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Autore: Gwen Chan    07/08/2017    2 recensioni
Afghanistan, 1988.
Il soldato scelto Yuri Katsuki, entrato nell'esercito più per necessità che per vocazione, ha sempre ammirato il fiore all'occhiello dell'Armata Rossa, Victor Nikiforov.
Ma mai Yuri si sarebbe sognato di trovarsi ad affiancare l'uomo durante una missione di recupero.
Ovvero: la missione che non è mai accaduta e di cui nessuno deve parlare.
Genere: Angst, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti, Victor Nikiforov, Yuri Plisetsky, Yuuri Katsuki
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Si guarisce in due

Per Yuri la missione gomito a gomito con Victor Nikiforov fu l’ultima della sua carriera militare. Dopo aver trascorso sei mesi in Afghanistan, fu rimandato negli Stati Uniti alla fine della primavera del 1988.
Si preoccupò poco degli eventi che plasmarono quella calda estate. La maggior parte giunse alla sua attenzione tramite persone che parlavano con voci monotone alla radio e alla TV o tramite i titoli dei giornali. Apparentemente, Gorbaciov aveva deciso, tra le altre cose di ritirare le truppe sovietiche dall’Afghanistan.
L’ironia.
Eppure le notizie non ebbero un grande impatto su Yuri. Non che non volesse prestarvi attenzione. Semplicemente non poteva. Lo Yuri Katsuki di quei mesi che seguirono la missione aveva perso la capacità di provare alcunché. Dalla gioia all’ira, dal sollievo al dolore, tutto era stato lavato via da una grigia apatia.
Certo, la politica non era l’unica cosa che faceva chiacchierare e spettegolare la gente.
Dopo le Olimpiadi Invernali di Calgary a febbraio, che Yuri aveva seguito per quanto possibile, il mondo si stava preparando a vedere come Seoul avrebbe ospitato i le Olimpiadi Estive. Per la prima volta dopo anni, entrambe le squadre USA e URSS avrebbero partecipato in presenza dell’altra. Era in effetti un forte atto simbolico, qualcosa che mostrava come il mondo stesse cambiando. Ignorare i disordini nei Paesi sotto il dominio sovietico stava diventando sempre più difficile. Proteste scuotevano la Polonia, sotto la bandiera della Solidarność di Walesa, e la bandiera lettone era stata fatta sventolare nuovamente a Riga per la prima volta negli anni.
Yuri, tuttavia, avrebbe riflettuto su simili questioni molto tempo dopo che ebbero avuto luogo.
Per il momento, i suoi giorni si srotolavano in una beata e noiosa routine fatta di addestramento, altri doveri militari, e sedute obbligatori con uno psicologo come ordinato dai suoi superiori. Durante le prime sessioni Yuri si era chiuso in se stesso, il senso di colpa penetrato fino alle sue ossa. L’insonnia lo tormentava, proprio come facevano gli incubi quando finalmente riusciva a scivolare nell’abbraccio del sonno. Naturalmente, non poteva dire nulla del suo cuore pentito e sanguinante. Le parole che Victor gli aveva scritto, ora sbiadiate dalle lacrime di Yuri e dalle impronte sudate dei suoi polpastrelli, continuavano a danzare davanti ai suoi occhi. Mostravano quello che avrebbe potuto avere se non fosse stato un codardo. Ma del resto, le sessioni non erano destinate a risolvere i suoi problemi d’amore. Anzi non avrebbe proprio dovuto avere problemi di cuore.
Yuri aveva lasciato un pezzo di se stesso in Afghanistan.
Col tempo sarebbe guarito. Tutto è destinato a guarire, se non si muore prima. Con il tempo e con l’aiuto occasionale di alcune pillole, gli incubi e i ricordi si placarono. Proprio come un osso rotto che fa male solo quando piove.

A novembre Yuri fu mandato sul campo ancora una volta, con i dovuti documenti attestanti una passabile stabilità mentale. Neanche un mese nella solita routine Yuri decise di averne avuto abbastanza. Aveva trentacinque anni, il suo compleanno era appena trascorso, e aveva passato quasi la metà della sua vita nell’esercito. Ora sentiva il profondo desiderio di tornare a casa, non negli Stati Uniti, ma nella sua città natale in Giappone. Richiese i documenti necessari per il visto non appena ne ebbe occasione.
Intorno all’aprile del 1989, quasi un anno dopo la missione , Yuri divenne un riservista inattivo con il grado di Specialista. Anche se aveva pensato mentalmente di lasciare gli Stati Uniti il più presto possibile, varie faccende in sospeso lo tennero laggiù per almeno altri tre mesi. Soprattutto, dovette organizzare la spedizione via nave degli oggetti più importanti in suo possesso, soprattutto libri e vari ricordi. Poi ci fu la questione di vendere il suo appartamento a Detroit, dove Yuri aveva vissuto per così poco, che abitarci pareva strano. Infine, il suo passaporto giapponese doveva essere rinnovato, dato che Yuri si era preoccupato poco del problema tra la sua depressione, l’addestramento e il nuovo impiego sul campo.


Yuri tornò a Hasetsu nell’autunno del 1989. Dopo essere stato via per più di quindici anni, finalmente era di nuovo nella sua città natale.
Tutto e niente era cambiato. La città era stata fortemente modernizzata, acquisendo una nuova stazione tra le altre cose. Allo stesso tempo aveva preservato l’atmosfera fiabesca da posto tranquillo lontano dalla pazza folla. I bambini avevano sostituito i loro genitori, ma i gesti quotidiani erano rimasti gli stessi. Il Castello sulla collina attirava ancora visitatori. Gli affari alle terme avevano ancora i loro salti e bassi, ma l’attività dei Katsuki persisteva.
Yuri non andò direttamente a casa. La prima persona a cui fece visita fu la sua insegnante di balletto. Yuri bussò educatamente alla porta del suo vecchio studio di danza. Attutita dalla porta di legno si sentiva la musica proveniente dall’interno.
“Avanti!” La donna gridò sopra le note di un brano che Yuri riconobbe come “la danza delle ore”. Aprì la porta, si tolse le scarpe, un’abitudine che non aveva mai dimenticato, e camminò piano sul pavimento in legno lucido. Gli specchi sulla parete opposta erano lucenti come li ricordava. La barra era invece di un colore più scuro, sostituita alcuni anni dopo la sua partenza. La stessa sorte era toccata al vecchio stereo che Minako utilizzava negli anni Sessanta. Il suo posto era ora occupato da un nuovissimo e brillante apparecchio color argento.
La donna era sul pavimento, una gamba stesa davanti a lei e l’altra piegata sotto il sedere, la schiena leggermente arcuata nel principio di un port de bras. Minako Oukukawa non era invecchiata di un giorno, nonostante avesse già raggiunto la sessantina. Yuri attese che finisse la routine, in religioso silenzio.
“Sei brava come sempre, Minako-sensei” si limitò a complimentarsi quando ella uscì finalmente uscito dalla sua posa finale, un delizioso arabesque.
Minako assottigliò gli occhi. Poi, nell’istante in cui collegò l’uomo in piedi sulla porta al dolce ragazzo a cui aveva insegnato una volta, la bocca si stese in un ampio sorriso.
“Yuri!” Esclamò Minako. Lo invitò a entrare, prima di abbassare il volume della musica. L’età l’aveva resa più bassa, quindi adesso doveva inclinare la testa all’indietro per guardare Yuri negli occhi.
“Sei cresciuto. Comunque, dubito che tu sia qui per una lezione di danza. Posso offrirti un caffè?” Proseguì Minako. Yuri declinò gentilmente l’offerta.
“Ci sono altre persone che devo incontrare” si giustificò.
“Comprensibile. Ricorda che il mio studio è sempre aperto, se vuoi ricominciare le lezioni di balletto."
“Potrei essere troppo vecchio per questo, purtroppo.”
“Lascia che sia io a decidere.”
La seconda visita che Yuri fece fu ai suoi amici d’infanzia. Yuko Nishigori e suo marito, Takeshi, avevano comprato il palazzetto del ghiaccio locale, l’Ice Castle Hasetsu, dal proprietario precedente e da allora avevano speso tutta la propria energia nel rinnovamento della struttura. Anche Lutz era a casa, tornata per una vacanza dopo la sua ultima medaglia, un argento ai Mondiali. A ripensare che, quando era partito Lutz e le altre due sorelle gemelle non erano ancora nate e Yuko e Takeshi erano solo adolescenti, a Yuri si strinse il petto di nostalgia. La città, il mondo, erano andati avanti senza di lui e non poteva fare altro se non cercare di recuperare il tempo perso. Era come essersi svegliato durante un viaggio treno dopo una lunga dormita e non sapere dove si trovasse.
Yuko Nishigori era ancora bello come quando era più giovane. Ora aveva fili grigi nei capelli altrimenti ramati e i suoi fianchi si erano allargati dall’ultima gravidanza. Un ragazzo di cinque anni stava al suo fianco.
Per Yuri entrare nel Ice Castle dopo tanto tempo fu come tuffarsi in un sogno. Nulla era come lo ricordava dalla sua infanzia, eppure tutto era come doveva essere.
“È passato un po’ di tempo, Yuko-San” la salutò.
“Yuri!” Esclamò la donna in risposta. “Sei cresciuto! Hai ricevuto la mia ultima lettera? “- Yuri l’aveva ricevuta, ma non aveva avuto la forza di rispondere – “Comunque, per quanto tempo pensi di rimanere? E chiamami pure Yuu-chan. Dopotutto, siamo stati amici d’infanzia” continuò Yuko, sorridendo con affetto. Suo figlio l’afferrò per la manica della felpa.
“E tu devi essere Salchow!” intervenne Yuri, ricordandosi delle volte in cui Yuko aveva accennato al figlio più giovane nelle sue lettere. Il ragazzo si mordicchiò le labbra, semi-nascosto dietro le gambe della madre. Poi, gentilmente spinto da lei, fece un piccolo inchino.
“Sì. È un piacere incontrarla.”
“Ok, torna pure a giocare. I tuoi pattini sono abbastanza stretti?” Chiese Yuko a Salchow. Il ragazzo annuì, sollevando un piede perché la madre controllasse l’allacciatura. Una volta ricevuto il via libera, scappò via.
“Un altro precoce fan di pattinaggio artistico?” commentò Yuri, guardando il ragazzo scivolare sul ghiaccio con una sicurezza che suggeriva avere indossato i pattini prima ancora di poter camminare.
“Ci puoi scommettere! E tu? Perché non ti unisci a lui?” propose Yuko dal nulla. A volte il modo migliore per ricongiungersi con un vecchio amico è immergersi in un’attività comune.
“Sono anni che non indosso un paio di pattini!” protestò Yuri. “Inoltre sono stanco. Ore di volo, sai” aggiunse, cercando di svincolarsi.
Yuko cacciò via le sue preoccupazioni con un gesto della mano.
“Non ti sto chiedendo di saltare. Puoi ancora stare in piedi senza cadere? “
“Sì. Penso di sì.”
Beh, considerò Yuri sotto lo sguardo insistente di Yuko, forse valeva la pena provare. Dopotutto, forse a causa degli anni nell’esercito, non si sentiva stanco come avrebbe dovuto. Anche considerando che nelle ultime ventiquattro ore non aveva chiuso occhio.
“Porti ancora il 43, giusto?” chiese Yuko, facendo segno di seguirla dove si trovavano i pattini. Dopo aver ricevuto conferma, ne prese una coppia dalla terza mensola.
“Ecco!”
Yuri afferrò i pattini, li indossò - allacciarli non fu molto diverso dall’allacciare un paio di anfibi - e salì sul ghiaccio appena lisciato, le mani strette attorno alla barriera.
Sì, riusciva ancora a stare in piedi. Tenendosi vicino al bordo, accennò lentamente i primi passi, sentendo il modo in cui la lama tagliava la superficie gelata. Era come andare in bicicletta. Presto scoprì che il suo corpo non aveva mai dimenticato i movimenti.
Come sarebbe potuto essere: una vita con lui che continua ad allenarsi sotto la guida di Minako e a pattinare ogni domenica pomeriggio.
Deglutì.
Yuko gli mostrò un semplice esercizio, una serie di figure per imparare il controllo del peso corporeo sui fili. Era noioso e ripetitivo, ma Yuri lo trovò stranamente calmante.
Era già tarda sera quando Yuri trascinò finalmente i piedi fino a casa. Sospirò. Era a casa. Era a casa e aveva ancora la sensazione di essere un ospite.
Fece scivolare di lato la porta d’ingresso, gridando parole giapponesi che sentì familiari, anche se non avevano usato molto la lingua negli ultimi anni.
“Sono a casa!”
La voce rauca di Yuri echeggiò nell’ingresso. Si tolse le scarpe, lasciò cadere la borsa dalla spalla e camminò sul pavimento di legno verso la sala da pranzo. Sua madre corse nella sua direzione non appena lo notò.
Onestamente, Yuri non immaginava che sua madre lo avrebbe stretto tanto forte da essere quasi sollevato.
E Yuri capì. Comprese che i suoi genitori non avevano mai voluto abbandonarlo. Al contrario avevano dimostrato il loro più profondo affetto offrendogli quello che credevano fosse il meglio che avrebbero potuto dare: un futuro migliore. Non potevano sapere che si sarebbe arruolato. Non potevano immaginarlo.
Yuri restituì l’abbraccio.
Sua madre aveva perso centimetri in altezza, ma era rimasta paffuta e rotondetta proprio come Yuri la ricordava. I capelli erano ormai grigi, pettinati nel suo solito caschetto. Dopo averlo abbracciato, si spazzolò le mani contro il grembiule, prese il borsone e invitò Yuri a fare un bagno nelle sorgenti termali. Obbedì con piacere.
Nell’istante in cui entrò nella calda piscina all’aria aperta, ben custodita dalla statua di un’antica divinità tradizionale, una profonda stanchezza cadde su di lui. Le sue membra si fecero pesanti, ma allo stesso tempo il dolore sordo in esse scomparve. Yuri nuotò lentamente fino al bordo della piscina, scivolando fino ad avere l’acqua a sfiorargli il mento. Si abbandonò con la testa gettata all’indietro, usando le braccia come leva, e chiuse gli occhi. Il sudore causato dal vapore gli imperlò la fronte. Passò le dita attraverso i capelli bagnati, spingendoli indietro. Erano cresciuti da quando Yuri aveva lasciato l’esercito.
Dopo il bagno, Hiroko diede a Yuri una ciotola del suo cibo preferito, il katsudon che aveva spesso sognato mentre era lontano. Erano anni che non lo mangiava e divorò la porzione in pochi secondi. Se ne servì una seconda e persino una terza.
Poi, come se il pensiero di essere a casa dopo tanto tempo fosse diventato troppo pesante da sopportare, lasciò cadere le bacchette nella ciotola e di colpo scoppiò in un pianto silenzioso.
“Sto bene” tirò su col naso, allontanandosi dalla madre. Sentì il suo sguardo su di sé, insieme a quelli di suo padre e di sua sorella. Yuri era sempre stata una persona riservata. L’esercito aveva solo amplificato tale caratteristica.
Non importava la cultura o il contesto, gli era sempre stato insegnato che gli uomini non piangono. Soprattutto non piangono davanti a qualcuno. Yuri aveva perso il conto del numero di volte in cui aveva pianto in segreto, per paura, ansia o tristezza. Aveva dimenticato l’ultima volta in cui aveva pianto davanti di qualcun altro. Spinse via la ciotola di riso e si scusò.

La sua camera era ancora più piccola di quanto ricordasse. La maggior parte delle carabattole che una tempo ingombravano la scrivania era stata messa via. Gli scaffali erano vuoti a parte alcuni vecchi libri che non aveva portato con sé negli Stati Uniti. Nessuna foto o poster decorava le pareti. In realtà era una stanza senza vita, dove nessuno entrava da anni, se non per spolverare. Aveva l’odore del passato, mostrando ricordi di un adolescente che leggeva i manga tra un compito e l’altro, sdraiato sul pavimento di legno.
Yuri si sedette sul letto ben fatto. Notò il suo borsone da viaggio poco distante. Sua madre doveva averlo portato lì dopo che egli lo aveva lasciato cadere nel corridoio. Yuri si allungò per afferrarne una cinghia e portarlo tra le gambe. Stava per cominciare a sistemare i vestiti - tutti ben piegati - quando un bussare alla porta gli fece sollevare la testa.
Incrociò lo sguardo con la sorella maggiore. Mari Katsuki stava tenendo una sigaretta fumata a metà tra l’indice e il medio. Una fascia teneva i capelli decolorati lontano dalla fronte. Aveva quasi cinquant’anni. Dopo un matrimonio problematico aveva divorziato ed era tornata al complesso termale per aiutare con la nuova ondata di clienti.
Mari aspirò una boccata di fumo.
“Mamma e papà non hanno capito molto delle tue intenzioni. Vuoi rimanere? “
Yuri aprì la valigia. “Sì. Devo ancora decidere cosa fare, ma non penso di lasciare Hasetsu a breve.”
“Sei cresciuto” continuò Mari.
“Sì, accade con il tempo.”
Ho dovuto.
Il materasso cigolò mentre Mari si sedeva accanto a lui. Lo strinse in un abbraccio laterale. “Sai, mi sei mancato.”
“Mi sei mancata anche tu.”

Intorno al febbraio 1991 una lettera senza indirizzo, ma col nome di Yuri scritto in lettere latine sulla busta, comparve nella casella postale della Yu-topia. Scritta nella piccola e nitida grafia di a Victor recitava:
Mio caro Yuri,
Spero vivamente che questa lettera ti trovi in breve tempo. Confido nella capacità di Mila di trovare chiunque, d ovunque.
Yura dice che sono patetico. Yakov dice che sono troppo vecchio per queste cazzate e che lui è troppo vecchio per ascoltarmi. Immagino che abbia ragione. Ho quaranta anni. Sono un uomo triste in crisi di mezza età che corre dietro a una cotta come un adolescente. Spero che mi perdonerai.
Suppongo che tu abbia sentito parlare della recente caduta del Muro. Ha causato diversi scompigli nei ranghi alti sovietici. Le cose stanno cambiando. Posso sentirlo.
Parlando di te, sperare di ricevere una risposta sembra un sogno troppo grande per essere vero, sebbene i recenti sviluppi mi facciano quasi credere presto non sarà così irraggiungibile. Credevo che una cotta si sarebbe placata col tempo, ma non lo è così. Yuri, non è così.

Victor
A Yuri servì un po’ di tempo prima che potesse riprendere la sua compostezza. A cena inventò una ì scusa per i suoi occhi gonfi e rossi.

Nell’estate dello stesso anno Yuri finalmente raccolse abbastanza coraggio per fare una visita alla famiglia Chulanont.
Aveva mandato un messaggio di condoglianze ai Chulanont circa tre mesi dopo la morte di Phichit, dietro suggerimento del suo psicologo. Dopo aver trascorso un’intera settimana cercando di esprimere i suoi sentimenti - o, piuttosto, di trovare qualcosa da esprimere durante la sua apatia - in una lettera ben scritta, Yuri aveva rinunciato all’idea in favore un anonimo telegramma. In esso si era scusato sia per lo stile del messaggio sia per il destino del caporale Chulanont. Due frasi erano state sufficienti. I Chulanont lo avevano ringraziato con un messaggio ancora più breve. Da quel momento Yuri aveva interrotto i contatti con loro.
Sapeva tuttavia che il corpo di Phichit era stato recuperato - almeno ciò che era rimasto di lui - i suoi resti mandati alla sua famiglia in California e cremati secondo la tradizione buddista.
Yuri non aveva avvisato i genitori di Phichit del suo arrivo. Si ere limitato a controllare che vivessero ancora dove aveva detto Phichit, in un appartamento sopra la panetteria Terra Incognita, nel quartiere tailandese di San Francisco. Il fratello più giovane di Phichit viveva nell’appartamento affianco con la moglie e tre figli e aiutava suo padre glassando torte e con altre decorazioni di pasticceria. Phichit aveva poi altri tre fratelli. Il più anziano lavorava in una fabbrica di dolci a Chicago, quello di mezzo aveva aperto un ristorante fast-food specializzato in piatti tailandesi e il penultimo nato aveva seguito le orme di Phichit.
La sorella maggiore di Phichit era tornata a Bangkok dove lottava per tenere aperto uno studio di consulenza specializzato in questioni domestiche. L’altra sorella aveva il medesimo talento di Phichit per l’informatica e aveva abbandonato l’università durante il suo terzo semestre per unirsi ad alcuni ex compagni di classe nella Silicon Valley. Nel frattempo stava lavorando a un software di animazione per grafica in 3D.
Così, quando Yuri bussò alla porta dei Chulanont, vestita in uno dei suoi migliori completi, i coniugi Chulanont non riuscirono a nascondere completamente la propria sorpresa. Fu la signora Chulanont ad aprire, vestita di un tradizionale sampot chang kben sotto una tunica ricamata, i capelli grigi tenuti in uno chignon basso. Suo marito era seduto al tavolo della cucina. L’odore di funghi fritti impregnava l’aria. La TV stava trasmettendo un programma in tailandese, intervallato dai commenti dei giornalisti televisivi per una partita di baseball tra due squadre minori, a seconda di come il signor Chulanont cambiava canale.
Lawan Chulanont guardò Yuri. Lo riconobbe dalle foto che Phichit aveva spesso mandato a casa e dalle descrizioni con cui aveva riempito le sue lettere.
Yuri non le diede il tempo di dire nulla. Cadde in ginocchio in una dogeza, le mani premute sul pavimento, non appena la porta venne aperta.
“Sono immensamente addolorato per la morte di vostro figlio” cominciò, tenendo la testa china. “Mi scuso per non avervi fatto visita prima. Il Caporale Chulanont era un caro amico. Il mio migliore amico, devo dire. Non c’è un giorno che non mi incolpi per la sua morte. Vi prego di credermi, se potessi farei scambio con lui in qualsiasi momento “.
Attese una risposta, qualunque fosse stata. Non osava sperare per un perdono.
Con la coda dell’occhio Yuri vide Lawan Chulanont accovacciarsi accanto a lui. Gli toccò piano il mento con le vecchie mani, mani forti brave a stendere l’impasto e portare sacchi di farina, costringendolo a sollevare la testa. Aveva occhi profondi e neri, uguali a quelli di Phichit. Suo figlio aveva ereditato la maggior parte dei suoi tratti.
“Non devi scusarsi. Deve essere stata dura per te” disse. Yuri annuì, alzandosi. Gli venne offerta una tazza di tè, per riscaldarsi mentre parlavano. Poiché sarebbe stato scortese rifiutare, Yuri accettò. Dopotutto, il tè era una panacea. E anche se il tè non poteva curare tutto, sicuramente rendeva le cose migliori. Proprio come stava facendo il parlare con il Chulanont. Quando Yuri lasciò la casa, più tardi di quanto avesse immaginato, rifiutando con cortesia l’invito a fermarsi per cena, la sua anima si sentiva più leggera.



Victor scrisse varie lettere a Yuri dal 1991 al 1993. Yuri era abbastanza sicuro che le poche che ricevette, per vie traverse rispetto alle poste tradizionali, erano solo il picco dell’iceberg. Ogni lettera terminava con Victor che esprimeva la propria intenzione di non scrivere più, solo per cambiare idea alla prima occasione. Era una sofferenza non poter rispondere, ma Yuri non aveva né un indirizzo né un numero da contattare.
Le lettere di Victor avevano un effetto calmante. Parlavano di tutto e niente, con alcune informazioni sulla sua vita nell’esercito infilate con cura tra le righe. Apparentemente, dopo il ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan, Victor era stato gentilmente costretto ad abbandonare il campo a favore di un lavoro da ufficio di cui non perdeva occasione di lamentarsi.
Purtroppo una delle lettere più importanti di Victor si smarrì da qualche parte tra Mosca e Hasetsu, dimenticata per quasi due anni in un centro di smistamento postale. Quando finalmente giunse a Hasetsu era già il 1993, le notizia che comunicava già vecchie. Era strano leggere quelle parole e immaginare Victor mentre perdeva lentamente la speranza di ricevere una risposta.
C’era anche un’altra lettera, più recente, nella cassetta postale. Yuri l’aprì per prima.

Mio caro Yuri,
Mila dice che devo essere paziente. Probabilmente ti sei trasferito o la mia ultima lettera è stata persa nel caos che è il sistema postale internazionale . è in tempi come questi che mi rammarico di non averti inviato un telegramma.
Sono grato che tu non possa vedermi ora, perché sono un casino totale. Sono anche messo peggio di Jora quando Anya lo ha lasciato. è stato trent’anni fa. Trent’anni. Il tempo vola.
Alla fine c’è il mio nuovo indirizzo – era in codice - . Se tu voglia rendermi l’uomo più felice della Terra o decidere di spezzarmi il cuore, invitandomi a uscire dalla tua vita, ti prego di rispondermi.

Quando Yuri aprì la lettera più vecchia le sue mani tremavano.

Mio caro Yuri, è finita.
Confido che tu abbia letto i giornali, quindi non mi racconto nulla di nuovo. Apparentemente dovrò cominciare a riferirmi al mio Paese come nient’altro se non Russia.
Voglio lasciare l’Armata Rossa il prima possibile. Credo di aver pagato il mio debito e voglio godermi quel poco di anima che mi resta in altri ambienti. Onestamente, non so cosa potrei fare, come reinventarmi, ma forse la pensione sarà sufficiente per garantirmi una vita dignitosa, almeno all’inizio. Siamo in piena crisi economica, quindi le mie speranze non sono poi molto alte.
Yura parla sempre più di aprire un ristorante quando sarà congedato. Te lo immagini? La Tigre dei Ghiaccio ai fornelli. Ti ricordi quel piatto di cui mi hai parlato una volta? Apparentemente Yura vuole infilarlo in un pirozhk . Fino ad ora i suoi esperimenti non hanno avuto molto successo, ma dice che non può essere più difficile dell’attraversare il deserto afghano a piedi.
Jora ha finalmente ottenuto quella promozione a Maggiore che desiderava tanto. Si è anche sposato con una bella ragazza di Odessa. Erano anni che non lo vedevo così felice.
Immagino che tu voglia sapere qualcosa anche del Capitano Altin, siccome ho parlato degli altri due. Be’, da quanto ho sentito, si è candidato a sindaco della sua città natale. Yura dice che si è anche unito uno dei maggiori partiti in Kazakhstan e probabilmente avrà un posto in parlamento se il partito raccoglierò abbastanza voti.

Per favore scrivimi.

Con tutto il mio affetto
Victor
Nel post-scriptum Victor aveva aggiunto l’indirizzo del suo attuale domicilio, le informazioni ancora in codice per motivi di sicurezza. Gridava la sua speranza per una risposta per cui aveva atteso mesi. Doveva aver aspettato, costringendosi a dimenticare e andare avanti, finché non aveva deciso di riprendere in mano la penna ancora una volta, un ultima volta, per scrivere un’altra lettera.

Victor non era l’unico che rimase in contatto con Yuri. Guang Hong gli scriveva almeno una lettera ogni due settimane, sempre lamentando il ritardo di Yuri nel rispondere. Era stato Guang Hong a convincerlo ad abbonarsi a un servizio di posta elettronica. Nel profondo, Yuri era ancora affezionati ai vecchi mezzi di comunicazione, quindi erano più volte in cui riceveva un’e-mail da Guang Hong di quelle in cui ne spediva.
La connessione Internet, installata solo pochi mesi prima, era ancora lenta ad Hasetsu. Contrariamente a quanto accadde a Fukuoka o Tokyo dove l’uso di Internet per scopi privati era già diffuso, a Hasetsu per i primi mesi solo in quattro utilizzarono Internet: il municipio, la scuola, il pronto-soccorso e la Yu-topia Katsuki . L’Ice Castle Hasetsu dei Nishigori fu il quinto a salire sul carro.
Guang Hong, che ora aveva trentacinque anni e aveva fatto carriera fino a essere stato promosso Sotto-tenente, aveva passato gli ultimi sei mesi in Bosnia e presso un’accademia per ufficiali. Nella sua lettera più recente, dibatteva se diventare inattivo o continuare la carriera militare. Quello risaliva a tre mesi fa. Ciò che Yuri sapeva per certo era che Guang Hong al momento scriveva da Pechino, ospitato da alcuni parenti. Si lamentava di quanto si sentisse come un estraneo, senza alcun legame con la patria dei genitori, eccetto i suoi geni e i tratti del suo viso.

Chris era il secondo che scriveva di più a Yuri, sebbene la maggior parte della sua corrispondenza era composta da messaggi brevi che chiedevano come stessero lui e la sua famiglia in occasione delle principali vacanze. Secondo quanto sapeva Yuri, Christophe era diventato inattivo un anno dopo di lui. Aveva rispolverato la sua laurea in Medicina e aveva aperto una clinica vicino a Arlington. Una foto-cartolina lo mostrava in tenuta da sci sulle piste di St. Moritz con un uomo dai capelli castani. Entrambi salutavano agitando le racchette e sorridendo sopra le pesanti sciarpe.

Per quanto riguardava Crispino, l’ultima volta che Yuri aveva avuto notizie su di lui era stato il marzo passato con una breve lettera scribacchiata per accompagnare una biglietto auguti di Pasqua. Congedato nel 1991 con il grado di Sergente di Prima Classe, Michele era entrato nella polizia di New York. La sua amata Sara era diventata una giornalista del New York Times. Victor aveva parlato di lei in una delle poche lettere che Yuri aveva ricevuto.
Ti ricordi il Sergente Crispino? Certo che il mondo è piccolo. Comunque, Mila ha incontrato e fatto amicizia con sua sorella, mentre quest’ultima era a Mosca [...]

Yuri sapeva anche che una volta all’anno i Crispino visitavano il cimitero dove era sepolto Emil, vicino a Praga.
Infine, fra tutti, Jean-Jacques era l’unico ad essere rimasto nell’esercito senza esitazioni, secondo le notizie più recenti che Yuri aveva su di lui. Ora Capitano, la sua ultima missione lo aveva condotto in Kuwait. Si era poi unito ai caschi blu dell’ONU e operato in Tagikistan. Nel frattempo si era sposato con la sua fidanzata storica.

Yuri fissò intensamente la penna che si muoveva appena sopra la carta. Era strano, per non dire assurdo, rispondere in una volta a un gruppo di lettere ricevute nel corso degli anni. Il tempo era passato e Yuri non poteva ignorare il fatto. Non poteva ignorarlo mentre rileggeva per l’ennesima volta la prima delle lettere di Victor giunte a Hasetsu, lisciando tutte le pieghe causate dall’averla maneggiata così tante volte da aver perso il conto.
All’inizio, Yuri si era ripromesso di scrivere un commento per ogni lettera subito dopo averla letta la prima volta. Voleva mettere nero su bianco le sue pure emozioni prima che scivolassero via. Queste frasi sparse, però, non erano mai diventato nulla di più, anche se Yuri le aveva conservate tutti in un cassetto del comodino.

Mio caro Victor,
andrò subito al dunque: quante possibilità pensi che abbiamo? Siamo adulti. Non avremo il tempo dato ai giovani. Te lo dico, il mio cuore è pieno di dubbi - “

Neanche la terza linea e Yuri erano già insoddisfatto della piega che stava prendendo la lettera. Ogni parola parve sbagliata nell’istante in cui passò dalla mente alla carta. Dover scrivere in inglese poi peggiorava solo le cose. L’inglese non aveva tutte le sfumature del giapponese, sfumature che sarebbero state perfette per quello che Yuri voleva esprimere al momento. Eppure, nemmeno il giapponese era sufficiente ad esprimere il suo turbamento.

Cancellò l’intera lettera. l’accartocciò e la buttò sul pavimento. Aspettare ancora per settimane o mesi o addirittura anni per una risposta sembrava ora una tortura che non poteva più sopportare.

“LETTERE RICEVUTE STOP” fu tutto quello che riuscì a scrivere alla fine.

La risposta arrivò entro le due settimane successivi, coperte di francobolli e timbri ad indicare un elevato livello di urgenza. Yuri non dubitava che Victor avesse usato tutti i poteri e i privilegi legati al suo nome per ottenere un trattamento speciale.

“NE SONO FELICE STOP
(812) 093-49-87 STOP “
***

Le telefonate internazionali erano costose, ma per una volta Yuri non se ne curò affatto. Mentre chiamava un numero che aveva ripetuto così tante volte da saperlo a memoria, promise a se stesso che avrebbe pagato la salata bolletta.
Yuri contò cinque squilli. Per calmarsi si concentrò sull’immaginare quello che stava succedendo dall’altra parte della linea: il telefono che interrompeva la quiete di una pigra mattina russa, il destinatario che non correva subito a rispondere, ma aspettava per vedere se la chiamata fosse davvero importante e se valesse la pena alzarsi per sollevare la cornetta. Si immaginò un vecchio telefono che trillava sempre più forte, come un bambino capriccioso in cerca di attenzione, fino a uno sbuffo di rassegnazione, accompagnato da un paio piedi nudi su un pavimento freddo, uno sbadiglio e un orecchio premuto contro il ricevitore.

“Pronto?”
Yuri dovette appellarsi a tutto il suo autocontrollo per non riagganciare. Victor aveva parlato in russo, la risposta sicuramente ingranata nel suo cervello. La sua voce era più bassa di come ricordava Yuri, rauca per un’influenza non ancora guarita del tutto. Strinse la presa sul ricevitore, il respiro caldo e umido contro l’altoparlante.
Pronto?” Ripeté Victor. La stanchezza nella sua voce era di un uomo che non dormiva da giorni. Yuri lo sentiva. Cercò di deglutire, ma aveva la bocca secca. Aveva la gola piena di sabbia.
“Vogliochetuvengaingiappone!” riuscì infine a sputare fuori. Nella fretta parlò in giapponese.
“Cosa? Mi dispiace, non capisco. Se questo è un scherzo, non sono dell’umore ... “
“Voglio che tu venga in Giappone” ripeté Yuri, questa volta in inglese, terrorizzato dalla possibilità che Victor chiudesse la chiamata. La pausa che seguì non durò più che un respiro, ma parve come un’eternità.
“Yuri?”
Un nome. Due sillabe. Eppure tutto.
Non appena udì il proprio nome la consapevolezza che Victor lo aveva riconosciuto fu sufficiente perché Yuri desse libero sfogo a tutte le parole che aveva represso per anni. Tutte le risposte che non aveva potuto dare alle lettere che Victor gli aveva spedito. Parlò come un fiume in piena, un flusso di coscienza privo logica.
“Ti amo. Ti amo da così tanto tempo. Non ne hai idea. Non sai come mi sia sentito ogni volta che è arrivata una nuova lettera e tu mi amavi ancora, anche se sono solo io. Non riesco a capacitarmene. Ho bisogno di vederti, Victor. Ho bisogno di te. Posso pagare un biglietto aereo se serve o posso venire in Russia, ma ti prego di non dirmi di no.”
“Mi fa piacere sentirlo.”

Yuri si sciolse una risata di sollievo. Dietro di lui si sentiva la vivace confusione delle terme. La combinazione di duro lavoro e di denaro, prestato da amici e, occasionalmente, mandato a casa da Yuri, aveva aiutato la struttura a rimettersi in piedi. Mentre altre imprese si sgretolavano sotto il peso della crisi economica che aveva colpito il Paese, la Yu-topia Katsuki ancora resisteva. I prezzi buoni, il servizio perfetto e l’ottima cucina attiravano non solo la persone da Hasetsu, clienti abituali ma anche turisti internazionali. Recentemente l’entrata riverberava di un miscuglio di lingue, inglese misto a giapponese, francese e cinese, spagnolo e russo. Non c’era una notte in cui le stanze degli ospiti rimaneva vuote o le terme senza qualcuno in ammollo.
Ma a Yuri interessava affatto quello che stava succedendo alle sue spalle, completamente immerso nelle parole che l’orecchio premuto contro il ricevitore sentiva.
Quando Victor parlò di nuovo, le gambe di Yuri tremarono tanto che si sentì come uno sciocco adolescente in preda a una cotta.
“Temevo che non avrei mai sentito queste parole da te. Stavo cominciando a perdere la speranza” sussurrò Victor. Anche se Yuri non poteva vederlo, era sicuro che l’uomo con cui stava parlando non era quel Generale Nikiforov che aveva adorato così a lungo. Questo Victor era l’uomo che lo aveva quasi accarezzato in una fredda notte afgana; quello che si era quasi buttato in ginocchio ai suoi piedi, chiedendogli disperatamente di rimanere.
“Se fosse stato in mio potere, avrei risposto già alla tua prima lettera.”
Parlavano di tutto e niente, l’orologio da polso che ticchettava senza sosta. Yuri poteva sentire lo sguardo disapprovato della sorella sulla schiena. Mari Katsuki lo rimproverò.
“Sai, il telefono è per prendere delle prenotazioni!” Sussurrò nell’orecchio libero di Yuri che fece un rapido gesto della mano, mormorando qualcosa nel dialetto di Kyushu sottovoce. Decise insieme a Victor che gli avrebbe telefonato ancora una volta per superare i dettagli per il suo viaggio in Giappone. Poco sapeva all’epoca che ci sarebbero voluti altri sei mesi di preparativi. Sei interi mesi dolcemente riempiti da lettere lunghe dieci pagine.

Quando riagganciò, un sorriso da idiota innamorato gli tendeva le labbra.
“Spero che tu abbia avuto una buona ragione per occupare il telefono per quaranta minuti!” lo sgridò Mari, le braccia incrociate sul petto. Yuri le restituì un sorrisone, la testa fra le nuvole. Il costo di quaranta minuti di telefonata internazionale era un dettaglio irrilevante.
“Certo” rispose, prima di correre su per le scale per controllare una vecchia stanza da pranzo inutilizzata, al secondo piano. Non avrebbe permesso a Victor di dormire in una stanza d’albergo.
Tracciò anche una croce su una casella del calendario.

Il giorno in cui l’aereo di Victor partì tanò da San Pietroburgo, già Leningrado, Yuri si svegliò alle quattro del mattino, nonostante fosse consapevole che il volo sarebbe durato almeno dieci ore, senza contare gli scali. Si vestì, sorseggiò una tazza di caffè forte e si diresse subito in stazione. La notte era ancora pesante su Hasetsu, le strade vuote, tranne che per alcune persone che gironzolavano come fantasmi,
In stazione Yuri pagò un biglietto per il primo treno diretto a Fukuoka, cadde su un sedile accanto alla finestra e lasciò vagare la sua mente fino a riprendere sonno. Aveva una guancia premuta contro il freddo finestrino.
Quando il cartello che accoglieva i visitatori a Fukuoka apparve, il cielo stava virando a un bel viola, con strisce di ricco arancione e di rosso del sole dell’alba. Yuri allungò la schiena e le braccia, portandole alte sopra la testa. Sbatté le palpebre nell’aria umida del mattino. Lanciò un’occhiata al suo orologio, facendo a mente il conto delle ore che avrebbe dovuto ancora aspettare.
L’aeroporto di Fukuoka aveva, come centinaia di altri, l’inquietante vivacità dei non-luoghi, con la gente che arrivava e partita senza un attimo di tregua.

Certi erano appena scesi dai loro voli, le posture rigide e le gambe che formicolavano, e vagavano intorno al carosello dei bagagli, lanciando occhiate speranzose ogni volta che credevano di riconoscere i propri bagagli. Yuri osservò la folla dissiparsi a poco a poco, lasciandosi dietro solo i sfortunati che erano rimasti lì, non ancora pronti ad ammettere che le loro valigie erano andate smarrite.
Alcuni padri portavano sulla schiena i loro bambini addormentati. Le madri cullavano i neonati in lacrime, mentre i figli più grandicelli sbocconcellavano brioches al burro per colazione.
C’erano uomini d’affari e impiegati, ancora nei loro completi spiegazzati e la ventiquattrore, che controllavano senza sosta l’orologio, i cellulari in mano. Appena scesi un volo e pronto a già pronti salire su un altro.
Un poco più in là, un insegnante stava verificando che nessuno della sua classe si perso. Con una penna spuntava una lista per ogni nome che rispondeva all’appello.

Yuri si diresse verso il bar più vicino, dove ordinò il suo secondo caffè della giornata e, dopo un momento di riflessione, un panino perché il suo stomaco aveva cominciato a brontolare.
“In partenza o aspetti qualcuno?” chiese la barista.
“Aspetto” rispose Yuri, perso nei suoi pensieri. Fece un gesto verso l’assenza di bagaglio per sottolineare il fatto. Il panino era un secco, più pane che prosciutto, quindi acquistò una bottiglia d’acqua per mandarlo giù.
Gli ultimi anni a Hasetsu lo avevano viziato con la buona cucina, doveva ammettere, una cosa che il suo corpo ora più grassoccio ben dimostrava. Yuri non aveva mai smesso di fare esercizio fisico, andava a correre almeno quattro volte alla settimana e ogni tanto a pattinare al palazzetto del ghiaccio. Tuttavia, uno morbido di grasso ora ricopriva i suoi muscoli, soprattutto sulla pancia e sulle guance. Dopotutto, aiutare come cameriere e con le finanze della Yu-topia non era certo un duro lavoro. Né lo era aiutare Minako con i bambini classe “3-4 anni” allo studio di danza.

Quando il terzo caffè cominciò a fare effetto, divenne impossibile dormire o addirittura rimanere fermo. Yuri cominciò a passeggiare per l’edificio. Camminò per l’intero perimetro del primo piano, salì al secondo piano e di nuovo giù. Passò rapidamente accanto una serie di anonimi negozi, pieni di persone intenti negli acquisti all’ultimo minuto, che sollevavano magliette con stampe di cattivo gusto e bottiglie di profumi tax-free.
Quando gli altoparlanti annunciarono l’arrivo del volo su cui si trovava Victor, Yuri fu certo di aver creato un solco nell’area di imbarco, con il passo veloce che aveva, cortesia degli anni nell’esercito.

Proprio come Minako, Victor non era invecchiato molto. Il tempo era stato gentile con lui, aggiungendo solo qualche ruga al suo volto. Nonostante la sua paura di diventare calvo, aveva ancora tutti i capelli d’argento, sebbene se l’attaccatura fosse un poco retrocessa. Sotto gli occhi aveva due occhiaie bluastre e camminava con la rigidità di chi è rimasto fermo per ore rimasta. I capelli erano disordinati, appiattiti sul lato contro cui probabilmente aveva dormito. Una leggera curva gli piegava le spalle.
Non aveva altri bagagli, a parte una valigia a mano e un vecchio zaino.
Se Yuri aveva pianificato di rimanere impassibile, la sua volontà crollò nell’istante in cui riconobbe Victor nella folla e quando Victor fece lo stesso.
“Il volo è andato bene? Lo spero. Hai altri bagagli? Sei stanco? Hai fame? C’è un bel posto con dell’ottimo cibo non lontano” blaterò Yuri, gesticolando, non appena Victor fu abbastanza vicino. Era così strano essere finalmente faccia a faccia dopo tutti quegli anni, né amanti né amici, ma nemmeno sconosciuti. Yuri si sfregò la nuca col dorso della mano aspettando una risposta. I suoi occhi non riuscivano a rimanere fissi su un unico punto.
Victor non disse nulla. Si limitò a mettere un dito sulle labbra di Yuri. Il gesto fu inaspettato, ma non sgradito.
Poi Victor prese le guance di Yuri nelle sue mani a coppa, con i pollici appoggiati alla linea di mascella. Si chinò in avanti. Yuri non si mosse.

Le labbra di Victor erano secche e screpolate, ma il bacio fu lento e dolce. Cominciò con timidezza, le labbra che si sfioravano appena. Poi si aprì, piccoli e innocui morsi sui rispettivi labbri inferiori. Era un bacio adatto a persone ancora giovani e appassionate, ma Yuri non se ne curò. Strinse tra le dita alcuni ciuffi d’argento, immergendosi nella sensazione di avere la mano del russo che gli cullava la nuca come era accaduto tutti quegli anni prima, in un vortice di sabbia.
“Non sapevo nemmeno che mi mancava questo” sussurrò Yuri, premendo la fronte contro quella di Victor. Per un solo momento benedetto, smise di essere consapevole dell’affollato aeroporto attorno a loro.
Yuri registrò appena il resto della giornata.

Per l’ora in cui poterono lasciare l’aeroporto, dopo tutti i controlli doganali di rito, era già tardo pomeriggio. Quindi, una volta ad Hasetsu circa un’ora dopo, Yuri si diresse immediatamente al ristorante che aveva menzionato prima. Per quanto volesse dare a Victor un assaggio dei piatti della Yu-topia - Yuri non aveva ancora trovato un katsudon cucinato così bene - sapeva che non avrebbero avuto alcuna intimità nella sala da pranzo delle terme. Un tavolo per due in un bel ristorante sulla costa era invero un preferibile scenario bello. Proprio come molte altre strutture in città, il ristorante era l’unico sopravvissuto della sua categoria. La maggior parte della gente preferiva mangiare in luoghi più economici, come il ristorante ramen vicino al Castello-Ninja o la Yu-topia stessa. Più spesso, soprattutto se giovani, prendevano il treno per Nakasu dove si trovavano tutti i locali alla moda.
Dire che erano così profondamente interessati l’un all’altro da non preoccuparsi del cibo sarebbe un eufemismo. Ma dopo essere stato per più di mezza giornata su un aereo dove il pranzo servito era tutto tranne che commestibile, Victor stava così morendo di fame che si sarebbe mangiato la tovaglia. Anche Yuri doveva ammettere che spizzicare qua e là in aeroporto non aveva affatto riempito il suo stomaco.
Mentre mangiavano Yuri non poté ignorare che gli occhi di Victor su di sé. Sollevò la testa dal piatto.
“Qualcosa non va?” Chiese, le sue bacchette a mezz’aria.
La risposta di Victor fu semplice. “Sei ingrassato” considerò ad alta voce. Yuri lasciò cadere le bacchette nel piatto.
“Oh,” mormorò. “Lo so. È tanto brutto?”
“Niente affatto” lo rassicurò Victor. “Sembri ...” Si interruppe alla ricerca della parola giusta. Aveva un il tic di toccarsi le labbra quando stava pensando, notò Yuri. Proprio come notò i chicchi di riso ancora incollati alla bacchetta di Victor o la goccia di grasso sul labbro inferiore.
“Cosa” insistette, pendendo dalle sue labbra-
“Più felice.”
Era vero. Ma del resto quello era facile.
“Hai questa scintilla negli occhi. È come se stessi brillando” proseguì Victor. Nelle sue lettere non era mai stato parco di complimenti, quindi nessuna sorpresa che non lo fosse anche di persona. Anche i suoi occhi luccicavano di gioia, amore, e adorazione. Le sue parole esprimevano solo il suo profondo bisogno di esprimerli. Yuri avrebbe giurato di aver visto un leggero rossore diffondersi sul naso di Victor, dipingendo la sua pelle chiara con chiazze di rosa. Punzecchiò il proprio cibo.
“Si potrebbe dire che l’esercito non sia mai stato il mio posto” confessò a mezza voce. Incapace di tenere ferme le mani, iniziò a disegnare cerchi intorno al bordo del bicchiere.
“Non sei il solo.”
Yuri alzò lo sguardo. Mentre Victor aveva già espresso la propria insoddisfazione per come stavano le cose nell’Armata Rossa tra le righe delle sue lettere, sentirlo affermare qualcosa di simile ad alta voce fu tutt’altra cosa.
“Credo che tutti noi abbiamo lasciato qualcosa laggiù” affermò Yuri, bevendo un sorso di vino – uno dolce a bassa gradazione alcolica. “La nostra giovinezza” propose.
“O la nostra innocenza” lo corresse Victor. Yuri fece spallucce, ringraziando per la distrazione quando il cameriere portò via i loro piatti ora vuoti .
“Vuoi il dessert?” Chiese a Victor per riportare la conversazione su toni più leggeri
“Volentieri.”
Ordinò due fette di torta al limone calda condite con del gelato del medesimo gusto. Victor si sarebbe mangiato anche le briciole.
Sazi per la cena, ma non ancora assonnato, camminarono su gambe incerte fino all’appartamento di Victor.
Circa un mese prima di lasciare la Russia, Victor aveva chiesto Yuri di cercare un piccolo appartamento dove vivere in. In realtà, le esatte parole che aveva usato al telefono erano state “per noi”, ma si era subito corretto. Yuri ne era stato grato.
Pur sapendo che Victor lo avrebbe presto raggiunto in Giappone, il pensiero di vivere sotto lo stesso tetto come marito e moglie lo spaventava un po’. Per anni il loro amore si era ridotto a nient’altro che struggenti lettere. Il dubbio che avesse amato un’illusione persisteva da qualche parte nel profondo della sua mente. Era la piccola voce crudele che Yuri aveva sentito in varie forme fin dai tempi dell’adolescenza e forse anche prima. Gli diceva che non era abbastanza; che era un codardo; che tutto era colpa sua. Ora stava dicendo a Yuri che la sua storia con Victor non aveva alcuna speranza di durare.
Combatteva ogni giorno per metterla a tacere.
Yuri quindi aveva trovato un bel bilocale nella zona nord di Hasetsu, negoziato con il proprietario per il prezzo e anticipato metà della somma per assicurarsi la vendita. Victor lo aveva rimborsato fino all’ultimo centesimo nelle settimane successive. Il russo avrebbe pagato a rate l’altra metà.
La situazione economica di Victor non era brillante. Con il crollo dell’Unione Sovietica e la conseguente inflazione, la maggior parte della sua ricchezza in liquidità russa si era dissolta nel nulla.
Per fortuna Victor era stato abbastanza intelligente da spostare parte della sua liquidità in più solide banche estere, proprio sotto il naso del governo sovietico. Tuttavia, la crisi economica aveva colpito anche lui. Anche se in patria era benestante, se non ricco, la sua situazione finanziaria non era particolarmente buona nel resto del mondo occidentale. Era una buona cosa che ad Hasetsu i prezzi immobiliari fossero precipitati sotto la pressione della crisi finanziaria che il Giappone stava sperimentando. Inoltre, essi erano stati abbastanza bassi anche prima, in un tentativo di contrastare lo spopolamento della zona.

Non appena chiusero la porta alle loro spalle, Victor prese di nuovo il viso di Yuri tra le mani a coppa. Le sue labbra avevano ancora il gusto della torta al limone che avevano mangiato appena pochi minuti prima. Le dita di Yuri corsero ad ancorarsi alla curva delle spalle di Victor, da usare come leva. Questa volta, dopo un attimo di sorpresa, rispose con fierezza al bacio. Lasciò che la sua bocca si aprisse, mentre le dita afferravano il tessuto della camicia spiegazzata di Victor. Victor odorava ancora di aeroporto.
“Yuri?” ansimò Victor contro le labbra di Yuri, la vera domanda inespressa.
“Sì” rispose in fretta Yuri, prima di manovrare la mascella di Victor per rubare un altro bacio.
“Sei sicuro?”
“Ho avuto cinque anni per pensarci. Sono assolutamente sicuro.”
Yuri diede se stesso un’ immaginario pacca sulla schiena per aver comprato una bottiglietta di lubrificante e un pacchetto di preservativi durante un picco di sicurezza mentre faceva compere per generi alimentari e altri essenziali. Era stato così imbarazzante. Yuri si era sentito osservato fino a casa e durante il tragitto verso l’appartamento dove Victor avrebbe abitato. Ora, però, la rassicurante consapevolezza che tali articoli erano al sicuro ad aspettare nel primo cassetto del comodino ripagava qualsiasi vergogna.
Si spogliarono a tempo di record. Più tardi, con le gambe abbronzate strette attorno alla vita di Victor e Victor ancora dentro di lui, per Yuri fu come se ogni tocco rubato, ogni sguardo non proprio non ricambiato, ogni parola non detta era servita a portarlo lì. Si ricordò di tutte le volte durante la tarda adolescenza e all’inizio dei suoi vent’anni, quando si era masturbato in segreto con un’immagine simile in mente, sognando l’impossibile.
Premette la fronte contro il petto di Victor. Macchie nere e rosa danzarono davanti agli occhi socchiusi, mentre l’orgasmo di Victor scuoteva entrambi i loro corpi. Poi giacquero faccia a faccia.
“Sei qui” mormorò Yuri, allungando un braccio per tracciare il profilo di Victor conl pollice destro. “Sei qui.”
Il corpo di Victor era coperto di cicatrici. Alcuni erano ancora abbastanza recenti, una prova di come la facciata di perfezione che Victor Nikiforov aveva sempre mostrato alle telecamere fosse davvero solo una facciata. Mostravano l’uomo che era stato ferito diverse volte sul campo, l’uomo che era dovuto cadere per spiccare di nuovo il volo.
Altre erano più vecchie, molto più vecchie, e parlavano di un’infanzia travagliata e un padre violento.
“Posso?” Chiese Yuri, con attenzione, le dita sospese sopra il segno perlato di un taglio guarito da tempo. Victor canticchiò la sua approvazione. Fremette comunque sotto il tocco di Yuri.
Yuri tracciò ogni singola cicatrice, non chiedendo come Victor se le fosse procurate, ma limitandosi a crogiolarsi in quel caldo miscuglio di amore e rispetto e timore dato dall’avere Victor sdraiato accanto a lui. Yuri spostò la frangia di Victor per baciarlo sulla fronte, sorridendo contro di essa. Le dita si intrecciarono. Le ginocchia cozzarono le une contro le altre.
“E questa?” chiese Victor, indicando una piccola cicatrice sulla pancia Yuri. Yuri ridacchiò. Contrariamente a Victor, l’esercito era stato gentile col suo corpo tanto quanto non lo era stato con la sua mente.
“Appendicite, nulla di importante” replicò. Victor allora gli premette la schiena contro il materasso, con delicatezza, tenendosi sospeso sopra di lui. Si chinò in avanti, incontrando quella porzione di pelle con le labbra.
“Tutto di te è importante” ribatté. Un rossore si diffuse dalla gola e sul petto di Yuri. Si coprì il viso come una verginella. Victor gli prese i polsi, con tocco gentile ma fermo, e li spostò. Una volta un giornale aveva menzionato gli occhi azzurro ghiaccio del generale Nikiforov come l’epitome della sua freddezza e competenza nel campo. Nulla di più sbagliato. Gli occhi di Victor non erano affatto freddi. Avevano la profondità del mare in estate, la stessa miscela di mistero e tenerezza. E sotto c’era il ricordo di una pericolosità che non andava mai dimenticata.
“Questo è reale?” chiese Yuri, mentre l’ansia sostituiva a poco a poco la beatitudine da post-coitum.
“Sei reale? È un’illusione?” ripeté Yuri, carezzando il volto di Victor.
“E se anche fosse?”
“Non svegliatemi allora.”

Le settimane successive furono piene di attività. Yuri e Victor dovettero reinventarsi e trovare la propria strada a un’età in cui la maggior parte della gente lo aveva già fatto da tempo.

Prima di lasciare San Pietroburgo, a Victor era stato offerto più di un lavoro d’ufficio nell’esercito, senza considerare tutte le proposte di avventurarsi in politica. Tuttavia, come aveva detto sia aa loro sia a Yuri, non poteva più sopportare quell’ambiente.
“Si sono presi abbastanza della mia vita.”
Come disse a Yuri, avrebbe trovato qualcosa. In caso, la sua pensione era sufficiente a garantire loro una vita tranquilla e confortevole. Oppure avrebbe potuto terminare gli studi che aveva abbandonato da ragazzo. Le possibilità sembravano infinite. Yuri di solito non parlava in quei momenti. Si limitava ad apprezzarli e a guardare Victor scintillare di entusiasmo. Era vivo e respirava ed era umano. Questo Victor non era affatto il Generale Nikiforov che il pubblico conosceva

Era il vero Victor Nikiforov, il Vitya che non era mai veramente morto, e di cui Yuri aveva visto porzioni già in Afghanistan.
A volte sembrava ancora irreale, ma poi Yuri aveva il coraggio di afferrare la mano dell’altro e riceveva sempre una stretta in risposta. Una sensazione di pace si diffondeva nel suo stomaco.
C’erano ancora gli incubi. I rumori forti lo mettevano ancora a disagio. Aveva ancora crisi d’ansia nei momenti peggiori. Ma per Victor era lo stesso e potevano trovare conforto l’uno nell’altro. Victor capiva.
Comprarono un grazioso appartamento non lontano da Hasetsu circa un anno dopo che Victor si fu riunito con Yuri in Giappone. Adottarono un cane, un barboncino, proprio come il vecchio cane di Victor. Misero in un cassetto tutto quanto poteva ricordare loro degli anni trascorsi nell’esercito e fecero del loro meglio per dimenticarsi della sua esistenza. Trascorsero intere giornate divertendosi a decorare la casa, acquistare mobili, dipingere le pareti, con la leggerezza di un paio di sposi novelli. Non importava che fossero già sulla quarantina. Victor non perdeva l’occasione per lamentare il proprio rammarico che non si potessero sposare legalmente.
“Beh, forse prima di morire,” Yuri era solito rispondere. Nel frattempo, non avendo altri parenti in vita, Victor aveva sistemato il testamento per nominare Yuri suo erede in caso di morte.
“Sono vecchio, Yuri!”
“Hai solo quarantaquattro anni!”
“Esatto, sono vecchio!”
Ogni volta Yuri finiva per canzonare Victor per le sue parole e baciarlo sulla fronte.
E, una mattina, Yuri si svegliò con lo spazio accanto a lui vuoto ma ancora caldo per il corpo che lo aveva occupato. L’odore di caffè riempiva l’aria, mentre si dirigeva in cucina. La finestra era aperta e una brezza salmastra entrava e smuoveva le tende in mussola. Victor era in piedi davanti ai fornelli, alcune uova friggevano nella padella.
Yuri canticchiò. “Sembrano deliziose, Viten'ka.”
Victor sorrise.
Et même si la route est bien longue à la fin*
Et même si le doute nous fait serrer les poings
L’amour nous rassure, brise les murs
Des incertitudes
J’apprendrais à lire dans ton regard
Je serais le dernier des remparts
Rien ne sera plus comme avant,
Non c’est le début je le sens

Note:
Abbiamo finito! Be’, quasi. Scriverò ringraziamenti, riflessioni, altre cose e tutto nel prossimo e l’ultimo capitolo. Ma per ora la storia è finita. Potete considerarlo un finale felice, ma per me ha un sapore agrodolce. Molto è stato perso e non tornerà più indietro.
Questo capitolo è stato probabilmente il più lungo che abbia mai scritto, ma il flusso era così bello che semplicemente non potevo fermarmi.

L’ultima citazione è dalla versione francese di “Il mio inizio sei tu”. Si adattava così bene con la storia che ho deciso di utilizzarlo.

http://gwen-chan.tumblr.com/post/160411036582/military-au-victuuri-victor-wrote-various

* E anche se la strada per l’arrivo è ancora lunga
e anche se i dubbi ci fanno stringere le mani a pugno
l’amore ci rassicura, rompe i muri dell’incertezza
Imparerò a leggere nel tuo sguardo
sarò il tuo ultimo baluardo
Nulla sarà mai più come prima
No, questo è l’inizio, me lo sento.
   
 
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