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Autore: Gwen Chan    05/06/2017    1 recensioni
Afghanistan, 1988.
Il soldato scelto Yuri Katsuki, entrato nell'esercito più per necessità che per vocazione, ha sempre ammirato il fiore all'occhiello dell'Armata Rossa, Victor Nikiforov.
Ma mai Yuri si sarebbe sognato di trovarsi ad affiancare l'uomo durante una missione di recupero.
Ovvero: la missione che non è mai accaduta e di cui nessuno deve parlare.
Genere: Angst, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti, Victor Nikiforov, Yuri Plisetsky, Yuuri Katsuki
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Tra bugie e verità


Victor Nikiforov era stanco. Con le mani strette su entrambi i lati del lavabo coperto di muffa, sporgendosi in avanti per esaminare il proprio riflesso nello specchio sbeccato, si abbandonò a una certa vanità.

Fu con grande dispiacere che si accorse che l’attaccatura dei capelli cominciava a recedere; nonostante avesse ancora tutti i capelli in testa, il numero di quelli che stava perdendo, vuoi per stress, vuoi per motivi genetici, non accennava a diminuire.
Era in quei momenti che a Victor mancavano i giorni in cui i suoi capelli scendevano ancora lunghi fino ai fianchi. All’epoca aveva sedici anni e sorrideva sotto una coroncina di margherita, mentre Georgi intratteneva il loro piccolo pubblico di adolescenti con una ballata d’amore.
Ora Georgi era il Capitano Popovich, la sua chitarra abbandonata in un passato che sembrava appartenere a qualcun altro. Non era raro incrociare le proprie strade in quei giorni e ogni volta che si trovava faccia a faccia con il suo ex amico, Victor si chiedeva dove fosse finito lo Jora che si dipingeva le labbra di nero e piangeva per la crudeltà del destino.
Chiunque della loro vecchia cerchia se avesse visto Victor ora, avrebbe pensato lo stesso. Si sarebbe chiesto quando il Generale Nikiforov aveva sostituito il Vitya che se ne era andato di casa a quindici anni per inseguire i propri sogni

Rientrando nella stanza, Victor trovò Popovich - Capitano Popovich - già lì, in attesa. Georgi accolse Victor con un lieve cenno della testa e le sue labbra si strinsero in una chiara smorfia di invidia. L’uomo non era una cattiva persona. Victor lo sapeva - o almeno amava pensare che qualcosa del vecchio Jora fosse rimasto dentro l’uomo che ora esibiva un severo taglio a spazzola invece dei morbidi ciuffi castani di un tempo. Tuttavia, sapeva anche che Popovich era il tipo di persona facilmente soggetta a essere consumata dall’invidia. La propensione di Georgi per il melodramma non era scomparsa con l’addestramento militare; aveva solo trovato una nuova valvola di sfogo.
Come eterno secondo, nonostante avesse iniziato la sua carriera nell’esercito più o meno nello stesso periodo di Victor, era rimasto presto indietro. Senza speciali raccomandazioni e non essendo figlio di nessun membro importante del Partito, Georgi aveva dovuto lottare per conquistarsi gli avanzamenti di grado. Aveva combattuto con le unghie e con i denti.
Quando Victor aveva ricevuto la sua promozione a Generale - il più giovane Generale della storia russa - Georgi si era congratulato con lui, ma poi aveva privatamente annegato la propria frustrazione nella vodka.
Non era nemmeno fortunato in amore, pur essendo un uomo premurosa e mentre egli si sforzava per trovarsi una buona moglie, Victor saltava spudoratamente di donna in donna.

“Era ora, stavo cominciando a chiedermi se fossi caduto nella tazza del gabinetto!” sbuffò un terzo uomo, il Capitano di fanteria Yuri Plisetsky. Le sue dita tamburellarono con impazienza sul tavolo di formica.
Non sembrava particolarmente interessato al prigioniero legato alla sedia di fronte a lui. L’uomo, da parte sua, era ancora impegnato a decidere se essere terrorizzato o se far sfoggio di coraggio.
“Yakov?” chiese Yuri, notando l’assenza dell’ufficiale politico che avrebbe dovuto partecipare all’interrogatorio.
“Non si sentiva bene. Ha detto che possiamo fare a meno della sua presenza questa volta."
“Quel vecchiaccio sta cadendo a pezzi!”

Ridendo della sua stessa battuta, Plisetsky fece un gesto in direzione di una quinta persona che fino a quell’istante era rimasta nell’ombra, in un angolo contro il muro: il Tenente Otabek Altin.
“Tenente, hai detto che parli un po’ della sua lingua. Fortunato! Comunque, se sei pronto, io comincerei. Non vedo l’ora di sapere perché questa feccia stava gironzolando nei pressi del nostro campo. Su, chiediglielo!” continuò, abbandonandosi contro lo schienale della sedia, come a mostrare la propria indifferenza. Plisetsky sapeva di aver il coltello dalla parte del manico e, sempre fedele al soprannome che gli era stato dato - la Tigre dei Ghiacci - amava giocare col topo prima di liberarlo o di mangiarlo in un solo boccone, a seconda del suo umore.
Il prigioniero gettò un’occhiata prima verso Plisetsky, poi Otabek, e infine Victor, che sembrava essere capitato lì per caso. Poi, senza alcun avvertimento, Victor si sedette vicino a Yuri e cominciò a giocherellare con la Makarov che si portava appresso. Dopo aver mostrato che era carica, la prese per l’impugnatura e la fece roteare tra pollice e indice. Ignorò l’occhiataccia di Altin.
“Ehi Yuri, pensi che ci vorrà molto tempo?” chiese, non smettendo un attimo di giocare con la pistola. Gettò un’occhiata di traverso al prigioniero.
Compresa l’antifona, l’uomo, un mujaheddin, iniziò a parlare. Otabek tradusse.

“Dice che non ha fatto nulla di male. Dice che era un ... “ Altin attese un momento che il prigioniero ripetesse l’ultima parte della frase. Parlava in fretta, inciampando nelle sue stesse parole, in uno strano miscuglio di inglese e della sua lingua nativa.
“Guida per un gruppo di americani. Una squadra di ricognizione. Sarebbe dovuta essere una missione semplice” continuò Otabek. La sua traduzione era quasi simultanea. Parlava con un forte accento kazako.
“Dice che stavano testando le acque per stabilire una base in un villaggio vicino, un buon posto. Posizione elevata. Ma sono caduti nell’imboscata di un gruppo di banditi.”
“Diciamo pure di qualcuno come lui” commentò Yuri a denti stretti. Gli angoli della bocca di Victor ebbero un sussulto verso l’alto. Georgi rimase impassibile.
Yuri si chinò in avanti sul tavolo. “Sai, non credo a mezza parola di quello che hai detto!” soffiò. “Tenente, diglielo!”
Nel sentire le parole di Altin, l’uomo scosse violentemente la testa, ripetendo “nyet”. Probabilmente era una delle poche frasi in russo che conosceva. Dalla sua bocca sdentata uscì un rapido fiume di parole. Ora Otabek riusciva a malapena a stargli dietro, ma il prigioniero non sembrava incline a rallentare. Un orecchio attento avrebbe tuttavia notato come stesse ripetendo le medesime frasi più volte, quale prova della propria innocenza.
“Giura su Allah non ha fatto nulla di sbagliato. È un brav’uomo; un uomo d’onore.
È un buon musulmano. Dice che non avrebbe mai tradito nessuno. Non è come certe persone. Ma è umano e ha paura, possa Allah avere pietà della sua anima” spiegò Otabek quando finalmente l’uomo si fermò per prendere il fiato.
Yuri scrollò le spalle. Finse di soffocare un sbadiglio annoiato.
“Digli che non credo in garanti che non esistono.”
“Yuri!”
Questa volta, per grande sorpresa di Plisetsky, Otabek non obbedì immediatamente all’ordine, ma le strinse le labbra in una smorfia di irritazione. Il fatto che fosse egli stesso un musulmano era qualcosa di cui poche persone erano a conoscenza, soprattutto nel clima antireligioso che ancora dominava l’URSS. Yuri, tuttavia, era di quei pochi. Al momento, comunque, sembrava un particolare irrilevante.

Un’ora dopo Yuri cominciava a perdere la pazienza. Nell’ultima mezz’ora non avevano fatto progressi col prigioniero. Yuri continuava a insistere sul fatto che l’uomo stesse mentendo, e l’uomo si ostinava ad affermare le sue buone intenzioni, come un disco rotto.
“Cazzo, Tenente, non ne posso più. Davvero non ne posso più. Facciamogli trascorrere qualche giorno in cella e vediamo se questo lo aiuta a chiarirsi le idee.”
Otabek replicò, atono. “Yuri, non capisco perché sei così arrabbiato con lui” osò aggiungere. Yuri diede un pugno sul tavolo, abbastanza forte da fare saltare la pistola che Victor aveva poggiato lì dopo essersi stancato di usarla come passatempo.
“Tenente, un cazzo di mujaheddin viene trovato a girare di notte a meno di dieci metri dal nostro campo, comportandosi in un modo che oserei definire sospetto. Capisci i miei dubbi, vero? Sai cosa succede se lo lascio andare? Ti dico io cosa succede: questo uomo corre dai suoi amichetti americani e dopodomani ci svegliamo con loro che bussano alla nostra porta. Capisci ora perché non credo a una parola delle cazzate che sta dicendo? Georgi, portalo via!"
Senza dire una parola, Popovich si chinò per slegare i nodi che tenevano le caviglia del prigioniero alle gambe della sedia. Quando le braccia furono liberate, l’uomo si massaggiò i polsi. Guardò Otabek per chiedere cosa stava succedendo.
“Capisci? Ti portiamo via!” ripeté Yuri, parlando direttamente con lui. Otabek tradusse. Per sottolineare le sue parole, Georgi strinse la presa sulla spalla del prigioniero per costringerlo ad alzarsi. L’uomo cominciò a gridare, cercando di liberarsi.
“Bambini!” esclamò Otabek. Georgi si bloccò. La sua presa si allentò. Yuri si illuminò di nuovo interesse e anche Victor cambiò espressione.
“Cosa?”
“Bambini. Dice che c’erano dei bambini” spiegò Altin. Yuri si lasciò ricadere sulla sua sedia.
“Cosa ne pensi?” chiese a Victor.
“L’interrogatorio è tuo. Sono qui solo per evitare che le cose degenerino come l’ultima volta, Yura. “
“Le cose non sono degenerate l’ultima volta” rispose Plisetsky. “Comunque, credo ancora che questo tizio non abbia detto una singola parola che fosse vera. Georgi, portalo via!
Questa volta nessuno badò alle proteste del mujaheddin.

***
Più tardi, quella sera, Victor si avvicinò a Yuri per discutere dell’argomento. Si sedette vicino a lui, con una bottiglia di vodka come offerta di pace. Yuri sbuffò. “Dove l’hai presa? Pensavo che ti facesse schifo!”
“Qualcuno l’ha regalata a Yakov, ma bere non gli fa bene alla salute, quindi perché sprecarla? Allora, cosa ne pensi?”
Yuri poggiò le labbra contro l’anello della bottiglia e la sollevò abbastanza perché l’alcool gliele bagnasse. Il liquido che gli scorse giù in gola bruciava.
“Cosa cazzo dovrei pensare? Penso che ci siamo tutti rammolliti. Che vi siete tutti rammolliti! Due lacrimucce e cominciamo a farci venire gli scrupoli!.“
“Yura!”
“No, non usare lo ”Yura” con me”! Non sono più lo Yura che ti seguiva come un cucciolo, sbavando dietro il grande Victor Nikiforov. Sono il Capitano Plisetsky e questa volta non mi farò ingannare.”
Buttò giù un altro sorso, stringendo i denti. Aveva cominciato a bere quando era diventato Tenente, per fingersi più adulto , ma continuava a odiarne il sapore. E poi bruciava da morire. “Come cazzo fa Yakov ad amare questa roba?”
“Se non ti piace, puoi restituirla” scherzò Victor. Yuri strinse la bottiglia ancora più forte.
“Col cavolo! Me l’hai data, ora è mia! “

Rimasero in silenzio per un po’, limitandosi a passarsi la bottiglia di tanto in tanto e a sorbirne sorsi sempre più grandi.
“Yura, ha detto che c’erano dei bambini” Victor riprovò a persuaderlo quando le guance di Yuri cominciarono a diventare rosa e la lingua sembrò più incline a ricordare i vecchi tempi.
Era così strano vederlo con un taglio a spazzola, senza i capelli biondi che scendevano giù a sfiorargli le spalle. Yuri aveva una bellezza quasi androgina. Era sottile, con muscoli ben definiti e Victor sapeva che aveva fatto da modello per un una pittrice russa. Aveva visto uno di quei dipinti. Nell’immagine, Yuri assomigliava a una fata silvestre, con gli occhi color acquamarina che guardavano l’orizzonte e le mani che intrecciavano una ghirlanda di canne.
“Come sta tuo nonno?” chiese Victor d’un tratto. Plisetsky abbassò le braccia e lasciò cadere la guardia.
“Bene, almeno secondo l’ultima lettera”, mormorò, scuotendo la bottiglia ora vuota. Non era un segreto quanto l’uomo amasse il suo nonnino, un ex membro del Partito che aveva combattuto con valore nella battaglia di Leningrado. “Dedushka Kolya è sempre lo stesso. Cucina e si occupa del suo orto."
Victor sorrise con nostalgia. “Allora prova a pensare a quell’uomo come se fosse tuo nonno. Non pensi che avrebbe fatto lo stesso? “
Yuri scansò il tentativo dell’altro di mettergli un braccio intorno alla spalla.
“E allora cosa, Vitya? Se cominciamo ad immaginare ogni nemico come i nostri cari parenti, è la fine. è una guerra! Devo farti un disegnino? È una fottuta guerra!”

“I nostri nemici non sono gli afghani” precisò Victor.
Yuri si morse le labbra. Si alzò e allargò le braccia, la bocca che si muoveva su parole silenziose. “Lo so! Vitya, lo so! Cosa vuoi che faccia? I bambini muoiono, i civili muoiono! Mi dispiace, ma succede! “
“Non se possiamo evitarlo”.
“E cosa succede se, per evitarlo, conduco i miei uomini in una trappola? Sei pronto a prendertene la responsabilità? Perché se sei pronto a correre il rischio, fai pure! “
“Proviamo a metterlo alle strette domani e vedere come reagisce. Poi vedremo” concluse Victor, alzandosi dopo aver dato una pacca veloce sulla schiena di Yuri. Ottenne una mezzo sorriso in risposta.

“Ehi, di’ a Yakov che la sua vodka è terribile!”
“Lo farò.”
Oltre a parlargli di questa faccenda. Victor tenne l’ultima parte per se stesso.
***
Se Yuri sperava che il prigioniero avrebbe cambiato atteggiamento, si sbagliava di grosso. Al contrario, l’uomo divenne ancora più insistente sul coinvolgimento di un gruppo di bambini.
“Cinque bambini, pastori. Dice che li hanno trovati sulle montagne, si erano persi, e che il Sergente de La Iglesia ha deciso di aiutarli. Il Sergente de La Iglesia ha un buon cuore. Non è come gli altri” tradusse Otabek.
Yuri si strofinò la fronte col dorso della mano.
“Qui non andiamo da nessuna parte!”
Si alzò e chiuse il pugno sul pomello, facendo un cenno a Victor e Georgi per seguirlo. Un paio di cadetti di passaggio nel corridoio si bloccarono in loro presenza. Victor li congedò con un gesto della mano.

“Cosa ha detto Yakov?” chiese Yuri senza ulteriori richiami.
“Ti farà piacere sapere che è d’accordo con te. Tuttavia, a differenza tua, ha alcuni utili contatti e si è informato sulla questione."
“E?”
“E grazie alla nostra Mila, sappiamo a tempo di record che gli americani hanno effettivamente perso una squadra di ricognizione vicino al posto indicato dal nostro uomo.”
“Il capo della squadra?” Insistette Yuri.
“Leo de la Iglesia”.
Continuarono a discutere per quelle che sembrava ore.

Quando tornarono nella stanzetta, il prigioniero stava aspettando, legato alla sedia e con Otabek che non era certo la persona più rassicurante. Yuri tagliò corto.

“I miei amici qui sono così scemi da crederti, quindi vogliono darti una possibilità. Ora, sono sicuro che stai sperando che io ti rimandi dai tuoi amichetti americani, ma non sono uno stupido. Sarai la nostra guida e se hai il coraggio di fare qualcosa che può essere considerata anche solo remotamente una minaccia, se hai il coraggio di fuggire, se osi anche sembrare sospetto, ti pianterò una pallottola nel cranio. Ci siamo capiti?”
Mentre Otabek traduceva, Yuri notò che Victor era scomparso ancora una volta da dove si trovava un attimo prima. Neanche il tempo di chiedersi dove cavolo fosse andato, era già di ritorno.
“Che c’è ora?”

“Ho detto a Yakov di chiamare gli americani!”

Yuri Plisetsky giurò che un giorno avrebbe strangolato Victor Nikiforov.

Note: So che le premesse sono improbabili, ma chiamiamola licenza artistica. Anche perché sarà uno dei pochi “sgarri” che mi concederò e comunque i personaggi stessi sono consapevoli della situazione sui generis in cui si stanno per infilare.
Cavolo, a rileggere i vecchi capitoli mi sta venendo nostalgia. Sono ancora tutti così ignari.
Per ragioni di trama tutti i personaggi hanno dieci anni in più.So che i primi capitoli sono corti e lenti, ma vi chiedo di pazientare. Il capitolo sei sarà il giro di boa. Ah, non fatevi ingannare dall'outside POV. Qua Victor è gay come un unicorno arcobaleno, ma negli omofobici anni Ottanta nell'ancora più omofobica Unione Sovietica, meglio tenere un basso profilo.
   
 
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