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Autore: Gwen Chan    12/06/2017    4 recensioni
Afghanistan, 1988.
Il soldato scelto Yuri Katsuki, entrato nell'esercito più per necessità che per vocazione, ha sempre ammirato il fiore all'occhiello dell'Armata Rossa, Victor Nikiforov.
Ma mai Yuri si sarebbe sognato di trovarsi ad affiancare l'uomo durante una missione di recupero.
Ovvero: la missione che non è mai accaduta e di cui nessuno deve parlare.
Genere: Angst, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti, Victor Nikiforov, Yuri Plisetsky, Yuuri Katsuki
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Faccia a faccia

“Allora, secondo te di cosa si tratta?”
La domanda di Phichit, accompagnata da una lieve gomitata nel fianco, fece sussultare Yuri. Si trovava seduto in una jeep intenta ad attraversare il deserto afgano sotto il cocente sole del primo pomeriggio.
L’uomo sollevò una mano per schermare gli occhi sopra gli occhiali, ben assicurati dietro la nuca da un cordino.
“Non ne ho idea. È assurdo” mormorò con la testa poggiata sulle ginocchia. Tra di esse il suo fucile M16 faceva capolino, tenuto ben stretto in caso di emergenza. Di fronte a lui il Sergente Crispino imprecava sottovoce per la sabbia che continuava ad infilarsi nella sua Colt 1911. Dall’altro lato JJ -Sotto-Tenente Jean-Jacques Leroy - era un po’ troppo entusiasta per quello che doveva sembrargli una semplice gita fuori porta.
Se non avesse fatto così caldo.

Il Maggiore Cialdini non era stato molto prodigo di informazioni con la squadra assemblata in fretta e furia. Alcuni di loro erano stati scelti per capacità individuali e per meriti sul campo. Altri per il legame che avevano con i membri della spedizione dispersa. Non era una novità che sia Yuri sia Phichit fossero molto vicini al Sergente De la Iglesia e al Soldato semplice Ji.
“Voglio dire, russi! Stiamo incontrando i russi!” continuò un eccitato Phichit, muovendo la testa da un lato all’altro, quasi scuotendola. Si alzò per guardare verso l’orizzonte, impaziente di vedere apparire le prime forme del campo sovietico . Yuri gli afferrò un braccio e lo tirò giù.
“Attento! Siamo in territorio nemico!” sibilò, sbirciando verso Cialdini che occupava il posto di guida.
“Come se non li avessimo mai visti i russi!” commentò Crispino a denti stretti. A questo punto sembrava aver rinunciato a tentare di riparare la sua pistola. Yuri si strinse nelle spalle e si limitò a sistemare gli occhiali che continuavano a scivolare sul naso imperlato col sudore salato che scendeva dalla fronte verso le labbra.
“Dannazione. Il caldo non è male, ma cominciano a mancarmi le tormente canadesi!” esclamò JJ all’improvviso. Crispino lo fissò storto.
“Perché non chiedi un trasferimento sulle montagne afgane? Smetterai di lamentarmi del caldo in pochissimo tempo! Cazzo di posto! Arruolati, dicevano. Un sacco di vantaggi, dicevano!”

La situazione era già ridicola di suo. La mattina del giorno precedente erano stati convocati nella tenda del Maggiore Cialdini per una missione speciale. Di cosa si trattasse, però, non era stato specificato, a parte certi vaghi dettagli a proposito dei sovietici e delle spiacevoli conseguenze se avessero mai parlato con qualcuno della faccenda.
“Be’” cominciò Cialdini, quando la jeep si fu fermata sulla spiazzo polveroso che si estendeva davanti al filo spinato che segnava il confine del campo sovietico. Era di medie dimensioni, sviluppatosi attorno al singolo edificio in cemento. Dalla sua struttura pareva essere una ex palazzo governativo o una vecchia scuola. Ora vuoto e in rovina era impossibile riconoscere quale fosse stata la sua funzione originaria.
“I russi ci hanno contattato per la squadra del Sergente De la Iglesia. Voglio dire, un paio di russi ci ha contattato. Abbiamo una tregua con loro, ma non possono garantire per la sicurezza di nessuno dei nostri uomini. Secondo la legge non siete qui. Da parte mia non appartenete più all’esercito americano. Se qualcosa dovesse andare storto, gli Stati Uniti saranno come quel compagno antipatico che nascondeva sempre le mani quando l’insegnante vi beccava.
“Non lo conosco!” È questo che diranno. Comunque, i russi si sono offerti di darvi alcune divise sovietiche quanto prima - “
“Col cavolo!” sputò Crispino, le sopracciglia aggrottate.
“Come stavo dicendo” riprese Cialdini, come se non fosse stato interrotto “si sono offerti, ma ho rifiutato gentilmente.”
“Grazie a Dio!” sospirò Crispino. Non accennò a scusarsi per il suo comportamento.

Yuri si agitò sul suo sedile, a disagio. Strinse la presa sul suo fucile mentre il corpo si tendeva in attesa di ciò che sarebbe accaduto dopo. Sarebbe venuto qualcuno a prenderli o sarebbero semplicemente saltati giù dalla jeep per camminare allegramente verso l’edificio, a testa alta verso chi fino al giorno prima era stato il nemico? Che era ancora il nemico.
La risposta venne da sé, nella forma di un’alta figura che apparve in lontananza. Dapprima fu solo una silhouette sfocata nell’aria tremolante di un torrido pomeriggio afgano, poi i suoi contorni divennero sempre più chiari. Era alto, vestito in una semplice uniforme. Aveva una lunga giacca verde gettata sopra la spalla, come se l’avesse spogliata quando il caldo era divenuto insopportabile. I ricami d’oro e le medaglie su di essa brillarono sotto la luce accecante.
Yuri socchiuse gli occhi per osservare meglio lo sconosciuto, sotto il miraggio del sole. Camminava veloce, il suo passo elastico e marziale.
Aveva un bel corpo, con spalle larghe e gambe lunghe. C’era qualcosa di vagamente familiare in lui. Però, come esiste sempre un divario tra teoria e realtà, la mente di Yuri non riusciva ancora a collegare l’uomo che si stava avvicinando alla persona che aveva spesso visto in foto sgranate.
Tuttavia, quando lo sconosciuto fu abbastanza vicino per salutare il Maggiore Cialdini a pochi metri dalla jeep, ogni dubbio scomparve. Un inconfondibile frangia di un biondo-argenteo si mosse appena quando ricambiò il saluto del Maggiore.
Fu Phichit a dare voce a ciò che Yuri non poté articolare a parole.
“Cristo santo, Yuri, è Victor Nikiforov!”
***

Nella sua vita Yuri Katsuki aveva spesso sognato ad occhi aperti. A volte era l’unico modo per andare avanti quando l’addestramento diventava troppo duro: quando pioveva a dirotto, c’era fango in posti normalmente non esposti al sole, e un Sergente istruttore gridava quanto fosse inutile.
Quando le sue mani cominciavano a tremare e nulla poteva fermarle. O quando sentiva i commenti cattivi fatti alle sue spalle, che dicevano quanto la sua ansia lo rendesse un peso per il resto della truppa.
Yuri sognava scenari pacifici di lui che lasciava l’esercito per tornare a fare il cameriere nel complesso termale che la sua famiglia gestiva in Giappone. Aveva anche sognato scenari di guerra dove, nonostante i suoi attacchi di panico, riusciva a guidare i propri compagni alla salvezza.
In nessuno dei suoi sogni, tuttavia, avrebbe mai immaginato di trovarsi nella stessa stanza con Victor Nikiforov. Stette sull’attenti grazie a un’abitudine ormai ingranata nel suo corpo. I tacchi degli stivali cozzarono l’uno contro l’altro. Il suo cuore cominciò a battere più velocemente del solito.
In teoria sia Yuri sia Phichit erano ancora sotto il comando di Cialdini, quindi non subordinati in alcun modo al Generale russo; eppure, c’era qualcosa sul suo carisma che rendeva difficile per Yuri ricordarsi di un simile particolare.
Nikiforov lo guardò per un po’, quasi sorpreso dal suo comportamento. Poi, come a ricordarsi improvvisamente dei gradi che aveva appuntati sul petto, disse: “Riposo”.
Le spalle di Yuri si curvarono appena. Guardò uno degli altri russi presenti nella stanza.
“E questi è il Capitano di fanteria Yuri Plisetsky” sentì Nikiforov fare una breve presentazione. La sua voce, in un inglese sorprendentemente buono, arrivava come da un’altra dimensione.
“La Tigre dei Ghiacci” mormorò Yuri.
“Cosa, hai un dossier anche su di lui?” domandò Phichit sottovoce, mentre Nikiforov e Plisetsky discutevano in un russo troppo rapido perché Yuri potesse comprenderne qualcosa. Quel vecchio corso accelerato di due settimane non era stato molto utile. Deglutì. Plisetsky avrebbe potuto essere considerato un secondo Victor - sebbene fare un simile confronto in sua presenza avrebbe significato la firma della propria condannata di morte - ma mentre c’era una sorta di giovialità nei modi del più anziano, nulla smussava la durezza del secondo.
“E lui?” chiese Phichit indicando Otabek. Victor lo presentò.
“Tenente Otabek Altin, il nostro prezioso interprete e una delle poche persone in grado di gestire la Tigre.”
“Taci, Victor!” lo rimproverò Plisetsky. Si lasciò cadere pesantemente sulla sedia, accavallando le gambe con arroganza.
“Georgi?” chiese poco dopo. La risposta arrivò da sola sotto forma del Capitano Popovich, seguito da un vecchio che camminava rigido.
“Eccolo. E questo è Yakov Feltsman, il nostro - “
“Ufficiale politico” concluse Plisetsky al suo posto. ”Cose russe”.
Se la stanza era parsa piccola a Yuri senza i nuovi arrivati, ora era quasi soffocante. Strinse i pugni dietro la schiena, mentre l’ansia cominciava ad artigliargli la gola. Tuttavia una goccia di sudore che corse lunga la tempia fu l’unica manifestazione esterna della sua debolezza.
“Beh, credo che possiamo iniziare questa piccola chiacchierata” esordì Nikiforov. Plisetsky fece finta di vomitare. Yakov lo guardò storto.
“Conoscete quest’uomo?” chiese Victor. Una foto color seppia, gettata sul tavolo in una lieve spirale, sottolineò la sua domanda. Mostrava il mujaheddin che avevano interrogato un paio di giorni prima.
Cominciamo a vedere se lo riconoscono . Questo era quello che Yakov aveva detto quando Victor gli aveva spiegato la sua strana e bizzarra idea. Dopo tutto Vitya sarebbe rimasta sempre Vitya.
“Sì” rispose Cialdini. Sia Phichit sia Yuri annuirono, alzando le sopracciglia in un sincero riconoscimento, al contrario di Crispino e Leroy; ma questi ultimi erano stati chiamati in fretta e furia da un’altra base.

Sebbene fosse il più giovane della stanza, fu Plisetsky a continuare l’interrogatorio. Né Popovich né Nikiforov parvero sorpresi o irritati dal comportamento. Al contrario quest’ultimo era quasi divertito, come un padre soddisfatto che ammiri i progressi del proprio figlio.
“E sarebbe dovuto essere la vostra guida in una missione di ricognizione, giusto?” chiese. Cialdini, Yuri e Phichit annuirono nuovamente con un unico movimento della testa. Plisetsky tamburellò sul tavolo.
“Immagino che chiedere dove sia eccessivo. Poco importa.”
Si voltò appena verso Popovich, ponendo una domanda che non fu espressa in parole.

“Ho sentito che siete degli ottimi bugiardi, ma non così bravi quanto sono io a fiutare una balla.”
Una cosa che Yuri aveva immediatamente notato di Plisetsky era che il suo corpo sembrava incapace di restare fermo. Che si trattasse di impercettibili movimenti delle dita o di un lieve agitarsi della testa, Plisetsky non smetteva mai di muoversi.
“Quindi voglio vedere la reazione del nostro uomo nel vedervi. Non vi dispiace, vero?”
Era difficile capire dove volesse andare a parere, cosa si nascondesse dietro quegli freddi occhi di acquamarina. Per un attimo Yuri ebbe l’impressione che Plisetsky non avesse nessuna emozione; che nessuno dei russi avesse emozioni. Giravano molte voci sui sovietici, alcune ancora legate alla “caccia alle streghe” di maccartiana memoria. Tuttavia, in quel preciso istante, alla resa dei conti, Yuri ebbe il dubbio che alcune di quelle storie fossero vere. Altin e Popovich erano così rigidi nella loro postura militare che i loro sguardi si fissavano sul vuoto, su un’altra dimensione. Anche gli occhi di Nikiforov tendevano a vagare, come se fosse capitato lì per caso, salvo poi riaccendersi di nuovo interesse al momento opportuno.
Soprattutto, Yuri sentì l’attenzione di Victor su di lui. Sentiva che lo stava studiando, come durante un incontro di vecchi conoscenti dopo molti anni; come se Nikiforov si aspettasse qualcosa da lui.
“Eccolo!”
Nel frattempo, Plisetsky era uscito e ritornato con il prigioniero, trascinandolo senza troppi complimenti.
L’uomo si illuminò non appena riconobbe Yuri e Phichit. Accennò persino un sorriso con quella sua bocca priva di denti. Yuri ricambiò con un cenno quasi impercettibile, più di educazione che altro. Avevano scelto quell’uomo perché parlava un inglese passabile e aveva già dimostrato di essere una buona guida in passato. Così, quando non era tornato alla base dopo la notizia che la squadra di Leo era andata dispersa, molti erano stati sinceramente preoccupati. Altri, però, avevano urlato “traditore!”
Yuri non era stato uno di quelli.

“Be’, vedo vi conoscete a vicenda” grugnì Plisetsky. Era difficile capire se avesse trovato una riprova ai suoi dubbi o meno.
“Sì” confermò Yuri, solo per essere sicuro.
Il resto della conversazione fu lungo e noioso, mosso sulla sottile e fragile linea della diplomazia internazionale, intrecciata di continue eccezioni. Entrambe le parti avevano motivazioni che erano attente a tenere nascoste e tutti ne erano consapevoli. Quella conversazione non era mai esistita, così come inesistente sarebbe stata la missione in procinto di prendere forma.
A un certo punto Yuri Plisetsky si alzò e batté le mani una volta.
“Bene, chi rimane qui?”
Sollevavano tutti la testa verso di lui, gli occhi che esprimevano una domanda che nessuno osava porre. Non fu necessario.
“Cosa sono quelle facce? Siete così stupidi! Credete che vi avremmo lasciato andare via con questo qui senza una garanzia ?” spiegò il Capitano russo, spostando lo sguardo da uno all’altro. Si fermò su Yuri, che ebbe l’impressione che sarebbe stato scelto se Cialdini non fosse intervenuto.
“Rimarrò io” offrì, con una voce abbastanza ferma da impedire ogni protesta da parte dei russi.
“è un bel gesto” concesse Victor. E per la quarta volta Yuri ebbe la sensazione che non lo stesse osservando solo per pura curiosità.
“Bello, dici? A mio parere, sono fin troppo viziai” disse Plisetsky, roteando gli occhi. Inclinò la testa verso Feltsman, chiedendo: “Allora cosa facciamo con lui, considerando che se qualcuno scopre un soldato americano qui siamo tutti fottuti?”
“Io e il Maggiore Cialdini ci inventeremo qualcosa. Non sta a te, Yura.”
“Bene, meno lavoro! Quindi, vi contatteremo quando la missione sarà finita” proseguì Plisetsky.
“Sta bene” approvò Celestino.
“Meraviglioso, siamo” - Plisetsky contò rapidamente in russo -“Otto. Il prigioniero, quattro americani, tre dei nostri. Non avete portato nessun altro con voi, vero? Non rispondete. Yakov, è un problema se mandiamo un paio dei nostri? No. Perfetto!”
“Quattro” lo corresse Victor, una volta fatti i dovuti conti. Plisetsky gli lanciò un’occhiataccia, del genere che avrebbe potuto uccidere un uomo. ”Non ho dimenticato come si conta!”
“No, ma hai dimenticato me. Vengo con voi” continuò il Generale. ”D’accordo, Yakov?”
“Sarebbe utile dirti di no, Vitya?” sospirò il vecchio, grattandosi la pelata.
Victor scosse la testa, un sorriso soddisfatto ad abbellire i suoi tratti rilassati. ”Nessuno affatto, mi conosci!”
“Troppo bene, purtroppo.”
***

Era già tarda sera quando finalmente venne organizzata una sistemazione in una stanza adattata ad essere un piccolo dormitorio. Ospitava un letto a castello e un paio di brandine singole. Crispino e Leroy reclamarono quest’ultime, gettandovi sopra le loro sacche. Yuri e Phichit preferirono dividere il letto a castello. Erano tutti stanchi, poco inclini a rimanere alzati a chiacchierare come avrebbero fatto normalmente. Consumarono il semplice pasto, quasi disgustoso, che i russi avevano offerto per la cena - un gesto per lo più dotato dalla pietà - in silenzio.
“Erano anni che non dormivo in un letto a castello!” esclamò Phichit, salendo rapidamente la scaletta. Yuri ridacchiò. Phichit non era cambiato molto dai giorni dell’addestramento come reclute, dieci anni prima, a parte il fatto che adesso avesse un grado ben più elevato. Caporale Chulanont. Phichit poteva avere una mira impeccabile e mani affusolate in grado di rompere il collo di un uomo in un secondo, ma in verità era rimasto il solito, vecchio appassionato di criceti e pettegolezzi.
Una pausa e la voce di Phichit ruppe di nuovo il silenzio.
“Non sanno cosa avrebbe dovuto fare davvero Leo” continuò Phichit, la voce appena più forte di un sibilo.
“E non lo dovranno mai sapere” fece eco Crispino. Fino a quel momento era parso essere profondamente addormentato, accoccolato nella coperta verde muffa. JJ, al contrario, russava piano, sprofondato nel sonno non appena la testa aveva toccato il cuscino.
Yuri annuì. Poi, ricordandosi che Phichit non poteva vederlo da dove si trovava, diede voce alla propria conferma.
“Si. Parlare causerebbe solo problemi. Ciò che conta è trovare Leo e gli altri. Penseremo dopo al resto.”
“Finché sono ancora vivi!” grugnì Crispino dal suo angolo. ”Cazzo, li hanno riempiti di sassi?” si lamentò. Si voltò su un fianco e punzecchiò il materasso.
Yuri fece lo stesso col suo. Non poteva negare che fosse scomodo, come minimo. Era pieno di bozzi, più morbido di quelli che era abituato in America; ma, così, tendeva ad imbarcarsi nel centro. Sicuramente avrebbe causato una terribile mal di schiena a chiunque vi avesse dormito sopra.
Per fortuna era così stanco che avrebbe potuto dormire nel mezzo del fuoco incrociato di due carrarmati russi. In ogni caso, sarebbero stati meno rumorosi di Crispino. Yuri seppellì la testa sotto quello che doveva essere un cuscino, cercando di bloccare le proteste altrui.
“Dio Cristo Santissimo! JJ, come puoi dormire quando queste molle potrebbero tagliarti la gola durante il sonno?” Crispino stava invero sibilando, succhiando il polpastrello ferito. ”Tetano. Ci beccheremo tutti il tetano!”
Yuri credeva di essere abbastanza stanco da dormire. Si sbagliava.
La verità era che l’essere tanto stanco gli aveva fatto perdere tutto il sonno. L’adrenalina gli correva nelle vene. Alla fine Yuri si arrese, rotolando fuori dal letto. Si strofinò gli occhi, indossò gli occhiali dopo averli recuperati da una tasca nella giacca e spostò alcuni ciuffi di frangia.

Li avevano avvertiti dei rischi di aggirarsi di notte senza una guida - “Non possiamo garantire nulla circa il comportamento dei nostri uomini” - ma dubitava che una semplice passeggiata fuori dalla porta avrebbe causato problemi.
“Ehi, tu!”
Yuri non aveva nemmeno fatto un solo passo fuori dalla stanza che le sue convinzioni furono confutate. Batté le palpebre nella debole luce del corridoio, proveniente da una misera lampadina. Fece un passo avanti per capire meglio - l’accento russo rendeva quasi impossibile comprendere lo sconosciuto - e si trovò faccia a faccia con Yuri Plisetsky.

C’era qualcosa nella postura di Plisetsky che lo faceva sembrare più alto di quanto non fosse in realtà. A differenze di molti soldati che Yuri aveva incontrato, di struttura tozza e robusta, il suo omonimo aveva un corpo snello e ben proporzionato, più agile che dedito alla forza bruta. Plisetsky puntò un dito sul petto di Yuri. Il suono “tsk” che fece era intriso di disprezzo.
“Stammi a sentire. Se fosse per me, vi manderei tutti a casa con un calcio in culo così forte da farvi saltare l’intero l’Atlantico. Non vedreste il mio prigioniero nemmeno in foto.“
Plisetsky lo esaminò da capo a piedi, l’angolo sinistro del labbro piegato verso alto in un sorriso condiscendente.
“Guardati! Hanno finito i pezzi buoni, quindi hanno mandato te? Soldato semplice! Quanti anni hai? Troppi. Faresti meglio ad andartene! “
Yuri studiò l’altro. L’ombra di un sorriso apparve sulle sue labbra.
Plisetsky lo stava sottovalutando?
Plisetsky mormorò qualcosa in russo, quasi come se stesse sputando fuori un grumo che gli era rimasto incastrato in gola. Poi si voltò di nuovo a guardarlo e vomitò una sfilza di insulti, questa volta in inglese. Nel caos di parole - Plisetsky parlava veloce - Yuri riconobbe termini quali “inutile” e “scemo”.
Sì, Plisetsky lo stava sottovalutando.
Fece spallucce. Ormai ci era abituato. Non era la prima volta che qualcuno si fermava alle apparenze quando si trattava di giudicare le sue capacità. Dopotutto era un errore comune. Yuri era minuto, magro ma con la tendenza a mettere su peso non appena sgarrava dalla dieta; ciuffi di frangia gli coprivano quasi gli occhi castani normalmente nascosti dagli occhiali, perché non sopportava le lenti a contatto. Ciò era diventato specialmente vero ora che si trovava in Afghanistan, dove la sabbia sembrava volersi infilare ovunque. La gente aveva la tendenza a sottovalutarlo perché parlava con voce flebile e preferiva rimanere nell’ombra. A volte balbettava persino.
E c’era la sempre presente nube della sua ansia.
“Beh, non sono io ad aver deciso di venire qui. Sono stati i vostri a chiamarci. Perché non chiedi ai tuoi superiori?! commentò quando Plisetsky gli lasciò uno spiraglio per rispondere. Il russo lo squadrò dall’alto in basso, letteralmente e metaforicamente, mentre torreggiava su di lui di un’intera testa. Plisetsky parve sul punto di ribattere, ma la sua bocca già aperta per articolare una nuova replica si chiuse senza produrre alcun suono. Si limitò a sbuffare, prima di ordinargli di andarsene e camminare via egli stesso. L’unica cosa che Yuri sentì, borbottata sotto voce, fu un commento sul “ficcare l’arroganza di Victor” in un certo posto, “anche se non gli dispiacerebbe, conoscendolo”.
Ma certamente Yuri doveva aver immaginato l’ultima parte. Incolpò la propria stanchezza e si stropicciò gli occhi gonfi di sonno. Era sveglio dall’alba del giorno precedente, notò, mentre si trascinava nel piccolo dormitorio.
Prima di entrare, ebbe l’impressione di vedere Plisetsky con la coda dell’occhio - o doveva essere una forma con la medesima altezza e la struttura fisica - appoggiata ad un’altra ombra. Il gesto era quasi tenero, avrebbe osato dire.
Sì, la stanchezza stava giocando con lui.
Si addormentò senza neppure togliersi gli occhiali.

Note:

Nella tradizione del “salviamo quanti più elementi dal canon possibile”, anche in questa AU c’è stato un “banchetto”, Yuri e Victor si sono già incontrati e Yuri non ricorda una cippalippa.
Inoltre a questo indirizzo (http://gwenchan.dreamwidth.org/1499.html) trovate un master post creato da me per "darmi un tono". Attenzione agli spoiler.

Esercito degli Stati Uniti
- Yuri Katsuki, 34 anni, Soldato Scelto.
- Phichit Chulanont, 31, Caporale.
- Michele Crispino, 33, Sergente.
- Jean-Jacques Leroy, 30, Sotto Tenente
- Celestino Cialdini, 56 anni, Maggiore.

Yuri non ha fatto particolari avanzamenti di grado perché i suoi attacchi di ansia lo hanno reso inadatto al comando. Inoltre pesa sulla sua coscienza una missione andata male che sarà spiegata a tempo debito. Aggiungete anche un po’ di discriminazione e razzismo.
è un caso sui generis, un’eccezione che saprebbe di raccomandazione se non fosse che questo povero giovanotto ne ha viste e ne vedrà di tutti i colori

Esercito russo
- Victor Nikiforov, 38 anni, Generale
- Yuri “Ice Tiger” Plisetsky, 26, Capitano di Fanteria
- Otabek Altin, 29, Tenente
- Georgi Popovich, 37, Capitano
- Mila Babicheva, 29, Ufficiale del KGB (nominata),
- Yakov Feltsmann, 81, Ufficiale politico.
   
 
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