ma la primogenita della prima moglie e, quando era nato Tyler, la famiglia si era rallegrata a tal punto che la casa di mio fratello e della mia migliore amica era sempre piena di gente. Si erano trasferiti quando Tyler era ancora molto piccolo, per avere il loro spazio, ma questo non aveva scoraggiato le visite e capitava molto spesso che il mio piccolo nipotino venisse in contatto con i suoi numerosi cugini e zii, perciò era inevitabile che iniziasse a chiedersi quando anche lui non sarebbe più stato solo. Hope amava la sua famiglia eppure non condivideva l'idea della poligamia, amava troppo Theo per permettergli di pensare anche ad altre donne.

"Siamo già in quella fase?" domandai quindi aprendo la porta del ristorante.

"Era inevitabile, lo sapevamo tutti, ma non posso dargli un fratello o una sorella, non adesso che sono piena di lavoro"

La vita della modella era dura e il suo manager le aveva proibito di avere un secondo figlio per un'altro anno. Tyler non era l'unico a volere un nuovo membro in famiglia: Theo amava i bambini e lui e sua moglie avevano litigato seriamente quando lei gli aveva detto che non poteva dargliene un secondo. Abbracciai la mia migliore amica. Odiavo vederla così abbattuta. Fummo interrotte dal cameriere che mi chiese se volevo il solito. Annuii e chiesi di preparare altre due porzioni. Ero una cliente abituale, considerato il poco tempo per cucinare che mi lasciava il lavoro. 
"Però... potresti dargli tu un cuginetto" 
Aggiunse lei facendo la finta innocente e beccandosi di conseguenza una mia occhiataccia. L'argomento bambini per me era off limits da quando, pochi mesi prima, avevo realizzato quanto fosse solitario e pericoloso il mio lavoro, sperimentandolo sulla mia pelle. 
"Hope" l'avvertii riportando l'attenzione sul cameriere ormai di ritorno con il cibo pronto nei sacchetti. Lo ringraziai con un sorriso e mi avviai nuovamente in direzione della stazione senza preoccuparmi di pagare, visto il conto aperto con il ristorante. Hope mi seguì, nemmeno fosse un cagnolino. 
"Perché sei qui?" Le chiesi poco prima di rientrare nella centrale.
"Ho bisogno che tu mi tenga Tyler questa notte: voglio fare una sorpresa a Theo, sai, per farmi perdonare per la sfuriata immotivata..." 
Sorrisi a trentadue denti e presi ad annuire. 
"Ovvio che può stare da me, è un po' che non vedo quella piccola peste" 
Il mio nipotino era il bambino più dolce che avessi mai conosciuto, cosa che riusciva in qualche modo a compensare l'incessabile voglia di giocare che lo portava a saltare spesso e volentieri gli orari previsti per il riposo, finendo con lo sballare completamente il suo orologio biologico che finiva quindi inevitabilmente a contrapporsi a quello dei genitori. 
"Ok, allora te lo porto per le sei e mezza, guai a te se provi di nuovo a rifilargli uno di quei cibi da asporto di cui ti ingozzi sempre" 
Mi minacciò lei avviandosi all'indietro e puntandomi scherzosamente con un dito. La salutai con la mano e urlandole un 'non preoccuparti'. Tornai quindi all'interno della struttura e raggiunsi l'ufficio di Zack. Questa volta bussai prima di entrare, ma la voce che mi rispose dall'interno non sembrava nemmeno la sua. Aprii cautamente e mi infilai all'interno dell'ufficio in completo silenzio. Zack era seduto alla scrivania, gli unici suoni della stanza erano quelli provenienti dal computer acceso che emetteva il classico ronzio elettrico. Poggiai le borse con il cibo sul ripiano della scrivania e solo allora mi concentrai sul mio capo: teneva lo sguardo fisso sul computer, la mano destra a torturare il filo del mouse e la sinistra che si immergeva nel ciuffo castano ogni pochi secondi; il nodo alla cravatta era allentato ed era più che chiaro che si fosse più volte sfregato gli occhi, visto che questi apparivano più gonfi del normale, cosa accentuata dalle occhiaie bluastre più evidenti che mai. 
"È stata lei a lasciarmi all'improvviso e senza ragione" 
Fu un sussurro lieve che mi colse completamente impreparata, lasciandomi congelata sul posto pochi secondi dopo essermi seduta. Sollevai lo sguardo per fissarlo in silenzio, in attesa che dicesse qualcos'altro, qualsiasi altra cosa, persino un insulto sarebbe stato meglio di quella confessione e quella serietà improvvisi. Non sapevo cosa fare o come reagire: insomma, noi due non eravamo mai stati nient'altro che colleghi che si odiavano e lui ora sceglieva di aprirsi con me, di rivelarmi qualcosa di così privato. Anche lui mi guardò, puntando quelle iridi chiare dritte nelle mie. 
Scosse la testa e recuperò una delle due buste di cibo, aprendola e iniziando a mangiare come se non fosse successo niente. Naturalmente, io rimasi a fissarlo immobile, ancora sconvolta. 
"Beh, che fai? Hai intenzione di stare lì a fissarmi tutto il giorno?" 
Mi riscossi, capendo finalmente cosa stava cercando di fare: lo avevo interrotto in un momento privato, sorprendendolo nel pieno di un dolore che credeva dimenticato, tanto che si era sentito in dovere di giustificare quel suo stato in qualche modo. Fare la detective aveva I suoi vantaggi dopotutto, ero diventata piuttosto brava a capire le persone. 
O almeno così credevo... 
Iniziai a mangiare anche io, sempre mantenendo quel mutismo che mi ero auto-imposta per evitare di dire una di quelle cose tipo 'Mi dispiace per la tua perdita'  che si diceva sempre a qualcuno che viveva la morte di un parente o di un amico; ma poi, cosa mai avrei potuto dire per non sembrare tanto banale ed impicciona? 
"Roberts, stai giocando al gioco del silenzio per caso? Sai, perché sarebbe carino rispondere alle domande che ti vengono fatte" 
Scossi il capo per scacciare quei pensieri strani che affollavano il mio cervello e mi concentrai di nuovo su Lorens, che mi stava già guardando mentre masticava lentamente. 
"Cosa mi hai chiesto?" Domandai allora confusa.
"Sei libera questa sera?" 
Sgranai gli occhi e potei udire chiaramente il rumore della mia mascella che cadeva a terra. 
"Scusami?"  Chiesi, credendo di aver capito male. 
"Ma che hai oggi, Roberts? Non ti si può dire niente..." Sbuffò alzando gli occhi al cielo prima di riprendere a parlare.
"Tra due giorni partiamo, pensavo sarebbe stato opportuno decidere in anticipo come organizzarci, in fondo ora abbiamo molte più informazioni sul killer, dovrebbero essere facili gli interrogatori una volta trovate le domande giuste da fare"

"Mi dispiace, ma ho un impegno. Parliamone ora, no?" proposi a quel punto spostando lo sguardo sull'orologio appeso alla parete. Segnava l'una del pomeriggio, avevamo quindi un bel po' di tempo per discutere.

"I miei genitori ci hanno offerto di restare a dormire a casa loro. Tranquillo, ci sono due camere e, in più, eviteremo di sperperare inutilmente i fondi disponibili"

Non sorrise con quel suo modo particolare di mostrare appena i denti come mi aspettavo, rimase invece a fissarmi serio. Rimasi quasi delusa, tanto che percepii chiaramente il disappunto prendere il sopravvento nella mia espressione.

"Sai cosa? Non credo ci serva questo viaggio. Abbiamo tutti gli indizi necessari a scoprire se uno qualsiasi degli amici delle vittime è l'assassino" sbottò lui dopo qualche minuto di silenzio. Puntai lo sguardo nel suo, cercando in quegli occhi la risposta a quel suo improvviso cambio d'umore.

"Sappiamo più cose di quante ne sapessi io due anni fa, ma non abbiamo ancora né movente né un qualsiasi elemento che colleghi le vittime e tu lo sai che l'unico modo per scoprire queste cose è andare a parlare con le famiglie." mi stavo alterando, eravamo pericolosamente vicini ad una delle nostre famose litigate. Forse era proprio quello che voleva: litigare.

"Ci basterebbe semplicemente rintracciare la posizione di ogni conoscente durante i periodi degli omicidi, non è strettamente necessario andare là di persona e tu lo sai"

Il suo tono e lo sguardo si erano fatti più duri che mai.

"Senti, l'ho capito che stai male per aver perso una persona che per te significava molto ma..." provai a ragionare ma fui interrotta bruscamente.

"Non immischiarti in affari che non ti riguardano. Voglio trovare quest'assassino quanto te."

"Non mi sto immischiando proprio in niente, hai fatto tutto da solo! Voglio aiutarti, lo capisci questo? Non potresti nemmeno occuparti di questo caso e lo sai!" urlai a quel punto alzandomi dalla sedia e puntando le mani sulla scrivania. Non si scompose minimamente.

"Esci da qui" disse fissandomi con quel suo sguardo gelido.

"Zack..." provai addolcendo il tono.

"Esci da questo maledetto ufficio!" fu lui ad urlare questa volta. Indietreggiai piano, mantenendo lo sguardo puntato su di lui, voltandomi solo una volta raggiunta la porta. Fu a quel punto che mi voltai e uscii per tornare al mio ufficio.

Mi ritrovai gli sguardi di almeno una ventina di agenti addosso, alcuni dispiaciuti, altri tranquilli, altri preoccupati. Si aspettavano tutti una nostra lite, considerando quanto tempo avevamo passato vicini nell'ultimo periodo. Eppure, nonostante ci conoscessero abbastanza bene da sapere di non doversi intromettere, tutti temevano che le nostre brillanti carriere sarebbero potute terminare per via di un litigio troppo acceso. In quel momento si udì un tonfo provenire dall'ufficio alle mie spalle, seguito da uno schianto. Non mi voltai nemmeno e ripresi a camminare: che spaccasse pure tutto, se lo faceva sentire meglio.

Quando arrivai al mio ufficio mi presi un momento per rilassarmi sulla poltrona girevole, ripensando a quei giorni, quegli anni, passati  con Lorens.

Amanda doveva essere stata davvero importante per lui. Tanto da renderlo immune al fascino di qualunque altra donna, tanto da portarlo ad odiare me senza nemmeno conoscermi, ad usarmi come capro espiatorio del suo odio per il genere femminile. Ora mi era tutto chiaro: quel suo essere stronzo, quel suo modo di insultarmi come se gli avessi fatto un torto imperdonabile.

Tutto aveva senso.

Ma questo non significava che lo avrei perdonato.

Ero stata delusa anche io dagli uomini, ma non mi sarei mai permessa di fare di tutta l'erba un fascio.

Perciò, se non voleva accompagnarmi in quel viaggio, lo avrei fatto da sola. In fondo, ero riuscita a cavarmela senza l'aiuto di nessuno già molte volte.

Presi quindi il cellulare e feci il numero di mio padre. 

 

**

Le cinque e mezza erano arrivate fin troppo in fretta per i miei gusti.

Avevo passato le ultime quattro ore e mezza chiusa nel mio ufficio ad elaborare teorie e a stilare una lista delle cose da fare una volta tornata a casa, a Los Angeles.

Raccattai tutte le mie cose con calma e uscii dalla centrale. Rabbrividii una volta arrivata sul marciapiede. L'autunno stava finendo, lasciando spazio al freddo inverno.

Decisi che avrei camminato, casa mia non era poi tanto distante e, conoscendo Hope, sarebbe sicuramente stata in ritardo. Presi a guardarmi intorno mentre mi stringevo le braccia al petto. Il marciapiede era pieno di persone che andavano di fretta; mamme che trascinavano i figli, uomini in giacca e cravatta che, con la loro ventiquattrore, camminavano spediti...

Eppure non tutti correvano o andavano di fretta: vidi una coppia passeggiare piano mano nella mano ridendo e fermandosi ogni tanto per scambiarsi un bacio, vidi un padre fermarsi per caricarsi la figlioletta sulle spalle, vidi un uomo fermarsi per lasciare qualche moneta ad un senzatetto, vidi due bambini rincorrersi per gioco.

Rallentai fino a fermarmi a poco meno di un centinaio di metri dal mio palazzo. Nessuno faceva caso a me, ferma in mezzo alla strada con lo sguardo rivolto verso l'alto ad osservare l'immensità dei palazzi che mi circondavano. Non avevo mai pensato a quanto piccola mi facesse sentire l'essere circondata da costruzioni così imponenti. Riportai lo sguardo sulle persone che mi circondavano quando il collo iniziò a farmi male e ripresi a camminare. Avevo deciso di dedicare la mia vita a proteggere tutta quella gente che nemmeno si accorgeva di me, che nemmeno mi ringraziava. Ma a me andava bene così, mi accontentavo di fermare coloro che ponevano fine alla vita di qualcuno. Poi, mi accorsi dell'ora e affrettai il passo verso casa.

Salii velocemente fino al mio piano, aprii il portoncino ed entrai sospirando. Posai le chiavi sul mobiletto di legno al mio fianco e mi voltai verso il cucinino alla mia destra, interrogandomi già su cosa avrei potuto preparare per cena. Quando aprii il frigo, però, mi ritrovai di fronte solo un cartone di latte quasi finito, una confezione extra-large di yogurt e due bottiglie di acqua.

"Non ci credo!" borbottai chiudendo lo sportello sconsolata. Gettai un'occhiata all'orologio per controllare che ore fossero e rimasi sorpresa di scoprire che erano già quasi le sei, il che voleva dire che non avrei fatto in tempo a fare la spesa prima dell'arrivo del mio adorato nipotino. Non potevo permettermi di ordinare qualcosa al ristorante messicano all'angolo, nemmeno al cinese due isolati più in là, oppure Hope mi avrebbe ucciso.

Rifletti, dai...

E poi ci arrivai: se non avevo niente di commestibile in casa, avrei potuto chiedere un prestito a chi sicuramente ne aveva... E chi meglio di uno chef?

Perciò recuperai le chiavi e uscii di nuovo, salendo rapidamente le scale.

Bussai alla porta di Shane mentre cercavo di recuperare fiato, sperando che non avesse deciso proprio quel giorno di uscire di casa. Fortunatamente non dovetti aspettare molto prima che lui mi aprisse: i capelli spettinati, gli occhi gonfi di sonno e...

Senza maglietta. 

 

"Clair?"

Sembrava sorpreso di vedermi, probabilmente non si aspettava una mia visita così improvvisa.

"Shane. Ciao." Sorrisi allegra, fingendo che il mio sguardo non cercasse continuamente di scivolare in basso verso tutta quella pelle scoperta.

"Posso aiutarti?  

"In realtà si, sempre se per te non è un disturbo..."

Mi torturai le mani, improvvisamente in imbarazzo. Shane sorrise.

"Dimmi" disse poggiandosi con la spalla allo stipite della porta.

"Questa sera viene a cena da me il mio nipotino di tre anni e sua madre mi ucciderebbe se gli presentassi cibo da asporto come mio solito, così ho deciso di cucinare io stessa, solo che mi sono accorta di avere il frigo praticamente vuoto e, dato che non avrei temo per andare a fare la spesa, mi chiedevo se tu potessi aiutarmi, visto che sei uno chef e..."

Fui interrotta dalla sua risata, che gli fece brillare gli occhi scuri.

"Entra, vediamo cosa posso fare per te"

Lo seguii nell'appartamento chiudendomi la porta alle spalle. Si chinò di fronte al frigo mettendo così in risalto un fantastico lato B fasciato da comodi pantaloni della tuta, di quelli che rubavo sempre a mio fratello perché ne adoravo il tessuto morbido.

"Allora... Ho del ragù preparato stamattina, oppure possiamo puntare su cotolette alla milanese, però non sono sicuro di avere salse o patatine con cui accompagnarle."

Si voltò verso di me grattandosi la nuca con lo sguardo vacuo, perso in chissà quali pensieri.  Aprì poi l'anta di un mobiletto per cercare qualcosa e ne estrasse due confezioni blu, una delle quali aperta. Prese dal frigo una veschetta di plastica contenente sicuramente il ragù e poggiò tutto sul ripiano dell'isola della cucina.

"Cosa preferisci?"

Domandò quindi voltandosi verso di me.

"Forse a lui piacerebbero di più le cotolette, ma per noi due possiamo fare la pasta, se vuoi" borbottai stringendomi nelle spalle. Il sorriso che mi fece evidenziò una serie di deliziose fossette in cui avrei solo voluto immergere un dito.

"Fatta"

Recuperò quello che gli serviva e ci avviammo verso il mio appartamento.

"Giuro che troverò il modo di ripagarti, mi sento una sfruttatrice!" mi lamentai accendendo la luce dell'ingresso e lasciandolo entrare.

"Mi stai già ripagando, solo che non lo sai" rispose lui enigmatico mettendosi ai fornelli come fosse casa sua. Per fortuna aveva recuperato una maglietta dal salotto di casa sua, o non sarei riuscita a concentrarmi abbastanza. Decisi di mettermi al lavoro anche io, quindi recuperai una tovaglia pulita.

"Aspetta, ma... Che ore sono?" mi chiese all'improvviso lui, intento a cercare qualcosa nella mia dispensa praticamente vuota.

"Le sei"

"Non è un po' troppo presto per mettersi a preparare la cena?" rise quindi lui voltandosi verso di me e allargando le braccia a indicare quanto eravamo indaffarati.
"Forse hai ragione " ridacchiai sistemando la tovaglia e allontanandomi dal tavolo. 
"Che ne dici di guardare la televisione mentre aspettiamo?" propose lui venendomi incontro con quel suo sguardo ipnotico. 
Feci spallucce e lo precedetti sul divano, accesi la tv e mi sistemai bella comoda con le gambe ripiegate sotto il corpo. Arrivò pochi minuti dopo e si impossessò del posto accanto al mio, le gambe larghe in una tipica posa maschile. 
Rimanemmo così, a rilassarci, fino a quando non suonò il campanello, avvisandoci dell'arrivo del mio adorato nipotino. Saltai letteralmente in piedi, dimentica della stanchezza accumulata in quei giorni poiché troppo elettrizzata all'idea di rivedere quello scricciolo adorabile. Corsi ad aprire la porta e mi fiondai correndo giù per le scale, impaziente, sentendo la risata profonda di Shane alle mie spalle che mi prendeva in giro. Quando finalmente vidi quel piccolo che tutto concentrato saliva un gradino alla volta mantenendosi alla mano della madre e ondeggiando in modo buffo non potei che urlare di gioia e prenderlo immediatamente in braccio, sollevandolo sopra la mia testa e riempiendolo di baci. 
Naturalmente Tyler era scoppiato a ridere di gusto salutandomi allegro e chiamandomi in quel modo tenero che mi faceva sempre venire voglia di stritolarlo. 
"Tia Cer! Lo sai cosa mi ha detto la mamma?" 
Chiese appena lo rimisi sulle sue gambe per farlo continuare a salire. 
"Dimmi Ty" chiesi a mia volta con quel tono di voce che si fa sempre quando si parla a un bambino, mentre stringevo la mia migliore amica con il braccio libero. 
"La mamma... la mamma ha detto che stasera sei tu a fare da mangiare" 
Continuò Tyler con quel suo tono strascicato. Il modo in cui scandiva chiaramente la parola 'mamma' era il chiaro segno di come questa fosse una delle prime parole a comparire nel suo vocabolario. Io e mio fratello Theo ci divertivamo a fargli ripetere più volte quelle parole che non pronunciava tanto bene o sulle quali balbettava o abbassava il tono durante i suoi discorsi, per aiutarlo a memorizzarle meglio e smettevamo di farglielo fare solo quando lo sentivamo scandire bene tutte le parole della frase, consapevoli a quel punto che le aveva imparate. Ero così orgogliosa di quella piccola peste, che già a tre anni possedeva un vocabolario notevolmente ampio. Risalimmo con calma le rampe che avevo appena disceso correndo fino ad arrivare al mio appartamento, sulla porta del quale trovammo Shane ad aspettarci. Hope si pietrificò all'istante, preoccupata che fosse uno sconosciuto malintenzionato, ma la tranquillizzai subito prendendo in braccio Tyler e girandomi per presentare il mio cuoco personale alla mia migliore amica. 
"Sono Shane, abito al piano di sopra" 
Le porse la mano lui con un sorriso che avrebbe fatto cadere qualsiasi ragazza ai suoi piedi, ma non Hope. Lei rimase rigida e forzò un sorriso appena accennato nel rispondere alla stretta con un semplice:
"Hope, la madre di Tyler" 
La guardai stranita per qualche secondo, poi fui distratta dal piccolo che avevo tra le braccia, il quale aveva iniziato a dimenarsi chiedendo di scendere. Lo misi giù e lo vidi correre in casa in cerca dei giocattoli che aveva lasciato a casa mia l'ultima volta che ci era stato. Pregai Shane con uno sguardo e lui capì al volo, congedandosi da noi donne per seguire Tyler ed evitare che facesse danni. 
"Non mi piace quel tipo, Cle" 
Disse immediatamente Hope usando il soprannome che mi aveva affibbiato quando eravamo alle superiori e facendosi tremendamente seria in volto.
"Che succede? Di solito ti piacciono quelli che piacciono a me" 
"Non lo so... ho come questa strana sensazione che quel tipo non dica proprio tutto. Quanto lo conosci, Clair?" 
"Direi abbastanza da sapere che fa lo chef e... che si è appena trasferito" riflettei sovrappensiero. In effetti non sapevo poi molto di lui, di cosa facesse nel suo tempo libero o quali fossero i suoi hobby. 
"Senti, Cle. Lascia perdere, ok? Sarò solo stanca: ultimamente diffido un po' di tutti" cercò di tranquillizzarmi Hope sorridendo in modo più convincente. La seguii all'interno e l'accompagnai a salutare Tyler per poi prometterle di non dimenticare di portarlo a scuola la mattina seguente.

Quando Hope se ne fu andata presi un respiro profondo e mi diressi nella cameretta vuota che completava l'appartamento. Tanto vuota poi non era, visto l'enorme contenitore di giocattoli di Tyler e il bellissimo lettino singolo dalle coperte con gli eroi della Marvel. Poggiai il borsone del mio nipotino in un angolo e mi fermai ad osservare la scena che avevo davanti: Shane e il picollo Tyler stavano giocando con le macchinine, inscenando una sorta di gara automobilistica degna di un gran premio, tanto sembravano coinvolti nel farle correre su qualsiasi superficie disponibile. Scoppiai a ridere e decisi di unirmi a loro.

Per la prima volta dopo tanto tempo, i ricordi e le paure mi abbandonarono, facendomi desiderare di poter avere dei figli, prima o poi. 









*Spazio Autrice*
Ok, forse non vi ricordate nemmeno chi sono, vista la vergognosa quantità di tempo che ho impiegato per aggiornare. Ringrazio di cuore Francesca010 per il suo supporto (fosse per te non mi sarei sentita così apprezzata da aggiornare il prima possibile). E niente, spero che il capitolo vi sia piaciuto e che recensiate in molti!
Baci,
Giugiu.

 

  
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