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Autore: Sharkie    17/04/2017    6 recensioni
(CLEXA Sci-fi!AU) E' una bella giornata quando l'ingegnere Reyes ed il Rettor Jaha entrano in un localino affollato per proporre alla neo dottorata in psico-criminologia Clarke Griffin di partecipare ad un progetto a dir poco singolare: studiare la reazione psicologica di un'agente delle Forze Speciali ad un particolare "dispositivo" impiegato per il suo addestramento. 
Non passerà molto tempo perchè Clarke capisca che la situazione è un tantinello più complicata di così.
Che cos'è questo dispositivo?
Chi è davvero la sua paziente e in cosa consiste l'addestramento?
E sopratutto, perchè, lei che è sempre stata così brava a leggere le persone, tutto a un tratto trova quella ragazza così dannatamente indecifrabile?
.................................
"Lei la ricordava bene quella sensazione.
Era stato doloroso, qualcuno avrebbe detto “come morire” ma è chiaro che nessuno al mondo ancora in grado di parlare ha davvero cognizione di quello che significa questa frase.
Forse solo lei avrebbe potuto dire qualcosa al riguardo, se solo avesse ricordato.. ricordato del prima.. 
Ma all'epoca non sapeva nemmeno di doversi sentire qualcuno.
All'epoca non sapeva niente."
Genere: Azione, Introspettivo, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Becca, Clarke Griffin, Lexa, Raven Reyes
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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[Angolo dell’Autrice]: io ci provo, a scrivere tutto di filato. Ci provo davvero.
Ma ogni giorno che passa è sempre più difficile non trovarti dietro l’angolo dei miei pensieri con i tuoi occhi strani, le pupille perennemente dilatate, così grandi che l’azzurro sembra quasi grigio.
Non appena spalmo la marmellata su un toast, ti vedo al mio fianco, mentre ci prepari il the.
Dio come sei alta.
Le tue dita lunghe e bianche che armeggiano col cucchiaino per tirare in fretta la bustina fuori dall’acqua “because it’s really strong”.
 
Ed è sempre più difficile scrivere una storia d’amore che abbia un senso, quando il mio cuore lo sento sfracassato in mille pezzi.
 
 
­­­­
 ___________________
 
 
 
Clarke spense il motore con un sospiro, appoggiando la testa sul volante.
La testa le esplodeva.
« Oddio signore… »
 
La sera prima aveva chiamato Raven al cellulare per chiederle se avesse concluso le modifiche ai tutori e quando poteva andare a ritirarli, dato che ne avrebbe avuto bisogno anche per i giorni seguenti.
L’ingegnera era rimasta sorpresa da quella chiamata, e ridendo le aveva chiesto se avesse intenzione di lavorare anche la domenica sera.
Clarke si era resa conto che forse aveva appena fatto la figura dell’asociale, tutta casa e lavoro, quindi aveva balbettato una qualche scusa sconnessa.
 
La verità era che negli ultimi anni aveva un po’ tralasciato quell’abitudine sociale di radunarsi con gli altri a divertirsi, facendo cose immature, condividendo storie buffe ed esperienze sconce.
Non era asociale, no, ma suo malgrado era maturata di botto al liceo, dopo… beh, dopo che erano successe quelle cose, una dietro l’altra.
Aveva assunto quell’aria da adulta malinconica e sofferente che molti suoi coetanei non sopportavano ed inevitabilmente aveva smesso di trovare piacevoli quei raduni, pur continuando ad andarci.
L’università era andata più o meno uguale. Aveva fatto amicizia, frequentava la compagnia del college, aveva trovato Finn e andava ai party delle confraternite.
Fu un bel periodo, era una delle studentesse più conosciute anche se non era tra le più amate.
Poco o male. Piacere agli altri non era mai stata tra le sue priorità.
 
Quando l’università era finita, i ragazzi si erano trasferiti o avevano iniziato a lavorare, lei in primis era ritornata nella sua città e si era buttata con tutta sé stessa nel suo lavoro, accantonando le “amicizie” di comodo, mettendo da parte i weekend per qualcosa che la soddisfaceva di più.
Tuttavia, quando Raven la invitò a raggiungerla, non provò il classico senso di fastidio che la attanagliava quando la invitavano a quelle scomodissime feste, in cui sapeva si sarebbe trovata a parlare con gente bigotta, tronfia o noiosa.
Si stupì non poco di sé stessa quando si sorprese a sorridere e accettare con piacere, si, allora a fra mezz’ora.
Il giorno dopo si sarebbe presentata da Lexa mezza rincoglionita dal sonno, probabilmente. Ma si fidava di Raven. Anche lei avrebbe dovuto alzarsi presto la mattina successiva, e la dottoressa Primeaid non sembrava una incline a perdonare che qualcuno in postumi da sbornia le rovinasse il lavoro.
Aveva voglia di scoprire qualcosa in più su quella ragazza. Era un personaggio così particolare, l’aveva colpita da subito con quelle sue credenziali scintillanti e quella personalità aperta. Inoltre era da sola a casa...
Insomma, si. L’idea le piaceva.
Alla fine della nottata, Clarke vomitava nel bagno e Raven le reggeva la fronte, ridendo a più non posso.
 
Clarke sorrise.
Era stata una bella serata, da come non le capitavano da anni. Raven le aveva presentato la compagnia.
 
« Dato che stiamo lavorando sulla stessa cosa, mi sembra giusto che tu li conosca! Avevo intenzione di organizzarti una serata la prossima settimana, ma già che ci siamo…» le aveva detto sfoggiando il suo sorriso scintillante.
Poi era passata alle presentazioni.
« Questo è Monty, il nostro piccolo fenomeno di elettro-informatica! Lui è il suo migliore amico, Jasper » disse indicando due ragazzi dall’aria simpatica.
« Come butta? » disse il secondo sorridendo, che indossava due enormi occhiali da aviatore e una felpa rattoppata, in pieno stile post-apocalittico.
« È una piaga, ma non possiamo fare a meno di portarcelo dietro. » commentò Raven, prima di passare agli altri.
« Hey! Reyes, ti ho sentito! » urlò Jasper, suscitando le risate di tutti.
La mora le passò un braccio sulle spalle e la trascinò via, per presentarle l’altra parte del gruppetto.
« Qui abbiamo i fratelli. Fanno da ponte tra il gruppo di giovani talenti della Primeaid e il gruppo armato del Comandante. Tecnicamente li ha presi la dottoressa, quindi… fanno parte anche loro dei “Delinquenti”. »
I due vicino al bancone si girarono insieme. Clarke riconobbe subito lui, quello alto con la faccia irritante che le aveva dato del filo da torcere per un intero semestre.
« Che nome di merda. » si lamentò la ragazza bassa che lo affiancava, mandando giù uno shottino.
« Loro due sono Bellamy e Octavia Blake. » proseguì Raven, senza badarle.
Octavia le fece un cenno di saluto con la testa.
« Tu sei quella che lavora con la psicopatica. Auguri. » disse tagliente, prima di girarsi e di ordinare un altro shot.
« Non ti preoccupare… »  Raven sussurrò nell’orecchio di Clarke  « …È esattamente come sembra, piccola e scontrosa. Ma dopo un po’ la “adorerai”… si fa per dire » concluse ridacchiando.
« Bell, tu non dici niente? Ti devo introdurre io? » chiese poi, rivolta al bellimbusto che le guardava in silenzio.
« Clarke prima-del-corso Griffin... Ma non mi dire. Avrei dovuto aspettarmelo di trovarti qui, prima o poi. » disse ingollando un sorso di birra. La sorella si girò a guardarlo stupita.
 
Clarke gli lanciò un’occhiata di sufficienza.
« Blake. »
Quei due ne avevano da raccontare. Ma forse quella serata non sarebbe stato il momento adatto per rivangare vecchie antipatie da corso dell’ultimo anno.
Anche perché la questione era un tantinello più complicata…
 
Raven li guardò con gli occhi sgranati per qualche secondo.
« Ok, a quanto pare le coincidenze capitano. E mi pare che questa sia un po’ scomoda, quindi passiamo avanti. » commentò prima di trascinarla via, salvandola dall’atmosfera strana che si era venuta a creare.
Le presentò alcuni altri agenti al servizio del Capitano che uscivano con loro, ragazzi più o meno tutti della loro età, che Clarke non avrebbe mai potuto immaginare con giubbotti antiproiettile e fucili d’assalto in mano.
Ci furono -fin troppi - nomi in sequenza. Lei era sempre stata un disastro con le presentazioni affrettate, quindi si limitò a sorridere e a stringere la mano a tutti a cui la introduceva Raven.
Ci avrebbe pensato poi. Dopotutto, non era nemmeno sicura di rivederli, in futuro…
 
Una fitta atroce.
« Opporc…»
La ragazza mugugnò qualcosa prima di sbattere ancora una volta la fronte contro le sue mani, strette attorno al volante.
Maledetta Raven. Maledetti giochini alcolici, e maledetta Octavia che l’aveva sfidata tutta la serata.
In realtà quella ragazzina aveva sfidato tutti, e diavolo, se riusciva a reggere. Per essere così piccola e magra, sembrava un miracolo che stesse in piedi dopo il primo giro.
E invece, Clarke scoprì più tardi, quella era difficile da mandare giù persino a cazzotti.
 
La psicologa avrebbe voluto potersi incazzare per come erano andate le cose, anche perché di lì a due minuti si sarebbe dovuta strascicare, cercando di non traballare più di tanto, nella enorme tenuta stra-sorvegliata da mille telecamere per iniziare la sua faticosa giornata a base di braccio di ferro psicologici e faticose scampagnate scandite a passo di cadenza.
Ma non poteva negare di essersi divertita parecchio, genuinamente, come non le accadeva da parecchio tempo.
Forse era merito della compagnia… o forse, semplicemente, era di nuovo pronta per vivere una vita serena, senza fantasmi a sussurrarle nelle orecchie.
 
Scese dalla macchina con un enorme sorriso stampato in faccia, senza preoccuparsi di sbattere la portiera più o meno forte. Aveva parcheggiato nello stesso punto della prima volta, quando era andata a discutere i dettagli del contratto con la dottoressa Primeaid, a pochi passi dall’ingresso.
Perché si, Lexa non sarebbe più fuggita, non l’avrebbe più scansata.
Le sembrava ancora incredibile, ma avevano un accordo.
 
Vide l’agente sul portico della casa, mentre si fasciava le nocche. Era uscita ad aspettarla, non appena aveva varcato il cancello col muso della sua Jeep.
Clarke cercò di mantenere tutto il suo contegno, anche se una volta iniziato a camminare il mondo aveva preso a girare vorticosamente e tenersi dritta era diventata una vera e propria sfida.
Arrivò al primo gradino, sotto lo sguardo vigile di Lexa, che la osservava senza dire una parola. Clarke si fermò, squadrando nervosamente l’altra.
Il sollievo di poco prima era svanito assieme a quel minimo senso di orientamento che aveva prima di scendere dall’auto. Già l’aver guidato fino a lì era stato un vero e proprio miracolo, per il mal di testa allucinante che le martellava le tempie.
Ora come ora, non era nemmeno più sicura che Lexa avrebbe rispettato il loro accordo.
La guardò come si fa con quei cani che non sai se ti stanno per rifilare un morso oppure no.
 
Lexa smise di arrotolare la fascia e scese qualche gradino.
« Ti devi cambiare? »
La voce arrivò alle orecchie di Clarke come un’eco lontana, rimbalzando tra suoni ovattati d’ambiente.
« Come..? »  chiese, stordita.
« Ti devi cambiare, o vieni così? Ti conviene mettere la tuta. » le disse Lexa, continuando a guardarla da capo a piedi, nella stessa solita maniera indecifrabile. I suoi occhi indugiavano attentamente sui vestiti di Clarke, poi tornavano a rivolgersi nei suoi, stringendosi.
Brivido freddo.
“ Ti spiacerebbe evitare di guardarmi a quel modo? ”
« Ah, si. Ce l’ho nel borsone. Ci metto un secondo. »
Clarke strinse forte la ringhiera per combattere un’altra fitta di mal di testa, e, scalando i gradini di legno, entrò in casa. Il primo giorno l’aveva studiata abbondantemente, perciò si diresse immediatamente nella stanza che - la dottoressa le aveva detto – era riservata agli ospiti. In quelle circostanze, le aveva detto Rebecca, l’avrebbe potuta usare lei come più le faceva più comodo.
Svuotò il borsone di alcune sue cose e le mise nell’armadio. La cameretta era carina e ben illuminata, e per la prima volta, sedendosi sul letto, inspirò a pieni polmoni l’odore di quella che poteva definire la sua “prima postazione di lavoro”.
Un po’ atipica, ma decisamente carina.
Aveva quasi perso tutte le speranze di metterci piede, prima della trovata dei tutori.
 
Dannazione.”
Un moto di nausea la costrinse ad alzarsi. La morbidezza del letto non era proprio la soluzione migliore in quelle circostanze. Sospirò di frustrazione per quel dolore che la perseguitava e mise il borsone sulla scrivania.
Sentì Lexa fuori dalla stanza andare ad accomodarsi sul divano. Con la coda dell’occhio, vide che si era stesa leggermente, poggiando la testa sul bracciolo e socchiudendo gli occhi.
“Allora anche lei riposa, ogni tanto” pensò sorridendo.
Clarke si alzò e iniziò a spogliarsi della maglietta, non con poco imbarazzo dato che sapeva che un paio di lenti almeno la stavano inquadrando.
Magari avrebbe potuto chiedere a Rebecca se avevano piazzato delle camere anche in bagno, ma in linea di massima si doveva abituare.
Era parte della ricerca e lei doveva comportarsi nella maniera più professionale possibile, senza contare che Lexa lo faceva ogni giorno...
 
Mentre si infilava la maglia termica, buttò di nuovo l’occhio fuori, verso la figura della ragazza che oramai sembrava essersi assopita.
Così inerme, sembrava quasi una bambina. Il solito broncio era sparito e le sopracciglia disegnavano un arco morbido che incorniciava due occhi grandi, dalle lunghe ciglia.
Sembravano fremere, sotto le palpebre chiuse.
La pelle rosea, le guance leggermente colorite, e la bocca rossa leggermente dischiusa che inspirava ed espirava lievemente.
Si, sembrava una bambina.
Con una stanza dei giochi piena di Kalashnikov, ma pur sempre una bimba.
 
Era strano come Lexa potesse cambiare da un secondo all’altro. Clarke aveva finito di vestirsi e si era appoggiata allo stipite della porta -altrimenti non avrebbe sperato di rimanere dritta-, pensando a quella volta sulle scale, quando aveva visto i suoi occhi verdi brillare minacciosi.
Era un’immagine che la tormentava spesso. Quando le avevano chiesto di lei, era stata la prima cosa che aveva chiamato alla mente. Le dita che tamburellavano lente, quel sopracciglio nervoso, il silenzio pesante.
Era stata guerra fredda da principio.
 
Ora quella stessa guerriera la stava aspettando sonnecchiando pigramente in salotto.
« Lexa. » 
La ragazza aprì gli occhi istantaneamente, senza perdere nemmeno un secondo a guardarsi intorno spaesata e si mise subito in piedi.
La ragazza le rivolse un’altra occhiata indagatrice, mentre prendeva l’iPod dal comodino, arrotolandoci intorno gli auricolari.
« Tutto bene? »
La domanda arrivò inaspettata, di colpo. Clarke boccheggiò un secondo, spiazzata, rivolgendo un’occhiata nervosa alla testa di cervo che torreggiava sopra di loro.
Dopo un secondo di incertezza, cacciò fuori un sorriso tirato
« Ho un po’ di mal di testa in effetti. »
« Mal di testa. » ripeté. « Vuoi un’aspirina? »  disse piano dirigendosi in bagno.
Clarke annuì. Nella fretta del mattino, quando si era svegliata in ritardo in un ammasso confuso di vestiti e lenzuola sfatte non si era minimamente fermata a pensare di prendere una medicina, aveva solo indossato i primi panni puliti che le era capitato di afferrare e aveva infilato il resto nel borsone che aveva parzialmente preparato la sera prima.
(Grazie al cielo).
Lexa tornò con un bicchiere in una mano e una pillola nell’altra. La psicologa le rivolse un sorriso grato, e ingoiò la medicina con un unico sorso.
L’acqua fresca le procurò un altro brivido e ulteriore stordimento. Poggiò la mano sul muro.
« Ti ringrazio. È carino da parte tua »
L’agente non disse niente, limitandosi a squadrarla di nuovo e a portare il bicchiere in cucina.
“Non sorride quasi mai.” pensò la bionda un po’ a disagio. Se lo sarebbe dovuto ricordare, quando avrebbe dovuto dedurre le variazioni psicologiche indotte da quel famoso “dispositivo” che stavano testando su Lexa.
Clarke si congelò sul posto. Se ne era quasi scordata, a furia di giocare a guardia e ladri con l’altra.
Il peso di quella responsabilità sembrò schiacciarla di botto.
Anomalie psicologiche
Le avrebbe dovute scovare. Era quello il suo lavoro.
 
« Clarke. » 
Il suo nome le suonò strano. Non ci aveva fatto caso l’ultima volta, ma dalla bocca dell’altra assumeva una strana consistenza esotica, quasi selvatica.
Lexa la stava aspettando davanti la porta aperta.
« Si, andiamo »
 
****
 
La successiva mezz’ora andò meno disastrosamente del previsto. I tutori - “quanto cacchio è brava Raven”- ammortizzavano ogni urto violento, di conseguenza non sobbalzava troppo violentemente. La nausea non era scomparsa – nonostante l’aspirina – ma almeno era gestibile, e lei non si sentiva più di dover vomitare tutta l’anima dietro il primo cespuglio.
Certo, aveva qualche problema a evitare gli alberi, ma non era sicura che senza postumi della sbornia le sarebbe andata meglio.
Era certa che quella fosse una maledizione legata alle gambe artificiali.
 
Avevano corso senza troppi intoppi per un bel po’ di tempo, fino a quando Lexa non aveva chiesto una pausa. Era stato strano, così come la sua decisione di non arrampicarsi sulla solita collinetta. No, stavolta aveva optato per un tranquillo giro per il vialone alberato del quartiere.
Lo avesse fatto le prime volte, la trovata della bicicletta avrebbe funzionato.
Erano arrivate all’area bimbi, con giostre e piscinetta di sabbia, e Clarke ne aveva approfittato per sedersi sull’altalena, il suo gioco preferito da bambina.
Le piaceva quando suo padre la faceva volare e tutto quello che riusciva a vedere era solo il cielo azzurro e le nuvole.
« Hey. Che ti prende, non mi dire che sei già stanca » le disse ridacchiando.
« Io no, tu invece stai bene? »
Lexa si era appoggiata leggermente sudata alle scalette di un castello di compensato color arcobaleno, e la guardava con un sopracciglio leggermente alzato.
Clarke dondolò leggermente tenendo i piedi ben piantati a terra, prima di decidere che magari con quel residuo pulsante di mal di testa era preferibile stare immobili.
« Si, l’aspirina ha funzionato. Grazie » le disse sorridendo « …Le emicranie sono terribili.
Stamattina non avevo proprio pensato a prendere qualcosa, mi sa che l’avevo sottovalutata»
Lexa la guardò un po’ indecisa, prima di afferrare la scaletta e arrampicarsi sul castelletto.
« Ieri hai bevuto. »
Non era una domanda.
Colse Clarke totalmente impreparata.
« Io… » si guardò nervosamente i piedi, riprendendo a dondolare. Avrebbe dovuto aspettarselo. Sapeva perfettamente che l’agente non era facile da prendere in giro.
« Non lo dico a Rebecca. Non credo che siano fatti suoi. » si affrettò a dire la mora, guadagnandosi un’occhiata stupita.
Clarke appoggiò la testa ad una corda, sospirando sollevata. Le faceva strano vedere l’agente così… gentile. Lo era stata anche sabato, quando aveva controllato che non si fosse fatta male. Aveva sentito la sua presa delicata, i suoi occhi farsi attenti, aveva visto le labbra contrarsi e le sopracciglia aggrottarsi.
Era stata gentile, si, ma forse la sua premura era stata solo professionale. Dopotutto, aveva appena rischiato di finire ammazzata per colpa sua.
Invece quel giorno, la situazione sembrava decisamente diversa.
 
Lei sapeva, forse lo aveva intuito da subito e non aveva detto niente davanti alle telecamere. Le aveva portato la pillola e… oh… aveva scelto di correre in pianura.
Ecco perché.
« È solo che non vorrei fare una brutta figura »  disse, alzando finalmente lo sguardo per piantarlo in quello dell’altra. « Non è un crimine passare una serata in allegria. Sicuramente non è professionale presentarsi al lavoro conciati così… Ma c’erano Raven e gli altri. Ho pensato che siccome dovevamo riprendere tutti oggi… » sorrise tra sé e sé « Evidentemente sono fuori allenamento. Gli altri mi sembravano tutti abbastanza lucidi, in effetti. » 
L’agente rimase in silenzio. Si alzò e iniziò a scalare il castello, fino ad arrivare alle travi di sostegno che oramai erano solo in puro ferro.
Non riesci proprio a stare ferma, eh?
« Comunque ora sto molto meglio. Assurdo quanto un po’ di aria fredda in faccia possa aiutare. » concluse Clarke, seguendola con lo sguardo.
La ragazza si mise in bilico su una trave, tenendosi in equilibrio mentre procedeva passo dopo passo verso la fine della sbarra. Clarke pensò che in una situazione normale, con un’altra persona, sarebbe stata in ansia, ma in quel momento tutto ciò che riusciva a fare era di osservare incantata l’altra che dal canto suo non sembrava esitare nemmeno un poco. Teneva gli occhi fissi davanti a sé, un’espressione concentrata e le labbra serrate, avanzando con leggerezza, senza traballare, come se stesse camminando sulla terraferma.
“Sembra una pantera.”  
Arrivata al bordo, si concesse di studiare l’ambiente circostante. Incontrò lo sguardo ipnotizzato della bionda e lo tenne per alcuni secondi.
« Tu lo hai capito subito, vero? Non appena sono scesa dalla macchina. »   le chiese Clarke.
Con un balzo, la ragazza atterrò sulla trave dell’altalena, piegando le ginocchia, e si lasciò cadere indietro solo per afferrare la sbarra con le mani. Con un colpo di reni, sfruttando l’inerzia riportò le gambe su, infilandole nello spazio fra le sue braccia e agganciandole alla trave.
Infine lasciò la presa con le mani e si trovò a ondeggiare a testa in giù.
 
Clarke trasalì. Aveva trattenuto il fiato per il movimento improvviso, ma scoprì con sorpresa che non aveva avuto paura.
« Camminavi in maniera diversa. E il tuo odore parla chiaro, non ci voleva molto. » disse l’agente.
Oramai i loro visi erano allo stesso livello. Clarke notò che i capelli di Lexa erano lunghissimi, scendevano in morbide onde fino a superare l’altro sediolino.
Il mio odore.
Eppure la sera prima, quando Raven l’aveva riaccompagnata a casa, prima di andarsene aveva provveduto a buttarla sotto la doccia, mettere i vestiti a lavare e infilarla a forza dentro un pigiama fresco di bucato e profumato di violette. E al mattino prima di scendere aveva quasi per sbaglio ingoiato l’intero tubetto di dentifricio, nella fretta di uscire di casa.
Come aveva fatto a…?
« Posso farti una domanda? » le aveva chiesto improvvisamente la ragazza a testa in giù.
La bionda si riscosse dai suoi pensieri, annuendo. Cercò di guardare la ragazza in faccia, ma le faceva strano e si ritrovò involontariamente a girare la testa, coricandola quasi in orizzontale.
« Prima però potresti metterti dritta? Farai venire il sangue alla testa anche a me. »
La ragazza si sganciò agilmente dalla trave di ferro e con grazia scivolò sull’altro sediolino.
Tuttavia non si sedette come Clarke. Incrociò le gambe e si tenne in bilico, aggrappandosi alle corde.
« Com’è? » chiese dopo qualche secondo di silenzio.
Clarke la scrutò per capire cosa intendesse
« Com’è cosa? »
« Bere. Com’è? » ripeté.
 
La bionda rimase senza parole per qualche attimo.
« Non hai mai bevuto? » le chiese, stranita.
Era come se le avesse detto che non aveva mai mangiato una caramella. Oppure giocato con un pupazzo.
« Non mi sono mai ubriacata. » specificò Lexa, facendo scorrere una mano sulla corda.
Clarke ridacchiò incredula. Mai nella vita avrebbe immaginato di saperne più di qualcun altro in materia di alcool.
« Hai avuto genitori molto severi? » chiese riprendendo a dondolarsi. La testa non le faceva più così male, e il dolore si era pian piano trasformato solo in fastidio.
La ragazza non rispose, distogliendo lo sguardo.
Clarke pensò di aver toccato un tasto dolente… oppure semplicemente la domanda era troppo personale. Doveva ricordarsi che fino a qualche giorno prima Lexa non voleva nemmeno rivolgerle la parola… avrebbe dovuto stare più attenta per non mandare a monte tutto quello che aveva ottenuto.
« Beh, per risponderti, ogni volta che bevo troppo penso sempre la stessa cosa: “Mai più, giuro”. Però poi è inevitabile, ecco. Stai in compagnia e loro bevono, tu bevi. È tutto bello, allegro e leggero e scopri di poter essere più simpatica del solito, e anche gli altri sembrano più divertenti. Poi, basta un sorso di troppo per stare male… ed ecco quello che succede. » disse di filato.
Vide che l’altra stringeva le labbra, mentre evidentemente decideva se la risposta la soddisfaceva oppure no.
« È davvero così speciale la sensazione, quella “bella”? Voglio dire… tanta gente beve per stare su di giri, e poi succedono i disastri. Ne vale davvero così tanto la pena? » chiese infine.
Clarke si trovò un po’ a disagio. Anche lei quella mattina si era messa al volante, ma chiaramente il post sbornia era qualcosa di diverso rispetto a guidare completamente ubriachi. Alle 7:30 del mattino, poi, le strade erano di solito quasi del tutto deserte.
« Molte persone sono infelici o annoiate. Quello che cercano è di non pensare, così, beh… stappare una bottiglia è molto più semplice che impegnarsi a cercare la felicità in altri modi.»
« Quindi quando si è ubriachi si è felici. E si smette di pensare. » concluse Lexa.
Si. Sembrava decisamente una bambina.
« Si. »  ammise Clarke dopo diversi secondi di indecisione. Il suo ego morale le stava facendo una bella ramanzina, rinfacciandole di aver appena dipinto d’oro una gigantesca cacca fumante. Ma qualcosa nelle domande infantili di Lexa la spingeva ad essere sorprendentemente franca.
Non le voleva mentire.
« Ma così come è semplice raggiungere l’euforia, è altrettanto facile cadere nel baratro, come se fosse una specie di scotto da pagare. E non è per niente piacevole vomitare dalla cena al pranzo del giorno prima tutto in una botta. Ci sono limiti che il corpo umano non dovrebbe varcare » aggiunse quindi con un sorriso sarcastico.
Lexa sorrise. Per la prima volta.
« Lo so. A proposito, grazie per aver tentato di assassinarmi martedì. » disse con una smorfia.
Clarke rimase interdetta. Non sapeva se essere soddisfatta di aver strappato un sorriso all’agente o sentirsi shockata per essere stata appena accusata di tentato omicidio.
« Come?! » esclamò con voce strozzata.
« Quella roba che mi hai lasciato nel piatto. Non lo hai fatto apposta? » disse con un mezzo sorriso, inarcando un sopracciglio.   
« Cosa? No! »
Lexa era sinceramente divertita.
« Quindi non lo sapevi che sono allergica al burro di noccioline. »
Clarke si pietrificò. Aveva bene impressa l’immagine di lei che spalmava in abbondanza quella roba su delle carotine fatte al forno.
« Oddio… scusami. » balbettò alzandosi. « poteva essere anche grave. Voglio dire. Come..? Cosa è…? Oddio… » 
« Non ti preoccupare. Sono ancora viva, vedi? »
« Mi dispiace davvero. »
Lexa la osservò per un secondo. Poi si alzò a sua volta, parandosi davanti a lei.
« Sembri sincera. » disse guardandola intensamente negli occhi.
Tra di loro scese un silenzio strano.
Clarke doveva ancora decidere a che gioco Lexa stesse giocando. Tutto quello che sapeva, al momento, è che l’altra le metteva addosso una strana agitazione.
Lo aveva sempre fatto.
Era sempre stata così… esplicita.
E lei non sapeva fino a che punto le piacesse oppure no.
 
Lexa le sembrava una contraddizione vivente. Come poteva una persona guardarla così intensamente, lasciar trapelare disprezzo, diffidenza, fastidio, gratitudine… e rimanere allo stesso tempo così indecifrabile.
Clarke si guardò le scarpe.
« Forse sarebbe meglio andare. »
L’agente annuì.
« Si. »
 
 
 
 
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[Angolo dell’Autrice]: vi propongo una cosa. Quello che pensavo con la buona mj27 è che sarebbe interessante sentire le vostre teorie sui capitoli misteriosi.
Mettiamola così: le vostre pippe mentali potrebbero aiutarmi a rendere le cose ancora più interessanti, intricando la trama
Che ne pensate?
 
  
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