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Autore: ChocoCat    01/04/2017    3 recensioni
REVISIONE IN CORSO
"Hermione raccolse la borsetta di perline dalla sedia accanto alla propria e si avviò verso il piano di sopra per entrare nella prima camera che avesse trovato. Si ritrovò davanti al letto sfatto di Ron; sul davanzale della finestra c’era una boccia di vetro vuota, il vecchio Deluminatore e la sua bacchetta. I ricordi la sommersero; in quella stanza, strategie, ansie, affetti, paure, e ancora gioie, disappunto, e amori senza fine…"
Seguiamo le vicende di una Hermione che sta per cambiare definitivamente la rotta della propria vita (e se non lo sapete ancora, sappiate che non andrà come previsto!), un vivace Ronald pronto a tutto - anche a un'avventura nella jungla nera in mezzo ai ragni-, una Ginevra alle prese con il vaiolo magico brasiliano e un passato pronto a ribollirle contro, un Seamus con il suo più grande sogno inconfessato, ed infine... Harry, che dovrebbe avere la mente vuota e non sentire mal di testa da un bel po', ma è risaputo... nella vita... non si sa mai cosa ci aspetta!
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ginny Weasley, Il trio protagonista, Luna Lovegood, Michael Corner, Seamus Finnigan | Coppie: Harry/Hermione
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Keepsake Tales'
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Dal capitolo precedente:

"Noi dobbiamo restare discreti per qualche tempo, non vogliamo destare sospetti in qualche mente particolarmente debole e bacata, e mi riferisco ai tuoi amici ficcanaso. Fai in modo che non succeda, e tutto andrà come si deve. Ci aggiorniamo non appena avrai nuove notizie.”
“Come vi contatto?”
“Ti contatteremo noi.”
“Alla prossima.”
Seamus si calò il cappuccio e uscì dal vicolo buio. Apprezzò la luce giallastra dei lampioni, un po’ meno il vento che lo investì. Quella sera sarebbe tornato a casa a piedi: avevano convenuto così, e poi aveva molte cose a cui pensare.”



42.

Ron sedeva nella poltrona del piccolo salotto di Hermione. Si rigirava stancamente una scatolina fra le mani: tanti sacrifici per niente. L’apertura a scatto, che lui fece scricchiolare ripetutamente fino al tintinnare delle chiavi sulla porta, lasciava intravedere un anello magro di argento purissimo, dotato di un diamante circondato da una corona di minuscoli zirconi.
Hermione entrò e appoggiò sul tavolo una busta di tela piena di bottigliette e barattoli di vetro da erborista che richiamarono definitivamente Ron al momento presente.
Era venuto per chiarire: si fronteggiarono.
Hermione abbassò lo sguardo, stanca. Si avvicinò e gli accarezzò i capelli, spazzandoli ai lati, sulle tempie, con un sospiro così pesante da far vacillare la determinazione di Ron.
Si capirono.
Non ci fu bisogno di parlare.
Ron fece scomparire in tasca la scatolina con un gesto tanto indifferente da eludere l’attenzione della ragazza. Hermione si slegò i capelli e appoggiò il fermaglio sul tavolo; cominciò a svestirsi per indossare qualcosa di più comodo. Si tolse i piccoli orecchini che portava e si allontanò, andando nel loculo che era la sua camera da letto. Era ormai in intimo, con la sola canottiera morbida a coprire le sue timide forme. Si lasciò sfuggire un altro sospiro. Che cosa doveva fare? Da dove cominciare? Perché doveva essere sempre tutto così complesso, così pesante? Non aveva voglia di litigare. E nemmeno Ron sembrava averne voglia. Come l'aveva guardata, qualche istante prima... la fece rabbrividre e scuotere vivamente la testa. C'era tanta colpevolezza nel suo sguardo da farle pensare al peggio. Eppure, i suoi occhi grigio-azzurri l'avevano rimirata per l'ennesima volta come se fosse un bellissimo fiore sbocciato per caso nel proprio giardino mal curato. Nessun altro l'aveva mai guardata in quel modo. Era di questo che si era innamorata? Dell'impressione di essere amata? Fisicamente Ronald era un bel ragazzo. La risolutezza e gli anni avevano dato un senso a quelle sue ganciotte morbide. Era attraente, non fosse che per il suo aspetto fisico. Ma era anche sempre stato uno da prima linea. Volente o nolente: anche nei momenti peggiori, avevano combattuto fianco a fianco: come non apprezzare il suo coraggio? L'unico suo limite, in senso stretto, era il legame profondo che lo aveva sempre legato alla sua famiglia. Non era il massimo, per un suicidario alla ricerca degli Horcrux. Non aveva niente che non andava. Non si soffermò a pensare ai suoi difetti, perché dopotutto, ognuno ne ha una bella collezione personale, e i suoi di certo non erano da meno. Il gioco era tutto lì: far combaciare gli sfregi dell'anima. Ci avevano provato, ma provato davvero. Sentiva di aver veramente provato a dargli tutta se stessa; forse non sempre, magari solo in qualche momento speciale, in quelle giornate difficili da dimenticare in cui ci si avvicina tanto gli uni agli altri da sentirsi una cosa sola. E lui, di certo, di più non avrebbe potuto darle. Lavorava e studiava, l'aveva sempre rispettata, tenuta in considerazione, aspettata con pazienza, mai dimenticata del tutto nonostante le distanze o le difficoltà, sia quelle intromessesi man mano nello srotolarsi del filo della vita, sia quelle che lei stessa si era vista erigere a mo' di barriera. Lui non aveva niente che non andava. Semplicemente, non doveva essere suo. Ricordava ogni momento in cui si era sentita vicina a lui, e non si raccapezzava dei pezzi di puzzle sbagliati che aveva, ad oggi, fra le mani. Le era piaciuto far parte della sua famiglia, stringere sua sorella e sentire in fondo al cuore di essere legata a lei dal loro rapporto. Le era piaciuto frequentare quel ragazzo timido e impacciato, che non sapeva vendersi bene, ma che non esitava mai nel dire quello che pensava, e anche con un certo ardore. Anche la forma di cliché in cui era caduta vittima del suo cuore, qualche anno prima: l'amicizia che si tramuta in qualche cosa di più intangibile e inspiegabilmente più potente e più affascinante. Era stato bello.
E ora non lo era più. C'era solo lei, nel suo mondo. Sola, abbandonata perfino da se stessa. Un'infanzia regalata agli altri, e l'esistenza stessa così superficiale che negli ultimi anni le era sfuggita di mano e l'aveva lasciata con un pugno di mosche. Perso Ronald, che cosa le rimaneva per stringere i denti, andare avanti, ancora e ancora e ancora? Non si rendeva conto di quanto fossero malati i suoi pensieri, turbinosi, ricorrenti, malati e impietosi. Forse biasimava Ronald, perché lui era riuscito ad amare quell'essere che lei non era in grado di apprezzare: se stessa.
Era così stanca di tutto quanto che accarezzò intimamente l’idea di un riposo eterno.
Sobbalzò appena quando, inaspettatamente, si sentì abbracciare da dietro. Ron la cullò qualche istante, e lei lo lasciò fare. Sentiva dolore, dolore e fastidio, e nostalgia, e un indefinito moto di affetto. Quando le mani di lui scesero sui suoi fianchi, capì. Capì dal modo inequivocabile in cui si mossero, con una certa dose di determinazione, di virilità, che c’era un non-sapeva-che di nuovo, così come capì che non era un buon segno.
Eppure lo accolse, forse sentendosi veramente coinvolta per la prima volta in tutti quegli anni. Coinvolta, perché quando si percepisce l’inizio della fine, riesce più facile donarsi, dedicarsi, lasciarsi andare. Ron si sedette sul letto e lei si accovacciò su di lui per stringerlo al petto. Ron rispose con ardore a ogni suo movimento: guidava lei, come sempre, eppure era così diverso. Ron la baciò in ritorno, sgomento, e sentì il trasporto che ci metteva lacerargli il cuore definitivamente. Hermione gli stava dando tutto, a cuore aperto, senza una remora, ignorando gli abiti sconvolti, i segni sulla sua pelle - errori di scalpello da parte di una qualche dilettante sulla sua pelle marmorea - e quel suo nuovo odore dolciastro. Hermione lo stava amando, tutto, dalla testa ai piedi, da quella sua nuova pelle alle più nere profondità in cui pensava di essersi ormai perso.
Era troppo, troppo per lui. Troppo per i suoi sensi di colpa. Il suo cuore Grifondoro ruggiva sotto alle stoccate di una battaglia interiore.
Successe proprio così: fecero l’amore, forse per la prima volta. Non riuscirono a concentrarsi sul tempo, persero la cognizione, la sensazione predominante era quella di stare per essere schiacciati fra due muri.
Ron le baciò ogni parte del collo, e lei non smise di accarezzargli il volto. Si stavano salutando. A modo loro, come potevano, come riuscivano: senza urlare, senza odiarsi, senza riuscire a spiegarsi.

Hermione infilò la testa nella canottiera, e poi in una maglia con il collo alto, sentiva terribilmente freddo. Si alzò per recuperare gli altri indumenti precedentemente scalciati in fondo al letto.
“La tua voglia è scomparsa.”
“Scusa?”
Si voltò, guardando Ron ancora nudo, vestito delle sole occhiaie e di una serie di ematomi di cui lei non era l’autrice. Il nulla. Un silenzioso boato in fondo alla gola. Non si chiese nemmeno di chi potessero essere. Di chi fosse Ron, adesso. Forse, per la prima volta, Ron era di Ron e nessuno se ne stava approfittando impropriamente.
“Sulla natica destra. Avevi una voglia. Non c’è più.”
“Non so di cosa tu stia parlando.”
Si affrettò a infilare l’intimo. Era distrutta. Voleva dormire, dormire e non svegliarsi più.
“Tornerò a recuperare le mie cose, per adesso non parliamone con gli altri. Non voglio impensierire i miei.”
Ron esitò qualche istante sulla porta, finendo di chiudersi i pantaloni con la cintura. Le scoccò un’ultima occhiata: lei si era seduta al centro del letto, a gambe incrociate, rinchiusa nel suo stesso abbraccio, come a proteggersi. Una volta vestito, semplicemente uscì, chiudendosi definitivamente la casa di Hermione alle spalle, e si smaterializzò.
Non c’era stato bisogno di dirsi addio.
Hermione avrebbe tanto voluto essere un’entità unicellulare flagellata, come quelle che aveva studiato aprendo qualche libro di biologia Babbano, per non ricordare di aver visto le tracce di un’altra su quello che era il suo fidanzato. Ormai non più. Era finita. Non poteva crederci. Non pensava che sarebbe successo così in sordina: aveva sempre saputo, però, che sarebbe successo.
Ma come poteva esserci tutto quel silenzio attorno a lei? Lentamente cominciò a piangere, e il rimbombo dei suoi singhiozzi finì per chiamare Grattastinchi, che si acciambellò sulle sue gambe. Le lacrime rotolarono sulle guance, caddero sul pelo del gatto e rotolarono nuovamente fino alle coperte. Come era possibile non odiarlo più?
Perché lui non aveva tentato di spiegarsi?
“Hermione, ho fatto un errore, vorrei aggiustare tutto, continuare a stare con te.”
Sarebbe stato molto più normale.
Chi può essere così malato da dire addio facendo l’amore?
Chi può essere così stolto da non tentare nemmeno di parlare, di giustificarsi?
Lui sapeva che lei avrebbe visto tutto. Le scie dei baci di un’altra strega. L’impronta forte, lontana, non più sua, che costei aveva assestato alle dita di Ronald.
Lei sapeva che lui
sapeva.
Ma sapeva anche che non l’avrebbe ferita? Aveva agito in scienza e coscienza?
E perché lei non ne soffriva? Che razza di stregoneria. Perché era una liberazione, pensare di non condividere più niente, dopo aver condiviso tanto?
Perché la sofferenza derivava esclusivamente dall’idea di fallimento totale che le pervase l’anima?
“Oh, Grattastinchi. Mi ha tradita, mi ha tradita e a me non importava nulla!” Lo sollevò da dietro le scapole, portando il muso all’altezza del viso “Nulla… cosa ho che non va, dimmelo. Dimmelo tu, tu lo sai cosa non va in me. Dimmi che cosa ho fatto di male.”
Il gatto soffiò infastidito.
“Hai ragione. È colpa mia. Non mi basta mai quello che ho. Non sono…
non sono capace di essere felice.”
Provò disgusto per se stessa. Hermione Granger odiava Hermione Granger. Si sentiva la Madame Bovary del mondo magico. Ricordava quando aveva letto quel libro:
il più mediocre libertino ha sognato sultane; ogni notaio si porta dentro le macerie di un poeta.
Cosa non andava in lei, per essere riuscita a odiare l’unico uomo che l’avesse mai amata, tanto da spingerlo a rifugiarsi fra le braccia di un’altra ?




43.
“Siete due pazzi.”
“Finnigan, risparmia il fiato per quelli a cui interessa il tuo parere.”
“Come potete pensare che io riesca a coprirvi le spalle mentre stanate un ex carcerato a Diagon Alley? Non vi sembra un’operazione masochistica? Guardate che ho scritto in fronte nuova recluta!”
“Se vuoi saperla tutta, Finnigan, avete anche un incantesimo appioppato sul coppino: seguono ogni vostra mossa, in Accademia. Non siete mai soli. Capisci, quindi, quanto sia importante il tuo intervento sotto copertura? Sei il nostro
diversivo.”
“Non mi sembra di avere molte alternative!”
“Perché non ce ne sono, lo vuoi capire?” la ragazza, sporgendosi sul tavolino dal divano in cui era seduta, lo rimbrottò facendolo sentire come un bambino fra gli adulti. “Chi vuoi essere veramente? Chieditelo, Finnigan. Sono domande importanti, nel caso in cui tu non te ne sia ancora accorto." L'ardore lasciò trasparire quanto le sue convinzioni fossero la cosa più importante alla quale fosse riuscita ad aggrapparsi, pensò Seamus. Lei viveva per servirle. La sua animosità smosse qualcosa, in fondo al petto, facendolo ruggire: certo che ci aveva pensato, a chi voleva essere, a che posto prendere, quali ideali seguire. Aveva sacrificato tutto, per quel dannato posto in Accademia. E adesso? Lei, in un impeto gli afferrò il polso: "In questo mondo, il tempo è la misura più grande che c’è dell’ingiustizia che regna fra le persone. Lo senti? Tic, Tac, Tic? Non possiamo perdere tempo a vivere, mentre la feccia striscia nel buio e fa i suoi danni! O preferisci fare la marionetta nel teatrino per bambini che ti propinano in Accademia?”
Lei sapeva quello che faceva. Seamus sentì l'elettricità scorrere fra di loro, unirli in un qualche modo insperato, ma ancora era tremendamente diffidente, soprattutto per lo sguardo vigile che li scrutava dietro alla maschera dall'altro lato del tavolino. Lei lasciò la presa, senza abbassare lo sguardo da quello di Seamus. Lo stavano guardando, forse speranzosi. Guardavano lui. Lui che era stato solo un ombra, fino a qualche giorno prima. Come era potuto succedere? Come era diventato, improvvisamente, così
interessante? Così utile?
“Ribadisco, siete pazzi.” Seamus si mordicchiò l’unghia del pollice. “Ma non mi tirerò indietro. Io voglio esserci. Devo esserci.”
“Certo che devi esserci.” Soggiunse il ragazzo, da dietro la maschera.
“Gli Auror sono troppo lenti. Devono passare per un labirinto legale che intrappola e non perdona: quand’è stata l’ultima volta che hai sentito la figlia di Charity Burbage?” La voce di lei si ridusse a un sussurro.
Seamus cominciò a tremare violentemente.
“Come fate… come fate a sapere di lei?”
“Sappi solo questo: non si è ancora mosso nessuno, del Ministero, per sbrogliare la faccenda. Quella ragazza è orfana, senza giustizia dalla sua parte, senza amici, senza pezzi grossi, la situazione rimarrà invariata. Lei non sa chi ha assassinato sua madre! Forse non lo saprà mai. Follia. Non ti pare?”
“Cosa sapete voi invece?”
Da dietro le maschere si scambiarono uno sguardo piuttosto rapido. Seamus saettò da uno all’altro, in attesa di una risposta.
“Abbiamo una traccia di lei. Margaret Burbage.”
“Non voglio sapere dov’è. Non ve l’ho chiesto. Io vi ho chiesto…”
“Te lo diciamo, in caso tu voglia partecipare alla missione. Anche perché le piste che stiamo seguendo ci portano esattamente nello stesso posto in cui pensiamo si nascondano quei bastardi di Ghermidori: Diagon Alley.”
“Cosa sapete di me e di lei?” Seamus impallidì all’idea di essere stato spiato. Ma che razza di maghi erano quei due?
“Oh, nulla. Abbiamo controllato gli annali di Hogwarts, mentre facevamo ricerche per il caso Burbage e fra una cosa e l’altra è risultato dai registri che tu frequentassi spesso quella casa durante le vacanze scolastiche. Eravamo pronti, settimane fa, a venire a interrogarti, ma ci sono stati dei contrattempi.”
“Ad esempio?”
“Ad esempio il fatto che tu sia entrato in Accademia. Ma soprattutto…”
Seamus incoraggiò il suo interlocutore mascherato con un cenno di diniego, sollevando le sopracciglia.
“Soprattutto abbiamo cominciato ad avere sospetti su qualche recluta: sapevamo da tempo che c’erano degli infiltrati.”
“Più di uno?!”
“Questo ancora non lo possiamo dimostrare. E comunque, ribadisco, Finnigan: a te deve interessare marginalmente. Considera questa esperienza sul campo come una prova.”
“Aspettate un attimo: mi state proponendo una collaborazione segreta? Del tutto clandestina? Sapete quanto sia vietato dal regolamento dei Coulter dal 1676, ovvero vietatissimo, collaborare con organizzazioni esterne e segrete in seno all'Accademia? Mi cacceranno a pedate nel sedere, se mi scoprono!”
“Tic Tac, Finnigan. Tu che campo scegli? Gli ipocriti, gli inutili, gli egoisti... o i giusti?”



46.
Harry si accasciò sul divano, in preda a mille preoccupazioni, nell’attesa che Ginny uscisse dalla doccia. “Dovevano parlare”.
Sicuramente, pensò. Erano passati mesi dall’ultima volta che l’aveva vista. Si era quasi dimenticato dei suoi tratti: quell’aria da dura che non le si addiceva affatto, le sopracciglia contratte, gli occhi seri. Difatti gli era crollata addosso piangendo, implorandolo di perdonarla per non si sa quale crimine. E piangeva così tanto, che Hermione, da dietro di loro, aveva raccolto le sue cose e se n’era andata mimando a malapena un cenno di saluto, dimenticandosi di avere ancora la bacchetta scheggiata nella borsa. Harry scosse la testa, dispiaciuto; avrebbe sicuramente parlato a Olivander’s il lunedì successivo, non poteva pensare di lasciarla in quella condizione. Oltretutto, come sperava di aiutarlo a far scomparire quella voragine rosacea dal suo collo, senza una bacchetta perfettamente in funzione? Megan era passata a recuperare Rex per portarlo a casa sua, ora che non era più in pericolo di vita. Harry occupava l'intero divano, sfondato in più punti, assieme a quella busta di carta dell'erboristeria. Innervosito da tutta quella scena di falsa tranquillità, si allungò per prendere la pomata coprente che gli aveva procurato Hermione. Ripensò bonariamente al loro litigio di poco prima: lei si arrabbiava sempre moltissimo quando si sentiva messa da parte. Una volta convinto Olivander's, avrebbe cercato un modo per ringraziarla che non fosse il minimo indispensabile, come al solito. Lei se lo meritava tutto. Sempre che non fosse già morto entro lunedì nell’attesa che la sua ragazza uscisse dalla doccia. Si alzò in un guizzo atletico, ormai era una molla grazie agli allenamenti, entrò in bagno e si sedette sul coperchio del water, tenendo in grembo l’accozzaglia di abiti puliti che lei vi aveva lanciato malamente prima di gettarsi nella cabina.
“Avanti, che cosa c’è. Parla, Ginny, oppure implodo.”
Era pronto a tutto. Si sentiva pronto a tutto. Aveva in mente le ipotesi più strampalate. Che avesse cominciato a frequentare un Medimago? Sicuramente… quali altre erano le opzioni? O forse, forse si era solo stancata di quella relazione a distanza, ormai inesistente. Forse voleva solo sentirsi libera, come suggeriva Hermione. Non la biasimava del tutto, anche se faticava ad accettare le sue ragioni. O forse si sentiva solo in colpa di averlo lasciato solo per così tanto tempo: aveva reso così facile, quasi inevitabile, la distanza fra le loro menti. Quello era proprio colpa sua, e lei, prima o dopo, avrebbe dovuto ammetterlo.
Sentì qualche singhiozzo impaurito provenire da sotto il getto, ma il significato si perse nel rumore dell’acqua. Harry chiuse gli occhi, concentrandosi, il vapore gli aveva comunque sottratto il senso della vista.
Dal canto suo, la ragazza continuava a mugugnare, come se si fosse aperta una diga impossibile da controllare. Quando uscì, lui l’avvolse nell’asciugamano, abbracciandola, cosa che la fece singhiozzare più forte.
“Ho sbagliato tutto nella vita. Integralmente. Tutto.”
“Ma certo che no, sei solo scossa. Cosa ti viene in mente, di pensare queste sciocchezze? Forse devi riposare. Prendere del tempo per pensare. È questo che mi stai chiedendo?”
Harry drizzò le orecchie, pronto al peggio. Sollevò lo sguardo dolce negli occhi di lei, gonfi di pianto. La teneva ancora stretta, circondandola, strofinando di tanto in tanto tratti di pelle umida con l’asciugamano.
“Non ho bisogno di tempo.” E Ginevra, visibilmente più turbata, smise di piangere. “So quello che non va bene. Lo so già.” Si sentì attraversato dai suoi occhi: lei non lo stava veramente guardando. O comunque, pensava così rapidamente da non riuscire a concentrarsi sul presente. Strinse la presa su di lei, indeciso, incapace di fare altro.
“E allora, che cosa posso fare io?”
Sempre quel tono rassicurante, con una punta di insicurezza - la voce appena incrinata, terribilmente docile: Harry rendeva tutto più doloroso, nella sua premura.
“Niente, Harry. Tu non puoi più fare niente. Hai fatto anche troppo, per me.”
“Che cosa stai dicendo? Sei impazzita?”
“Io… devo cambiare. Non posso continuare così. Non sono… io e te…”
“Aspetta…” Harry si allontanò come scottato. “Mi stai lasciando?”
La sola idea lo punse e fece centro, come un insettino scaltro e velenoso, disintegrando ogni certezza. Non aveva capito: pensava che lei volesse risolvere. Chiarire per perdonarsi, farsi perdonare. Andare avanti, insieme…
“Non sono felice.”
“Non sei felice.”
“Non lo sono.”
“Che cosa posso fare per renderti felice?”
Lo sbruffo di impazienza a stento trattenuto fece divampare la rabbia di Harry come fuoco nella sterpaglia. Lei non se ne accorse, o forse, in fondo, non le interessava:
“Tu non puoi fare niente. Io devo. Io e io sola. Devo smettere di delegare agli altri la mia incapacità di vivere. Ho deciso… ho deciso che andrò a stare in Collegio per un po’. Al San Mungo. Sarà difficile pagarmi l’affitto, ma con la borsa di studio e un lavoretto dovrei cavarmela. I miei lo accetteranno. Ormai il tempo in Brasile è agli sgoccioli, mi farò sostituire e rimborserò il premio che avevo ricevuto per andare là.” Lo disse tutto d’un fiato, così all’improvviso regnò il silenzio, e si sentì costretta a gettare l’asciugamano sull’anta della cabina doccia per cominciare poi rapidamente a vestirsi, sotto lo sguardo sbigottito di Harry, che cominciava a malapena a capire l’antifona.
“Mi stai lasciando perché devi essere felice… da sola?”
Scoppiò a ridere, sconcertato, ma ritrovò quasi subito una smorfia grave.
“Mi dispiace, Harry.” Il suo sguardo limpido era troppo risoluto per non essere preso sul serio. Lei, quella maledetta donna fiammeggiante, in mutande nel suo bagno del suo appartamento, gli stava dicendo addio in una maniera frettolosa e ridicola, senza un briciolo di pudore, vergogna, senza… senza neanche l’ombra di un dubbio.
“Tu non puoi essere seria. Mi stai prendendo in giro.”
“Harry, non voglio più farti del male, né farti perdere tempo. C’è sicuramente una persona, in questo mondo, che ti sta cercando disperatamente, e io le sto impedendo di raggiungerti. Io con il mio egoismo, le mie paure, la mia incapacità di spiccare il volo. Mi sono adagiata fin troppo sul tuo appoggio. Io… mi sento di dire che sono una persona orribile: ma tu ti sei reso un’ottima stampella da solo. Ecco che cosa mi hai dato: sicurezza, calma, tutte cose che non avresti mai dovuto darmi.”
“E che cosa avrei dovuto fare, di grazia? Farti vivere in bilico? Se vuoi domani ti lascio io, e poi ricominciamo d’accapo, visto che la cosa sembra divertirti tanto. Hai bisogno del brivido? Non ti è bastato vivere per settimane nella giungla? Quando ti stuferai di vagabondare da sola?”
“Non è questo che stavo dicendo! Tu travisi le mie parole!”
Harry non mentiva, ma la verità era dolorosa: è così difficile, accettare le proprie insicurezze, i propri errori.
“Potevamo partire insieme. Potevamo andare in Irlanda, c’è un’ottima Accademia Auror e lo stesso vale per il tuo corso di Medicina. Ma no, tu hai deciso che girare il mondo da sola era un’ottima maniera per recuperare il tempo perso durante la guerra! Ciao ciao Harry, adesso tocca a me!”
Ginny gli afferrò un braccio e lo strinse con forza, per fargli male.
“Tu non ti devi permettere di dire queste cose!” Si avvicinò, tremante, mentre Harry indietreggiava, scuotendo la testa, ormai distante anni luce da lei “Hai idea di che cosa significasse per me restare a Hogwarts, mentre tu e mio fratello siete partiti a cercare gli Horcrux? Non credi di essere un po’ troppo duro, con una persona che ha perso tutto e ha dovuto cercare di
resistere da sola, in qualsiasi maniera possibile? Che cosa ti aspettavi, una mogliettina pronta a riverire l’eroe del multiverso? Io ho dovuto imparare a stare bene senza di te! E tu, tu non hai mai imparato a stare bene senza di me! Lo vedi, che non funzioniamo, si o no?”
“Se volessi, ma se veramente lo volessi, Ginevra, potremmo recuperare tutto. Ma tu non vuoi. Se non hai altro da aggiungere, per me il discorso si chiude qui.”
Ginny ci pensò, perché sapeva bene che non poteva finire così: era troppo semplice. Aveva così tanto, ancora, da dire. Ricordò il consiglio di Luna: la verità, le bugie. La teoria della relatività, applicata ai sentimenti. Presa dal turbinare della mente, non si accorse di quanto tempo ci aveva messo. Harry era scomparso sbattendo la porta così forte da spostare lo specchio, rompendolo in frantumi. Aveva lasciato cadere tutti gli abiti di lei che aveva raccolto con affetto prima della discussione.
Si sentì spossata, terrorizzata: adesso era veramente sola.
Proprio come voleva lei, aggiunse una voce dell'inconscio, terribilmente odiosa. Sentì un rumoreggiare confuso, ma violento, da dietro la porta. Senza aprirla, sapeva esattamente cosa avrebbe visto: Harry che sfasciava ogni cosa attorno a sé in una furia distruttiva. Ma un grido le fece spalancare la porta prima che potesse soffermarsi ulteriormente: Harry era a terra, in ginocchio, si teneva la testa fra le mani.
"Contatta Hermione, ti prego. E poi vai via."
La rabbia nella voce di Harry le spinse un nodo in gola.
"Sbrigati, non resisterò per molto tempo." biascicò, strizzando le palpebre da dietro gli occhiali.
"Stai male, Harry?" Si avvicinò a lui, cominciò a pungolarlo con millemila mosse da Medimago, cosa che non ebbe altro effetto se non innervosirlo ulteriormente. "Si può sapere che cos'hai?"
Lo stato di Harry, però, si aggravò talmente in fretta da costringerla a rivedere le priorità: corse al telefono fisso di Harry e cercò con le dita tremanti, schiacciando più tasti insieme, il numero salvato in rubrica. "Herm, Harry sta male, molto male, mi ha detto che tu sai che cos'ha. C'è qualcosa che io possa fare, nel frattempo?".
Appena mezzo minuto dopo, il rumore della Materializzazione di Hermione li raggiunse dal corridoio dell'uscio. Andò ad aprirle, ed ebbero a malapena il tempo di registrare il minimo indispensabile una sull'altra, prima di lanciarsi verso il ragazzo in preda alle convulsioni.
Hermione stava piangendo.
Ginevra stava piangendo.
Ora anche Harry.
"Era una crisi parziale complessa." Esclamò Ginny. "Herm, da quando Harry è epilettico?"
Lei non rispose. Scostò appena il bavero per vedere la voglia, pastrugnata malissimo con il suo unguento, allargarsi a vista fino alla clavicola. Ginevra non capiva. La guardava e scuoteva il capo, disperata. All'improvviso si alzò, appellò il minimo indispensabile per rivestirsi e andare via da lì. Hermione sfoderò la bacchetta, ma prima di cominciare gli incantesimi su Harry, le lanciò un ultimo sguardo interrogativo.
"Non posso Hermione, non posso più. Mi dispiace, devo andare. Conto su di te. Prenditi cura di Harry."




   
 
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