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Autore: Akai Hasu    19/06/2017    2 recensioni
Tratto dal primo capitolo:
“Ti prego…” diceva con tono supplichevole “Ti prego, mostrati anche a me! Lasciami vedere il tuo viso un’ultima volta, ti prego!”
Decisi di andarmene, per paura che si arrabbiasse se mi avesse scoperto ad origliare. Lo sentì, un’ultima volta.
“Se non vuoi farti vedere, allora uccidimi e portami con te! Morirei comunque, se non riuscissi a vederti ancora!”
Ma così come ogni fantasma quando viene chiamato, non lo ascoltò.

/La storia è ispirata a Cime Tempestose, uno splendido libro che parla d'amore e vendetta/
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Courtney, Dawn, Duncan, Gwen | Coppie: Duncan/Courtney
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale
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CAPITOLO 2

 

Passai il resto della notte nel salotto, dormendo sulla poltrona di fronte al camino. Immaginavo che il padrone fosse rimasto nella stanza dove conobbi Courtney Wellington, e non sapevo dove cercare altre stanze senza sembrare inopportuno. Inoltre, non avevo intenzione di cercare e svegliare la serva, LeShawna: non volevo scomodarla ulteriormente.

Per mia fortuna, la donna fantasma non invase nuovamente i miei sogni, e dormì le ore restanti in pace. Il mio risveglio non fu, però, altrettanto pacifico.

Quando aprì gli occhi, alle prime luci dell’alba, comparve di fronte a me una donna molto giovane, dalla pelle bianca come la neve, capelli neri e occhi del medesimo colore. Indossava un abito che toccava il pavimento, con le maniche lunghe, senza nessun tipo di decorazione o ricamo, color blu notte. Ammisi di non aver fatto una bella figura con lei: pensando di essere ancora in sogno e di trovarmi davanti un altro dei fantasmi della stanza di Courtney Wellington, scattai in piedi, allontanandomi. Lei, dal canto suo, non smetteva di guardarmi in modo truce e spregevole, anche se notavo nella sua espressione qualcosa che avevo già visto in occhi altrui.

 La corvina sbuffò e roteò gli occhi.

“È ospite di Duncan?” disse annoiata, poi si girò verso il camino e prese dei contenitori in ceramica che si trovavano sopra una mensola  “È stato invitato per il the?”

Aveva un portamento molto aggraziato e elegante, con quel tono che si sforzava di apparire educato, cosa che avevo notato spesso nel comportamento di giovani ragazze nobili. Quelle nobili che avevano passato la loro vita convinte di aver fatto e visto ogni cosa possibile a loro, per poi essersi accorte che le contadine avevano più libertà. Il suo vestito troppo semplice per un’aristocratica e l’irritazione con cui aveva pronunciato il nome del padrone, senza chiamarlo nemmeno “Signore”, mi facevano pensare che fosse una cameriera. Rimasi un po’ di tempo in silenzio, ragionando su chi fosse e, di conseguenza, su come trattarla.

Mi accorsi di non avere ancora risposto quando la vidi prendere un respiro profondo e appoggiare i contenitori, per poi ripetermi con tono sottile e irritato la stessa domanda. Intuì che non avesse molta pazienza.

“In realtà non sono stato invitato per il the o per il pranzo. Venni a trovare il signore ieri e rimasi qui una notte, dato che il percorso di ritorno è molto innevato e io non conosco ancora bene la strada. Un the sarebbe comunque gradito, se non le è di disturbo” mi spiegai invano, dato che dopo la prima frase la giovane aveva già riposto i recipienti sul ripiano, preso un libro da esso e si era seduta sulla poltrona dove poco prima dormivo io, per leggere.

La osservai incuriosito per un po’, constatando che un ragazza che si prendeva tutte le sue comodità senza preoccuparsi di un ospite non potesse essere una cameriera o una cuoca.

Mi girai con l’intento di uscire nel giardino e nella stalla per trovare il mio cavallo e un ragazzo che mi aiutasse a tornare alla mia villa, ma venni bloccato dalla cuoca che mi aveva soccorso la notte prima.

“Mi spiace, ma mi rifiuto di farla uscire. Ieri non ha cenato e insisto che rimanga a pranzo qua, non vorrei che rischiasse di arrivare a casa sua e non trovare il pranzo pronto” disse facendomi accomodare su una sedia. Guardò la giovane ragazza pallida, come se volesse rimproverarla per la sua scortesia nel non cedermi il suo posto, ma ella la ignorò.

Appena LeShawna sparì in cucina, dalle scale scese il signor Duncan. La testa china e i capelli lunghi più spettinati del giorno prima mi impedivano di vedergli l’espressione, di conseguenza non sapevo se potevo rivolgergli la parola senza farlo innervosire. Mi limitai ad alzarmi, nel caso volesse sedersi.

“Alzati, e torna in cucina a preparare il the” disse  alla ragazza sulla poltrona, che non alzò nemmeno lo sguardo.

“Non sono una serva, tanto meno la tua” disse con tono apatico, girando una pagina del suo libro. Lui non sembrò gradire questa risposta.

Appoggiò una mano allo schienale della poltrona, mentre si avvicinava a lei.

“Cos’hai detto?” disse lentamente, guardandola negli occhi con odio e rabbia. Con mia sorpresa, lei sostenne il suo sguardo, fissandolo con lo stesso astio.

 “Non sono la tua schiava, Duncan” sussurrò con fare provocatorio.

L’uomo perse la pazienza, e la afferrò per i capelli, facendola urlare di sorpresa. La fece alzare dalla sedia e avvicinare al suo volto, mentre lei provava a graffiargli con le unghie la mano che la teneva. L’urlo richiamò la cuoca, che strinse adirata il mestolo che aveva in mano, Chris, che guardava con soddisfazione la scena, e il ragazzo con gli occhi verdi della notte prima, che guardava la ragazza con preoccupazione.

“Finché tu abiterai a casa mia e io sarò in vita, sì, sei la mia schiava” le disse con tono minaccioso. Lasciò la presa sui suoi capelli, spingendola a terra, per poi andarsene.

Appena non fu più in vista, il ragazzo dagli occhi verdi si precipitò al suo fianco. Come con la la ragazza, guardandolo non capivo se fosse un ragazzo di rilievo o un semplice contadino.

“Gwen… Gwendoline… Stai bene?” disse inchinandosi al suo fianco e offrendole una mano. La signorina Gwendoline si era messa seduta, alzandosi con l’aiuto di un braccio, mentre la mano dell’altra era tra i suoi capelli, nel punto in cui l’uomo l’aveva presa.

I suoi occhi mostravano la tristezza e la rabbia che quella imposizione su di lei le aveva causato, ma quando guardò il giovane cambiarono: vidi riflesso nel suo volto delusione e disperazione.

“Mi chiedo perché dovrebbe interessarti, Trent” sussurrò a bassa voce, alzandosi “Tu, dopotutto, sei dalla sua parte, no?” aggiunse, per poi guardarlo con la stessa espressione, e andarsene.

LeShawna osservava il tutto con disappunto.

“Mi spiace che lei debba continuare ad assistere a scene del genere” mi disse, mentre Trent se ne andava “Questa non è una casa molto tranquilla, come ha notato”

“Non si preoccupi” risposi con un sorriso, ma pensavo di dovermene andare dalla loro casa il prima possibile.

 

Riuscì a convincere la donna a lasciarmi andare dopo una buona mezz’ora, assicurandole che le mie cameriere avevano sicuramente preparato ogni cosa. Quando le dissi il nome di una di loro, la donna che si occupava esclusivamente di me mentre dava ordini alle altre ragazze affinché ordinassero la villa come si deve, si convinse a lasciarmi nelle sue mani. Dedussi che le due si conoscessero già.

Arrivai con meno fatica e in meno tempo del pomeriggio prima. Entrai dal cancello, nel mio vasto giardino: era completamente coperto dalla neve, e vi si trovavano numerosi alberi ormai spogli. Immaginai che d’estate e in primavera fosse una meraviglia, con i fiori che fiorivano tra le aiuole e i frutti che pendevano dagli alberi.

Mentre percorrevo il sentiero ghiaioso che conduceva alla mia entrata, non potevo fare a meno di pensare alla giovane Gwendoline. Non doveva avere più di venti anni, anzi, sospettavo ne avesse ancora diciassette o diciotto. Aveva una bellezza particolare, che mi ricordava vagamente quella del fantasma, ma che allo stesso tempo era completamente diversa. Immaginai che fosse la “Gwen” che avevo trovato nei libri, e, forse, anche “Gwen Tremblay”. Nei suoi libri non c’erano scritte a mano, come in quello dell’altra: i bordi delle pagine erano stati, però, strappati. Mi chiesi come mai avesse rovinato i libri in quel modo. Magari per noia, o forse per usarli come biglietti. Che avesse, o avesse avuto, un corrispondente segreto? Pensai che fosse il ragazzo dagli occhi verdi, Trent. Chissà invece qual era la sua storia. Potrebbe essere il figlio del signor Duncan, se fosse un nobile. O magari un semplice cameriere o contadino. Sarebbe stata una storia d’amore struggente, se il giovane non fosse ricco e fosse il corrispondente segreto della donna.

Arrivai alle porte della mia villa e scesi da cavallo, che il mio stalliere prese, mentre un altro ragazzo avvertiva una delle cameriere del mio arrivo. Appena entrai, lei, che non doveva avere più di tredici anni, e sua madre mi vennero incontro, prendendo la mia giacca bagnata per la neve e offrendomi una coperta, mentre vedevo una terza donna attizzare il fuoco nel camino.

“Signor Anderson! Pensavamo fosse disperso, eravamo preoccupati per lei” disse ella, con un tono di voce molto calmo e venendomi incontro. Era molto minuta, aveva la pelle bianca, capelli biondo chiaro e occhi color cobalto. La sua espressione era molto dolce e tranquilla, anche se si notava un accenno di preoccupazione nei suoi occhi. Indossava un abito lungo, molto simile a quello di Gwendoline, ma il suo era di un colore azzurro-grigio, sporco di cenere e rattoppato in alcuni punti.

“Dovete scusarmi, Dawn” dissi sorridendole “Ieri pomeriggio decisi di andare a vedere chi abitava quella casa di cui tutti parlano, l’Imperfait, e dove abita il proprietario di casa mia, ma non conoscevo bene la strada, perciò quando arrivai era ormai notte e rimasi a dormire lì.”

Lei sembrò stupita dalla mia affermazione, e aggrottò la fronte.

“Lei ha incontrato il signor Duncan?” domandò, avviandosi verso la cucina, supposi per riscaldarmi il pranzo.

“Sì, lei lo conosce?” chiesi a mia volta.

“Signor Anderson, insisto perché lei mi dia del ‘tu’” mi ammonì “E, sì, conosco il padrone. In realtà, io ho vissuto con lui e la famiglia Wellington: mia madre, a quei tempi, era la loro cameriera e noi abitavamo con loro. All’età di otto anni cominciai a lavorare anch’io, anche se mi era permesso molta libertà, visto che ero piccola, e perché il signor Wellington insisteva perché io giocassi con i suoi figli. Lavorai per loro per tutta la mia vita, fino a poco tempo fa. Così, posso dire di essere tra le poche persone che conoscono la famiglia Wellington così come si mostrava all’interno delle mura di casa.” Rispose con semplicità e un po’ di orgoglio.

La guardai mentre accendeva il fuoco dei fornelli. Doveva avere la stessa età del padrone di casa, ma non li dimostrava affatto.

“Potrei chiederti un favore, cara Dawn?” dissi sedendomi alla tavola, mentre lei versava in un piatto la minestra calda da lei preparata. Mi guardò accigliata ed annuì.

“Vorrei che lei mi raccontasse di loro: vorrei sapere del signor Duncan, di quella donna, Courtney, che la notte precedente cercava di richiamare dall’aldilà e della giovane Gwendoline, che sembra così infelice in quella casa.”

La bionda si sedette di fronte a me, appoggiò il mento al palmo della mano e guardò il soffitto pensierosa.

“Padrone, io posso dirle tutto quello che vuole sapere del signor Duncan tranne da chi è nato e come ha guadagnato i primi soldi” rispose con voce sommessa “sarebbe un piacere raccontarle questa bella, seppur drammatica, storia. Ma mi permetto di rimandare a questa sera, dato che dovrò comunque svolgere i miei abituali lavori. Le porterò la cena in camera sua, e, se vorrà ancora sentirmi, sarò a vostra disposizione”

Detto questo, si alzò con un inchino e se andò al piano di sopra, seguita dalla bambina che prima mi aveva portato una coperta.

 

Passai le seguenti ore leggendo vari contratti commerciali che mi ero portato dalla mia casa a Toronto. Erano una delle poche cose che avevo portato con me, mentre il resto delle mie ricchezze venivano portati a me da alcuni fidati lavoratori. Non potevo aspettare il loro arrivo per rimettermi a lavoro.

Nonostante cercassi con tutta la mia volontà di concentrarmi su quei fogli, la mia mente era altrove, trasportata dalla curiosità per il sentire la storia, e mi rendeva difficile capire certe frasi. Ci misi parecchie ore prima di  finire di leggere e scrivere delle lettere in cui spiegavo ciò che andava cambiato nei contratti, e con mio grande piacere era ormai sera. Non sarei comunque riuscito a lavorare di più, con il pensiero della storia di Courtney che mi perseguitava.

Appena scoccarono le sette, mi recai in camera mia, dove trovai un vassoio con la cena di quel giorno sopra un comodino. Mi sedetti sul morbido letto, cominciando a mangiare e aspettando Dawn. Arrivò poco dopo, con sé una sedia.

“Mi chiedevo quando saresti arrivata. La curiosità mi consuma e non riesco a pensare ad altro” le dissi, mentre si sedeva. Lei sorrise.

“Non so se la storia sarebbe di vostro gradimento, ma se insistete cercherò di ricordare quanti più particolari possibili”

Mi misi comodo e le sorrisi dicendole di cominciare. Lei prese la tazza di the in più che aveva appoggiato insieme alla mia cena, e cominciò.

“Come le ho già detto, ho vissuto con la famiglia Wellington per quasi tutta la mia vita.

Il padrone di casa, a quei tempi, era il Signor Wellington, l’ultimo della sua famiglia che nacque in Inghilterra. Devon Joseph Wellington era uno degli uomini più magnanimi e giusti che io abbia mai avuto l’onore di conoscere: era un importante uomo d’affari, ma nonostante questo non si comportava come un uomo superiore, ed era solito aiutare le persone meno fortunate di lui. Mi ritengo molto fortunata ad essere cresciuta con il Signor Wellington, che mi trattava come se fossi sua nipote. Un’altra caratteristica importante del padrone era che amava i suoi figli come amò la sua defunta moglie, e questo affetto non cambiò mai nel tempo.

Egli aveva due figli: Courtney e Alejandro Wellington.

Alejandro aveva due anni in più di me e sua sorella, e si comportava già come un principe. Aveva una bella carnagione abbronzata, occhi scuri e teneva i capelli mori più lunghi di quanto fossero soliti fare i suoi coetanei. Si era sempre comportato in modo piuttosto egocentrico, elegante e superiore, come vedeva fare dagli amici del padre che venivano spesso a trovarlo. Era un ragazzo orgoglioso e consapevole del potere che la sua famiglia aveva. Si sentiva in diritto di poter fare ogni cosa, ma lo faceva con cautela. Una sua caratteristica che sfruttava sin da bambino era la furbizia: riusciva a fare ogni cosa volesse di nascosto, riusciva a convincere e ricattare chiunque in poco tempo. Era un ragazzo molto persuasivo, e sapeva di certo giocare le sue carte.

Courtney, da bambina, non era così. Il suo aspetto ricordava molto quello del fratello, se non per alcune lentiggini e i capelli un po’ più chiari. Lei, al contrario suo, preferiva tenerli corti, anche se non è una capigliatura usata dalle ragazze di un certo rilievo. Possiamo dire che non c’era cattiveria nel suo cuore. Mi permetto di dire che era semplicemente stata viziata, ma all’inizio, Anderson, la piccola Courtney sembrava tutto tranne che una piccola nobile. Si divertiva a giocare con me nei giardini, non preoccupandosi della fine che facevano i suoi abiti, imparò in poco tempo a scavalcare le mura e se gliel’avesse chiesto qualcuno, lei avrebbe offerto volentieri il suo aiuto.

 

Un giorno, quando la moglie era ormai defunta da tempo, il signor Wellington tornò da un viaggio di due settimane nella capitale.

Io e i due bambini lo aspettavamo al cancello, ansiosi, e quando scese dalla sua carrozza, con il suo solito sorriso bonario in volto, i due bambini gli corsero incontro, abbracciandolo e frugando nelle sue tasche sperando di trovare qualche giocattolo.

Loro padre si inchinò al loro livello e diede loro i loro regali per calmarli, per poi dire a qualcuno che era nella carrozza di scendere.

Si affiancò a lui un bambino che avrà avuto l’età di Alejandro, con la pelle pallida, gli occhi verdi e i capelli neri. Non apriva bocca e teneva lo sguardo puntato a terra.

“L’ho trovato durante il viaggio di ritorno. È orfano ed è senza nome. D’ora in poi lui resterà con noi ed esigo che voi lo trattiate come un fratello.” Ci disse lui.

Courtney fu la prima ad avvicinarsi. Lo salutò allegramente, ottenendo che lui alzasse lo sguardo verso di lei.

“Si chiamerà Duncan” aggiunse il Signor Wellington. Courtney sorrise nuovamente, mentre io e Alejandro restavamo in disparte, lui guardandolo in modo truce.

Wellington tornò in casa accompagnato da due cameriere, mentre uno stalliere si occupava del cavallo che trainava la carrozza, e noi rimanemmo soli con Duncan.

 

ANGOLO ME

E niente, torno a caso dopo 5 mesi.

Spero vi piaccia.

-Akai Hasu

   
 
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