Dal
capitolo precedente:
"Noi dobbiamo restare discreti per
qualche tempo, non vogliamo destare sospetti in qualche mente
particolarmente debole e bacata, e mi riferisco ai tuoi amici
ficcanaso. Fai in modo che non succeda, e tutto andrà come si deve.
Ci aggiorniamo non appena avrai nuove notizie.”
“Come vi
contatto?”
“Ti contatteremo noi.”
“Alla
prossima.”
Seamus si calò il cappuccio e uscì dal vicolo buio.
Apprezzò la luce giallastra dei lampioni, un po’ meno il vento che
lo investì. Quella sera sarebbe tornato a casa a piedi: avevano
convenuto così, e poi aveva molte cose a cui pensare.”
42.
Ron
sedeva nella poltrona del piccolo salotto di Hermione. Si rigirava
stancamente una scatolina fra le mani: tanti sacrifici per niente.
L’apertura a scatto, che lui fece scricchiolare ripetutamente fino
al tintinnare delle chiavi sulla porta, lasciava intravedere un
anello magro di argento purissimo, dotato di un diamante circondato
da una corona di minuscoli zirconi.
Hermione entrò e appoggiò
sul tavolo una busta di tela piena di bottigliette e barattoli di
vetro da erborista che richiamarono definitivamente Ron al momento
presente.
Era venuto per chiarire: si fronteggiarono.
Hermione
abbassò lo sguardo, stanca. Si avvicinò e gli accarezzò i capelli,
spazzandoli ai lati, sulle tempie, con un sospiro così pesante da
far vacillare la determinazione di Ron.
Si capirono.
Non ci fu
bisogno di parlare.
Ron fece scomparire in tasca la scatolina con
un gesto tanto indifferente da eludere l’attenzione della ragazza.
Hermione si slegò i capelli e appoggiò il fermaglio sul tavolo;
cominciò a svestirsi per indossare qualcosa di più comodo. Si tolse
i piccoli orecchini che portava e si allontanò, andando nel loculo
che era la sua camera da letto. Era ormai in intimo, con la sola
canottiera morbida a coprire le sue timide forme. Si lasciò sfuggire
un altro sospiro. Che cosa doveva fare? Da dove cominciare? Perché
doveva essere sempre tutto così complesso, così pesante? Non aveva
voglia di litigare. E nemmeno Ron sembrava averne voglia. Come
l'aveva guardata, qualche istante prima... la fece rabbrividre e
scuotere vivamente la testa. C'era tanta colpevolezza nel suo sguardo
da farle pensare al peggio. Eppure, i suoi occhi grigio-azzurri
l'avevano rimirata per l'ennesima volta come se fosse un bellissimo
fiore sbocciato per caso nel proprio giardino mal curato. Nessun
altro l'aveva mai guardata in quel modo. Era di questo che si era
innamorata? Dell'impressione di essere amata? Fisicamente Ronald era
un bel ragazzo. La risolutezza e gli anni avevano dato un senso a
quelle sue ganciotte morbide. Era attraente, non fosse che per il suo
aspetto fisico. Ma era anche sempre stato uno da prima linea. Volente
o nolente: anche nei momenti peggiori, avevano combattuto fianco a
fianco: come non apprezzare il suo coraggio? L'unico suo limite, in
senso stretto, era il legame profondo che lo aveva sempre legato alla
sua famiglia. Non era il massimo, per un suicidario alla ricerca
degli Horcrux. Non aveva niente che non andava. Non si soffermò a
pensare ai suoi difetti, perché dopotutto, ognuno ne ha una bella
collezione personale, e i suoi di certo non erano da meno. Il gioco
era tutto lì: far combaciare gli sfregi dell'anima. Ci avevano
provato, ma provato davvero. Sentiva di aver veramente provato a
dargli tutta se stessa; forse non sempre, magari solo in qualche
momento speciale, in quelle giornate difficili da dimenticare in cui
ci si avvicina tanto gli uni agli altri da sentirsi una cosa sola. E
lui, di certo, di più non avrebbe potuto darle. Lavorava e studiava,
l'aveva sempre rispettata, tenuta in considerazione, aspettata con
pazienza, mai dimenticata del tutto nonostante le distanze o le
difficoltà, sia quelle intromessesi man mano nello srotolarsi del
filo della vita, sia quelle che lei stessa si era vista erigere a mo'
di barriera. Lui non aveva niente che non andava. Semplicemente, non
doveva essere suo. Ricordava ogni momento in cui si era sentita
vicina a lui, e non si raccapezzava dei pezzi di puzzle sbagliati che
aveva, ad oggi, fra le mani. Le era piaciuto far parte della sua
famiglia, stringere sua sorella e sentire in fondo al cuore di essere
legata a lei dal loro rapporto. Le era piaciuto frequentare quel
ragazzo timido e impacciato, che non sapeva vendersi bene, ma che non
esitava mai nel dire quello che pensava, e anche con un certo ardore.
Anche la forma di cliché in cui era caduta vittima del suo cuore,
qualche anno prima: l'amicizia che si tramuta in qualche cosa di più
intangibile e inspiegabilmente più potente e più affascinante. Era
stato bello.
E ora non lo era più. C'era solo lei, nel suo mondo.
Sola, abbandonata perfino da se stessa. Un'infanzia regalata agli
altri, e l'esistenza stessa così superficiale che negli ultimi anni
le era sfuggita di mano e l'aveva lasciata con un pugno di mosche.
Perso Ronald, che cosa le rimaneva per stringere i denti, andare
avanti, ancora e ancora e ancora? Non si rendeva conto di quanto
fossero malati i suoi pensieri, turbinosi, ricorrenti, malati e
impietosi. Forse biasimava Ronald, perché lui era riuscito ad amare
quell'essere che lei non era in grado di apprezzare: se stessa.
Era
così stanca di tutto quanto che accarezzò intimamente l’idea di
un riposo eterno.
Sobbalzò appena quando, inaspettatamente, si
sentì abbracciare da dietro. Ron la cullò qualche istante, e lei lo
lasciò fare. Sentiva dolore, dolore e fastidio, e nostalgia, e un
indefinito moto di affetto. Quando le mani di lui scesero sui suoi
fianchi, capì. Capì dal modo inequivocabile in cui si mossero, con
una certa dose di determinazione, di virilità, che c’era un
non-sapeva-che di nuovo, così come capì che non era un buon
segno.
Eppure lo accolse, forse sentendosi veramente coinvolta per
la prima volta in tutti quegli anni. Coinvolta, perché quando si
percepisce l’inizio della fine, riesce più facile donarsi,
dedicarsi, lasciarsi andare. Ron si sedette sul letto e lei si
accovacciò su di lui per stringerlo al petto. Ron rispose con ardore
a ogni suo movimento: guidava lei, come sempre, eppure era così
diverso. Ron la baciò in ritorno, sgomento, e sentì il trasporto
che ci metteva lacerargli il cuore definitivamente. Hermione gli
stava dando tutto, a cuore aperto, senza una remora, ignorando gli
abiti sconvolti, i segni sulla sua pelle - errori di scalpello da
parte di una qualche dilettante sulla sua pelle marmorea - e quel suo
nuovo odore dolciastro. Hermione lo stava amando, tutto, dalla testa
ai piedi, da quella sua nuova pelle alle più nere profondità in cui
pensava di essersi ormai perso.
Era troppo, troppo per lui. Troppo
per i suoi sensi di colpa. Il suo cuore Grifondoro ruggiva sotto alle
stoccate di una battaglia interiore.
Successe proprio così:
fecero l’amore, forse per la prima volta. Non riuscirono a
concentrarsi sul tempo, persero la cognizione, la sensazione
predominante era quella di stare per essere schiacciati fra due
muri.
Ron le baciò ogni parte del collo, e lei non smise di
accarezzargli il volto. Si stavano salutando. A modo loro, come
potevano, come riuscivano: senza urlare, senza odiarsi, senza
riuscire a spiegarsi.
Hermione infilò la testa nella
canottiera, e poi in una maglia con il collo alto, sentiva
terribilmente freddo. Si alzò per recuperare gli altri indumenti
precedentemente scalciati in fondo al letto.
“La tua voglia è
scomparsa.”
“Scusa?”
Si voltò, guardando Ron ancora
nudo, vestito delle sole occhiaie e di una serie di ematomi di cui
lei non era l’autrice. Il nulla. Un silenzioso boato in fondo alla
gola. Non si chiese nemmeno di chi potessero essere. Di chi fosse
Ron, adesso. Forse, per la prima volta, Ron era di Ron e nessuno se
ne stava approfittando impropriamente.
“Sulla natica destra.
Avevi una voglia. Non c’è più.”
“Non so di cosa tu stia
parlando.”
Si affrettò a infilare l’intimo. Era distrutta.
Voleva dormire, dormire e non svegliarsi più.
“Tornerò a
recuperare le mie cose, per adesso non parliamone con gli altri. Non
voglio impensierire i miei.”
Ron esitò qualche istante sulla
porta, finendo di chiudersi i pantaloni con la cintura. Le scoccò
un’ultima occhiata: lei si era seduta al centro del letto, a gambe
incrociate, rinchiusa nel suo stesso abbraccio, come a proteggersi.
Una volta vestito, semplicemente uscì, chiudendosi definitivamente
la casa di Hermione alle spalle, e si smaterializzò.
Non c’era
stato bisogno di dirsi addio.
Hermione avrebbe tanto voluto essere
un’entità unicellulare flagellata, come quelle che aveva studiato
aprendo qualche libro di biologia Babbano, per non ricordare di aver
visto le tracce di un’altra su quello che era il suo fidanzato.
Ormai non più. Era finita. Non poteva crederci. Non pensava che
sarebbe successo così in sordina: aveva sempre saputo, però, che
sarebbe successo.
Ma come poteva esserci tutto quel silenzio
attorno a lei? Lentamente cominciò a piangere, e il rimbombo dei
suoi singhiozzi finì per chiamare Grattastinchi, che si acciambellò
sulle sue gambe. Le lacrime rotolarono sulle guance, caddero sul pelo
del gatto e rotolarono nuovamente fino alle coperte. Come era
possibile non odiarlo più?
Perché lui non aveva tentato di
spiegarsi?
“Hermione, ho fatto un errore, vorrei aggiustare
tutto, continuare a stare con te.”
Sarebbe stato molto più
normale.
Chi può essere così malato da dire addio facendo
l’amore?
Chi può essere così stolto da non tentare nemmeno di
parlare, di giustificarsi?
Lui sapeva che lei avrebbe visto tutto.
Le scie dei baci di un’altra strega. L’impronta forte, lontana,
non più sua, che costei aveva assestato alle dita di Ronald.
Lei
sapeva che lui sapeva.
Ma
sapeva anche che non l’avrebbe ferita? Aveva agito in scienza e
coscienza?
E perché lei non ne soffriva? Che razza di
stregoneria. Perché era una liberazione, pensare di non condividere
più niente, dopo aver condiviso tanto?
Perché la sofferenza
derivava esclusivamente dall’idea di fallimento totale che le
pervase l’anima?
“Oh, Grattastinchi. Mi ha tradita, mi ha
tradita e a me non importava nulla!” Lo sollevò da dietro le
scapole, portando il muso all’altezza del viso “Nulla… cosa ho
che non va, dimmelo. Dimmelo tu, tu lo sai cosa non va in me. Dimmi
che cosa ho fatto di male.”
Il gatto soffiò infastidito.
“Hai
ragione. È colpa mia. Non mi basta mai quello che ho. Non sono…
non
sono capace di essere felice.”
Provò
disgusto per se stessa. Hermione Granger odiava Hermione Granger. Si
sentiva la Madame Bovary del mondo magico. Ricordava quando aveva
letto quel libro:
il più mediocre libertino ha sognato sultane; ogni notaio si porta
dentro le macerie di un poeta.
Cosa
non andava in lei, per essere riuscita a odiare l’unico uomo che
l’avesse mai amata, tanto da spingerlo a rifugiarsi fra le braccia
di un’altra ?
43.
“Siete
due pazzi.”
“Finnigan, risparmia il fiato per quelli a cui
interessa il tuo parere.”
“Come potete pensare che io riesca a
coprirvi le spalle mentre stanate un ex carcerato a Diagon Alley? Non
vi sembra un’operazione masochistica? Guardate che ho scritto in
fronte nuova recluta!”
“Se vuoi saperla tutta, Finnigan, avete
anche un incantesimo appioppato sul coppino: seguono ogni vostra
mossa, in Accademia. Non siete mai soli. Capisci, quindi, quanto sia
importante il tuo intervento sotto copertura? Sei il nostro
diversivo.”
“Non
mi sembra di avere molte alternative!”
“Perché non ce ne
sono, lo vuoi capire?” la ragazza, sporgendosi sul tavolino dal
divano in cui era seduta, lo rimbrottò facendolo sentire come un
bambino fra gli adulti. “Chi vuoi essere veramente? Chieditelo,
Finnigan. Sono domande importanti, nel caso in cui tu non te ne sia
ancora accorto." L'ardore lasciò trasparire quanto le sue
convinzioni fossero la cosa più importante alla quale fosse riuscita
ad aggrapparsi, pensò Seamus. Lei viveva per servirle. La sua
animosità smosse qualcosa, in fondo al petto, facendolo ruggire:
certo che ci aveva pensato, a chi voleva essere, a che posto
prendere, quali ideali seguire. Aveva sacrificato tutto, per quel
dannato posto in Accademia. E adesso? Lei, in un impeto gli afferrò
il polso: "In questo mondo, il tempo è la misura più grande
che c’è dell’ingiustizia che regna fra le persone. Lo senti?
Tic, Tac, Tic? Non possiamo perdere tempo a vivere, mentre la feccia
striscia nel buio e fa i suoi danni! O preferisci fare la marionetta
nel teatrino per bambini che ti propinano in Accademia?”
Lei
sapeva quello che faceva. Seamus sentì l'elettricità scorrere fra
di loro, unirli in un qualche modo insperato, ma ancora era
tremendamente diffidente, soprattutto per lo sguardo vigile che li
scrutava dietro alla maschera dall'altro lato del tavolino. Lei
lasciò la presa, senza abbassare lo sguardo da quello di Seamus. Lo
stavano guardando, forse speranzosi. Guardavano lui. Lui che era
stato solo un ombra, fino a qualche giorno prima. Come era potuto
succedere? Come era diventato, improvvisamente, così interessante?
Così utile?
“Ribadisco, siete pazzi.” Seamus si mordicchiò
l’unghia del pollice. “Ma non mi tirerò indietro. Io voglio
esserci. Devo esserci.”
“Certo che devi esserci.” Soggiunse
il ragazzo, da dietro la maschera.
“Gli Auror sono troppo lenti.
Devono passare per un labirinto legale che intrappola e non perdona:
quand’è stata l’ultima volta che hai sentito la figlia di
Charity Burbage?” La voce di lei si ridusse a un sussurro.
Seamus
cominciò a tremare violentemente.
“Come fate… come fate a
sapere di lei?”
“Sappi solo questo: non si è ancora mosso
nessuno, del Ministero, per sbrogliare la faccenda. Quella ragazza è
orfana, senza giustizia dalla sua parte, senza amici, senza pezzi
grossi, la situazione rimarrà invariata. Lei non sa chi ha
assassinato sua madre! Forse non lo saprà mai. Follia. Non ti
pare?”
“Cosa sapete voi invece?”
Da dietro le maschere si
scambiarono uno sguardo piuttosto rapido. Seamus saettò da uno
all’altro, in attesa di una risposta.
“Abbiamo una traccia di
lei. Margaret Burbage.”
“Non voglio sapere dov’è. Non ve
l’ho chiesto. Io vi ho chiesto…”
“Te lo diciamo, in caso
tu voglia partecipare alla missione. Anche perché le piste che
stiamo seguendo ci portano esattamente nello stesso posto in cui
pensiamo si nascondano quei bastardi di Ghermidori: Diagon
Alley.”
“Cosa sapete di me e di lei?” Seamus impallidì
all’idea di essere stato spiato. Ma che razza di maghi erano quei
due?
“Oh, nulla. Abbiamo controllato gli annali di Hogwarts,
mentre facevamo ricerche per il caso Burbage e fra una cosa e l’altra
è risultato dai registri che tu frequentassi spesso quella casa
durante le vacanze scolastiche. Eravamo pronti, settimane fa, a
venire a interrogarti, ma ci sono stati dei contrattempi.”
“Ad
esempio?”
“Ad esempio il fatto che tu sia entrato in
Accademia. Ma soprattutto…”
Seamus incoraggiò il suo
interlocutore mascherato con un cenno di diniego, sollevando le
sopracciglia.
“Soprattutto abbiamo cominciato ad avere sospetti
su qualche recluta: sapevamo da tempo che c’erano degli
infiltrati.”
“Più di uno?!”
“Questo ancora non lo
possiamo dimostrare. E comunque, ribadisco, Finnigan: a te deve
interessare marginalmente. Considera questa esperienza sul campo come
una prova.”
“Aspettate un attimo: mi state proponendo una
collaborazione segreta? Del tutto clandestina? Sapete quanto sia
vietato dal regolamento dei Coulter dal 1676, ovvero vietatissimo,
collaborare con organizzazioni esterne e segrete in seno
all'Accademia? Mi cacceranno a pedate nel sedere, se mi
scoprono!”
“Tic Tac, Finnigan. Tu che campo scegli? Gli
ipocriti, gli inutili, gli egoisti... o i giusti?”
46.
Harry
si accasciò sul divano, in preda a mille preoccupazioni, nell’attesa
che Ginny uscisse dalla doccia. “Dovevano parlare”. Sicuramente,
pensò. Erano passati mesi dall’ultima volta che l’aveva vista.
Si era quasi dimenticato dei suoi tratti: quell’aria da dura che
non le si addiceva affatto, le sopracciglia contratte, gli occhi
seri. Difatti gli era crollata addosso piangendo, implorandolo di
perdonarla per non si sa quale crimine. E piangeva così tanto, che
Hermione, da dietro di loro, aveva raccolto le sue cose e se n’era
andata mimando a malapena un cenno di saluto, dimenticandosi di avere
ancora la bacchetta scheggiata nella borsa. Harry scosse la testa,
dispiaciuto; avrebbe sicuramente parlato a Olivander’s il lunedì
successivo, non poteva pensare di lasciarla in quella condizione.
Oltretutto, come sperava di aiutarlo a far scomparire quella voragine
rosacea dal suo collo, senza una bacchetta perfettamente in funzione?
Megan era passata a recuperare Rex per portarlo a casa sua, ora che
non era più in pericolo di vita. Harry occupava l'intero divano,
sfondato in più punti, assieme a quella busta di carta
dell'erboristeria. Innervosito da tutta quella scena di falsa
tranquillità, si allungò per prendere la pomata coprente che gli
aveva procurato Hermione. Ripensò bonariamente al loro litigio di
poco prima: lei si arrabbiava sempre moltissimo quando si sentiva
messa da parte. Una volta convinto Olivander's, avrebbe cercato un
modo per ringraziarla che non fosse il minimo indispensabile, come al
solito. Lei se lo meritava tutto. Sempre che non fosse già morto
entro lunedì nell’attesa che la sua ragazza uscisse dalla doccia.
Si alzò in un guizzo atletico, ormai era una molla grazie agli
allenamenti, entrò in bagno e si sedette sul coperchio del water,
tenendo in grembo l’accozzaglia di abiti puliti che lei vi aveva
lanciato malamente prima di gettarsi nella cabina.
“Avanti, che
cosa c’è. Parla, Ginny, oppure implodo.”
Era pronto a tutto.
Si sentiva pronto a tutto. Aveva in mente le ipotesi più
strampalate. Che avesse cominciato a frequentare un Medimago?
Sicuramente… quali altre erano le opzioni? O forse, forse si era
solo stancata di quella relazione a distanza, ormai inesistente.
Forse voleva solo sentirsi libera, come suggeriva Hermione. Non la
biasimava del tutto, anche se faticava ad accettare le sue ragioni. O
forse si sentiva solo in colpa di averlo lasciato solo per così
tanto tempo: aveva reso così facile, quasi inevitabile, la distanza
fra le loro menti. Quello era proprio colpa sua, e lei, prima o dopo,
avrebbe dovuto ammetterlo.
Sentì qualche singhiozzo impaurito
provenire da sotto il getto, ma il significato si perse nel rumore
dell’acqua. Harry chiuse gli occhi, concentrandosi, il vapore gli
aveva comunque sottratto il senso della vista.
Dal canto suo, la
ragazza continuava a mugugnare, come se si fosse aperta una diga
impossibile da controllare. Quando uscì, lui l’avvolse
nell’asciugamano, abbracciandola, cosa che la fece singhiozzare più
forte.
“Ho sbagliato tutto nella vita. Integralmente.
Tutto.”
“Ma certo che no, sei solo scossa. Cosa ti viene in
mente, di pensare queste sciocchezze? Forse devi riposare. Prendere
del tempo per pensare. È questo che mi stai chiedendo?”
Harry
drizzò le orecchie, pronto al peggio. Sollevò lo sguardo dolce
negli occhi di lei, gonfi di pianto. La teneva ancora stretta,
circondandola, strofinando di tanto in tanto tratti di pelle umida
con l’asciugamano.
“Non ho bisogno di tempo.” E Ginevra,
visibilmente più turbata, smise di piangere. “So quello che non va
bene. Lo so già.” Si sentì attraversato dai suoi occhi: lei non
lo stava veramente guardando. O comunque, pensava così rapidamente
da non riuscire a concentrarsi sul presente. Strinse la presa su di
lei, indeciso, incapace di fare altro.
“E allora, che cosa posso
fare io?”
Sempre quel tono rassicurante, con una punta di
insicurezza - la voce appena incrinata, terribilmente docile: Harry
rendeva tutto più doloroso, nella sua premura.
“Niente, Harry.
Tu non puoi più fare niente. Hai fatto anche troppo, per me.”
“Che
cosa stai dicendo? Sei impazzita?”
“Io… devo cambiare. Non
posso continuare così. Non sono… io e te…”
“Aspetta…”
Harry si allontanò come scottato. “Mi stai lasciando?”
La
sola idea lo punse e fece centro, come un insettino scaltro e
velenoso, disintegrando ogni certezza. Non aveva capito: pensava che
lei volesse risolvere. Chiarire per perdonarsi, farsi perdonare.
Andare avanti, insieme…
“Non sono felice.”
“Non sei
felice.”
“Non lo sono.”
“Che cosa posso fare per
renderti felice?”
Lo sbruffo di impazienza a stento trattenuto
fece divampare la rabbia di Harry come fuoco nella sterpaglia. Lei
non se ne accorse, o forse, in fondo, non le interessava:
“Tu
non puoi fare niente. Io devo. Io e io sola. Devo smettere di
delegare agli altri la mia incapacità di vivere. Ho deciso… ho
deciso che andrò a stare in Collegio per un po’. Al San Mungo.
Sarà difficile pagarmi l’affitto, ma con la borsa di studio e un
lavoretto dovrei cavarmela. I miei lo accetteranno. Ormai il tempo in
Brasile è agli sgoccioli, mi farò sostituire e rimborserò il
premio che avevo ricevuto per andare là.” Lo disse tutto d’un
fiato, così all’improvviso regnò il silenzio, e si sentì
costretta a gettare l’asciugamano sull’anta della cabina doccia
per cominciare poi rapidamente a vestirsi, sotto lo sguardo
sbigottito di Harry, che cominciava a malapena a capire
l’antifona.
“Mi stai lasciando perché devi essere felice…
da sola?”
Scoppiò a ridere, sconcertato, ma ritrovò quasi
subito una smorfia grave.
“Mi dispiace, Harry.” Il suo sguardo
limpido era troppo risoluto per non essere preso sul serio. Lei,
quella maledetta donna fiammeggiante, in mutande nel suo bagno del
suo appartamento, gli stava dicendo addio in una maniera frettolosa e
ridicola, senza un briciolo di pudore, vergogna, senza… senza
neanche l’ombra di un dubbio.
“Tu non puoi essere seria. Mi
stai prendendo in giro.”
“Harry, non voglio più farti del
male, né farti perdere tempo. C’è sicuramente una persona, in
questo mondo, che ti sta cercando disperatamente, e io le sto
impedendo di raggiungerti. Io con il mio egoismo, le mie paure, la
mia incapacità di spiccare il volo. Mi sono adagiata fin troppo sul
tuo appoggio. Io… mi sento di dire che sono una persona orribile:
ma tu ti sei reso un’ottima stampella da solo. Ecco che cosa mi hai
dato: sicurezza, calma, tutte cose che non avresti mai dovuto
darmi.”
“E che cosa avrei dovuto fare, di grazia? Farti vivere
in bilico? Se vuoi domani ti lascio io, e poi ricominciamo d’accapo,
visto che la cosa sembra divertirti tanto. Hai bisogno del brivido?
Non ti è bastato vivere per settimane nella giungla? Quando ti
stuferai di vagabondare da sola?”
“Non è questo che stavo
dicendo! Tu travisi le mie parole!”
Harry non mentiva, ma la
verità era dolorosa: è così difficile, accettare le proprie
insicurezze, i propri errori.
“Potevamo partire insieme.
Potevamo andare in Irlanda, c’è un’ottima Accademia Auror e lo
stesso vale per il tuo corso di Medicina. Ma no, tu hai deciso che
girare il mondo da sola era un’ottima maniera per recuperare il
tempo perso durante la guerra! Ciao ciao Harry, adesso tocca a
me!”
Ginny gli afferrò un braccio e lo strinse con forza, per
fargli male.
“Tu non ti devi permettere di dire queste cose!”
Si avvicinò, tremante, mentre Harry indietreggiava, scuotendo la
testa, ormai distante anni luce da lei “Hai idea di che cosa
significasse per me restare a Hogwarts, mentre tu e mio fratello
siete partiti a cercare gli Horcrux? Non credi di essere un po’
troppo duro, con una persona che ha perso tutto e ha dovuto cercare
di resistere
da sola, in qualsiasi maniera possibile? Che cosa ti aspettavi, una
mogliettina pronta a riverire l’eroe del multiverso? Io ho dovuto
imparare a stare bene senza di te! E tu, tu non hai mai imparato a
stare bene senza di me! Lo vedi, che non funzioniamo, si o no?”
“Se
volessi, ma se veramente lo volessi, Ginevra, potremmo recuperare
tutto. Ma tu non vuoi. Se non hai altro da aggiungere, per me il
discorso si chiude qui.”
Ginny ci pensò, perché sapeva bene
che non poteva finire così: era troppo semplice. Aveva così tanto,
ancora, da dire. Ricordò il consiglio di Luna: la verità, le bugie.
La teoria della relatività, applicata ai sentimenti. Presa dal
turbinare della mente, non si accorse di quanto tempo ci aveva messo.
Harry era scomparso sbattendo la porta così forte da spostare lo
specchio, rompendolo in frantumi. Aveva lasciato cadere tutti gli
abiti di lei che aveva raccolto con affetto prima della
discussione.
Si sentì spossata, terrorizzata: adesso era
veramente sola. Proprio
come voleva lei,
aggiunse una voce dell'inconscio, terribilmente odiosa. Sentì un
rumoreggiare confuso, ma violento, da dietro la porta. Senza aprirla,
sapeva esattamente cosa avrebbe visto: Harry che sfasciava ogni cosa
attorno a sé in una furia distruttiva. Ma un grido le fece
spalancare la porta prima che potesse soffermarsi ulteriormente:
Harry era a terra, in ginocchio, si teneva la testa fra le
mani.
"Contatta Hermione, ti prego. E poi vai via."
La
rabbia nella voce di Harry le spinse un nodo in gola.
"Sbrigati,
non resisterò per molto tempo." biascicò, strizzando le
palpebre da dietro gli occhiali.
"Stai male, Harry?" Si
avvicinò a lui, cominciò a pungolarlo con millemila mosse da
Medimago, cosa che non ebbe altro effetto se non innervosirlo
ulteriormente. "Si può sapere che cos'hai?"
Lo stato di
Harry, però, si aggravò talmente in fretta da costringerla a
rivedere le priorità: corse al telefono fisso di Harry e cercò con
le dita tremanti, schiacciando più tasti insieme, il numero salvato
in rubrica. "Herm, Harry sta male, molto male, mi ha detto che
tu sai che cos'ha. C'è qualcosa che io possa fare, nel
frattempo?".
Appena mezzo minuto dopo, il rumore della
Materializzazione di Hermione li raggiunse dal corridoio dell'uscio.
Andò ad aprirle, ed ebbero a malapena il tempo di registrare il
minimo indispensabile una sull'altra, prima di lanciarsi verso il
ragazzo in preda alle convulsioni.
Hermione stava
piangendo.
Ginevra stava piangendo.
Ora anche Harry.
"Era
una crisi parziale complessa." Esclamò Ginny. "Herm, da
quando Harry è epilettico?"
Lei non rispose. Scostò appena
il bavero per vedere la voglia, pastrugnata malissimo con il suo
unguento, allargarsi a vista fino alla clavicola. Ginevra non capiva.
La guardava e scuoteva il capo, disperata. All'improvviso si alzò,
appellò il minimo indispensabile per rivestirsi e andare via da lì.
Hermione sfoderò la bacchetta, ma prima di cominciare gli
incantesimi su Harry, le lanciò un ultimo sguardo
interrogativo.
"Non posso Hermione, non posso più. Mi
dispiace, devo andare. Conto su di te. Prenditi cura di Harry."