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Autore: Koa__    03/06/2017    10 recensioni
John Watson, un medico reduce di guerra finito nelle Indie Occidentali, cerca di sopravvivere a una vita di solitudine e senza un briciolo di avventura. Un giorno, John fa però un incontro straordinario e del tutto inaspettato. Nella sua monotona esistenza, entrano così Sherlock Holmes, pirata della peggior specie, e la sua stramba ciurma.
Genere: Angst, Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: AU, Lemon, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Let's Pirate!'
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Prima dell’alba



 
Il difficile sta nel cominciare
 



Venne svegliato da un sospiro, evanescente e leggero come un sogno e, a suo pari, altrettanto impalpabile. Accadde a tarda sera, che già notte doveva essere. Una di quelle stellate e con poca luna, solo una falce a sbucare da un pugno di nubi arricciate in un angolo di cielo. Una notte, era quella, dal vento pacato e lieve che increspava appena le onde di un mare, il cui sciabordio aveva quasi l’effetto di una delicata nenia. Venne svegliato da un incubo terribile, angosciante per i contorni di guerra e morte che lo avevano contraddistinto. Al solito, John aveva vissuto un’infinita lotta solitaria. Ma questa volta, sulle punte delle dita non aveva il sangue di sconosciuti compagni o di nemici periti sul campo accanto ad altrettanto giovani corpi. Aveva sognato Sherlock ed erano così vive quelle immagini, palpabili al ricordo, che a chiuder gli occhi gli pareva di nuovo di vederlo, steso a terra e con la lama di un coltello conficcata nel petto mentre il sangue grondava copioso e imbrattava le mani di un attonito e impotente dottore. John che con la divisa lacerata e il cuore strappato via, piangeva la tragica dipartita del suo unico amore. Questo, aveva sognato e a quelle immagini s’era aggrappato e su di loro aveva pianto, versando dolore e rabbia. Fin quando, in un sol colpo, aveva aperto gli occhi. Forse lasciandosi andare a urla disperate o magari dicendolo, quel nome. Magari piano, come in un pianto. “Sherlock, torna da me” gli era parso gridare e così forte e con così tanta decisione, che a lungo le sue stesse parole gli erano riverberate in testa. “Sherlock” aveva ripetuto dopo averlo visto svanire, e nella terra bruna venir assorbito come gocce di rugiada al mezzo mattino. Sherlock, aveva esclamato con sentimenti ogni volta diversi a dimorargli nel cuore. Lo aveva fatto con le labbra che invocavano quella meraviglia di nome, quasi si trattasse di una preghiera e come se John necessitasse dell’aiuto di Dio per poterlo riavere indietro. Sherlock, implorava, mentre con la forza della disperazione stringeva pugni e palpebre, ben deciso a non scoppiare in un pianto indecoroso. Era già capitato, a dire il vero. Piuttosto spesso s’era svegliato perché agitato dai morsi della coscienza o tormentato da un brutto incubo. Di solito faticava a riaddormentarsi e rimaneva immobile a guardare il nulla. Ciò che mai gli era successo, però, era di trovare il leggendario pirata bianco accucciato a terra ai piedi del letto.

Dove ora stava.

Nascosto dalle ombre e col solo respiro a segnalarne l’immobile presenza, Sherlock Holmes sussurrava un canto d’amore. Una melodia dolce, accennata appena a bocca chiusa e forse in un vano tentativo di placare gli agitati sonni di un soldato, che mai aveva fatto ritorno dal campo di battaglia. Il suo amato era vivo, pensò John colmo d’incredula felicità. Era lì e si muoveva, pur con le sole dita, picchiettando appena sul pavimento.

«Sherlock!» Lo esclamò stupendosi della potenza della propria voce, uscitagli stranamente limpida e sonora. Come se s’aspettasse di non poter parlare perché intrappolato in un sogno e che quel corpo potesse svanire da un momento all’altro. Balzò a sedere, John, con scatto fiero e cercando per istinto la candela lasciata sopra lo scrittoio. Candela abbandonata assieme a cerini finiti chissà dove dentro a un cassetto ben ordinato di carte e diari già scritti. Un lume sarebbe servito. Anche se sapeva che era lui. Perché non lo vedeva, ma lo sentiva. D’altronde, quella chioma rischiarata da un fascio di luna che ora filtrava dai vetri, non poteva appartenere unicamente che a lui. Miseramente dovette confessare di aver titubato e che per un frangente, stordito dal sonno e accecato dal buio più nero, ebbene per quel dannato frangente aveva tentennato. Lo aveva scambiato per un demone o per un diavolo mascherato da angelo. Ma avrebbe dovuto riconoscerlo prima e già soltanto dall’odore che si portava addosso. Sherlock, che profumava sempre un po’ d’inchiostro e di quella cera di cui impregnava le corde del violino. Sherlock odorava di legno e delle foglie che essiccava e poi inalava in fumi e vapori.
«Sono io» mormorò questi a voce bassa e fioca, in un fiato poco udibile che si perse in un respirar ben più affrettato, ma che ebbe lo straordinario potere di calmarlo. Era lui. Lui e nessun altro. Lo spavento scivolò via dalle stanche membra di John, perdendosi tra battiti del cuore e sfarfallii di stomaco. Scomparve in quel tamburellare sincopi e crome che, nervosamente, Sherlock andava facendo a terra e che adesso aveva smesso. «Ti ho svegliato e non volevo» proseguì, riluttante a farsi vedere meglio e ancora standosene indietro, discretamente lontano. Pareva quasi timoroso, come se temesse anche soltanto di parlare e non si fidasse troppo di se stesso. In un frangente, John pensò al discorso a cui già quel pomeriggio s’era ritrovato a fare mentre inseguiva Victor nella pancia de la Norbury. Quanto era diverso adesso quel suo impacciato Sherlock, dall’implacabile capitan Holmes che il mondo conosceva. Al punto che pareva tutt’altro uomo, uno dai differenti Natali e che ben poco aveva visto del mondo. Possibile che una leggenda potesse essere tanto restia e pudica? E che la forza di un maremoto, celasse in sé un virginale riserbo? Così troppo ritrosi erano i fiati che ora emetteva! Forse smise a quel punto di cercare di raggiunger la candela, non gli serviva il vederlo. I sensi già fornivano sufficienti indizi, permettendogli di giungere a un’emozionante conclusione. Stava arrossendo, probabilmente perché scoperto a quel modo. Magari era addirittura eccitato e pronto a farsi baciare. O a baciare. O a fare entrambe le cose.
«Cosa fai qui?» domandò, spezzando gli indugi e smuovendo appena quel teso non parlare, non mancando di sibilar basso per il timore d’esser sentito al di fuori di quella cabina.
«Io…»
«Tu?» lo rassicurò quindi, invogliandolo a proseguire ma sorprendendosi e al punto da sbarrare gli occhi di stupore, nell’attimo stesso in cui Sherlock lo investì con un impeto di passione. S’era infatti issato sulle ginocchia e gli aveva stretto le braccia, tirandosi sopra al letto anch’egli. Inaspettatamente vigoroso. Mai tanto deciso. E ora. Ora. Ora gli respirava addosso, labbra contro labbra e lì aveva deciso di rimanere. Fermo. A poco lontano. Senza baciarlo. Guardandolo negli occhi nonostante il buio impedisse loro di vedersi degnamente. E con quell’odore di cera tenuto addosso con fierezza, e l’altro olezzo di fumo che gli impregnava i polpastrelli. Immobile a sfiorargli la bocca, come nel battito d’ali di una farfalla. Mai azzardandosi ad avvicinarsi. In una tortura che andava a caricar ulteriore tensione laddove entrambi ne accumulavano da giorni. No, non aveva osato proferire alcunché, John Watson e in devota attesa era rimasto paziente. Ad aspettare. Ad attendere che fosse pronto a parlare o anche solo che si mostrasse più indulgente e si decidesse a posar la bocca sulla sua. Ancora al buio, erano e con la luna ch’era sparita dietro le nubi e ora non rischiarava più nulla. Ancora con le dita che gli stringevano il braccio e parevano non volerne sapere d’allentarsi. Ancora con la mano, risalita lungo la schiena e che lo toccava senza più pudore. Fu allora, dopo che gli ebbe sfiorato la già dura eccitazione che, pur senza volerlo, John si ritrovò a gemere. Forse per il velo di calore fattosi più accentuato e che gli avvampava le guance o magari a causa della presa sul braccio che persisteva ancora e che, anzi, adesso era divenuta persino dolorosa. Con certezza non sapeva dirlo. Avrebbe tanto desiderato fare un qualcosa in rimando, forse toccarlo a propria volta. Eppure evitò di muoversi. Neanche s’azzardava a respirare, e quando finalmente Sherlock perse a parlare, John smise adeguatamente di vivere.
«Volevo sentire il tuo respiro e imprimerlo nella mente, così che io possa ricordarmi di te.»
«Ah…»
«Temo d’impazzire, John e di non poter fare a meno dei tuoi baci o di pensarti in questo modo scandaloso e lascivo che mi fa diventar matto. Non te ne vai più, dalla mia testa intendo. Penso a te di continuo e ti figuro fisicamente anche quando non ci sei. Temo di aver perduto la buona salute. Ma più di tutto ho paura di dimenticarmi di quelle piccole cose che ti rendono incredibile. Hai una risata che mi fa battere il cuore e quella tua maniera di guardarmi che… oh, mai mi sono sentito così in tutta la vita. Sebbene io ami Victor, ciò che esiste fra noi è differente.»
«I-in che senso?» biascicò John, deglutendo rumorosamente e quasi stentando a credergli. Avrebbe voluto pensare per bene a una risposta da dare o magari più semplicemente confessargli ciò che il cuore aveva ammesso da tempo. Sherlock meritava di saperlo. Doveva esser conscio del fatto che fosse amato alla follia e che lui, misero capitano dell’esercito in congedo, avrebbe dato tutto per un suo sorriso. Tuttavia tacque. Non parlò se non a se stesso, ma nemmeno in quell’intimità di pensieri vi rimase a indugiare. Il pirata bianco non gli concesse neanche quello e, afferratolo con decisione per i fianchi, finalmente fu su di lui. Con imbarazzata e dolce inesperienza. E quel bacio che gli diede, oh, spezzò ogni barlume di lucidità presente in John Watson ed ebbe il potere di far capitolare entrambi giù sul letto.

Presi da una passione cieca e da un baciarsi vorace, non badarono più a niente se non ad alimentare sensi e piaceri. Il loro era un toccarsi vivace, focoso. Allegro persino, con quella risata leggera a cui John si era lasciato andare a un certo punto come se non riuscisse a trattener più niente. Nulla che non avessero già fatto prima, ma questo strofinarsi uno sull’altro aveva in sé un qualcosa di diverso. Sherlock era diverso. Lo era nella maniera in cui lo toccava o per come si lasciava cadere contro di lui, schiacciandolo appena col proprio peso. Sherlock che lo baciava senza pudore o vergogna, affondandogli dentro con la lingua e nel contempo intrecciando le dita sino a formare un groviglio informe.
«Voglio tutto, John» disse a un tratto tirandosi a sedere, sino a mettersi sopra di lui a cavalcioni «così che io non abbia rimpianti.» A quello, il dottore non ebbe coraggio di rispondere. E non che non avesse idea di che cosa dire, in effetti aveva fin troppe parole da spendere. Ma ribattere avrebbe condotto entrambi a dover affrontare una discussione a cui non erano ancora pronti, il che avrebbe portato a un’altra ben più importante e altrettanto grave. John non voleva litigare, non in quel momento. Non con loro così vicini. Un barlume di verità gli attraversò i pensieri e puntò diritto alla coscienza. Aveva compreso le radici che stavano dietro a quell’atteggiamento insolito e quasi brutale del capitano, e il sol pensarci gli torceva lo stomaco per il terrore. Sherlock credeva di morire, sull’isola e di non tornare mai più indietro. Era certo che lo scontro con Moriarty sarebbe stato il suo atto finale e che la prospettiva di perder la vita non era più una pallida e vaga idea, ma una realtà concreta. Così come Victor aveva predetto, o come più probabilmente già sapeva, capitan Holmes avrebbe giocato il tutto per tutto. Rischiando la morte. Di nuovo, il prepotente istinto che lo spingeva difenderlo, prese a montargli dentro e quindi a scalpitare come un cavallo imbizzarrito. Stoicamente, John lo ignorò. Da soldato pronto a morire, mandò giù quel velo di lacrime incastratosi in gola e chiuse gli occhi, sciogliendo il dolore in un bacio appassionato. Un attimo, un intrecciarsi di gambe, un allontanarsi per riprender fiato ed ebbe ribaltato le posizioni. John gli fu sopra e per la prima volta decise di farlo senza remore, evitando di badare troppo al futuro e di quanto male sarebbe potuta andare. Nel mare di incomprensioni e parole non dette nel quale navigavano oramai da settimane, quella era la prima volta che le intenzioni di entrambi erano più che palesi. Sherlock voleva fare l’amore con lui e l’idea che lo desiderasse davvero, che non fosse una tenue e speranzosa fantasia, gli fece scoppiare il cuore di gioia.

Il respiro profondo che prese, a poco servì. Fu appena sufficiente a far sì che una risata s’allargasse fra loro, rasserenando quegl’animi fin troppo accesi e placando la mente in subbuglio. Si sentiva così felice, che gli pareva che il petto potesse esplodere da un attimo all’altro. Il cuore batteva svelto, galoppando rapido e lo stomaco si torceva ogni qual volta lo sentiva ansimare. Credette di morire davvero quando sentì Sherlock gemere il suo nome. John, disse soltanto. John, ripeté. John mormorò in un soffio mentre allargava le gambe e lo aiutava a spogliarsi della camicia da notte. Si placò grazie a un bacio, scambiato a fior di labbra che sedò divertimenti e palpitanti pensieri. Poi ne arrivò un altro, più profondo, dato a occhi chiusi. Quindi un altro ancora, con le mani di John sulle sue guance a guidarlo appena in uno sfiorarsi intimo. Fu allora che capì che Sherlock stava piangendo. John lo realizzò mentre lo accarezzava in viso. Non pareva volersi spiegare o dir nulla, ma a un tratto fermò il tocco, stupito dal sentir delle lacrime bagnargli i pollici. Quello era un disperarsi silenzioso. Tenue e delicato al pari della sua maniera di baciare, ma con più profonde radici, ramificate in un animo eccessivamente sensibile. E ora? Cos’avrebbe dovuto fare? Come lenire tanto dolore? Il suo lato più razionale lo spinse a fermarsi e ad affrontare quella benedetta discussione. Sensatamente avrebbe dovuto smettere il bacio e rendergli la camicia che, non sapeva dir quando, gli aveva strappato via. Non lo fece. Non parlò mai e non per un egoistico desiderio o per la brama eccessiva che aveva di lui, quanto per la volontà di dare alla persona che amava ciò che gli era stato chiesto. Non voleva che morisse e, giurando su Dio, prometteva che avrebbe fatto di tutto per fargli avere salva la vita ma lì e in quel momento, sebbene la morte fiatasse loro sul collo, John fece la sola cosa giusta da fare. Gli asciugò per bene le lacrime e, stringendoselo contro, gli promise che sarebbe andato tutto bene. Sapeva di non poter esser certo di nulla e che Moriarty rendeva il loro futuro una vera e propria incognita. Era conscio di non poter promettere alcunché di concreto. Eppure lo fece. Cullandolo appena, dolcemente e sino a che non si fu calmato. Poi, così come avevano già cominciato a fare, ripresero ad amarsi.

Sherlock era una meraviglia. E non solo nel corpo, statuario e perfetto, ma soprattutto nella maniera che aveva di abbandonarsi al piacere. Di toccarlo o anche più semplicemente di farsi toccare. Era incredibilmente ricettivo e, seppur inesperto, imparava alla svelta. In una o due occasioni, John restò senza fiato e sorpreso da tanta virginale audacia. Sherlock sapeva baciare piuttosto bene, perché era stato Victor a insegnargli (come o quando o perché, questo, un John roso dalla gelosia, non lo volle sapere). Il suo toccare era impacciato. Spesso e volentieri si limitava stringer carne o a graffiare lembi di pelle mentre strabuzzava gli occhi e si martoriava le labbra per non gridare. Sherlock amava ridere mentre faceva l’amore, sorprendersi e poi gemere tanto forte, da farsi sentire sino in capo al mondo. Più di una volta, John era stato costretto a zittirlo con un bacio o a posargli una mano sopra la bocca, per paura che svegliasse qualcuno della nave. Sherlock si muoveva per istinto. Baciava a occhi aperti perché temeva che fosse tutto un sogno. Di tanto in tanto si rilasciava, cadendo fra i cuscini con un sospiro delicato, prima di tendere nuovamente il corpo e ansimare ancora. Sherlock si muoveva sinuoso sotto di lui. Lo eccitava e provocava e poi rideva di John e di quelle che definiva “buffe reazioni”. Sherlock si fece prendere, quella notte. Spogliare e toccare. Si fece amare e stringere. Carezzare e intimamente vedere. Per una prima, meravigliosa volta. John lo prese sopra a quel letto, montandogli sopra con vigore. E nel mentre lo baciava, e baciava, e baciava di nuovo, mai sazio. Fare l’amore fu bellissimo. Liberatorio. Più bello di come lo aveva sognato. Soltanto alla fine trovò il coraggio di dirgli che lo amava. Sherlock già dormiva, ma John sorrise lo stesso.
 



 
oOoOo
 



Era una notte pessima per navigare. Il cielo carico di nubi, l’aria pesante, rarefatta dal caldo e il poco vento, rendevano il mare piatto tanto da rischiar bonaccia. Nonostante il buio ancora eccessivo, il cielo era rischiarato da uno sprazzo di luce che s’intravedeva oltre la linea del mare. Punti di rosa e arancio dell’alba s’intuivano dietro la fitta coltre di nebbia che avvolgeva l’orizzonte, impedendo loro di poter osservare adeguatamente più in avanti di un certo punto. Con preoccupazione e un nervosismo crescente, in quella tarda notte, John scrutava il paesaggio con minuziosa attenzione. Pronto a scorger la cima di una montagna o una spiaggia oltre il banco di nubi. Ancora poco e avrebbe albeggiato, pensò lasciandosi cadere indietro e sospirando mentre si chiedeva che ore fossero. E poi che sarebbe accaduto?
«Ce la faremo ad arrivare senza vento?» domandò, spezzando il loro consueto parlar poco o niente.
«Non preoccuparti, John. Siamo più vicini di quanto credi, quando l’alba alzerà le nuvole e il vento prenderà a soffiare, vedremo la tua isola.» Sherlock aveva parlato con lentezza e disteso com’era in quel piccolo pezzetto di ponte a prua, lievemente ribassato e nascosto dalla ringhiera, pareva ancor più lascivo. Erano usciti dalla cabina di John dopo avervi trascorso l’intera notte insieme. A far nulla se non l’essenziale. Baciarsi pigri e toccarsi piano, senza fretta. Parlar poco o nulla e aprir la bocca unicamente per gemere e sospirare. Sino a quando, Sherlock era balzato in piedi blaterando di veder l’alba. Perché, a sua detta, era assurdo che dopo più di diciassette giorni di navigazione, John non avesse mai visto sorgere il sole oltre la linea dell’orizzonte e che non avesse trascorso mai un’intera notte sopra coperta. Pertanto, ora si trovavano lì. Mollemente abbandonati uno sopra all’altro e con John pazientemente intento a esaminare uno a uno quei ricci meravigliosi. Sherlock, insolitamente calmo e poco frenetico, pareva aver lasciato tutte le energie nel letto di John. Di tanto in tanto sbadigliava, addirittura. In altre occasioni invece sospirava e sorrideva, salvo poi incupirsi di nuovo e tutto ad un tratto. Era come se balugini di idee gli andassero a finire laddove non avrebbero dovuto mai azzardarsi ad andare. Non ancora almeno. Quasi si stesse sforzando di non pensare a ciò che stava per venire, alla tempesta in arrivo. Mai, John s’era azzardato ad affrontare l’argomento. Più semplicemente, nelle occasioni in cui lo vedeva incupirsi, lo distraeva con un bacio o facendolo sorridere.

«Posso farti una domanda?» se ne uscì a un certo momento.
«Oltre a questa?» replicò Sherlock, trattenendo uno sbadiglio più pronunciato.
«Sì, oltre a questa» ne rise pigramente John, carezzandogli ora le spalle e ottenendo in risposta soltanto un muto assenso. Un tacito invito a non smetter di toccare e a domandare quel che voleva. «Sei geloso di Victor? Del fatto che io trascorra del tempo con lui?»
«Che domanda idiota» replicò il capitano aprendo entrambi gli occhi e non trattenendo uno sbuffo beffardo. «Non sono geloso di nessuno, per me potete stare assieme tutto il tempo che volete, estromettendomi come se non esistessi o non avessi dormito con entrambi. Perché dovrei essere geloso, dato che vi incontrate per parlare di me?»
«Hai ragione» annuì, roteando gli occhi e ridendo appena di divertimento «io e Victor parliamo esclusivamente di te. Come credi che sapessi dove soffri il solletico? Vic è un insegnante straordinario e conosce il tuo corpo e le sue debolezze forse meglio di quanto faccia tu.»
«In effetti potrei ordinarvi di smetterla o chiedere a Fortebraccio il favore di appendervi entrambi sul pennone a testa in giù. Almeno così la smettereste.»
«Ora chi è che dice idiozie?» replicò immediatamente John. E poi risate, di nuovo. Fino a sfinirsi e a dover chiudere gli occhi. Baciarsi, ancora e ancora. Sempre più stretti. Sempre più dannatamente innamorati.

Il silenzio scese di nuovo. Tra sospiri ed echi di risa. Serpeggiava tra carezze e tocchi fugaci. Mentre l’alba, e con lei paura e morte, si faceva più vicina. Ancora era buio, notò John, ma una volta sorto il sole l’idillio avrebbe visto la sua fine e la realtà sarebbe scesa fra loro come una condanna. Non voleva. Desiderava che quei momenti fossero eterni.
«Raccontami una delle storie di Joe.» Fu Sherlock questa volta che ruppe il non parlare. Lo fece dopo essersi preoccupato di cercare una delle mani di John, intrecciando le dita con le proprie. Baciando le nocche con devozione.
«Quale preferisci?»
«Quella che vuoi» replicò «basta che finisca prima dell’alba.» E John, prese a narrare.
 
 


Continua
 


 
“Prima dell’alba” è un film di qualche anno fa (stupendo così come "Prima del tramonto") mentre la citazione è in realtà un proverbio.

Scritto tutto di getto e controllato poche volte. Spero non si noti troppo.
   
 
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