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Autore: Tielyannawen    24/10/2017    1 recensioni
Dopo la Battaglia di Hogwarts, Terry Boot si risveglia confuso e scopre che la sua vita sarà molto diversa da come l'aveva immaginata.
Dal testo: Un’angoscia oscura e strisciante lo avvolse. Non voleva perdersi, non voleva scomparire. Annaspò, come un naufrago che lotta per raggiungere la superficie di un oceano tempestoso. E finalmente riemerse.
PRIMA CLASSIFICATA al contest "...dopo (II edizione)" indetto da chia_3 sul forum.
Genere: Drammatico, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Susan Bones, Terry Boot
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Frammenti di presente

 

3 maggio 1998 - Un giorno
Forse stava sognando. Aveva la buffa sensazione di essere sospeso in un densa bolla dal sapore dolciastro, da cui però faticava ad uscire. Ogni volta che il suo corpo tornava ad acquistare peso, una sorsata fresca lo riportava lassù, vicino a migliaia di fiammelle che galleggiavano sul soffitto.
Non sapeva dire se fosse giorno o notte, estate o inverno. A dirla tutta, non sapeva nemmeno dove si trovasse. In quella bolla tempi e luoghi non avevano poi tanta importanza; era al sicuro e gli bastava, non valeva la pena porsi domande difficili. O forse sì?
Cercò di concentrarsi sui rumori attorno a lui, ma lo trovò un esercizio stranamente faticoso. Lentamente emersero voci concitate, pianti e grida di dolore, seguiti da passi veloci e dal tintinnio di vetri infranti. Cosa stava succedendo? Perché lui si trovava in quella bolla calda e confortevole mentre fuori il mondo sprofondava nella sofferenza? E soprattutto, perché non riusciva a ricordare il suo nome?
Un’angoscia oscura e strisciante lo avvolse. Non voleva perdersi, non voleva scomparire. Annaspò, come un naufrago che lotta per raggiungere la superficie di un oceano tempestoso. E finalmente riemerse.
Si ritrovò sdraiato su una barella, con la fronte madida di sudore. Le luci erano tenui e centinaia di sussurri si rincorrevano nell’aria. Qualcuno doveva avergli appena rimboccato il lenzuolo sul petto, perché il profumo di sapone da bucato gli riempiva le narici, come nei giorni d’estate in cui aiutava sua madre a raccogliere i panni stesi al sole.
Un singhiozzo lo allontanò da quei ricordi luminosi. Con non pochi sforzi riuscì a voltare la testa e riconobbe la figura di una ragazza, stesa su una barella ad un soffio da lui. Aveva il viso coperto da bende e il corpo scosso da tremiti, ma nessuno sembrava preoccuparsene. Quando però fece per alzarsi, si accorse di non essere in grado di farlo: le gambe non rispondevano ai suoi comandi e il braccio destro bruciava quanto le fauci infuocate di un drago. A fatica sollevò il braccio sinistro e strinse appena la mano della ragazza, il cui respiro divenne più tranquillo.
Poi udì un gran trambusto e l’ultima cosa che percepì prima di precipitare nell’oblio fu un intenso odore di artemisia.

 

4 maggio 1998 - Due giorni
«Terry? Riesci a sentirmi Terry?».
«Coraggio, lo chiami di nuovo».
«Respira a malapena ed è immobile da ieri sera… sembra…».
«Le semplici pozioni soporifere non avevano effetto, così ho dovuto somministrargli il Distillato della Morte Vivente. Gli serviva riposo o non sarebbe sopravvissuto, ma una volta svaniti gli effetti le sue funzioni vitali riprenderanno. Forza ora, riprovi».
Infastidito dalle voci che si rincorrevano attorno a lui, il ragazzo batté le palpebre un paio di volte e aprì gli occhi. Era confuso e stremato, ma aveva due certezze. Primo, il suo nome era Terry Boot. Secondo, non aveva mai provato un simile dolore in tutta la vita. Ogni frammento del suo corpo pareva trafitto da schegge affilate e persino respirare era un’agonia.
«Che cosa è successo?», mormorò.
Sentì qualcuno chinarsi verso di lui, ma gli ci vollero diversi istanti per mettere a fuoco il viso di un ragazzo dai capelli biondi e con diversi lividi verdastri sulla fronte, che lo fissava come se avesse appena visto un fantasma.
«Terry? Terry mi riconosci?», gli chiese esitante.
Terry trattenne il fiato e si inumidì le labbra secche, prima di rispondere: «Per la barba di Merlino, certo che ti riconosco… L’ultima volta che ho controllato eravamo ancora compagni di dormitorio». L’altro non parve molto soddisfatto delle sue parole, perciò fu costretto a continuare. Da quando parlare era diventato così faticoso? «Sei Anthony Goldstein, Prefetto Corvonero, abile pozionista ma pessimo giocatore di scacchi. E mi devi quindici falci d’argento, non ho certo dimenticato come hai distrutto il mio telescopio».
Anthony scosse la testa, ma finalmente sorrise sollevato. «Mi hai fatto prendere proprio un bello spavento! Te ne sei rimasto immobile su questa barella per troppo tempo, iniziavo a temere il peggio».
«Che cosa è successo?», domandò di nuovo Terry, prima di essere scosso dalla tosse. Accettò di buon grado il bicchiere d’acqua che Anthony gli porse, ma si accorse subito che l’amico si era chiuso in un silenzio che non prometteva nulla di buono.
«Signor Boot, sa dirmi dove si trova?», si intromise una terza voce, che Terry riconobbe appartenere a Madama Chips. L’infermiera era in piedi dietro ad Anthony e sembrava esausta.
Non riuscendo a muoversi, si limitò a guardare verso l’alto, dove le nuvole notturne si muovevano placide oscurando di tanto in tanto la luna. Aveva sempre amato quel particolare incantesimo. «Siamo nella Sala Grande, anche se forse dovrei stare in Infermeria…», disse, trattenendo un gemito di dolore. Che i Carrow lo avessero usato come cavia per sperimentare nuove torture?
L’infermiera annuì, annotando qualcosa su una pergamena, poi proseguì: «E sa dirmi che giorno è oggi?».
Il ragazzo si concentrò, ma la sua mente era stranamente sfuggente: immagini e suoni si sovrapponevano alla rinfusa, senza alcun ordine logico. «Il due maggio?», tentò con poca convinzione.
La fronte di Madama Chips si aggrottò e la donna smise di scrivere con un sospiro stanco. «Signor Boot oggi è il quattro maggio, è rimasto privo di sensi per quasi due giorni interi. Qual è l’ultimo evento di cui ha memoria?».
«Sonnecchiavo su un’amaca nella Stanza delle Necessità», raccontò Terry, «e ascoltavo Seamus Finnigan che riferiva le novità dall’ultima ricognizione nel castello. All’improvviso si è creato un gran trambusto, tutti urlavano e battevano le mani; mi sono alzato di corsa e questa è l’ultima cosa che ricordo. Tutto il resto è come avvolto nella nebbia, perciò ora dovete spiegarmi che cosa è successo».
Madama Chips fece per parlare, ma Anthony fu più veloce di lei. Teneva lo sguardo basso e si tormentava i polsini del maglione. «C’è stata una battaglia Terry. Voldemort ha attaccato Hogwarts con un vero e proprio esercito. Abbiamo dovuto combattere».
Grida disperate lo guidavano, mentre scendeva gradini macchiati di sangue, evitando le maledizioni che gli schizzavano troppo vicino.
«E li abbiamo sconfitti vero? Ora è finita?», balbettò Terry sconvolto. Le guerre si studiavano durante le noiose lezioni di Storia della Magia, non si combattevano nelle aule di una scuola.
«Sì, Harry Potter ha annientato Voldemort, per sempre. Abbiamo vinto», rispose Anthony con un ghigno tirato e ben poco trionfante.
Solo in quel momento il ragazzo notò che al suo capezzale mancava qualcuno. «Dov’è Michael? Spero abbia una buona scusa per non essere venuto a salutarmi, o stavolta non se la caverà con una confezione di Cioccorane».
Il Prefetto Corvonero sbiancò, incapace di proferire una sola parola. In suo aiuto arrivò Madama Chips, che gli posò una mano sulla spalla e con un filo di voce disse: «Purtroppo devo comunicarle che il signor Corner si trova tra i caduti. Mi dispiace, so che eravate molto amici».
D’impulso Terry scoppiò a ridere. Che altro poteva fare? Doveva essere uno scherzo. Michael non poteva essere morto, era semplicemente impossibile. Fin dal primo anno loro tre erano stati inseparabili: insieme avevano studiato, erano sgattaiolati nelle cucine nel cuore della notte e avevano scontato parecchie punizioni. Doveva esserci un errore. Lentamente la sua risata si riempì di tristezza e dolore, infine si trasformò in lacrime e urla di rabbia.
Rifiutò la fiala di calmante che Madama Chips aveva prontamente estratto dal grembiule: voleva piangere il suo amico e nulla lo avrebbe fermato. Per una volta, l’infermiera non provò nemmeno ad insistere. Se ne andò in silenzio, lasciandoli soli.
Anthony invece rimase. Con un colpo di bacchetta evocò una sedia sgangherata e restò lì, senza fiatare, a condividere la sua stessa disperazione.
Diverse persone vennero a fargli visita: le gemelle Patil, il professor Vitious, Neville Paciock e per ultima Luna Lovegood, con la sua immancabile collana di tappi di Burrobirra, che gli consigliò di fare attenzione ai numerosi Gorgosprizzi che in quei giorni infestavano la scuola. Non rispose ai loro auguri, ma nessuno lo biasimò.
Alcune ore più tardi, gli occhi gonfi e la testa pesante, ritrovò un frammento di lucidità e provò a trascinarsi fuori dall’abisso di angoscia in cui si era lasciato cadere. «Non ricordo nulla», mormorò e si sentì in qualche modo colpevole per il vuoto che la sua mente aveva creato.
«Credo che sia normale», lo rassicurò Anthony, «per chi subisce simili traumi. Sei precipitato dalle scale del quinto piano, non so nemmeno come tu possa essere ancora vivo. È stato un miracolo».
Una sottile rete argentata si allungava verso di lui, frenando il suo volo nel vuoto. Una luminosa ancora di salvezza.
Terry avrebbe voluto sapere di più, chiedere di più, ma la stanchezza si era di nuovo impadronita di lui e la vista iniziava ad annebbiarsi per il dolore lancinante al braccio destro. Prima di riposare però c’era un dubbio che doveva togliersi: «La ragazza qui accanto… chi è?».
L’amico lo scrutò sorpreso, poi parve capire e annuì. «Non la riconosci? È Susan Bones, di Tassorosso».
Cieli grigi e colmi di pioggia erano chini su di lui. Alcune gocce gli sfiorarono le guance, un lampo fiammeggiante e le nuvole fuggirono via senza lasciare traccia.
Voltando la testa, Terry osservò la giovane strega, che si agitava nel sonno, il corpo squassato dalla febbre e la lunga treccia castana ormai sfatta posata sul petto. Il viso era ancora coperto da una spessa fasciatura, che a tratti lasciava intravedere un denso unguento arancione.
«Ardemonio», disse Anthony, quasi gli avesse letto nel pensiero, «e per poco non ha colpito anche te, o almeno così mi ha riferito Aberforth».
«Aberforth?».
«Sì, Aberforth Silente. È lui che vi ha salvati».
Quando Anthony si allontanò per lasciarlo riposare, Terry stentò ad addormentarsi, nonostante ogni più piccola parte di lui implorasse il caritatevole dono del sonno. Fissò a lungo le candele volteggiare per il soffitto della Sala Grande, finché il chiarore dell’alba non iniziò a disperdere le tristi ombre della notte. Allora, senza sapere il perché, allungò il braccio sano per prendere la mano di Susan.
«Non aver paura, la luce è ritornata», disse chiudendo finalmente gli occhi.

 

9 maggio 1998 - Una settimana
A sette giorni da quella che ormai tutti i cronisti chiamavano “La Battaglia di Hogwarts”, il vecchio castello aveva lentamente iniziato a svuotarsi.
Le condizioni critiche di molti feriti avevano reso impossibile il loro trasporto, così schiere di medimaghi e infermieri erano accorsi dai reparti del San Mungo per occuparsi dei pazienti, accompagnati dalle famiglie e dagli amici di quanti avevano combattuto contro il Signore Oscuro. Il tutto sotto il rigido sguardo di Madama Chips, che sopportava piuttosto stoicamente quella doverosa quanto caotica intrusione.
Con la schiena adagiata a diversi cuscini, Terry Boot si sforzava di stringere il cucchiaio con la mano sinistra per finire la sua zuppa. Era ancora parecchio impacciato, anche nelle azioni più semplici, e sapeva che lo sarebbe rimasto a lungo. La violenta caduta dal quinto piano gli aveva causato un numero spaventoso di fratture; politrauma lo aveva definito Anthony, dopo aver sbirciato nella cartella appesa ai piedi del suo letto. Le ossa si stavano lentamente, e dolorosamente, saldando, ma nessun guaritore sapeva dirgli se avrebbe potuto camminare di nuovo.
«Tempo e pazienza sono le uniche pozioni possibili», si era sentito ripetere in continuazione.
Quanto al braccio destro invece aveva dovuto da subito abbandonare ogni remota speranza: era stato reciso di netto all’altezza del gomito da una maledizione, rendendo così inutile qualunque futuro tentativo di farlo ricrescere. Avrebbe portato quel segno per sempre.
Nonostante ciò, Terry sorrideva.
Sorrideva per suo padre, un rispettato commerciante di rari ingredienti per pozioni, che quasi non osava guardarlo, sentendosi colpevole di non averlo protetto. Sorrideva per sua madre, una straniera nel mondo magico, che continuava a lisciare la coperta senza motivo, solo per sentire di poter essere d’aiuto a quel figlio così diverso da lei. Sorrideva per sua sorella Tilly, una streghetta di appena cinque anni, che meritava un futuro di pace e serenità, in cui non dovesse lottare per difendere se stessa e i suoi amici.
Forse Terry Boot in realtà fingeva. Ma non voleva che la sua famiglia soffrisse per lui più del necessario. E con quel sorriso, falso o reale che fosse, tentava di salvarli.
«Ho un regalo per te!», esclamò ad un certo punto la piccola Tilly, battendo le mani emozionata. Scappò via e tornò poco dopo sorreggendo un cestino pieno di fiocchi colorati, da cui spuntò il muso di un gattino color miele. «L’ho comprato con i miei risparmi! Si chiama Godric e ti terrà compagnia in ospedale, così non ti sentirai solo. Mamma e papà hanno già parlato con le infermiere, dicono che faranno un’eccezione alla regola se si comporterà bene».
Contagiato dall’entusiasmo della sorellina, Terry scoppiò a ridere e si chinò per conoscere il suo nuovo amico. Godric. Sua sorella aveva una bizzarra fissazione per il fondatore della Casa di Grifondoro: aveva ottenuto che la sua camera fosse dipinta in oro e scarlatto e amava correre in giardino con una vecchia spada di legno che aveva trovato da un rigattiere babbano. Sperava che a tempo debito il Cappello Parlante ne tenesse conto, o ne sarebbe rimasta enormemente delusa.
«Quella ragazza è una tua amica?», chiese Tilly all’improvviso, indicando con un cenno il letto di Susan.
Amicizia. Le occasioni in cui lui e la Tassorosso si erano rivolti la parola si contavano sulle dita di una mano, ma per una bambina di cinque anni il mondo era fatto di risposte chiare e semplici. E forse erano un mondo migliore. «Sì, siamo amici», mormorò.
Vide sua sorella corrugare la fronte e increspare le labbra, segno che un pensiero aveva attirato la sua attenzione. «Sembra molto triste. Credo che dovresti aiutarla».
Mentre correva lungo un corridoio buio, il fantasma di un frate grassottello gli comparve davanti e lui quasi gli passò attraverso. «Ti prego, aiutala. Non resisterà contro di loro».
Terry spostò lo sguardo verso Susan. Era seduta con le gambe raccolte e le braccia strette al petto, quasi volesse proteggersi da qualche invisibile pericolo che ancora la minacciava. Buona parte delle fasce che le nascondevano il viso erano state rimosse, rivelando i crudeli marchi lasciati dal fuoco sulla sua pelle pallida; solo gli occhi erano ancora bendati. Le tremavano le spalle, nonostante il panno in cui si era avvolta, e sussultava ad ogni rumore. Ai piedi del letto, un uomo e una donna, di certo i suoi genitori, la fissavano piangendo in silenzio. Ad ogni loro tentativo di avvicinarsi, la ragazza si era ritratta di scatto e Terry non l’aveva mai udita parlare. Secondo i guaritori, di cui Anthony aveva origliato alcuni discorsi, la sua mente non era ancora tornata dalla battaglia.
Il ragazzo però non ne era convinto.
Dopo pranzo Terry abbracciò la sua famiglia e suo padre gli promise che sarebbero andati a fargli visita ogni sera al San Mungo.
Passò il pomeriggio ad osservare Godric che sfrecciava tra letti e sedie, rischiando di far cadere chiunque intralciasse la sua strada. Più che un gatto era un tornado in miniatura, ma doveva dargli atto di essere riuscito nell’ardua impresa di strappare un sorriso alla professoressa McGranitt. O futura Preside McGranitt, stando alle indiscrezioni riportate dalla Gazzetta del Profeta.
Al tramonto i signori Bones indossarono i loro mantelli e si allontanarono mestamente dalla Sala Grande, mano nella mano, con il cuore pesante e le guance rigate di lacrime. Doveva essere straziante non poter gioire, nonostante la figlia fosse ancora viva.
Terry avrebbe voluto aiutarli, e l’istinto gli sussurrava che forse era la persona giusta per farlo, ma ad essere sinceri non sapeva davvero come.
Inaspettatamente fu Godric a farsi avanti per primo. Incuriosito dalla ragazza, saltò sul materasso e si sedette di fronte a lei, miagolando per richiamare la sua attenzione. Susan si irrigidì per un attimo, stringendo i pugni nervosamente, poi allungò timidamente la mano a tentoni finché non ebbe sotto le dita il morbido pelo del felino, che prese a fare le fusa emettendo versi soddisfatti. Un singhiozzo le sfuggì dalle labbra, così carico di disperazione e solitudine che gli strinse il cuore.
Preso coraggio, Terry si azzardò finalmente ad aprir bocca. «Susan? Susan, sono…».
«Terry Boot, Corvonero, settimo anno. So chi sei». La voce della giovane era roca e stranamente gracchiante rispetto a quanto ricordava, ma non fu quello a lasciarlo perplesso. Lo colpì che lo avesse riconosciuto senza indugio e ancor di più che gli avesse rivolto la parola. Non sembrava confusa, né impazzita per le torture subite come qualcuno aveva bisbigliato il giorno prima passandole accanto. Perché dopo tanto silenzio aveva deciso di parlare proprio con lui?
«Ah… beh sì certo…», iniziò a balbettare. In quel momento sentì più che mai la mancanza di Michael; lui sapeva sempre cosa fosse meglio dire, in qualunque situazione, abilità che li aveva spesso salvati dal perdere punti o dall’essere messi in punizione. Fece un respiro profondo e riprovò, inscenando una severità che non gli apparteneva. «Potrà sembrarti strano, ma so qual è il tuo intento. E permettimi di dirti che non funzionerà. Forse non potranno mai capire davvero quanto ti è accaduto, ma non soffriranno meno se li allontanerai; il dolore li consumerà lentamente, così come accadrà a te, e tutti i tuoi sforzi saranno stati vani. È questo che vuoi?».
La fermezza che aveva sostenuto Susan fino a quel momento andò in frantumi, sgretolandosi sotto il peso della verità contenuta nelle sue parole. La vide sbiancare e affondare le mani nel lenzuolo, in cerca di un appiglio contro l’oscurità che la avvolgeva. «La mia famiglia è già stata distrutta troppe volte, non meritano nuove tribolazioni. Non meritano una figlia spezzata», disse, trattenendo la tosse a fatica.
Probabilmente Terry Boot e Susan Bones non potevano definirsi amici, ma combattere in una delle battaglie magiche più sanguinose che l’Europa avesse visto negli ultimi decenni cambiava radicalmente innumerevoli cose. E proprio lì, steso su un letto da cui non sapeva se si sarebbe mai rialzato con le sue gambe, Terry realizzò che avrebbe fatto l’impossibile per riportare la speranza nell’animo della Tassorosso.
«Non sei spezzata, sei sopravvissuta. Entrambi lo siamo. Perciò sappi che se avrai bisogno di aiuto, io sarò qui per te».
La ragazza si voltò lentamente, quasi stesse cercando la sua sagoma tra le ombre, e per un lungo istante Terry ebbe la sensazione che lo stesse guardando dritto negli occhi. «Ti ringrazio», mormorò infine, accennando un piccolo sorriso che lo scaldò più di un sorso del pregiato Whisky Incendiario Ogden Stravecchio che suo zio teneva nascosto in cantina.
Parlarono a lungo, raccontandosi aneddoti allegri come amici di vecchia data, e si addormentarono a tarda ora, le mani che si sfioravano nel vuoto dello spazio che divideva le loro barelle.
Così trascorsero la loro ultima notte tra le mura di Hogwarts.

 

2 giugno 1998 - Un mese
Seduto su una soffice poltrona viola, Terry aspettava.
Dall’ambulatorio di fronte a lui provenivano suoni attutiti, verso i quali tese l’orecchio per indovinarne la fonte. L’allegro tintinnio delle scarpe a sonagli di Madama Norris, una corpulenta infermiera che profumava sempre di biscotti e succo di zucca; il battito del lugubre orologio da taschino del Guaritore Duff, che si sussurrava fosse costruito con le ossa di alcuni elfi domestici; il ritmico tonfo del bastone appartenente al centenario Guaritore Goodheart, un anziano medimago che non voleva proprio saperne di abbandonare il San Mungo.
Discutevano chiusi là dentro da più di un’ora ormai e Terry iniziava a diventare impaziente. Quanto poteva volerci ancora?
Fece per afferrare la bacchetta dalla tasca destra del pigiama, ma quando non ci riuscì un brivido freddo gli corse lungo la schiena. A distanza di un mese, si stupì di averlo di nuovo dimenticato.
«La memoria del corpo è lenta ad imparare», glielo avevano ripetuto fin troppe volte, quando lui spergiurava di aver sentito la mano muoversi o bruciare, come se fosse ancora lì, dove era sempre stata. Dove avrebbe dovuto essere se avesse deciso di scappare e mettersi in salvo, invece di resistere e lottare in difesa della scuola.
Deglutì e abbassò lo sguardo sulla manica vuota, lottando contro le vertigini che ancora lo assalivano di tanto in tanto. La stoffa era stata arrotolata con cura, ma in fondo non era altro che un triste tentativo di nascondere ciò che chiunque avrebbe notato. Eppure, non si pentiva della sua scelta. Era rimasto e aveva combattuto, perché era giusto farlo.
I mormorii si fecero più intensi e dalla porta sbucò la testa canuta del Guaritore Goodheart, che si guardò intorno un paio di volte prima di individuarlo attraverso le spesse lenti rotonde che gli cadevano sul naso. Terry trattenne il respiro, in attesa del responso, per poi esplodere in un grido di gioia quando il mago gli sorrise strizzando l’occhio nella sua direzione.
Corse via, seguito dalle torve occhiate e dai rimproveri degli abitanti dei quadri, disturbati nel loro sonno dal suo rumoroso entusiasmo.
A metà del corridoio che conduceva alle camere dei degenti rallentò il passo, fino a fermarsi davanti alla porta di quella che era stata la sua stanza per quasi un mese. Si avvicinò con prudenza e sbirciò all’interno, come uno scassinatore in attesa nell’ombra.
Susan sedeva sul davanzale della finestra, avvolta dalla calda luce estiva di mezzogiorno, che pareva posarsi su di lei come una confortevole coperta. Sorrideva, la treccia castana chiusa da un nastro color del sole e Godric pigramente acciambellato in grembo. Nei lunghi, e spesso dolorosi, giorni di ricovero lui e la Tassorosso erano diventati inseparabili, in un’amicizia genuina che li aveva aiutati a sopportare la durezza della loro condizione.
Terry le aveva insegnato a suonare il pianoforte, come sua madre aveva fatto con lui, così che l’armonia della musica sconfiggesse gli incubi oscuri della ragazza; Susan aveva passato intere nottate a raccontargli storie sulla sua famiglia, per alleviare il dolore di quel braccio perduto ma che ancora gli causava atroci sofferenze.
E così, spesso l’alba, e Madama Norris, li sorprendevano addormentati mano nella mano.
Incapace di trattenere oltre la sua euforia, Terry spalancò la porta e si avvicinò alla finestra. «Susan! Susan sono...».
«Terry Boot, Corvonero, settimo anno», lo anticipò la ragazza volgendo il viso verso di lui, con un sorriso luminoso che aveva quasi il potere di cancellare i segni che le fiamme le avevano lasciato. Rispondergli con quella frase, la prima che gli aveva rivolto dopo la battaglia, era diventata per lei una giocosa abitudine, abitudine che riusciva sempre a metterlo di buonumore perché in qualche modo lo faceva sentire unico, speciale.
Non che in quel momento ne avesse bisogno. Aveva la netta sensazione che avrebbe potuto librarsi in aria senza alcun bisogno di incantesimi se solo si fosse lasciato andare al vortice di felicità che gli scorreva nelle vene.
Con un guizzo passò il braccio sano intorno alla vita di Susan e la strinse a sé, facendola volteggiare per tutta la stanza, incurante dei soffi indispettiti di Godric, che era finito a terra e si era rintanato sotto il letto per non finire schiacciato in quella danza improvvisata.
Sentiva nelle orecchie la risata sorpresa della ragazza e il suo tenue profumo di mughetto gli riportò alla mente gli oziosi pomeriggi primaverili trascorsi in compagnia di un buon libro sulle rive del Lago Nero. Momenti di una serenità che credeva di aver dimenticato.
«Andateci piano giovanotti, o quel vostro gatto morirà per lo spavento».
La voce giunse all’improvviso e quando Terry liberò dalla presa l’amica, i due si trovarono di fronte una sagoma alta con lunghi capelli color del ferro. Aberforth Silente torreggiava su di loro, fissandoli con tutta l’intensità dei suoi penetranti occhi azzurri.
«Allora? Posso conoscere il motivo di un simile trambusto?», borbottò burbero, senza però riuscire a nascondere un ghigno divertito. Nonostante si sforzasse di apparire brusco e scontroso, Terry sapeva che si era realmente affezionato tanto a lui quanto a Susan. Veniva a far loro visita due volte a settimana, con dolci e idromele che inspiegabilmente riusciva ad introdurre sotto il naso di infermiere e guaritori. Avendoli salvati da morte certa era compito suo accertarsi che non finissero nuovamente nei guai, o almeno questa era l’unica risposta che avevano ottenuto dal vecchio barista dopo numerose domande.
«In realtà sono curiosa anch’io», rispose Susan, allungando le braccia finché non trovò le spalle di Aberforth e alzandosi poi sulle punte dei piedi per abbracciarlo. «Da alcuni giorni è diventato guardingo e misterioso, ma finora non ha voluto svelarmi i suoi segreti», aggiunse con uno sbuffo contrariato.
«Lungi da me voler celare la verità ai miei nobili compagni d’arme: ebbene, quest’oggi sono latore di una straordinaria novella», declamò Terry, inchinandosi ed imitando buffamente il tono solenne del Cappello Parlante.
«Per la barba di Merlino ragazzo, non desidero invecchiare in questa stanza! Avanti, dicci cos’è successo!», esplose Aberforth impaziente.
«Sono stato dimesso! Certo, dovrò continuare ad ingurgitare pozioni ed eseguire controlli regolari, ma potrò finalmente uscire di qui e tornare a casa, alla vita vera!», esclamò Terry esultante, il cuore che ad ogni battito minacciava di uscirgli dal petto.
Eppure, il suo annunciò non portò la vivace festosità che si sarebbe aspettato. Qualcosa sembrava essersi spezzato, come una pozione perfettamente bilanciata ma mescolata una volta di troppo. Ricevette strette di mano e congratulazioni, ma il debole sorriso di Susan era privo di quel calore che la rendeva raggiante e l’espressione di Aberforth ostentava tristezza.
Quando la ragazza si avvicinò a tentoni alla porta e sparì lungo il corridoio lamentando una forte stanchezza, il vecchio barista si accasciò pesantemente su uno sgabello apparso dal nulla. «E pensare che voi Corvonero dovreste possedere una mente sveglia e brillante», disse scrutandolo torvo e scuotendo la testa, mentre Godric miagolava irritato la sua approvazione.

 

2 novembre 1998 - Sei mesi
Avvolto nel mantello, Terry si lasciò alle spalle il cupo edificio che ospitava il San Mungo e si incamminò verso casa, incurante della pioggia battente che aveva rapidamente svuotato le strade di Londra. Due sagome gli passarono accanto correndo, con le borse sollevate sopra la testa per ripararsi, e lo urtarono, ma lui quasi non se ne rese conto. Proseguì il suo percorso per alcuni metri, poi si fermò. Lasciò che le gocce lo inzuppassero e rabbrividì quando gelidi rivoli d’acqua presero a scorrergli lungo il collo. Strinse il pugno e gridò, con quanto fiato aveva in gola, prima di accasciarsi contro un muro.
In quella fredda mattina di novembre qualcosa di indistinto, ma molto simile alla rabbia, scorreva violentemente nelle vene di Terry Boot.
Non riusciva a capire che cosa avesse sbagliato. Perché Susan non voleva più vederlo? Era convinto che fossero amici, ma per l’ennesima volta la ragazza si era fatta negare e la placida Madama Norris era stata
irremovibile di fronte alle sue suppliche. Così era stato costretto ad andarsene. Di nuovo.
Perché? Perché Susan lo evitava? Non poteva togliersi dalla mente quella domanda. Perché all'improvviso si comportava in quel modo? Si erano sostenuti a vicenda e ora lei cercava di allontanarlo, di tenerlo a distanza, come se non si conoscessero affatto. Non era giusto, lo faceva infuriare e gli lasciava un sapore amaro sulle labbra. Il gusto della sconfitta e del rifiuto.
Forse non era affatto arrabbiato. Forse il sentimento che scuoteva l’animo di Terry Boot era l’amarezza, profonda e strisciante, la stessa che si era insinuata nel suo cuore alcune settimane prima.
Dopo aver ricevuto la lettera del Ministero della Magia era corso subito in ospedale, da lei, perché era certo che avrebbe condiviso la sua gioia. L’aveva trovata al pianoforte, intenta ad esercitarsi su un passaggio particolarmente complicato, lo sguardo velato, ma concentrato e pieno di determinazione. Susan lo aveva accolto con un sorriso sincero, che si era lentamente oscurato mentre le raccontava che la sua domanda di tirocinio all'Ufficio Applicazione della Legge sulla Magia era stata accettata. Chissà, forse in un lontano futuro avrebbe potuto sedere nel Wizengamot.
Aveva mantenuto il segreto per farle una sorpresa. Sperava che sarebbe stata fiera di lui e del traguardo che aveva raggiunto. Eppure non aveva visto orgoglio sul viso della ragazza, solo un’ombra che si faceva strada tra le cicatrici lasciate dall’Ardemonio. Un’ombra che lo aveva raggelato, facendogli temere per la fragile salute dell’amica.
Vinto dalla stanchezza e dalla violenza del temporale, Terry si ritirò sotto l’androne di un palazzo e sedette sui gradini abbandonando la bacchetta accanto a sé. La sua mente volò al piccolo appartamento che aveva affittato a Diagon Alley e nelle orecchie gli risuonò la voce roca di Susan che gli narrava storie sulla Prima Guerra Magica, raccontandogli del coraggio di suo zio Edgar o della tenacia di sua zia Amelia.
Ecco, ad essere del tutto sinceri Terry Boot non era né arrabbiato né amareggiato. La verità era che Terry Boot si sentiva terribilmente solo, e lo aveva capito solamente in quella strada deserta e sferzata dalla pioggia.

 

2 maggio 1998 - Un anno
Era stata una bella cerimonia.
Pochi e brevi discorsi, che avevano lasciato quasi subito spazio ai ricordi e alle lacrime, perché in fondo quello era il giorno della memoria, in cui omaggiare coloro che avevano dato la vita per sconfiggere il giogo oscuro che si era abbattuto su di loro.
Terry trovava che il destino avesse un curioso senso dell’umorismo. Di quel giorno, che tutti celebravano e che generazioni di maghi e streghe avrebbero studiato tra le mura di Hogwarts, lui non rammentava nulla. Soltanto brevi lampi di colori e suoni confusi, che lo rendevano un eroe agli occhi dell’intero mondo magico; un onore che non meritava. Era là, ne portava i segni indelebili, ma per la sua mente quella battaglia non era mai esistita.
Lasciò vagare lo sguardo sulle lapidi bianche ricoperte di fiori, attorno alle quali si stringevano crocicchi di amici e familiari vestiti a lutto. Uno dei gruppi più numerosi era quello dei Weasley, zazzere di capelli rossi su capi chinati verso la tomba di Fred; tra loro c’era anche Hermione Granger, che accarezzava la schiena di Ron con dolcezza. Un poco scostato, quasi non volesse disturbare il dolore altrui, riconobbe Harry Potter con in braccio un bambino addormentato, il figlio del defunto professor Lupin. Si era tenuto in disparte durante la cerimonia, nonostante molti si aspettassero di sentirlo parlare.
Finalmente però Terry poteva dire di capirlo.
Quando aveva incontrato la famiglia di Michael sarebbe voluto fuggire nella Foresta Proibita. La signora Corner sembrava una statua di vetro, pronta a spezzarsi da un momento all’altro, il volto scavato e privo di espressione mentre camminava reggendosi ad Anthony. I nonni di Michael invece si sforzavano di sorridere e lo avevano abbracciato affettuosamente, come il nipote che non potevano più stringere. Una premura che aveva riaperto con forza la ferita dovuta alla perdita di uno dei suoi migliori amici.
Si alzò una brezza gentile, che portava con sé un intenso profumo di mughetto. Terry si guardò intorno ancora una volta, nella tenue speranza di scorgere una treccia castana tra la folla.
«Lei non verrà».
Il ragazzo sussultò. Non si era accorto che Anthony e Aberforth lo avessero affiancato ai margini del prato. «Lei?», domandò confuso.
I due si fissarono, scuotendo la testa sconsolati.
«Mi chiedo sempre più spesso per quale misterioso motivo il Cappello Parlante lo abbia smistato tra i Corvonero…», borbottò Aberforth alzando le spalle.
Anthony decise di non commentare e si volse verso di lui: «Cercavi Susan immagino. Non verrà. L’ultima polmonite l’ha debilitata più di quanto credessimo».
Terry sentì il cuore mancare un battito. «Ero convinto che stesse meglio. Che fosse tornata a casa», balbettò indietreggiando di qualche passo. Non voleva sentire brutte notizie. Non su di lei.
Ai suoi piedi giaceva una bacchetta spezzata e tracce di sangue si spandevano tutt’intorno, imbrattando una lunga treccia castana abbandonata sul pavimento.
«Quand’è stata l’ultima volta che l’hai vista?», sbottò Aberforth con un cipiglio severo.
Non seppe rispondere. Erano mesi che non aveva notizie di Susan, se si tralasciava un bizzarro episodio verificatosi a marzo. Era la sera del suo compleanno, stava festeggiando con i suoi genitori e sua sorella era appena spuntata dalla cucina sorreggendo una colossale torta canterina a tre piani. Si era alzato per spegnere le candeline, quando aveva intravisto una figura sfocata oltre la finestra che dava sul giardino. Era Susan, ne era più che certo. Eppure quando era corso fuori per cercarla non aveva incontrato nessuno, se non le piante dell’orto illuminate dalla luna.
La voce di Anthony, o meglio del Praticante Goldstein, come lo chiamavano al San Mungo, interruppe i suoi ricordi. «Non è mai stata dimessa dall’ospedale. Durante l’inverno la sua salute è peggiorata. Si è scoperto che i suoi polmoni erano stati fortemente danneggiati dal calore dell’Ardemonio, così respirare è diventato sempre più difficoltoso per lei. Ma non è solo questo… io credo che abbia smarrito il desiderio di vivere. Si sta lasciando morire Terry».
«No!». Il grido straziante fece voltare tutti i presenti, rendendolo in un istante il centro dell’attenzione di centinaia di persone, ma Terry non se ne curò. Nulla aveva importanza, se Susan avesse cessato di sorridere, di raccontare storie, di esistere.
Cadde in ginocchio, artigliando il terreno con l’unica mano che gli restava, la vista appannata dal pianto. Le braccia di Aberforth lo avvolsero in una morsa salda, ma che faticava a trattenere i suoi tremiti. «Vai da lei», sussurrò il vecchio barista, «vai da lei e salvala».

Si smaterializzò direttamente nell’atrio del San Mungo, bacchetta in pugno.
Per incontrare l’amica sarebbe stato disposto anche ad usare la forza, sebbene si fosse ripromesso di non duellare mai più. Fortunatamente, grazie alle sagge raccomandazioni di Anthony e Aberforth, non fu costretto a scontrarsi con nessuno. Imboccò le scale di servizio e attese il tramonto, quando Madama Norris e le altre infermiere si riunivano per ascoltare le romantiche ballate di Celestina Warbeck su RSN.
Marciò a grandi passi lungo il corridoio, le orecchie che gli martellavano al ricordo di quanto gli era stato riferito qualche ora prima. Scosse la testa ripetutamente, per scacciare la spaventosa visione di una nuova lapide su cui piangere. No, non era pronto a perdere un altro pezzo di sé.
Per lunghi mesi si era sentito come congelato, cristallizzato in uno stallo senza alcuna via d’uscita, e ora capiva perché. Susan. Se lei non si riprendeva, nemmeno lui poteva stare bene. Volenti o nolenti erano legati da qualcosa di troppo profondo, che nessuno dei due poteva negare.
Raggiunta la camera, la sua determinazione vacillò, inciampando nell’infida paura di ciò che avrebbe potuto trovare all’interno. Dandosi del codardo, si sforzò di posare la mano titubante sulla maniglia della porta e la spinse verso il basso per entrare.
Lo accolse una densa penombra, nella quale per un istante faticò ad orientarsi, finché non scorse una sagoma tremante raggomitolata in un angolo. Della Susan Bones che aveva conosciuto otto anni prima nelle aule di scuola era rimasto ben poco. La ragazza davanti a lui era un pallido fantasma, sul cui volto risaltavano livide le cicatrici delle fiamme, come artigli pronti a dilaniarla. Una treccia disordinata e opaca le ricadeva sulla schiena, mentre gli occhi cerei erano immobili, imprigionati in qualche remoto e inaccessibile recesso del suo spirito tormentato.
Terry sedette in silenzio di fronte a lei e attese, osservando mestamente le ossa che le sporgevano dalla pelle come rami frantumati dal vento. Fu paziente e trattenne le lacrime, finché non sentì il respiro della giovane farsi più leggero. «Susan? Susan puoi sentirmi? Sai chi sono?».
«Terry Boot, Corvonero, settimo anno».
La flebile risposta della ragazza, che aveva atteso trattenendo il fiato, fu come una stilettata al cuore e Terry realizzò dolorosamente quanto davvero avesse sentito la mancanza di Susan in tutti quei mesi. Senza di lei si sentiva perduto.
«Ti prego Susan, non farlo. Torna da noi. Torna. Non puoi arrenderti ora», sussurrò, afferrandole una spalla e scrollandola con delicatezza. Doveva reagire, doveva combattere.
La ragazza si ritrasse dal suo tocco, fin troppo simile ad un animale selvatico finito in trappola. «Per te è diverso. Tu hai dimenticato ciò che è accaduto, io non ho avuto la stessa fortuna», ribatté, rauca e sprezzante, con una voce che non era la sua.
Ma Terry non si lasciò intimidire. Sicuramente non era un guerriero, né un cavaliere in armatura splendente; tuttavia c’era in lui una giusta dose di coraggio e sì, quello era il momento di utilizzarlo, per permettere a Susan di compiere la scelta giusta. Valeva la pena lottare per lei. «Hai ragione. Non ho memoria di quanto è avvenuto e forse non lo ricorderò mai. Quello che so è che abbiamo bisogno l’uno dell’altra. Ci ho pensato e credo che dovresti venire a vivere da me: ho una stanza libera che potrebbe essere tua. Nessuno si opporrà e Godric ne sarebbe felice, sanno tutti che quel gatto ti adora».
«Perché?», mormorò Susan, soppesando incredula quella fugace scintilla di viva speranza, che certamente pensava di non meritare.
Terry sorrise e le sfiorò timidamente la guancia con una carezza. «Perché ci siamo salvati la vita a vicenda, e forse possiamo continuare a farlo. Insieme siamo sopravvissuti, insieme impareremo a vivere di nuovo».
Due mani si cercavano intimorite nel fragore del combattimento. Quando finalmente si incontrarono, seppero che insieme avrebbero vinto l’oscurità.





 

NOTE
*Non si conosce molto riguardo a Terry Boot e Susan Bones, ad eccezione delle Case di appartenenza e al fatto che entrambi fecero parte dell’Esercito di Silente. Ho immaginato Terry Boot come un Mezzosangue, padre mago e madre babbana, e dai libri sappiamo che era nascosto nella Stanza delle Necessità quando Harry Potter entrò a Hogwarts, pertanto mi pare logico che anche lui abbia combattuto. Susan Bones invece appartiene ad una famosa famiglia magica, quindi anche se non direttamente citata è probabile che anche lei fosse presente ad Hogwarts, visto che era stato emanato un decreto che rendeva obbligatoria la frequenza scolastica.
*Terry Boot soffre della sindrome dell’arto fantasma a conseguenza dell’amputazione, nonché di amnesia lacunare post-traumatica, cioè non ricorda quanto accaduto durante la Battaglia di Hogwarts, salvo brevi immagini che spesso fatica ad interpretare. Susan Bones è rimasta cieca e sfigurata a causa dell’Ardemonio che l’ha colpita in pieno volto, inoltre il calore delle fiamme ha danneggiato gravemente i suoi polmoni. Essendo lesioni causate da maledizioni oscure, neppure la magia ha potuto curarle appieno.
*Non so se sia canon, ma per quanto mi riguarda Aberforth Silente è stato un Grifondoro. I valori della cavalleria lo spingono a continuare ad occuparsi e preoccuparsi per Terry e Susan, perché avendoli salvati dai Mangiamorte si sente responsabile per loro.
*Quanto a Michael Corner ed Anthony Goldstein, il loro destino non è noto, perciò ho dovuto lavorare nuovamente di fantasia. Il primo si trova tra i caduti della Battaglia di Hogwarts, che sappiamo essere stati una cinquantina, per cui è lecito pensare che ci fossero anche diversi studenti. Il secondo, spinto dagli orrori visti in combattimento, ha invece iniziato a studiare Medimagia come tirocinante al San Mungo.

   
 
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