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Autore: LB Shadow    02/05/2017    3 recensioni
IN PAUSA REVISIONE (REVISIONE IN CORSO, L'ULTIMO CAPITOLO ANCORA DA CORREGGERE)
*
Questa storia parla di ossessione, di orgoglio ferito, di passioni che scavano nel profondo.
Ma anche di hamburgers mastodontici, cuochi incompetenti, giudici psicotici, magia nera e vendette efferate quanto, alla fin fine, improbabili.
O forse no, chi lo sa, magari il destino ha in mente qualche scherzo. Partiamo dall’inizio, vi va?
Un terribile evento ha allontanato Arthur Kirkland, chef inglese di dubbie speranze, da Londra e di lui non se n'è saputo più nulla.
Fino ad ora.
Dopo un anno, infatti, Arthur è tornato, portando con sé un giovane studente straniero al fine di ospitarlo. Dietro ai suoi modi gentili sono però nascosti un bruciante desiderio di rivincita verso chi l'ha costretto a fuggire e molti, troppi segreti.
I piani, però, verranno messi duramente alla prova. Incidenti di percorso e sentimenti che si credeva ormai appartenenti al passato travolgeranno sia lui che chi gli sta attorno in una spirale da cui nessuno uscirà illeso.
È davvero possibile vincere contro dei mostri quando in realtà fanno parte di noi? Chi è l'eroe e chi il cattivo della storia?
*
(presenti più possibili ship, anche oneside, a vostro piacere)
Genere: Commedia, Dark, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Un Nuovo Segreto
 
V

 
 
Bisogna fare attenzione quando si esprimono desideri rivolgendosi alle tenebre, perché non si può mai sapere come e quando essi verranno esauditi.
Arthur si era dimenticato questa regola fondamentale e ora ne avrebbe pagato le conseguenze.
 
Bip-bip-bip-bip-bip... il segnale acustico dell’orologio sorprese sia Peter che Alfred. Il ragazzino lo spense con un piccolo tocco.
– Ѐ uno di quelli che suona ogni ora. Guarda che bello! Me l’hanno regalato al mio compleanno! – spiegò, tornando ad appoggiare i gomiti sul bancone, un’espressione di infantile orgoglio mentre mostrava l’orologio elettronico. Roba di poche sterline, ma ai suoi occhi di bimbo doveva valere più di un Rolex. Alfred sorrise: durante la loro chiacchierata l’animo impertinente del piccolo si era placato, lasciando il posto a un’indole vivace che inteneriva l’americano.
− Fico – commentò, − Occhio, però, rischi che si sporchi adesso che hai le dita appiccicose. Prenditi un tovagliolino, da bravo.
Peter si pulì le mani, obbediente. Raccolse comunque l’occasione per ricominciare a cicalare: – Anche i miei mi dicono sempre di pulirmi dopo che ho mangiato dolci, altrimenti Hanatamago vuole leccarmi le mani e il cioccolato può farle male. Hana è la nostra cagnolina, sai? Ѐ piccola e dolcissima e... oddio!
Peter sobbalzò sulla seggiola, guardando nuovamente l’ora con gli occhioni azzurri spalancati. – Non me n’ero accorto! Ѐ tardissimo! Feliciano deve andare all’aeroporto, il suo volo parte tra poco!
− Eeeeeh?
Alfred guardò verso la cucina: − Ma è ancora dentro là che parla con Kirkland! Non si è accorto di essere in ritardo?
− Ca... cavolacci, sarebbe proprio da lui! Presto, presto! – Peter si alzò e girare intorno al bancone, avanti e indietro, alla ricerca di un passaggio per superarlo e arrivare ad avvisare Feliciano. Non riuscendolo a trovare, si disperò ulteriormente. Si bloccò davanti ad Alfred: − Per favore, potresti dirgli tu di sbrigarsi? – lo supplicò.
− Vieni, ti lascio passare io. Lascia che ti aiuti −. Alfred fece scavalcare Peter, prendendolo sotto le ascelle e sollevandolo al di là del bancone. – Oplà!
Fece atterrare il ragazzino, ma lo trattenne per un paio di secondi fermo tra le mani, come se non volesse lasciarlo sfuggire, come se avesse all’ultimo cambiato idea e gli chiedesse di non oltrepassare quella porta. Il suo sguardo tornò alla cucina. Il respiro si fece più pesante. I peli biondi sulle braccia gli si rizzarono mentre un brivido di sconforto lo attraversava.
Lasciò andare Peter pur di non palesare quel sentimento.
Voleva nascondere, Alfred, a se stesso per primo, un presagio angosciante; che quella situazione puzzasse di bruciato. Che i semi del dubbio si fossero infiltrati persino nella sua testaccia ottimista da “everything’s gonna be ok”, mettendogli addosso una sottile paura senza nome, una paura che neppure gli eroi più gloriosi avrebbero saputo sconfiggere perché subdola e viscida annientava la ragione. E senza la ragione non c’è che il caos.
Che se fosse stato un film, in quel momento una musica inquietante avrebbe accompagnato le loro azioni, interrompendosi nell’istante in cui avrebbero aperto la porta. Ma lì non si era in un film: lì c’era solo un tizio che era stato intrattenuto un po’ troppo in una discussione che si era voluta tenere riservata. Discussione? Conversazione.
Tra Arthur e Feliciano non c’erano sembrati essere asti di alcun tipo, anzi, prima avevano dimostrato di saper tenere un rapporto più civile che tra i due stessi soci. Poi erano entrati là dentro e di loro non si era più saputo nulla.
Era inutile preoccuparsi. Sicuramente si erano semplicemente dimenticati di guardare l’ora.
Eppure...
Il cuore nel petto batteva forte; Alfred prese un respiro profondo, cercando di ritrovare la serenità perduta. Lui era l’Eroe. Lui non avrebbe mai permesso che qualcosa di brutto accadesse nel suo locale, specie ora ch’era presente un così giovane spettatore, il quale avrebbe dovuto affidarsi comunque a qualcuno più forte per essere protetto dai mali del mondo. Lui era quel Qualcuno. Lui avrebbe sconfitto il cattivo, chiunque egli fosse stato.
La sensazione opprimente si sciolse all’istante e lui lasciò uscire una risata rauca.
− Ah... aha ahahahaha! Ehm. – si schiarì la voce, come se niente fosse, − Spero solo che Kirkland non gli abbia chiesto qualche sorta di rivincita ai fornelli, altrimenti rischiano di far notte!
Peter, con la mano già sulla porta, si girò a guardarlo, perplesso; i suoi occhi erano privi di quel presentimento che attanagliava Alfred. Peter si sforzò di sorridere alla battuta idiota, sebbene il volto improvvisamente del più grande non lo facesse affatto ridere e gli trasmettesse una strana sensazione, nulla di buono. − Già. – disse semplicemente.
Già.
“Arthur, se hai fatto qualche cazzata” pensò Alfred ricambiando il sorriso, “giuro che te la faccio pagare. E stavolta dico sul serio”
La piccola mano spinse con forza. La porta si aprì senza far storie a quel movimento brusco. Peter si avventò nell’ingresso della cucina, Alfred alle sue spalle, chiamando a gran voce il nome del suo amico: − Signor Vargas! Deve prendere il suo volo...
Lo sguardo attraversò la lunga stanza. Bianco. Acciaio. Una figura in piedi, scura in contrasto.
Arthur Kirkland si stava versando una tazza di tè.
Peter lo fissò, ammutolito. Ogni traccia di spavalderia era scomparsa, la gola si era seccata. Arthur ricambiò lo sguardo, ghignando gentile. Posò la tazza, dopo averne un bevuto un sorso, sulla credenza e parlò, tranquillo come se fosse rimasto lì ad aspettarlo: − Mr Vargas è dovuto andare via. Ti conviene rincorrerlo.
Peter scosse la testa: − No, signore, devo restare qui... il signor Vargas avrebbe dovuto accompagnarmi a New St. Square prima di andare all’aeroporto... e papà mi sarebbe venuto a prendere là −. Peter si accostò piano all’uomo, cercando di ripristinare la sua sicurezza, − Davvero il signor Vargas è già partito? Io non posso andare a New St. Square da solo, specie con questo tempo. Papà si arrabbierebbe con entrambi. –
Mentre parlava, si avvicinava pericolosamente allo sgabuzzino. Arthur s’irrigidì come pietrificato quando il ragazzino arrivò proprio alla porticina del suddetto. Nei suoi occhi verdi le pupille si restrinsero, mentre le labbra si tiravano in una linea sottile.
− Alfred? – il suo sguardo incontrò quello del socio, che li osservava senza commentare, − Hai dato qualcosa da mangiare al nostro piccolo ospite?
− Oh? Sì – Alfred sembrava cadere dalle nuvole. – Si è rimpinzato di snack.
− Ѐ stato molto gentile – aggiunse Peter, in uno slancio di cortesia. Arthur annuì, ancora visibilmente teso nonostante un tentato sorriso: Peter era davanti alla porticina dello sgabuzzino, in quel momento socchiusa. Si avvicinò al ragazzino e gli cinse le spalle, spingendolo con garbo ma fermamente verso Alfred.
− Certo che lo è. Però, se conosco i giovanotti come te, c’è ancora spazio per qualcos’altro, giusto? – disse, la sua gentilezza sempre più affettata. Peter scrollò la testa.
− Sarebbe meglio di no. E comunque dovrei andare a casa, ma se non c’è Feliciano che mi accompagna...
Arthur sospirò. – Allora facciamo così. Alfred ti accompagna fino a New St. Square, tanto è vicino. Ѐ inopportuno che un ragazzino se ne vada da solo per le strade di
Londra con questa nebbia. Potresti perderti... o incontrare brutte persone.
Peter alzò lo sguardo verso l’americano, quindi tornò a guardare Arthur, sempre incerto.
− Senti – la curva delle labbra dell’inglese si fece più distinta, senza però passare la sua allegria agli occhi, − Tu portati qualcosa a tua scelta a casa, te la regalo io. Va bene?
Peter s’illuminò: − Posso prendere le barrette di cioccolato “Rocky Road”, che mi piacciono tanto?
− Certamente.
− Quelle con la confezione rossa, con i marshmallow e le noccioline e il cioccolato al latte...
− Ho detto di sì.
− E poi ci sarebbero quelle altre ai quattro gusti, con il caramello dentro e la crema di fragole... ah, dimenticavo quelle...
Arthur si passò una mano sul volto, al limite della pazienza. Digrignò i denti in una smorfia animalesca, riproduzione orribile di un sorriso.
− Senti, marmocchio, prenditi pure la tavoletta Wonka con il biglietto d’oro, basta che ti spicci – sibilò.
Il volto di Peter fu invaso da un immenso sorriso. Qualunque paura fosse passata per il suo cervello, fosse anche solo per un attimo, era stata spazzata via dall’idea di riempirsi le tasche di leccornie.
− Ok! Grazie mille, forse sei meno bacucco di come credevo! –. Scattò all’istante all’esterno della cucina, mentre Alfred rimase sulla porta; Peter, non vedendolo arrivare, riemerse dietro di lui, in attesa. Alfred era rigido, le braccia incrociate sul petto come se avesse freddo, ma il suo perenne buon umore era sempre lì che illuminava gli occhi dietro le lenti. Certo, era un buon umore un po’ finto, ma nessuno ci fece caso.
− Scusami, Arthur, un’ultima cosa prima che andiamo. – disse, indicando in fondo la stanza, − Mr Vargas è uscito dall’uscita di servizio, giusto?
Arthur alzò le spalle: − Esatto. Sai, era molto di fretta, si è accorto all’ultimo secondo di dover andare via per qualcosa che assomigliava a un appuntamento importante e gli ho consigliato la via più veloce.
− Oooh. Capisco, ecco perché non l’abbiamo visto! Ahahaha! E io che ero convinto fosse rimasto qua a discutere con te... Va bene, allora! –, si rivolse a Peter − Beh, è meglio se io e il campione di calcio quaggiù ci avviamo, prima di fare arrabbiare papà, eh? Dopo che me lo hai descritto, ho un tantino d’ansia a incontrarlo.
− Anche la mamma non scherza, credimi. A volte fa anche più paura.
Alfred scompigliò la zazzera bionda del ragazzino, prima di rivolgersi ad Arthur: − Allora ci vediamo dopo, eh? Mi aspetti qua?
− Dove dovrei andare altrimenti?
Il sorriso di Alfred si allargò, sbuffando un risolino: − Chissà. Potresti approfittare della mia assenza per fuggire.
− Non sono un codardo. – Arthur allargò le braccia, aggiungendo: − E poi, che motivo avrei di abbandonare il mio fidato socio?
− Ottimo, allora. Vieni, Peter! Hai già preso la giacca?
I due uscirono e la porta della cucina si chiuse definitivamente, lasciando Arthur in piedi in mezzo alla stanza circondato solo da una fredda luce artificiale.
 
Alle sei e mezzo, il campanello dell’ingresso salutò il ritorno di Alfred nel locale. Un brivido lo scosse: quella nebbia terribile non era affatto diminuita da prima e gli era entrata nelle ossa, rendendolo sensibile come un ottantenne con l’artrite. Perlomeno aveva assolto al suo compito, in un modo o nell’altro.
“Cacchio” pensò “Il ragazzino mi aveva avvisato che il padre incuteva un po’ timore, ma vedermelo uscire fuori come un mostro in Silent Hill, beh, questo mi ha fatto decisamente più strizza del previsto. Oh beh, spero non si sia notato, ho una reputazione da difendere io”
Si tolse il cappotto e guardò alla porta chiusa della cucina, oltre il bancone. Gli occhi s’incupirono. Nessun suono, nessun segno di vita nell’Eagle a parte lui.
Si avviò a grandi passi verso la porticina a lato del bancone, la superò e non la richiuse neppure, tanta era la fretta di arrivare al suo obiettivo. Lo raggiunse con il fuoco negli occhi, nello stomaco, nella testa. “Adesso dobbiamo scambiare due paroline, mio caro” pensò, mentre dava una potente spinta alla porta della cucina. Essa non si mosse di un centimetro. Era bloccata. Ciò, lo fece incazzare ancora di più.
ARTHUR! – urlò – Fatti vedere immediatamente! Se non apri subito, giuro che butto giù la porta! −. Batté i pugni sulla superficie in truciolato, facendo saltare qualche scheggia di copertura verniciata di bianco. Avesse avuto un’ascia, avrebbe potuto rielaborare la scena di Shining, con la differenza che lui era il buono. Lui era e sarebbe sempre stato il buono. D’improvviso si sentì terribilmente pentito di aver lasciato Arthur da solo, di non averlo tenuto sotto controllo come si era promesso, che questo errore gli sarebbe costato molto caro... Un altro pugno e dall’altra parte si sentì un rumore. Alfred si bloccò con il braccio alzato, pronto a colpire di nuovo. Tempo due secondi e la porta si aprì, Arthur sulla soglia.
Alfred subito non riuscì a spiccicare parola; pure il pugno ricadde sul fianco, inerte. Arthur lo fissava, senza dir nulla, sul viso un’espressione di assoluto vuoto, in fondo agli occhi gli brillava l’ultima scintilla di un’emozione muta. Sembrava gli avessero risucchiato l’anima.
− Bussate e vi sarà aperto – gracchiò dopo una pausa infinita. – Come vedi, sono rimasto qua.
− Mi prendi in giro? – mormorò Alfred. Arthur gli lasciò lo spazio necessario per entrare, dandogli le spalle. Trascinò i piedi verso la credenza dove la tazza di tè era rimasta abbandonata quasi piena, il liquido divenuto freddo, e se la portò alle labbra tremanti, ma senza berne neppure un sorso. Dopo il tentativo, la svuotò nell’acquaio, sempre con quegli occhi bassi che osavano solo di tanto in tanto alzarsi e incontrare quelli dell’altro.
− Certo che no. – disse.
− Credi... mi credi uno stupido? Ѐ così?
− Assolutamente no. – Arthur scrollò le spalle, un po’ di luce stava tornando finalmente tornando a ravvivargli le iridi. Alfred non riusciva, nonostante le intenzioni iniziali, a urlargli contro, risultando invece triste nella voce. Come se lo avessero pugnalato alla schiena.
− Allora perché...? – sussurrò. L’altro non lo sentì.
− ... anche se dubitavo che mi avresti scoperto così presto, conoscendo la tua scarsa attitudine nel leggere le emozioni altrui. Da cosa hai dedotto che ti stessi nascondendo qualcosa?
− Dal fatto che la porta sul retro è due settimane che è rotta. Non si apre, la serratura è andata. Ѐ impossibile che l’italiano sia uscito per di là, la tua era per forza una scusa per liberarti di me e del ragazzino, giusto?
− Più che altro del ragazzino. – Arthur batté lentamente le mani, un applauso a rallentatore. Un’altra pugnalata alla schiena. − Comunque bravo, complimenti, ci sei arrivato da solo.
Alfred lasciò andare un gemito di rabbia e dolore. – Che diavolo è successo? – domandò – Dov’è Vargas? Se non è ancora uscito, vuol dire che si trova ancora qua. Dov’è? E di che avete parlato tutto questo tempo?
Si avvicinò ad Arthur e lo prese per le spalle, scuotendolo furiosamente: − Ti prego, rispondimi. Io... – non sapeva cosa dire − ... voglio essere tuo amico! Dimmi la verità, Art! Devo saperlo!
 Arthur riabbassò il capo, storcendo la bocca in una smorfia. Si tolse le mani dell’altro di dosso con una calma esasperante e girò la testa verso lo sgabuzzino.
− La risposta alla prima domanda – disse – è più vicina di quanto pensi.
Alfred voltò anche lui la testa nella stessa direzione. Sbiancò. – Non dirmi che... –
Arthur non rispose. La stanza si riempì del loro silenzio, assordante di mille accuse galleggianti nell’aria come bolle di sapone. Finalmente Alfred riuscì a buttare fuori dalla sua bocca una frase comprensibile, che spezzasse quella tensione insopportabile.
− Sei completamente uscito di senno? Cos’hai combinato? Era un povero idiota, non ti ha fatto nulla di male!
− Mi conosceva. Sapeva cos’ho combinato un anno fa e ce l’aveva con me. Pensava volessi ripetere il misfatto.
− Oh.
Arthur si spostò la frangia bionda dalla fronte: sotto di essa, la pelle era pallida come quella di un cadavere. Tremava.
− Voleva denunciarmi – disse – e farmi marcire in prigione al minimo passo falso. Si dà il caso che sia amico dello stesso agente che mi ha arrestato. Dubito che il mio ritorno in tribunale possa essere una gran pubblicità per te, specie ora che mi hai appena assunto, no? Senza contare che c’è una grandissima probabilità che possa venire coinvolto pure tu in un eventuale processo. Ho dovuto farlo, ne andava anche del tuo futuro.
Alfred rilassò un po’ i muscoli, come un palloncino che si stesse sgonfiando piano piano. Anche il suo volto sembrò cedere, cadere verso il basso in una sorta di rassegnazione all’evidenza, ma solo per un nanosecondo perché cercò di ripristinare all’istante la sua solita verve. − Oooh. – disse − Beh, allora la faccenda è diversa... pensavo fossi impazzito del tutto.
Arthur annuì con la testa, muovendola come se fosse agitata da una molla. Seriamente parlando, non aveva la faccia da killer spietato: sembrava che fosse reduce da una crisi di nervi e ora gli mancassero le forze anche solo per difendersi da un eventuale accusa. Faceva pena piuttosto che paura. Sembrava lui stesso la vittima. Solo il suo smisurato orgoglio, di cui serbava ancora traccia nonostante tutto, lo faceva stare in piedi, gli occhi duri come smeraldi lucenti. Un leone ferito a morte ma che respira ancora, seppure a fatica.
Alfred non riusciva a trovare la forza di odiarlo.
Si avvicinò lentamente allo sgabuzzino, notando che, ironia della sorte, era socchiuso. Un piccolo spiraglio che non lasciava intravedere nulla ma faceva immaginare il peggio. Il suo sguardo tornò per un attimo ad Arthur.
− Entra. Non c’è nulla da temere. – disse lui, scimmiottando la stessa frase che aveva pronunciato Alfred quando lo aveva invitato per la prima volta nella sua cucina. Invece di farlo arrabbiare, quella frase lo riscaldò un pochino.
Non c’era nulla da temere perché lui era l’Eroe e gli eroi vincono contro tutti i mostri. Giusto? Giusto. E in ogni caso, lui sarebbe riuscito a sconfiggerli. Al momento decisivo, non si sarebbe lasciato intenerire. Giusto?
Giusto.
Alfred aprì la porticina, facendovi insinuare la luce e rimase lì, sul ciglio, pietrificato davanti a quella visione. Il cervello smise per un attimo di funzionare a mille all’ora, interrompendo la sua attività di colpo; il gelo calò sui nervi elettrizzati, paralizzandoli dall’interno, come una doccia ghiacciata. Non se lo aspettava.
Pensava che avrebbe visto un corpo maciullato, orribili segni di colluttazione, sangue dappertutto. Quello che gli stava davanti era invece il giovane italiano, disteso per terra su di un fianco con le braccia distese davanti a sé, gli occhi chiusi come per un sonno eterno. Effettivamente, dava veramente l’impressione che stesse dormendo: sotto la testa era stato posto il suo cappotto di panno scuro, a mo’ di cuscino, le mani erano poste ai lati dei fianchi. Immobile. L’unica traccia che potesse smentire la situazione era il velo color rame che gli ricopriva irregolarmente la fronte vicino all’attaccatura dei capelli, sporcando anch’essi e lasciando qualche macchia sul cappotto sottostante. Sangue rinsecchito. Ce ne sarebbe stato di più a ricoprire la pelle d’alabastro, ma Arthur si era premurato di ripulirlo, così come aveva avuto cura di togliere ogni segno dal pavimento e sistemarlo in quel modo. Evidentemente, le ferite avevano buttato fuori ancora un po’ di linfa nel frattempo e lui non aveva avuto coraggio di ritoccare quel corpo inerme. In compenso aveva stretto attorno al cranio uno straccio da cucina, come se avesse potuto servire da garza.
No, era qualcosa impossibile da guardare.
Alfred richiuse la porticina quasi con rabbia, trattenendo un singulto. Rimase in silenzio, il suo respiro accelerato, affannoso. Arthur era accanto a lui, inespressivo.
− Mio Dio... – mormorò. Arthur scosse la testa.
− Dio in questo momento dà segnale occupato, riprovare più tardi.
− Ma quindi Vargas è... cioè, tu... lo hai davvero...
Arthur non rispose. Gli indicò semplicemente la porticina, come a invitarlo a riaprirla di nuovo. Chissà se ne sarebbe uscito il Baubau, pronto a sbranarlo.
Alfred, con il cuore in gola, obbedì; il corpo era ancora lì, non si era mosso. E come avrebbe potuto?
− Guardalo – mormorò – Sembra così in pace...
Si avvicinò, cautamente, come se fosse una salma appena riesumata dalla tomba. Lo scrutò, lo esaminò: lo shock si era acquietato e aveva lasciato il posto alla curiosità scientifica. Si sentiva come un archeologo. Si domandò se non fosse il caso di recitare una preghierina per i defunti. Si domandò se non fosse fuori luogo lasciarsi andare a una risata isterica. Nel dubbio stette zitto.
S’inginocchiò vicino al corpo, con la mano gli sfiorò le palpebre chiuse, i capelli impiastricciati. Gli sembrò quasi che avesse conservato il suo calore fino a quel momento. “Ѐ italiano” pensò “è normale che abbia il sangue caldo, persino adesso. Come si dice, sangue latino”. Di nuovo quello stimolo a ridere, tagliente, raschiante nella sua gola. Tossì nel soffocarlo. La mano si alzò dal viso e si abbassò leggera come una piuma. Tanto a cosa sarebbe servito, comunque? Mah. I polpastrelli lambirono il collo del ragazzo e Alfred aggrottò le sopracciglia, una strana sensazione gli attraversò i neuroni rapida come un lampo. Si girò interrogativo verso Arthur. Lo trovò che lo stava fissando, un minuscolo ghigno subito soppresso aveva rotto la sua maschera di creta.
Le sopracciglia dell’americano si inarcarono ulteriormente. La sua mano scese, tentennante, sul torace e vi restò per un paio di secondi, prima di essere ritratta con un urlo.
− Arthur! – gridò – Ma lui è...
Arthur non riuscì più a trattenersi e scoppiò a ridere. Alfred sembrava impazzito.
− Lui... respira! Arthur, lui è ancora VIVO!
Arthur si coprì il volto con la mano, cercando di nascondere la sua ilarità. Alfred abbassò immediatamente il capo sul petto di Feliciano, posando l’orecchio dove avrebbe dovuto trovarsi il muscolo cardiaco. Lanciò un altro urlo.
− Arthuuur! – si rialzò con uno scatto – Il suo cuore! Ho sentito il suo cuore battere ancora! Arthur, smettila immediatamente di ridere come una iena e spiegami perché cazzo questo tizio respira ancora!
Arthur si calmò, continuando però a sorridere sotto i baffi.
Alfred lo raggiunse con un paio di balzi e si trovarono entrambi sul ciglio della porticina, in modo da non avere quel corpo straordinariamente ancora in vita tra i piedi, a fissarsi in attesa di spiegazioni.
Arthur guardò il ragazzo negli occhi, un sorrisetto insolente sulle labbra sigillate: − Surprise, motherfucker. A quanto pare non ho commesso un omicidio di primo grado. Oh, come sono spiacente. −
Alfred lo fissò con fiamme azzurre ardenti dietro gli occhiali, le guance erano ridotte a macchie rosse nella faccia congestionata. Gli soffiò addosso come un drago: − Oh, tu...
− Guarda che faccia che hai. Sembri deluso. Che c’è, speravi che il cattivone avesse adempiuto al suo ruolo, così che tu potessi entrare in azione? Mi dispiace deluderti, eroe, ma io non sono malvagio fino a quel punto, che ti piaccia o no.
Notando l’espressione sbalordita nel volto dell’altro, come se avesse appena involontariamente dato voce ai suoi pensieri, Arthur sentì un colpo allo stomaco. Lui aveva detto tutto ciò con tono sarcastico, dando per scontato di non essere una bestia, ma a quanto pare i suoi timori si erano dimostrati fondati: almeno agli occhi della gente lui era la Bestia. Una rabbia cocente gli salì alla testa e fu costretto a sopprimerla.
Arthur tornò serio, un’ombra scesa sul suo volto e la voce aspra come veleno: − Davvero pensavi che avessi ammazzato quel poveraccio?
Alfred distolse lo sguardo, improvvisamente a disagio. Arthur rincarò: − Pensavi sul serio che potessi fare qualcosa del genere, magari a sangue freddo? Guardami quando ti parlo, dannazione! – gli prese il volto tra le mani e lo costrinse a incontrare i suoi occhi, − Ti sembro un assassino, io?
Alfred deglutì. Non voleva rispondere, ma era costretto.
− Avevo paura che avessi fatto qualcosa di cui ti saresti pentito in futuro.
− Quindi mi credi un criminale...
− Mi ascolti quando parlo, razza d’imbecille? – si tolse rabbiosamente le mani dell’altro dal volto, − Non ho mai detto questo! Non cercare di leggermi nella testa, sei incapace di capire cosa pensano le altre persone quanto me! –. La sua voce s’incrinò nell’ammettere una verità alquanto vergognosa: − Io... mi ero sbagliato.
− Sbagliato?
− Sì! – accidenti, Alfred, contieniti, non sei una donnicciola, − Ero convinto che tu lo avessi ucciso! Come credi che mi sia sentito quando ho visto quel corpo a terra e tu... tu con quella faccia di ghiaccio, come se alla fin fine non te ne importasse nulla? Solo l’idea che mi fossi sbagliato sul tuo conto, che mi fossi fidato e che avessi tradito la mia fiducia approfittandone, ecco, mi ha sconvolto. Ma devo ammetterlo: mi ero sbagliato. E sono dannatamente felice di essere nel torto, perché il fatto che tu abbia cercato di rimediare al tuo colpo di testa, salvando la vita a quel poveraccio, è la prova che non sei un “cattivo”. Ora ne ho la certezza.
Arthur rilassò i muscoli. – No, non sono un cattivo. – mormorò.
Le braccia muscolose di Alfred gli avvolsero il busto in un abbraccio. La testa del ragazzo si appoggiò sulla sua spalla destra, le guance entrarono in contatto, entrambe tiepide come il loro respiro. – Siamo amici, nonostante tu continui a sostenere il contrario – sussurrò Alfred, il fiato spostò una ciocca di capelli di Arthur, − e gli amici non agiscono alle spalle dell’altro, ma si sostengono a vicenda, in ogni situazione.
Ora anche Arthur gli cingeva la schiena godendosi quel gesto di inusuale affetto, il sapore amaro della rabbia scomparso. Una strana sensazione offuscava i suoi sensi, inducendolo a socchiudere gli occhi e non pensare a nulla. Sì, forse era felicità.
“Un amico...” fu il solo pensiero che riuscì a emergere nella sua mente. Il cuore aumentò i suoi battiti, in un impeto di pura felicità. Forse aveva ragione lui. Forse erano davvero amici.
L’abbraccio, però, non era destinato a durare a lungo. Alfred lo sciolse, mentre sul suo viso si dipingeva un’espressione grave. − Vorrei che i nostri problemi ora fossero finiti, ma a quanto pare siamo solo all’inizio −. Indicò lo sgabuzzino e Feliciano svenuto sul pavimento al suo interno, senza che accennasse a nessun segno di vita se non un leggerissimo respiro che, lo si notava solo ora, gli sollevava il torace ritmicamente. – Quello lì tra poco si sveglierà... nella migliore delle ipotesi, altrimenti sono cazzi amari. Dobbiamo trovare il modo di liberarci di lui. Sicuro come l’oro che, se lo lasciassimo a piede libero, ci ritroveremmo entrambi dietro le sbarre per tentato omicidio o chissà cos’altro.
Alfred sospirò, sconsolato. – Forse la soluzione è soltanto una.
− Approfittare della sua incoscienza e ucciderlo?
La proposta di Arthur lo fece scuotere con un brivido. −  Vorrei che ci fosse un’alternativa.
− D’altronde devi salvaguardare il tuo status di “Eroe”.
Alfred sorrise. – Esatto.
Arthur si grattò il mento, pensieroso. Erano finiti in una situazione estremamente rischiosa, da cui non sarebbero usciti se non collaborando.
− Forse è meglio se ci beviamo sopra, che dici? – propose. – Una mente idratata ragiona meglio.
− Sappi che non ho alcolici a disposizione.
− La vuoi piantare? Non sono un alcolizzato, accidenti! Perché ti sei messo in testa che lo sia?
− Perché gli inglesi sono così, sempre con la loro pinta di birra in mano e pronti a festeggiare nel modo più estremo S. Patrizio.
− Smettila di ragionare per stereotipi. E comunque quelli sono gli irlandesi, idiota.
Alfred alzò le spalle. – Stessa razza – commentò. Si beccò un calcio sullo stinco.
Uscirono entrambi dalla cucina, Alfred zoppicante e Arthur con una vena pulsante sulla tempia. – Yankee ignorante che non sei altro. Paragonarmi agli irlandesi... – ringhiava. L’americano si massaggiava la gamba dolorante, lagnandosi sottovoce.
− Ahiahiahi... Forse è una domanda inutile e quasi sicuramente lo è, ma posso saperlo lo stesso? – domandò quando furono nella postazione dietro il bancone.
− Spara.
− Prima, mentre stavi parlando con Vargas, intendo prima che accadesse il casino... si può sapere che è successo?– alzò un sopracciglio, guardandolo storto. − Cioè, ho capito che ti ha riconosciuto e tutto il resto, però come motivo mi pare un po’ debole per scatenare una tale reazione da parte tua. O mi sbaglio? Ha fatto qualcosa di terribile come criticare la tua cucina?
Arthur si grattò una guancia, imbarazzato; era restio a confidare così il suo momento di bestiale debolezza, altezzoso com’era trovava il tutto di una trivialità inaccettabile. Dovette però cedere alla richiesta, parlando con voce bassa quasi inudibile: − Beh... a dire il vero, è stato il suo atteggiamento analogo a quello della rana gourmet a ridurmi a un mostro privo dell’umana compassione e d’intelletto. Forse è stata quella la molla, la scintilla che ha generato il disastro. La sua arroganza intollerabile, come se non fossi degno di ripresentarmi a testa alta, come se dovessi passare il resto della mia vita con il peso della colpa sul cuore... e la sua risata. Proprio come quella di quell’essere. Oh, non sono riuscito a sopportarlo e ho dovuto farlo tacere, fosse pure per sempre.
Alfred si era chinato davanti al frigo delle bibite fresche, sull’atto di sceglierne una tra quelle ammucchiate. Dato che era distratto, ci mise qualche secondo per tradurre il concetto in un linguaggio a lui più familiare e lo riassunse in: − Quindi, l’italiano ti ha ricordato Francis e la cosa ti ha fatto incazzare al punto tale dal stordirlo?
− Ѐ quello che ho detto. L’ho colpito svariate volte con il bollitore del tè, shame on me.
Il ragazzo spalancò gli occhi: − Tu cosa? –. Scrollò la testa, incredulo, senza riuscire a trattenere una risata sguaiata. − Ma davvero! Da un inglese non mi sarei aspettato nulla di diverso! E poi dici che non devo ragionare per stereotipi!
− Se non stai zitto ti cucio la bocca.
Alfred rise nuovamente. – Buono, buono. Non voglio incorrere nella tua ira.
− E fai bene.
− Vai a sederti, piuttosto, che prendo qualcosa anche per te. Ho come l’impressione che tra poco mi cadrai a terra senza sensi pure tu.
Con un grugnito, Arthur superò il bancone e andò verso uno dei divanetti. Si stravaccò, trovandosi improvvisamente stanchissimo. Alfred tirò fuori una lattina e si lamentò ad alta voce, non si sa se rivolto all’altro o solo per dare aria alla bocca: − Dammnit, quel moccioso si è scolato quasi tutta la mia scorta di Mountain Dew Soda. Spero solo non gli faccia male. Bah, e vada per la Seven Up.
Arthur alzò un sopracciglio. – Mi aspettavo una reazione peggiore da parte tua, avido come sei. Qualcosa come “Oddio, chiamerò i suoi genitori perché vengano qui e presenterò loro il conto di tutte le schifezze che ha ingurgitato il loro figlioletto senza pagare”. Dov’è finita la tua mania per il denaro?
Alfred arrossì leggermente: − Ho fatto amicizia con Peter, il ragazzino.
− Amicizia? Con lui? Dì piuttosto che aveva la bocca troppo piena di cioccolata per poterti insultare.
− Non sono tutti acidi come te, Arthur. Mi ha riempito di chiacchiere e aneddoti molto interessanti, in particolar modo sul suo capo.
− Immagino che a lavorare per un italiano ci s’incappi in molte cose divertenti, anche se dubito che un dodicenne possa capirne totalmente il senso. If you know what i mean...
Alfred annuì. Stappò la sua Seven Up, ne bevve una grossa sorsata e fu grato di quel miscuglio zuccherino e frizzante al sapore di limone che gli scese per la gola, solleticandogliela. Emise un “Aaaaahhh” soddisfatto quando finalmente fu completamente giù nel suo stomaco. Fece per offrirne una lattina anche ad Arthur, ma lui declinò gentilmente l’offerta con un gesto della mano. – Non ho sete. – gli spiegò. In quel momento era evidente la sua brutta cera, come se fosse stato malato di un brutto male.
− Non fare il guastafeste. Bevi un goccio, su, che ti fa bene. Così diventi grande e forte come il sottoscritto.
Gli lanciò con una mira straordinaria una seconda lattina, che gli arrivò dritta tra le mani. Con un sospiro, Arthur l’aprì e ne bevve un sorsetto.
− Sai, sembra che Feliciano e il fratello, Lovino mi pare si chiami, in questi ultimi giorni non erano molto affiatati, sia sul luogo di lavoro che in privato. – Alfred aveva cominciato a parlare delle chiacchiere riferitegli dal ragazzino, − Per questo motivo hanno entrambi deciso di tornarsene in Italia in anticipo e in contemporanea. Di solito ci vanno in momenti separati, sai, per mandare avanti la baracca. Mi segui?
− Uh-uhm. Vai avanti. – Arthur centellinava la sua bibita, gli occhi tenuti chiusi, ma nonostante l’apparente noncuranza ascoltava attentamente il discorso.
− Dicevo... Lovino Vargas è già partito. I due fratelli vivono in due parti opposte dell’Italia, uno al Nord e l’altro al Sud, quindi sono entrambi molto indipendenti e autonomi l’uno dall’altro. Feliciano Vargas, come sai, credono tutti che in questo momento sia sull’aereo diretto per il suo paese... e quindi nessuno s’insospettirebbe se non lo vedessero più in giro. Non lo verrebbero neppure a cercare.
− Alfred? Cosa stai cercando di insinuare?
Alfred bevve un’altra sorsata di bibita e schioccò la lingua. La sua voce si fece più bassa, da cospiratore: − Di là abbiamo un giovane uomo cui, se lo lasciassimo andar via, la prima cosa che farebbe è andare dalla polizia, magari proprio dal suo amico agente, a denunciarti di aggressione. Ora, mi dici cosa abbiamo intenzione di fare?
Arthur arricciò la bocca per il retrogusto dolciastro della Seven Up. – Una soluzione sarebbe farlo tacere per sempre. – mormorò, un verso cinico e senza inflessioni. Alfred sospirò, appoggiando il mento sulle mani intrecciate, scrollando leggermente la lattina tra le dita.
− Ah sì. Potremmo anche farlo ma... non mi ci vedo a uccidere gente. Inoltre, dove nasconderemmo il cadavere? Riusciremmo a vivere con un tale peso sulla coscienza? Eccetera.
− Effettivamente non siamo proprio la coppia di assassini per eccellenza. – commentò Arthur, socchiudendo gli occhi.
− Beh, secondo questa logica, neppure Thelma e Louise avrebbero avuto ragione d’esistere, ma non è questo il punto.
− Hai ragione. Scusa, ti ho interrotto.
Alfred mise giù la lattina e superò il bancone, mettendosi a girare per il salone come una trottola rumorosa. Lo zucchero contenuto nella bibita stava cominciando a eccitare i suoi nervi meglio di una droga, trasmettendogli una foga che aumentava il battito del suo cuore. Negli occhi azzurri brillava una luce particolare, che poco aveva di “buono”. Si fermò davanti alla vetrata, guardando qualcosa d’invisibile nella nebbia, mentre un sorrisetto gli iniziò a curvare le labbra.
− In ogni caso, ucciderlo... non trovi anche tu sarebbe un peccato? – anche il suo tono, di solito così stridulo, si era fatto dolce. Parlava a voce bassa ma esaltata, come se stesse ragionando un piano top secret.
− Peccato?
− Sì... – il luccichio aumentò di potenza, − uno spreco. Un ragazzo così giovane e di talento, come se ne trovano pochi... un cuoco provetto... che peccato sarebbe lasciarselo sfuggire...
Alfred posò le mani sul vetro, le unghie ticchettarono sulla superficie. Si girò verso l’altro.
− Se capisci cosa intendo – disse. Un altro sospiro. – Un grosso, grosso spreco.
Allargò le braccia, a indicare tutto il locale. – Tu che hai già lavorato qua, sai quanto costa avere alle proprie dipendenze un lavoratore salariato, specie di questi tempi con lo stipendio minimo e altre minchiate...
Arthur alzò lo sguardo: cominciava a comprendere. Il sorriso di Alfred s’ingrandì.
− Bene, hai capito. Prendi il McDonald dall’altra parte della strada. Ha un enorme successo dal momento che utilizza studenti e disperati al suo servizio, sottopagati e sfruttati come bestie. Ma il Mc non è che una catena, puoi andare dappertutto e trovarne uno, mentre l’Eagle esiste solo qua in Fleet Street... e il nostro lavoro non ha paragoni con il loro...
Ridacchiò. Gli occhiali scesero sul naso e lui lo arricciò per tirarli su. Alfred continuava a parlare, perso nei suoi pensieri che crescevano via via di euforia. Si era fermato tra i tavoli, come se dovesse permettere al concetto di attecchire e il solo modo di farlo fosse bloccare il suo corpo. Il suo sguardo trasmetteva puro fuoco turchino.
−  Sì... agli affari serve una spinta... i debiti vanno sanati al più presto... che poi con le sue qualità potremmo imparare ad attirare più clienti... sarebbe una risorsa impareggiabile −.
Arthur strabuzzò gli occhi, il corpo già teso per l’anticipazione. Aveva capito cos’avesse in mente l’altro.
− Al, se stai pensando quello che penso io... è un’idea splendida! – Arthur si alzò a sua volta in piedi spalancando le braccia. – Sul serio, è un colpo di genio!
Alfred si girò verso l’altro esibendo un sorriso gigantesco: − Lo pensi davvero?
− Assolutamente! Ѐ l’idea più geniale che ho mai sentito uscire da quella tua boccaccia! Oh, sono così fiero di te, come ho fatto tutto questo tempo senza il tuo aiuto?
Alfred, il cuore che batteva feroce nel petto gonfio d’orgoglio, alzò la lattina come per un brindisi. – Yaaahiii! – strillò – Sono così felice! Potremo davvero sfondare ora!
− Sicuro! Voglio proprio vedere chi oserà criticarci se abbiamo tra le fila un cuoco come lui!
Arthur gli fece posare la lattina, lo prese per un braccio e lo portò davanti alla vetrata, indicandogli il paesaggio annebbiato e ormai buio, da dove in teoria si sarebbero dovuti vedere gli altri negozi della via. Radi passanti sbucavano improvvisamente, scomparendo subito, come abitanti di un sogno.
− Li vedi? – domandò.
− Chi?
− L’umanità. – Arthur fece una smorfia sarcastica, − Questa umanità vagante ed effimera, che usa altra umanità a suo piacimento e allo stesso momento è usata lei stessa. Ѐ la catena della vita. Lo senti, lo senti dappertutto questo suono, di piedi che schiacciano teste di altri uomini pur di arrivare più in alto, per arrivare a quello che sembra il cielo ma non è che un’illusione, perché per quanto si tendono non ci riusciranno mai. Eppure è così da sempre. E chi siamo noi per impedire tutto ciò?
Alfred ghignò, non si capiva se fosse maligno o malinconico. – Non siamo peggio di loro.
− Benvenuto nel mondo reale, amico mio.
− Dove i più forti si servono dei più deboli.
− Ma stavolta sarà il contrario e ci serviremo noi dei forti!
Scoppiarono insieme a ridere. Il salone rimbombò delle loro voci, amplificandole.
− Allora lo facciamo? Ci teniamo l’italiano? – domandò Alfred quando si calmarono, per ottenere la conferma definitiva.
− Sì. Ma per farlo, dovremo svegliarlo. Su, andiamo, Mr J!
− Ai suoi ordini, Mr K!
 
* * *  PICCOLA TREGUA  * * *
 
C’è un detto che dice “Chi lascia la strada vecchia per la nuova, sa quel che perde ma non sa quel che trova”. Era proprio il caso di quel disgraziato, che stava abbandonando per il momento ogni obiettivo precedentemente ideato per abbandonarsi all’incognito dell’improvvisazione. Era un’idiozia, non c’è dubbio. Avrebbe potuto fallire, mentre se avesse seguito il piano la vittoria sarebbe stata assicurata, anche se a costo della sua anima.
Però sapeva, sapeva!, di star facendo la cosa giusta.
Forse. O forse no.
Se fosse la scelta che aveva fatto fosse la più appropriata, non lo sapeva lui e non lo sappiamo neppure noi che leggiamo la sua storia.
Tutto quello che possiamo fare è aspettare e tenere incrociate le dita, mentre per il momento la questione resta in sospeso.
 
* * *
 
Lo avevano messo dritto e legato i suoi polsi dietro lo schienale di una sedia. Il suo capo castano era privo di qualsiasi sostegno, chino quasi al punto che il mento toccava lo sterno. Ovviamente era ancora incosciente.
I due neo aguzzini stavano lì davanti a lui, decidendo sul da farsi. Erano ancora nello sgabuzzino, con solo una misera lampadina a schiarire il buio che avanzava e aveva invaso anche il locale.
− Per me è una cazzata – sentenziò Arthur, voltando il volto dall’altra parte. Avendo le braccia ostinatamente incrociate sul petto, era chiaro il suo rifiuto di partecipare a quello che l’altro chiamava “dolce risveglio”.
− Cazzata? Cosa dici, se l’ho visto decine di volte nei cartoni animati!
− Oh bene, da “lo fanno sempre nei film” a “l’ho visto nei cartoni animati”! Di male in peggio...
Alfred sbuffò. Quel tipo era proprio un guastafeste coi fiocchi.
− Ok, se proprio devi farlo spicciati, così la facciamo finita una volta per tutte – sospirò Arthur con le mani alzate in segno di resa. Alfred sorrise, compiaciuto della vittoria. Aveva in mano una bacinella di plastica, utilizzata solitamente per mescolare le spezie con cui condire la carne, piena d’acqua.
− Guarda come si fa! American style! – strillò. Un passo indietro come per un lancio in una partita di baseball, ci fu un rapidissimo guizzo dei muscoli e in meno che non si dica il recipiente fu svuotato del suo contenuto. SPLAAAAASH.
Feliciano fu inondato da mezzo litro d’acqua, infradiciandosi sia la testa che buona parte del torace e dei pantaloni. Ma non si risvegliò.
− Oh, cazzo. – Arthur imprecò notando che il piano non stesse funzionando. – Perché non si sveglia? Che abbia qualche danno al cervello? Oddio! – gli occhi verdi si spalancarono colmi di ansia, − Che gli abbia procurato dei traumi spostandolo? Che sia andato in coma?
Keep calm, old man. Non vedi? Ha fatto una smorfia. Reagisce, anche se non apre gli occhi.
Feliciano aveva infatti arricciato il naso. Pochi secondi dopo starnutì e mosse piano le labbra, mormorando qualcosa: − Gnnn... ancora cinque minuti, Ludwig... Ho sonno...
“Ludwig? Ma non si chiamava Lovino? Oh beh, non importa, forse sta sognando”. Alfred fece l’occhiolino al socio. Arthur di rimando lo guardò storto. Quell’ammiccamento significava “a mali estremi, estremi rimedi” e lui aveva sinceramente timore di cosa potesse uscire da quella testaccia. Di nuovo.
− Eccolo! Ci siamo quasi. Ancora un piccolo sforzo e lo riporteremo nel mondo dei vivi.
− Che hai intenzione di fare adesso?
Alfred rise. “Oh no” pensò Arthur “Me lo sentivo, adesso fa qualche idiozia delle sue”
− Dal momento che la secchiata non è servita, dobbiamo usare un metodo più duro! Diciamo un trattamento d’urto! – annunciò Alfred, schioccando le nocche. Arthur si coprì il volto con le mani, preparandosi psicologicamente all’impatto. L’altro lo fissò perplesso.
− ‘Mbè? Qualche problema?
− Ho seriamente paura che tu possa distruggere la mia cucina nel solo tentativo di svegliarlo.
− Non dire stupidaggini! – Alfred si mostrò offeso come se avesse effettivamente pensato di farlo, ma poi avesse cambiato idea. – Niente di pericoloso. Solo, adesso ti mostro come io conosca la razza italiana meglio di te.
Arthur ridacchiò sarcastico. Si allontanò comunque di qualche passo, tanto per evitare eventuali ripercussioni sulla sua persona. Alla faccia della fiducia.
− Guarda e impara, brit!
Alfred si mise le mani a coppa davanti alla bocca, si avvicinò al volto dell’italiano (non troppo, non voleva assordarlo) e urlò a pieni polmoni: − MA CHE BUONA CHE Ѐ LA PIZZA CON PROSCIUTTO E ANANAS!
ERESIAAAAA!!!
Gli occhi castani dell’italiano si spalancarono in contemporanea con la sua bocca. Si richiusero quasi immediatamente, accecati dalla luce improvvisa, ma continuò a gridare indignato, con la bocca impastata: − Eresia! Chi è quel mona che osa dire una cosa simile... ehi...! – Riaprì piano le palpebre, mettendo a fuoco l’ambiente circostante. Appariva confuso: la testa gli girava come se avesse dormito per troppo e fosse ancora intontito. Provò l’impulso di stropicciarsi gli occhi ma si accorse di non riuscire a muovere le braccia. E neanche le gambe. Cadde nel panico. – Oi! Sa xe suceso?’Ndo sonti finìo? – si agitò violentemente, rischiando di rovinare a terra.
− Ѐ inutile che ci provi. Puoi notare da te che sei legato e che quindi non puoi muoverti, tantomeno scappare.
Feliciano alzò lo sguardo verso l’origine della voce. Strizzò nuovamente gli occhi, cercando di ricordare dove avesse già visto quel tipo che aveva parlato. Lo conosceva? Il volto sorridente, il corpo massiccio, gli erano familiari ma nella testa aleggiava una nebbia che intorpidiva i ricordi.
Vicino alla porta, invece, stava in piedi un’altra persona che gli fu molto più facile da rammentare.
− Signor Kirkland...? – mormorò.
− Ben svegliato, Feliciano. – Arthur si avvicinò, serafico come un gatto. – Come stai? Ti gira la testa?
− Io... sì, mi gira tutto. Signor Kirkland, dove mi trovo?
Alfred s’intromise come suo solito. − Benvenuto al The Eagle, il fast-food più stelle e strisce della City! Il mio nome è Alfred F. Jones, pronto a servire i migliori hamburger di Londra! – Si posizionò davanti a Feliciano, quel suo sorriso largo che gli riempiva la faccia. – Ma non penso che nella condizione in cui sei adesso ti interessi un deliziosissimo hamburger. Mi sbaglio? Devi avere ancora gli uccellini che ti svolazzano intorno, dopo tutti i colpi che ti sei preso.
− Come... cosa? – mormorò Feliciano. La luce traballante della lampadina gettava orribili ombre scure sui volti dei due in piedi, rendendo la situazione ancora più inquietante di quanto non fosse già. Rabbrividì, sia di freddo che di paura.
− Mi sembri un po’ confuso. Ti ricordi cosa è successo prima che perdessi i sensi?
− Ho perso i sensi? Ecco perché mi sento così... –. Chiuse le palpebre, mentre la nausea prodotta dal vino ingerito risaliva per la gola, contemporanea all’emicrania. Gli sembrava che nella testa ticchettasse una bomba pronta a esplodere. − Più o meno... ricordo che volevo parlare da solo con Kirkland e che mi avesse accompagnato in cucina...  
Lo sforzo mentale riportò lenti i ricordi a galla, insieme a un viscido senso di panico che s’impadronì lento del suo corpo. La mente si sdoppiò: una parte ascoltava Alfred F. Jones parlare di cosa era successo dopo l’ennesimo “incidente”, dall’altra i ricordi di quel pomeriggio maledetto, in una fusione priva di ordine logico come nei sogni.
Quel dannato sospetto divenuto in così poco tempo certezza, non appena aveva riconosciuto Arthur lì al mercato. L’inglese era tornato a Londra perché voleva fare del male al Fratellone Francis, voleva terminare quello che non era riuscito a compiere un anno prima. Il solo pensiero aveva riempito Feliciano di rabbia, un sentimento che sovrastava la paura e il suo istinto di vittima. Quando, però, ne aveva parlato a Lovino, il quale era chino sulle sue valigie ormai pronto a partire, si era sentito urlare contro per l’ennesima volta in quella settimana. La scena era vivida come un film proiettato dalla mente, le parole aspre rimbombavano contro di lui con un potere nuovo e amplificato.
Rivide i suoi occhi sprezzanti, il digrigno dei denti quando l’aveva interrotto nelle sue preparazioni. “Che cazzo me ne frega a me?” aveva detto, buttando irosamente una maglietta tra le sue cose. “Quella checca francese può anche andarsene a fare in cu...” “Lovi, ti prego!” l’aveva supplicato lui “So che ti sta antipatico, ma ascoltami! Credo sia una cosa seria!”. Lovino, per tutta risposta, era scoppiato a ridere. “Fratellino mio” gli aveva ribadito con un tono insolitamente quanto falsamente dolce, “Io adesso me ne torno a casa. No me rump o’cazz. Non me ne può fregare di meno se quello stronzo del tuo ex capo vuole ammazzare il lumacone. Faccia pure. Non è problema mio”. Aveva chiuso la valigia con un tonfo secco. “E neanche tuo.” Allora Feliciano aveva deciso che...
− ... non volevamo ucciderti. Perché noi non siamo cattivi, noi siamo i buoni, e che cavolo!  Però se ci fai incazzare potremmo anche cambiare idea, ma sono sicuro che andremo d’accordo. Arthur ha fatto tutto il possibile per tenerti in vita, a partire da... come si chiama? Ah, sì, posizione di sicurezza, che boh, io non sapevo neanche esistesse qualcosa di simile, ahahah, fortuna che c’era lui. All’inizio ero sicurissimo fossi morto, sai, ma poi ti ho visto respirare e ho capito... –
... se una cosa la volevi fatta (e fatta bene!), dovevi fartela da solo. Peccato che Feliciano fosse debole. Non c’era speranza che lui, una sessantina chili per un metro e settantadue, fisico gracile e codardia radicata nel profondo, potesse affrontare a muso duro qualcuno. Non ci volle molto che il bel proposito di proteggere un amico sublimasse in una mera questione di orgoglio. Un riscatto personale, ecco cosa ci voleva. Aveva avuto questi pensieri seduto alla tavola del pranzo, mentre sentiva Lovino cantare, in procinto di andarsene e prendere il suo volo diretto a Napoli. Il musetto corrucciato, così comunque tenero alla vista, appoggiato sulle braccia piegate sulla superficie di legno compensato; davanti agli occhi scintillava di riflessi rubini il bicchiere pieno per metà di vino, mentre di fianco ci stava la bottiglia, ormai vuota. Nessuno l’avrebbe mai appoggiato, né Lovi, né Ludwig, neppure il nonno se fosse stato ancora in vita, nessuno avrebbe mai creduto ai suoi sospetti e tantomeno alla sua impresa. Ma questo, l’inglese non poteva saperlo. Un sorrisone gli era spuntato sulle labbra mentre la mente iniziava la sua discesa verso gli abissi guidato dall’alcol. Era allora che gli era venuto in mente...
− ... sì, insomma, sei un italiano, la buona cucina ce l’hai nel sangue! Però mi sa che dovrò farti da guardiano, perdonami la mia poca fiducia ma sai com’è, ahahahaha! Non vorrei mai che ti venisse in mente di scappare appena giriamo lo sguardo. Con me questo rischio è pari a zero, sono molto abile nel tener d’occhio chi di dovere! E se soltanto ci provassi, beh, ti farei pentire di quest’azzardo. Comprendi dove voglio arrivare, caro il mio Vargas? –
... e quando Lovi era finalmente uscito, aveva telefonato a Tino per avere il suo permesso di portare in giro Peter un’ultima volta.“Sai, stasera devo partire!” gli aveva detto, o qualcosa del genere. Aveva coperto alla grande la sua assunzione forse un po’ troppo eccessiva di alcol, risultando affidabile come suo solito. In piazza New. St Square, poco lontano da dove si trovava la sua ultima tappa, alle sei e un quarto, a prendere il ragazzino sarebbe stato Berwald e non lui, ma pazienza. Aveva tutto il tempo del mondo.
− ... però, sai, Arthur mi ha detto di fare questa cosa e tu d’altronde hai bisogno di un posto decente dove dormire, così sono stato costretto a... –
Dopo avergli tenuto compagnia quell’ultimo pomeriggio, quanto tempo sarà stato? Due ore? Un’oretta e mezza, forse, Peter gli aveva tenuto un po’ il muso perché gli aveva messo fretta per andare a trovare “quei due”. “Tranquillo” lo aveva rassicurato “appena torno in Inghilterra ti porto a fare una super gita!”. Ed erano arrivati al locale. Ricordava la nebbia, peggio di quella sulla laguna in certe giornate invernali, talmente opprimente che aveva paura a respirare, quasi gli entrasse nei polmoni e lo soffocasse. Ricordava che era partito in quarta, chiedendo di parlare con Arthur e quell’altro (si chiamava Alfred, giusto?) gli aveva piantato una scenetta per prendere tempo. Non sembrava avere tutte le rotelle a posto, quel ragazzo e il fatto che avesse il fisico di un giocatore di rugby non aiutava il sottile senso di ansia che lo aveva colto. Si era sbagliato. Era Arthur, il problema maggiore.
− ... Comunque, ah sì! Ti abbiamo legato alla sedia però non avevamo idea di come svegliarti, allora ho deciso di versarti una secchiata d’acqua addosso, come nei cartoni, hai presente? Non... non che io guardi ancora i cartoni. Solo alcuni. Però non ti svegliavi, e Arthur era tutto agitato che fossi in coma. “Non avere paura, ci sono qua io!” gli ho detto, avendo la situazione bene in pugno, e lui ha lasciato il posto all’eroe. Ed eccoti qua, sveglio e pimpante! Allora, hai capito la situazione? −.
Feliciano ricordava il sapore metallico della rabbia che era cresciuta come una marea dentro di lui. Ricordava l’ebbrezza dell’impresa, come se da lui dipendesse tutto. Ricordava quella risata isterica che gli era salita alle labbra come un conato, come se tenendola dentro sarebbe esplosa nelle sue viscere. Ricordava la sorpresa e il dolore dei colpi e le lacrime e quando aveva supplicato perdono per aver superato le colonne d’Ercole e aveva sfidato il mostro, oddio, adesso sarebbe morto, che male che male che maleee...
E aveva sentito un’altra risata, che non era di Arthur, che non era la sua, che non era di nessuno ma era di una bestia immensa che voleva prendersi la sua anima come pegno. Un calore cocente come quello delle fiamme dell’inferno lo aveva avviluppato. Poi, dal buio, quella luce piccolina aveva sconfitto la bestia, che era scivolata nella sua tana, promettendo di tornare un giorno. La lucina era scomparsa. Tutto era tornato nero
Si mise a strillare in una lingua che non capirono, cercando inutilmente di muovere almeno le braccia ma rischiando solo di precipitare sul pavimento.
− Su, su – fece Arthur, bonario – va tutto bene. Non c’è bisogno di urlare in questo modo.
Feliciano serrò forte le labbra, ma la paura non scomparve dal volto pallido. Lo strofinaccio che serviva da garza cadde per metà sul suo occhio destro e Alfred glielo tolse, trattenendo un verso di ribrezzo. Le ferite non sanguinavano più, ma in compenso lo straccio era ormai da buttare.
− Vi prego! – gemette Feliciano, notando le evidenti macchie di sangue presenti sulla stoffa e intuendo che erano uscite da lui, – Vi prego, non fatemi del male! Mi dispiace di essere venuto qua, se mi lasciate vivere non dirò niente a nessuno! Farò qualunque cosa, ma non fatemi del male...
Le lacrime stavano già scorrendo sulle guance arrossate.
“Ѐ davvero lo stesso ragazzo di prima? Quello che mi ha affrontato spudoratamente, che mi ha riso in faccia, che voleva vendicare Francis? Ѐ proprio lui, questo che supplica per avere pietà?” pensò Arthur stupefatto, osservandolo tremare e piagnucolare. Incredibile la psiche umana. Un momento prima sei un gigante e il momento dopo sei tornato formica. Chissà qual era stata la pozione magica che l’aveva trasformato.
Oh, giusto: Feliciano aveva bevuto vino prima di venire. I suoi freni inibitori erano stati allentati, era stato questo a convincerlo a fare quell’azione incosciente. Ora, dopo il risveglio, tutto l’effetto dell’alcol era svanito. Forse, se avesse bevuto un goccio, avrebbe riacquistato quella baldanza... ma non c’era alcol nel locale.
− Senti, non abbiamo alcuna intenzione di infierire su di te. – disse – Ma sento che se continui a frignare ancora, a un certo punto perderò la pazienza e dovrò farti star zitto con la forza. Alfred, per favore, vagli a prendere qualcosa da bere, una delle tue bibite strapiene di caffeina possibilmente. Chissà che non si rimetta in sesto.
Alfred obbedì seppure un po’ malvolentieri; gli era rimasta della diffidenza al lasciarlo da solo, nonostante i suoi sforzi.
Appena fu fuori, Arthur si avvicinò a Feliciano fino a che la distanza non si ridusse a meno di un metro. Gli stava proprio di fronte. Rimasero per un po’ a fissarsi, come due bestie che si studiano a vicenda, cercando di prevedere le mosse dell’altro. Feliciano aveva gli occhi arrossati e tirava su con il naso, senza però accennare ad abbassare lo sguardo. Respirava velocemente. Nelle iridi nocciola brillava palese l’istinto della preda. Un animale braccato che non ha più nulla da perdere, se non la vita.
− Sono stato un idiota – mormorò Feliciano, talmente piano che l’altro lo sentì appena. – Inutile credere di cambiare la realtà dei fatti. Rimango tale anche se cerco di salvare qualcuno, ma adesso è troppo tardi.
− Sei venuto qui perché eri sicuro che la vita di un tuo amico fosse in pericolo a causa mia.
Feliciano annuì. – E ho rischiato di perdere la mia. Un povero, debole idiota...
Arthur annuì. L’animo, intriso di ricordi amari, buttò fuori esso stesso veleno: – Credi forse che ti avrebbero dato una medaglia al valore? O anche solo ringraziato per il tuo sforzo? Per chi ti sei messo in gioco? Hai fatto solo quello che credevi giusto fallendo miseramente, mettendo in rischio sia te che altri. Sì, sei un idiota.
“E tu, Artie? Tu hai fatto quello che ritenevi giusto? Picchiarlo fino a credere che fosse morto, credevi avrebbe sistemato le cose?”
− Eppure... – continuò a voce più bassa. – Mi è impossibile biasimarti del tutto.
Feliciano tirò nuovamente su con il naso. – Dici davvero? – pigolò.
− Sì. Hai avuto un coraggio che molti non hanno mai sperimentato in vita loro.
Un sorriso tiepido condito di lacrime. – Ѐ per questo che hai avuto pietà di me e mi hai risparmiato?
− Semplicemente io non uccido le persone, nonostante si creda il contrario.
− Oh. – Feliciano abbassò nuovamente il capo. Con un filo di voce dolcissima, come se parlasse tra sé, disse – In ogni caso, non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici.
Arthur non se la sentì di chiedere il significato di quella frase dal sapore enigmatico. Vedendo il ragazzo tremare, raccolse da terra il cappotto e glielo poso di traverso sulle spalle, a mo’ di coperta. Pensieri pungenti come spilli traforavano il suo cranio. Aveva sfiorato per un soffio la dannazione eterna e stava incolpando qualcun altro del suo gesto disumano, qualcuno che al contrario di lui dava la motivazione delle sue azioni all’amore supremo, quello che non chiede nulla in cambio. Dare la vita per i propri amici.
 Si allontanò in tempo dal ragazzo prima che Alfred rimbucasse in cucina con una lattina in mano e una cannuccia nell’altra. Al stappò la bibita e v’inserì la cannuccia, prima di farla bere al prigioniero, senza ovviamente accennare al slegarlo. Feliciano aspirò una sorsata e mollò subito la presa. Sembrava un allucinogeno liquido estremamente dolce. – Blaaah! Che roba è? – domandò, disgustato.
− Soda! Credevo che Peter avesse finito tutta la scorta, invece ne è rimasta quest’ultima lattina, che fortuna! Non ti piace?
Feliciano allungò il collo per averne un altro po’: sì, faceva schifo, ma dava anche un’assuefazione immediata. L’effetto eccitante della bibita stimolò a tutta velocità i suoi neuroni, sovrastando istantaneo la paura, e quietò l’emicrania che stava avanzando minacciosa. Un secondo sorso, una seconda smorfia schifata e una seconda ondata di pace chimica. Il sapore zuccherino lasciava presto il posto a un’acidità terribile da sopprimere con altra soda, in un circolo vizioso che in poco tempo gli fece terminare la lattina.
− Peter... – la bocca non era più impastata ma la voce uscì ugualmente flebile. C’era qualcosa d’importante che riguardava sé stesso e il ragazzino, ma si era scordato cosa. – Ehi! Avete dato da bere a una simile porcheria a un dodicenne?! Se i suoi lo vengono a sapere, mi ammazzano! – protestò, prima di rendersi conto di quella cosa di fondamentale importanza.  −  Io ero venuto qua con Peter... dov’è adesso? Oddio, dovevo portarlo in piazza da suo padre! – strillò, in preda a un panico diverso dal precedente, forse addirittura peggiore. Arthur si affrettò a tranquillizzarlo: − Non preoccuparti, ce ne siamo occupati noi. Non sa neanche che ti abbiamo trattenuto, è convinto che tu ora sia sull’aereo diretto in Italia, come sarebbe stato giusto che fosse. Probabile che in questo momento stia cenando davanti alla tivù, a casa sua, come il 90% dei ragazzini a quest’ora.
Feliciano aprì la bocca tremante, ma non riuscì a dire nulla. Caspita, il volo! Sicuramente l’aveva perso. In ogni caso, sarebbe stato impossibile prendere il successivo, in quelle condizioni; la testa gli pulsava debolmente e quei due non sembravano intenzionati a lasciarlo andare via presto. Peter, però, era a casa sua. Toh, una gioia.
Nel frattempo, Alfred si era avvicinato, chinandosi su di lui, le mani congiunte dietro la schiena. La sua enorme ombra copriva la luce già fievole della lampadina, oscurandolo del tutto; l’unica cosa luminosa erano i suoi occhi azzurri.
− Ti starai chiedendo cosa vogliamo da te – disse.
− Effettivamente...
− Ottimo! Adesso te lo spiego io. – Alfred si sfregò le mani, − Tu sai cose che non dovresti sapere. Cose che potrebbero mandare in malora non solo il qui presente Kirkland ma anche me. Capisci cosa intendo?
Feliciano alzò le spalle, deciso a fare un tentativo nonostante non avesse capito affatto. − Cose tipo che la pizza con l’ananas fa cagare?
− Sì, tipo... ehi, no! – Alfred fece un segno di diniego con le braccia. – Cosa diavolo c’entra adesso la pizza?
− Beh, se nel vostro fast-food vendeste pizza con ananas e prosciutto, state sicuri che vi ritrovereste presto una folla di italiani inferociti che pretendono la vostra pelle ad attendervi sulla porta del locale.
O quel ragazzo era estremamente stupido o li stava prendendo per i fondelli; Arthur optò per la seconda ipotesi. Urlò: − Chissene frega! Non era questo che intendeva con “cose che non dovresti sapere”. Non cercare di cambiare discorso!
L’altro lo fissò con quegli occhi grandi e incredibilmente innocenti, senza capire. Evidentemente quei tizi non avevano mai dovuto placare l’ira di un fratello maggiore particolarmente suscettibile alle improbabili variazioni di ricette italiane, a differenza sua.
Arthur si schiaffeggiò la fronte: forse il ragazzo era stupido davvero. Prese una grossa boccata d’aria e spiegò: – Francis Bonnefoy. Mi hai accusato di essere tornato a Londra dopo tutto questo tempo per... per ucciderlo. – cavolo, dirlo ad alta voce era più difficile di quanto pensasse, − Hai minacciato di segnalarmi alle autorità, in particolar modo a un certo agente di tua conoscenza, il quale è stato lo stesso che mi ha arrestato e prelevato dal mio ristorante la prima volta.
− Ludwig?
− Forse era questo il suo nome di battesimo. Fatto sta che... è successa la cosa di cui ormai siamo tutti e tre a conoscenza. E ora tu sei qui, impossibilitato ad andare a spifferare quanto accaduto.
Feliciano aveva gli occhi lucidi di lacrime. – Ma... perché? – domandò, con voce tremula.
− Mi sembra elementare. Ero in preda alla rabbia, ho agito d’impulso.
Feliciano scosse la testa. – No, intendo... ora sono un testimone scomodo. Non sarebbe stato meglio per te se... se non mi fossi risvegliato?
Arthur rabbrividì. Era una domanda assolutamente logica, seppure priva di morale. Ma di quale morale poteva vantarsi lui?
Fu Alfred a rispondere: − Arthur non è un “cattivo”. Ha commesso un errore, ma ha voluto rimediare. – diede una pacca sulla spalla del socio, scuotendolo. – Giusto, Art? E comunque – tornò a rivolgersi al ragazzo davanti a lui – tu ci servi da vivo.
Feliciano piegò la testa da un lato, guardandolo di traverso. Ciò gli dava un’aria particolarmente poco intelligente. Arthur si domandò se quella fosse un’idea davvero valida e se non stessero facendo l’errore del secolo. In ogni caso era troppo tardi.
− Puoi capire da te che non possiamo lasciarti andare a piede libero. – continuò Alfred – Così abbiamo avuto questa idea grandiosa, o perlomeno io l’ho avuta −. Allargò le braccia per aumentare l’enfasi. – Tu resterai qua con noi.
− Eh? – Feliciano aggrottò la fronte. Non capiva.
− Conosciamo tutti la tua abilità tra i fornelli, ne abbiamo avuto prova oggi a pranzo. Quello che ti chiediamo è di rimanere a lavorare per noi, a tempo indeterminato. – spiegò Arthur. Feliciano inarcò le sopracciglia in una splendida imitazione dell’emoticon sorpresa. Perfino il ciuffo arricciato vibrò leggermente.
− Ah, e se dovessi rifiutare la nostra gentilissima offerta... – di nuovo Alfred e quel suo sorriso da pubblicità, solo che adesso aveva tirato fuori da chissà dove uno dei coltelli speciali di Arthur, − c’è sempre la seconda opzione. Capish? −. La lama volò pericolosamente vicina alla gola di Feliciano, facendolo strillare.
− Non credo ci sia bisogno di simili ricatti – lo rimproverò Arthur, affrettandosi a riprendere quell’arma impropria e riporla in un posto più sicuro, − Sono sicuro che il nostro amico qua sappia cos’è meglio per lui.
Feliciano stava già mettendosi a frignare, ma si zittì. Sembrò pensarci un po’ sopra.
− Volete dire che... sarò una specie di aiutante? – domandò.
− Esatto. Però senza stipendio e senza ferie e senza possibilità di farti vedere dal pubblico, altrimenti si scoprirà che ti abbiamo preso noi. E poi non abbiamo abbastanza soldi per un terzo stipendio... – Alfred sospirò, portandosi una mano al volto. Guardò il ragazzo attraverso lo spazio tra le dita, le fiamme azzurre dietro le lenti: – Sia chiaro, ogni tentativo di fuga sarà severamente punito, quindi non fare scherzi o finisci male. Comunque non penso ce ne sarà la possibilità perché ti terremo sempre sott’occhio. Lavorerai quando lavoreremo noi e terminerai quando termineremo noi, a meno che non abbiamo qualcosa da farti fare in surplus. Una sorta di schiavetto.
Feliciano ci ragionò ulteriormente sopra, mugugnando: − Niente stipendio, niente ferie o orari decenti, libertà limitata... caspita, nel mio paese le persone che fanno questa cosa li chiamiamo “stagisti”. Mi sono trasferito in Inghilterra per essere sfruttato come se fossi rimasto in Italia! Ahahahah!
Scoppiò in una risata cristallina, che fece sorridere persino Arthur, nonostante fosse resa agrodolce dai suoi occhi gonfi e ancora lucidi. Era incredibile come quel ragazzo rimanesse mogio solo per pochi secondi, prima di trovare il lato buffo o comunque positivo della situazione: c’era un sole che brillava nel suo spirito e s’intravedeva attraverso quel suono gioioso. Come diavolo faceva?, si domandò l’inglese. Era stato picchiato brutalmente, rapito, imprigionato, obbligato a diventare loro sottoposto... eppure conservava quella sorta di luce interiore. Arthur sentì che una parte dentro di lui stava languendo davanti a questo richiamo del bene, ma fu svelto a soffocarla. Non c’era tempo per le sciocchezze.
Alfred tese una mano verso Feliciano, in segno di amicizia. – Bene, se siamo d’accordo allora ti nomino “stagista” dell’Eagle! Congratulazioni!
Feliciano guardò perplesso la mano. – Devo stringertela?
− In teoria sì, non voglio mica che tu mi ci legga il futuro
Un sorriso dolcemente ironico gli curvò le labbra. Malgrado il cuoricino gli battesse impazzito nel petto, folle di terrore e disperazione, non riusciva a smettere di pensare quanto tutto ciò fosse ridicolo e oltremodo buffo. – Sei divertente. Ma mi dici come posso farlo, se sono legato?
Alfred spalancò la bocca davanti all'evidenza, leggermente imbarazzato. − Oh, hai ragione! Ahahahahah, scusa, provvediamo subito, però parla accidenti, non è che possiamo fare tutto noi, eh! Io mi ero pure dimenticato che fossi legato.
Arthur tolse il cappotto dalle spalle di Feliciano per togliere qualsiasi ostruzione. Alfred invece riprese in mano il coltellaccio e fece per tagliare le corde che imprigionavano i polsi dell’altro con un colpo solo, ma si accorse che la lama non era adatta. – Ma porca miseria, che schifo di arnesi tieni, Kirkland? Non taglia neppure il burro ‘sta roba!
− Vedi che lo utilizzi nel modo sbagliato, lascia fare a me. E non imprecare ad alta voce, Jones, non sei un dannatissimo bifolco, che cazzo! Un po’ di maniere!
Ora sia Alfred che Arthur erano alle spalle di Feliciano, al di fuori della sua vista. Per un attimo il ragazzo ebbe lo spaventoso presentimento che, per liberarlo, Kirkland gli avrebbe mozzato direttamente le mani. Chiuse forte gli occhi per liberarsi da quell’immagine spaventosa e lanciò un urlo mentre sentiva la lama scendere, inclemente.
Invece sentì chiaro il rumore del coltello che veniva nuovamente riposto. Arthur, tirò con decisione una delle corde penzolanti che formavano il nodo ed esso si sciolse come per magia. – Toh. Non era così difficile, come vedi. E smettila di sbuffare, non sei un cavallo!
Lo stesso procedimento fu fatto alle caviglie legate tra loro: ora Feliciano si poteva godere la riconquistata libertà e infatti si mise ad agitare le braccia come se volesse spiccare il volo, mentre riacquistava la sensibilità agli arti addormentati. Un fastidioso formicolio gli attraversava i muscoli e per cancellarlo si mise a fare uno strano balletto, sbattendo i piedi a terra e muovendo le dita convulsamente. Gli altri due lo osservavano l’uno divertito e l’altro perplesso. – Sei così contento di lavorare per noi che ti metti pure a ballare? – lo prese in giro Alfred. Feliciano rise in risposta. – Forse sono solo felice di essere ancora vivo e voglio festeggiare! – disse, a metà tra lo scherzoso e il serio. Aveva ancora una paura folle che gli scorreva nelle vene, dovuta al fatto che non sapeva cosa aspettarsi da quei due pazzoidi, ma la speranza innata che risiedeva in lui gli faceva vedere una luce nell’oscurità. “Non ho idea di come andrà a finire questo pasticcio in cui mi sono cacciato” pensava “quindi può andare malissimo come al contrario potrebbe esserci qualcosa di buono. Punto tutto sul lieto fine, poi staremo a vedere”.
L’accordo era stato stipulato, lo strano duo si era evoluto e trasformato nello strano trio.
Successero altre cose quella sera, cose la cui spiegazione rimanderemo a un futuro prossimo, tra cui una cena disastrosa, equivoci imbarazzanti e battibecchi che, con il nuovo membro, si sommarono a quelli che avvenivano già prima. Tutto normale, insomma, il ragazzo era solo una goccia in quel mare di follia che era l'Eagle. Fatto sta che quando Arthur si avviò finalmente verso casa si erano fatte ormai le dieci di sera.
Il cielo era limpido, la nebbia era scomparsa. Senza tutte le luci della città si sarebbero potute vedere le stelle, le tacite stelle, e Arthur rimpianse la loro mancanza. Nel suo animo aleggiava una strana sensazione, come se quelli fossero gli ultimi istanti di calma prima di un cataclisma. Il suo piano stava prendendo una piega contorta; ora aveva tra le mani non una ma ben due persone da cui tenere lontano ogni sospetto. Due, perché Alfred non lo contava, troppo ottimista per credere nella parte oscura del suo cuore, lo stesso cuore che ringraziava per l’occasione ricevuta di tornare alla Luce, lontano da quello. Era stanco, la testa rimbombava delle voci squillanti dei suoi nuovi colleghi (chissà come sarebbe andata, adesso che li aveva lasciati!) e già sentiva il bisogno di tornare all’Eagle per accertarsi che tutto andasse bene.
Raggiunse finalmente la sua dimora. Aprì la porta d’ingresso con la circospezione di un ladro, chiedendosi se fosse passato solo un giorno da quando aveva lasciato il suo nido. C’era un silenzio che lo accolse come una coperta calda, avvolgendolo gentilmente.
“Toris dovrebbe essere qua. Eppure non lo vedo in giro... forse è già andato a dormire”
− Toooris! Toris, sei nel salotto? – Nessuna risposta. A meno che non fosse andato in cucina... ma lui era un bravo ragazzo, che si atteneva alle regole. Salì le scale aggrappandosi al corrimano, scoprendosi improvvisamente stanchissimo e raggiungendo il piano superiore con il battito accelerato. Arrivò alla stanza di Toris con passo felpato e bussò piano. Non ottenendo risposta, aprì la porta, sempre in silenzio.
Nella penombra poteva vedere il profilo del giovane rannicchiato sotto le coperte che dormiva pacifico. Si avvicinò. I capelli scuri formavano una sorta di aureola sul cuscino, in contrasto con la pelle chiara del volto. Respirava piano. Gli occhioni erano chiusi, coperti da ciocche ribelli. Arthur sorrise e glieli scostò delicato, attento a non svegliarlo; Toris, in quel momento, appariva così innocente... così vulnerabile... se solo Arthur avesse voluto avrebbe potuto fargli mantenere quella dolcezza tipica della gioventù per sempre, congelata in quell’istante di sonno. Sarebbe apparso un gesto quasi affettuoso da parte sua.
Un suono strozzato gli uscì dalle labbra: non voleva più pensare alla morte, per quel giorno ne aveva avuto abbastanza. Quel ragazzo era privo di qualsiasi colpa, era già un delitto approfittarsi di lui quando a sua volta era così buono. Troppo buono, forse. Egli camminava leggero per i sentieri della vita come un Cappuccetto rosso cieco davanti alla meschinità altrui; dalla sua parte aveva l’intelligenza, contro di lui c’era l’inesperienza. Arthur, da parte sua. non era né il lupo cattivo, né la nonna malata, né l’intrepido cacciatore. No, lui era la mamma che manda una mocciosa di cinque anni in giro per il bosco da sola, dandole un compito e delle indicazioni che non avrebbe mai seguito, sapendo che la faccenda non poteva che finire male. Povero stolto di un Arthur.
Rise tra sé.
Toris aveva il sonno fragile e il suono lo svegliò. – Mr Kirkland...? – mormorò, sbattendo le palpebre. – Ѐ già tornato?
Arthur ritrasse la mano con la velocità di un fulmine, grato che il ragazzo non si fosse accorto di nulla e che il buio nascondesse il suo imbarazzo. Si riappropriò della sua maschera impassibile, lo slancio di affetto freddato in un istante.
− Sì. Scusa, adesso me ne vado, non volevo disturbarti.
− Si figuri. – Toris si drizzò sul letto, strofinandosi stancamente gli occhi. – Passata una bella giornata a lavoro? Dopo che sono andato via, intendo.
“Una favola, ragazzo mio, sapessi”
– Niente di speciale, sono tempi duri, pochi clienti...
− Oh. Beh, è un peccato, perché io invece sono stato proprio contento. Le ho già detto del mio nuovo amico, vero?
Amico” – Sì, certo. Feli... Feli-qualcosa, giusto?
− Feliks. Ѐ polacco, anche lui in Erasmus. – Toris accese la lampada sul comò. – Mi ha trascinato in giro per tutto il giorno. Quando vi ho lasciati al locale, mi ha portato in un negozietto di chincaglierie, sa, quelli con roba a poco prezzo. Guardi cosa mi ha obbligato a comprare!
Indicò con un dito un sacchetto posto sulla sedia accanto alla scrivania. Arthur lo prese e ne tirò fuori quello che somigliava a una tovaglia rossa di plastica, coperto di punti neri che però si vedevano poco con la luce scarsa. Lo porse a Toris.
− Ѐ una mantella impermeabile. Feliks ha insistito che ne prendessi una poiché l’ombrello l’ho dimenticato nella casa di Braginski... – sospirò al ricordo, − Ѐ a forma di coccinella e il cappuccio ha persino le antenne, roba che più infantile di così si trova soltanto nei negozi per bambini. Io non volevo prendere una simile idiozia, sarei parso ridicolo, ma lui ha detto “Se hai paura per la tua virilità, immagina che invece di una coccinella sia un Sirbug”. Ha fatto il gioco di parole, quello stupido. − Rise e Arthur rise con lui, seduto sul limitare del letto. Gli occhi stavano chiudendosi nuovamente, parlava senza la sua normale inibizione grazie al sonno.
−  Ѐ un tipo piuttosto strano. Dice di aver paura degli estranei, ma poi dice le cose più assurde al momento sbagliato... lì, al negozio, gli ho detto che al posto della mantella avrei preferito comprarmi qualcos’altro. Mi ha mostrato un ombrello col bordo in plastica tutto traforato, sembrava pizzo, uguale a quello che aveva lui l’altro giorno quando pioveva a dirotto. Ho detto che era davvero grazioso ma che non faceva per me. Gli ho chiesto – s’interruppe un attimo, ridacchiando. Era così raro vederlo ridere... – Gli ho chiesto se non avesse un’ossessione per il pizzo e lui mi fa, sbattendo le palpebre, – sbatté anche lui le palpebre con fare civettuolo e storpiò la voce in un tremendo falsetto – “Cioè, io tipo ho tutto col pizzo, anche la biancheria! Vuoi controllare?”  Lo ha praticamente urlato in mezzo al negozio, sarei sprofondato per la vergogna... 
Toris si accorse in ritardo di cos'avesse appena raccontato e il suo volto divenne color ciliegia. – Scusi, mr Kirkland! Io... oddio devo proprio aver sonno, dico queste idiozie assurde proprio a lei... mi scusi...
− Non preoccuparti. Può succedere a tutti di fare delle figuracce, l’importante è che ti sia divertito.
− Che poi quando siamo usciti Feliks mi ha rivelato che aveva detto quella cosa al solo scopo di mettermi in imbarazzo... cielo, ho un tale idiota come amico. Si è messo pure a ridere quando mi sono arrabbiato.
Arthur sorrise. Erano nella stessa barca. Un pensiero gli passò per la mente, lasciandolo di stucco: Toris a quanto pare conosceva il suo nuovo “amico” ancora da meno tempo di quanto lui conoscesse Alfred, e nonostante tutto l’aveva investito con una simile carica. Ignorando che Toris stesse cadendo di nuovo addormentato, decise di fargli la domanda: − Ehi... amico, hai detto?
− Uh-uh. Qualcosa che non va?
− No, nulla. Solo... ecco, è una parola che ha un suono inusuale ai miei orecchi.
Toris sorrise, gli occhi chiusi, sull’orlo delle tenebre dell’incoscienza. – Oh, ci farà l’abitudine. Però la capisco... gli amici in genere sono così rari che quando ne trovi uno è difficile riconoscerlo per quello che è...
Detto questo, si addormentò definitivamente. Arthur spense la lampada e lasciò la stanza, chiudendone piano la porta. Nel corridoio, ad aspettarlo, c’erano i suoi amici invisibili.
− Hai fatto una scelta estremamente rischiosa, lo sai? – disse il fantasma del pirata, con la sua voce rauca da morto. – Quello non te la farà passare liscia, oh, altro che tempi duri. Ѐ adesso che inizia il bello!
− Infatti ho intenzione di evocarlo ora. Questa storia deve finire al più presto. – rispose Arthur, dirigendosi verso la cucina.
− No, fermo! Ѐ tardi ormai e domani si prospetta giornata piena. Meglio se ti riposi, quello ha più potere se la tua mente non è lucida. – lo bloccò lo gnomo, gli occhi circondati da rughe pieni di apprensione. Arthur si bloccò sul pianerottolo, un piede già sullo scalino che portava al piano terra. Gettò un’occhiata ai suoi amici.
− D’accordo, se lo dite voi... ma secondo me vi preoccupate troppo. Io sono abbastanza forte da fronteggiarlo. Ricordatevi delle mie capacità! – alzò il pugno in aria, fiero.
Gli esseri magici annuirono seppure poco convinti. Arthur sparì in camera sua, seguito dal coniglietto svolazzante che riuscì a infilarsi nella porta prima che la chiudesse.
− Bunny gli farà da custode, stanotte. – disse lo gnomo, sospirando. – Noi invece dovremo controllare che, con il favore delle tenebre, quello non esca fuori senza essere stato evocato.
− Credi che sarebbe capace farlo?
− Ricordatevi che non stiamo parlando di un essere qualsiasi. Oggi Artie ha espresso la volontà di non uccidere più Francis, impedendo perciò l’attuazione del patto secondo cui lui gli avrebbe dato la possibilità di togliere la vita a chiunque senza conseguenze sulla vita terrena. In cambio, però, sapete cos’ha chiesto in cambio...
− Al posto di Francis, ha fatto in modo che uccidesse il giovane italiano?
− Esatto. Ma anche stavolta ha fallito, la luce per questa volta ha trionfato.
Un gruppo di fatine volò in rapido cerchio sul resto delle creature. – Quello non avrà mai l’anima del nostro Arthur! Mai! Non glielo permetteremo!
L’unicorno fece un nitrito di approvazione. Un folletto dalla barbetta rossa, appollaiato sul suo dorso candido, ghignò: − Mie care, siete forse gelose di ciò che credete vostro?
Le fatine lanciarono un’occhiata di fuoco al nanerottolo: − Non dire fandonie, Leprechaun! Ѐ grazie a noi se ha fatto conoscenza del mondo magico, noi che lo abbiamo guidato fin dall’inizio!
− Lo avete plagiato, vorrete dire. L’avete avvicinato che ancora non aveva imparato a scrivere il suo nome, un animo candido a vostra completa disposizione.
− Era un bambino, sì, e allora? Siamo state le sue prime amiche. Con il tempo ha conosciuto anche gli altri, se avesse voluto ci avrebbe abbandonato raggiunta la maturità, ma come vedi gli siamo necessari! Lui non ha amici nel mondo dei mortali.
Il pirata tossì, emettendo una folata evanescente di rum fantasma. – Invece sì. Ora un amico ce l’ha, a quanto pare. Ѐ già qualcosa per fronteggiare il nemico...
Le fatine si zittirono. Lo gnomo rifletté: − L’italiano aveva detto qualcosa riguardo, o sbaglio? Riguardo l’amore e l’amicizia...
Brownie intervenne: − Sì, sì! Il fatto che stesse per perdere la vita per un amico fosse il gesto d’amore più grande possibile. Chissà, forse Francis si merita qualcosa di così grandioso?
− Cosa dici, stupida fata? – urlò il folletto. – Se è stato lui per primo a rovinare il concetto di amicizia, disprezzando gli sforzi che Arthur ha fatto per lui?
− Non mi chiamare stupida! – Brownie si avventò su di lui, stizzita. La dovettero bloccare, prima che gli lanciasse qualche incantesimo. – Francis e Arthur non sono semplici amici. Sono... qualcosa di diverso. E il disastro che è accaduto un anno fa non ha niente a che fare con il loro rapporto! Come se in genere fossero andati d’amore e d’accordo! −. Si tolse un ciuffo che le era caduto sugli occhi, sbuffando. – Francis ha detto quello che pensava, come ha sempre fatto, e Arthur si è arrabbiato, come suo solito. Però qualcosa si è spezzato, perché Artie ha fatto qualcosa che non aveva mai osato in vita sua: ha impiegato le sue energie, i suoi sentimenti, i suoi progetti per qualcuno che non fosse sé stesso. Le sue azioni non sono state comprese e lui si è sentito orribilmente tradito. È andata così.
− Ma l’amicizia non è forse questo? Vivere per qualcun altro oltre che per sé stessi?
Gli esseri magici lasciarono contemporaneamente un sospiro desolato. Arthur si era impantanato in una situazione da cui non sarebbe uscito illeso a meno che non avesse fatto qualcosa di talmente straordinario da risultare impossibile. La discussione era giunta a un punto morto: ora era tutto nelle mani del destino.
− Ho paura... – frignò Brownie, mentre cominciava a svanire in uno spruzzo di luce insieme alle compagne. – Sento che siamo tutti in pericolo. Sia i mortali che noi esseri magici. Cosa succederà, d’ora in poi? Cosa?
Prima di scomparire a loro volta, le creature le diedero una risposta: − Nessuno lo sa, Brownie, ma continuiamo a sperare. Conosci la regola che vige da secoli nel nostro mondo: il bene trionfa sempre sul male. Continuiamo a sperare...
Nel corridoio cadde il silenzio e l’oscurità. Eppure, se qualcuno stava molto attento e con occhi e orecchie ben aperti, era ancora percettibile la presenza benevola delle creature tutt’intorno che sorvegliava la casa, proteggendo il sonno dei suoi abitanti. Una forza oscura, nascosta e ghignante, aspettava intanto la prossima occasione per manifestarsi.
Il bene trionfa sempre sul male... sarà vero?

 
* * *

 
Salve! L’avevo detto che prima o poi aggiornavo, infatti eccomi qua. Non perdete la speranza, ho intenzione di finire questa storia, probabilmente nel 2030 ma la finirò.
Che dire? Sono in questo fandom da un anno e mezzo ormai e posso dire che lo adoro? Fan vecchi, nuovi e che lo hanno abbandonato compresi? Per questo vi prego, se pensate che stia scrivendo cazzate, ditemelo, voglio darvi uno scritto decente (anche se la trama ce l’ho bene in mente e quella no, non ho intenzione di cambiarla, ma se avete critiche sullo stile e grammatica siate spietati).
Più che altro ho una dannata paura di andare OOC, sto cercando di contenermi. Ah, da qui in avanti nei vari capitoli inserirò qualche head canon (i primi due sono che Feliciano sia originario di Venezia e Lovino di Napoli), se ne avete che volete riferirmi fate pure. Come ho già avuto modo di dire in passato, questa non è solo la mia prima long ma anche la prima fan fiction, capitemi se mi trovo in difficoltà.
Spero ci rivedremo presto e... incrociamo le dita.
 
L.B. Shadow
   
 
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