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Autore: Raptor Pardus    03/11/2017    1 recensioni
Il vasto ponte di comando del ricognitore FSS “Nimbus” era vuoto, abitato solo dal ronzio e dai sibili degli schermi e dei computer di bordo, che illuminavano la plancia a giorno.
Le uniche persone presenti in quel momento all’interno della sala erano tre membri dell’equipaggio assegnato al comando della nave, lasciata al pilota automatico per buona parte della sicura tratta.
...
La nave era partita sei mesi prima dallo spazioporto di Palladium, al confine tra Orlo Esterno e Frangia Orientale, col compito di pattugliare i confini con l’Impero, dove da ormai cinque anni si susseguivano aspri combattimenti tra le flotte Volosiane e le navi Khorsiane in fuga, che ancora però trovavano le forze per compiere razzie ai danni dei sistemi Federali, le cui guarnigioni erano sempre e comunque inadeguate alla minaccia aliena.
Restavano ancora quattro mesi prima di rientrare nel vicino avamposto di Castrum Perseus, da dove poi sarebbe ripartita per ripetere la stessa tratta al contrario.
Genere: Avventura, Guerra, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La tenaglia idraulica fendette le lastre di metallo come fossero di burro, riportando la luce sul ponte di comando.
Gli invasori entrarono silenziosi, illuminati solo dalle luci rosse dei loro visori, facendosi strada tra i cadaveri ammassati contro la porta.
Vi erano almeno una decina di persone lì, accasciate una sull’altra, apparentemente morte.
Un braccio si levò lentamente da terra, tremante, proteso verso le ombre che si stavano affacciando all’entrata.
Uno degli invasori si avvicinò all’uomo ancora vivo, lo afferrò per la spalla e controllò i suoi gradi sulle controspalline, poi fece un cenno col capo ad un altro degli invasori, immobile e impettito al centro della schiera, il quale rispose con un altro cenno.
Il primo afferrò allora il guardiamarina morente per i corti capelli biondi, estrasse la pistola e la puntò sopra il suo cranio.
Non appena esercitò una minima pressione sul grilletto un colpo di plasma partì dall’arma e passò da parte a parte la testa dell’umano, aprendosi la strada tra le cervella, fondendole al contatto, fino a sfondare la mandibola.
L’umano non emise un suono mentre la vita lo abbandonava, e venne subito rigettato nella massa di uomini che occupava il pavimento.
Un altro invasore si mosse rapidamente verso la poltrona al centro della sala, dove il capitano giaceva riverso, gli occhi chiusi, le mani strette intorno ai braccioli, le unghie conficcate nel tessuto.
Respirava ancora, debolmente, anche se era privo di sensi a causa della poca aria.
L’invasore si accertò che l’uomo fosse vivo, controllò i gradi, e poi si voltò verso il suo superiore, richiamando la sua attenzione emettendo un suono gutturale, aspro, metallico a tratti.
Il comandante si avvicinò e guardò attentamente il sopravvissuto.
Disse poche parole, anch’esse aspre e metalliche, e altri due sottoposti si avvicinarono e si caricarono l’uomo in spalla, portandolo fuori dalla sala.
L’ufficiale si guardò attorno, soffermandosi sui comandi della nave, sulla cloche del timone, su ciò che rimaneva del ponte, squarciato dai proiettili e dalle esplosioni, sulle torri distrutte e sui cannoni piegati, intorno ai quali orbitavano ancora corpi e detriti.
Si voltò e tornò sui suoi passi, dietro alla sua squadra che già stava infilando il corpo del capitano in un immenso cilindro metallico, la cui volta di vetro permetteva di vedere la barella imbottita contenuta all’interno.
Un flebile rumore richiamò la sua attenzione mentre col suo zoccolo biforcuto calpestava qualcosa di morbido.
Guardò a terra, sollevando il piede, e notò che stava schiacciando il braccio di un uomo steso supino sulla schiena di un altro cadavere.
L’uomo stava lentamente scuotendo la testa, come se stesse per risvegliarsi da un sonno profondo, e strizzava le palpebre, cercando di aprirle.
Aveva il volto sporco di sangue ancora umido, un rivolo che partiva da un taglio sulla fronte e arrivava fino alla bocca spalancata.
L’uomo stava boccheggiando, cercando affannosamente di inalare l’aria rarefatta, e ogni tanto emetteva un lieve gemito.
Il Khorsiano estrasse la pistola e la puntò in faccia all’uomo morente, ma non premette il grilletto.
Fissò i paramano dell’uomo e notò i gradi da ufficiale inferiore, pensando per un attimo su cosa fare.
Alzò la testa e richiamò i suoi uomini, indicando con la pistola l’uomo ai suoi piedi.
Un ordine secco e anche il secondo ferito fu trasportato fuori dalla stanza.
Rinfoderò la pistola e si guardò di nuovo intorno.
Finalmente sicuro che non ci fossero altri sopravvissuti, uscì dalla stanza.
 
Non appena aprì gli occhi, la luce bianca lo investì, accecandolo e costringendolo a tornare nel buio che fino a quel momento lo aveva cullato.
Si strofinò gli occhi e cercò di mettersi a sedere, combattendo contro nausea e vertigini.
La testa gli faceva ancora male, e pulsava insopportabilmente.
Si guardò intorno, cercando di capire dove fosse.
Sicuramente non dove aveva chiuso gli occhi prima di svenire.
L’ultima cosa che ricordava erano gli schermi rossi, invasi dai segnali d’allarme, sul soffitto del ponte di comando, mentre la nave si spezzava in due a causa di un cedimento del reattore principale.
Gli pareva così strano essere tornato a pensare tanto lucidamente.
La piccola stanza in cui ora si trovava era bianca, asettica, illuminata da filari di luci fredde innestati negli spigoli di ogni muro, soffitti e pavimento inclusi.
Gli unici elementi al suo interno erano il piano dove aveva dormito fino a quel momento – un sottile pannello relativamente morbido che si protendeva fuori dalla parete – un altro piccolo piano, che probabilmente aveva la funzione di tavolino, attaccato sulla parete alla sua destra, e due piccoli cubi, uno vicino al tavolo, l’altro attaccato alla parete di fronte.
La parete opposta al letto era invece una grossa lastra traslucida che lo separava dallo stretto corridoio bianco su cui si affacciavano altre celle identiche alla sua.
Che fosse stato catturato?
Improbabile, i Khorsiani raramente facevano prigionieri, come avevano dimostrato durante l’invasione con cui avevano dato il via alla guerra: un terzo della popolazione di Varus IV massacrato sul posto, e i sopravvissuti erano stati segregati in campi di lavoro in attesa di venir deportati chissà dove.
Eppure non trovava altra spiegazione.
Possibile che fosse morto e quello fosse il paradiso?
No, troppo assurda come ipotesi.
Non esisteva vita oltre la morte, e quello che stava provando era troppo reale per confutare secoli di ricerca scientifica e filosofica.
Forse era tutto un sogno premorte, e lui si stava immaginando tutto mentre esalava l’ultimo respiro.
No, troppo complesso, era più credibile la cattura.
Le vertigini stavano scemando finalmente, la vista gli si faceva più lucida, e si decise a poggiare i piedi per terra e ad alzarsi dal letto.
Il pavimento era gelido e perfettamente liscio in ogni suo punto.
Stranamente, non sentiva freddo, anche se si accorse di star indossando solo dei pantaloni aderenti lunghi fino al polpaccio.
Dannatamente bianchi.
Si avvicinò lentamente alla lastra di vetro che lo separava dal corridoio e vi si appoggiò, cercando di guardare oltre le celle di fronte a lui.
Una scossa elettrica gli attraversò i palmi e si propagò per tutto il corpo, facendogli perdere l’equilibrio e facendolo impattare violentemente al suolo.
Quello decisamente non era vetro, dedusse sfregandosi le mani doloranti.
Si alzò massaggiandosi il sedere e tentò di nuovo di guardare fuori dalla sua cella, stando ben attento a non toccare la parete trasparente.
Un droide apparve improvvisamente davanti a lui, facendolo sobbalzare.
Era stato così silenzioso che non lo aveva sentito arrivare.
Si librava placidamente nel corridoio, all’altezza dei suoi occhi, e lo scrutava con quel suo visore rosso.
Inquietante, dannatamente inquietante.
Sotto il disco lucido in cui era incastonato l’unico occhio del drone erano agganciati un piccolo braccio metallico e un’arma, qualcosa di molto simile ad un fucile d’assalto terrestre, puntato contro il suo petto.
Il droide gli fece segno col suo braccio meccanico di allontanarsi dalla parete, in una maniera alquanto buffa, ma l’uomo non se lo fece ripetere, e arretrò senza voltarsi.
Quando fu abbastanza lontano, il droide scivolò lentamente indietro, sempre mantenendo l’arma puntata contro di lui.
In quell’istante la lastra trasparente sparì nel soffitto, scorrendo su binari interni alle pareti, terribilmente silenziosi.
L’uomo fissò il droide e inarcò un sopracciglio.
Sarebbe impazzito, questo era sicuro.
Fece un passo avanti, senza distogliere lo sguardo dal droide, che avanzò immediatamente, minacciandolo con l’arma e facendogli di nuovo segno di indietreggiare.
Il rumore di passi nel corridoio annunciò il Khorsiano che si affacciò nella sua cella, scrutandolo sprezzante.
Indossava un’attillata tuta color khaki, che partiva dalle caviglie e giungeva fino al collo.
La sua pelle, completamente glabra, era liscia, di un grigio scuro, e aveva gli occhi di un azzurro intenso, senza pupille.
Là dove sarebbe dovuto essere il naso non vi era nulla, tranne un piccolo solco proprio in mezzo agli occhi.
Non aveva orecchie, non aveva capelli sopra il suo volto piatto, non aveva labbra distinguibili dal resto della sua pelle.
Era lì, immobile, e fissava l’uomo dall’alto senza emettere una parola, intimorendolo con la sua imponente figura.
<< Quindi… >> disse l’uomo, cercando di iniziare una conversazione.
L’alieno non rispose, continuando a fissarlo imperscrutabile.
<< Siete di poche parole, voi Khorsiani. >> notò dopo un po’ l’uomo.
<< Abbastanza. >> disse l’alieno.
La risposta inaspettata lo lasciò spiazzato, conscio che quello che era appena accaduto fosse un piccolo miracolo, a suo modo.
<< Come… come sai la mia lingua? >> chiese, visibilmente sorpreso.
<< Conosci il tuo nemico. >> fu la risposta secca del Khorsiano.
<< Perché sono qui? >>
<< Studio. >>
L’uomo abbassò lo sguardo e si fissò i piedi nudi.
<< Dobbiamo andare avanti così per molto? >>
<< Voi umani non conoscete l’etichetta. >> disse l’alieno facendo un passo avanti. << Innanzi tutto, in presenza di un superiore, ci si presenta. >>
<< Ah… >> disse l’uomo, tentennando, indeciso su cosa fare. << Tenente di vascello… Nemo, Nemo Seraphus, astromarina della Federazione Terrestre. >>
<< Khorosh N’dar, a capo di questa astronave. >> disse l’alieno, facendo un altro passo avanti.
Nemo offrì una mano, in un debole segno di amicizia.
<< Khorosh dovrebbe corrispondere al vostro grado di capitano, se non sbaglio. >> continuò l’alieno, fissando incuriosito la mano protesa verso di lui.
<< Quindi… sono vostro prigioniero, giusto? >>
<< Sì, fino a quando questa guerra non sarà finita. Noi ufficiali siamo merce di scambio preziosa. >>
<< Quanti… quanti altri prigionieri avete fatto, se mi è concesso saperlo? >>
<< Il vostro capitano e due primi guardiamarina, ma uno dei due non ha superato gli interventi chirurgici. >>
<< Per cosa? >>
<< Spina dorsale fratturata e perforazione di un rene. Ha perso troppo sangue. >>
Nemo sentì le pulsazioni alla testa farsi più forti.
<< Devo sedermi. >>
<< Riposati, avevi un profondo taglio in fronte e i tuoi polmoni stavano per cedere. Siete stati fortunati, avremmo potuto colpire in pieno il vostro ponte di comando. >>
<< Come… come ci siamo salvati? >>
<< Il vostro generatore ausiliario è rimasto attivo, preservando la gravità, e i vostri sistemi di sicurezza hanno mantenuto l’ambiente sigillato, anche se con poca aria. Ora riposa. >>
L’alieno si voltò e uscì, senza dire altro.
La parete di vetro calò dietro di lui, rinchiudendo l’uomo di nuovo nella sua cella.
 
Il tempo passava scandito dagli scarni pasti, il sonno arrivava irregolare e la noia lo assaliva in ogni momento.
Dormiva a intervalli irregolari, tenuto sveglio dalla luce sempre accesa, contando i giorni in base alle visite dei droni che lo servivano e lo controllavano, mangiava ancor meno di quanto gli veniva offerto, sempre la stessa strana purea bianca a malapena tiepida e schifosamente insapore, soffriva continuamente di conati di vomito e un paio di volte aveva addirittura pisciato sangue.
Tutto quel bianco lo accecava, facendolo impazzire
Poco a poco iniziò a perdere il contatto con quanto lo circondava, non riuscendo più a capire quanto fosse grande lui e quanto piccola la stanza.
Vagava trascinando i piedi, fissando le pareti immacolate, mentre il suo corpo si riprendeva dalla fatica e la sua mente si lasciava andare alle terribili conseguenze della solitudine.
Nessun Khorsiano veniva fargli visita, ad assicurarsi che fosse ancora vivo e vegeto, bastavano i droni, così freddi, così muti, così distanti.
Dopo poco iniziò a parlare con i suoi robotici aguzzini, cercando di riprendere il controllo sulla propria mente, ma nulla riusciva a risollevargli il morale.
Al confronto, il dialogo che aveva avuto col capitano della piccola nave il primo giorno di prigionia era stato addirittura piacevole, e ne sentiva persino la mancanza.
Eppure sentiva dentro di sé che, se qualcuno fosse venuto a trovarlo in quella cella, non poteva che significare una cosa, una sola, per niente piacevole.
Lo sapeva che i Khorsiani non facevano prigionieri, non a lungo, quanto meno.
Mentre ormai si lasciava andare a manie di persecuzione nemmeno si accorse di aver iniziato a parlare da solo, sussurrando, borbottando, fissando il vuoto la maggior parte del tempo.
Quando un drone lo sorprese alle spalle, facendolo saltare sul cubo che usava come sedia, smise di parlare da solo.
E coi droni.
E col muro.
Nessuno si preoccupò del fatto che ormai non apriva bocca da ormai sei pasti, finché un drone non lo svegliò nel pieno di un incubo e gli aprì la bocca a forza, con i suoi bracci meccanici, costringendolo a ingoiare quella dannata sbobba a momenti ficcandogli direttamente la scodella in bocca.
Anche se probabilmente era più saporita di quella massa chiamata cibo.
Anche se la nausea ormai non lo disturbava più e aveva preso ad andare al bagno regolarmente e senza problemi, notò per pura fortuna che spesso le mani gli tremavano, in particolare quando si svegliava e avvertiva l’arrivo di uno dei suoi aguzzini, nonostante la parete di vetro continuasse sempre ad aprirsi e chiudersi nel più perfetto silenzio.
Dopo l’ennesimo sogno travagliato trovò ad attenderlo il ragazzo dalla pelle bronzea, in piedi davanti alla vetrata, muto.
Provò a parlagli, gli chiese sibilando come fosse sopravvissuto, toccò il suo viso e sentì improvvisamente gli occhi umidi quando avvertì la pelle sottile scorrere sotto le sue dita, consistente, morbida, reale.
Capì che era un’illusione quando avvertì la scossa elettrica attraversargli le ossa della mano, mandandolo di nuovo al suolo, mentre la sua gabbia si apriva e un drone gli veniva incontro minaccio, attraversando impassibile la testa del ragazzo.
Scoppiò a piangere non appena fu di nuovo solo, schiacciato tra il pavimento e il letto.
Si addormentò per terra, gli occhi ancora umidi, spossato dalla crisi emotiva.
Al suo risveglio il capitano era al centro della stanza, ad attenderlo.
<< Tempo di fare domande. >> disse, facendogli gentilmente segno di accomodarsi sul letto.
Nemo strisciò fuori dal suo nascondiglio senza dire una parola, tremando.
<< Voglio sapere la consistenza di ogni guarnigione lungo la frontiera tra l’Impero e la Federazione. >>
Nemo non rispose, non riuscendo ad aprire la bocca.
<< Voi umani avete una volontà debole. >> disse, estraendo un palmare che fino a quel momento aveva nascosto dietro la schiena. << Ora devo rimetterti a posto. >>
Premette un pulsante sullo schermo ed un pannello sul muro di fondo scattò verso l’interno e sparì nella parete, rivelando un cunicolo scuro proprio al centro del muro stesso.
Nemo si voltò e guardò all’interno del cunicolo.
Era largo quanto le sue spalle e non più alto della sua testa, profondo ben più del suo braccio.
In fondo ad esso vi era una spessa lastra di vetro trasparente, attraverso la quale poteva vedere le stelle.
Improvvisamente gli mancò il fiato, mentre tentava vanamente di riconoscere una qualsiasi costellazione a lui familiare.
Vedeva troppo poco per capire dove fossero, però sapeva che non era più sul luogo della battaglia, né in prossimità del sistema dove la sua nave era stata distrutta.
<< Ricominciamo da capo. >> disse il capitano. << Come ti chiami? >>
<< I-io… >> disse Nemo, boccheggiando.
<< Guardami. Come si chiamava la tua nave? >>
Nemo si voltò e fissò gli zoccoli dell’alieno.
<< N-Nimbus. >>
<< Bene. La vostra rotta? >>
<< Palla…Palladium, Castrum P-Perseus. >>
<< Stiamo facendo passi enormi. >>
Nemo affondò la testa tra le spalle e si grattò la guancia ispida, coperta da una corta barba.
<< Dove è stata distrutta la vostra nave? >>
Nemo non rispose.
<< Non tentennare, umano. >> disse impassibile il capitano.
<< Sistema… di Gutio. >>
<< Avete inviato richieste di soccorso? >>
Nemo impallidì, sbarrando gli occhi.
<< Avete inviato richieste di soccorso? >> ripeté l’alieno, scandendo con estrema lentezza ogni parola.
<< S-sì. Lontani. Nessuno in a-ascolto. >>
<< L’avamposto Federale più vicino? >> chiese incalzando il Khorsiano.
L’umano rimase di nuovo in silenzio, evitando lo sguardo dell’Imperiale.
<< Non farmi chiudere l’oblò. >> disse il capitano incrociando le braccia.
<< S-sistema di Verris, sesto pianeta dalle stelle, a ottanta anni luce da Gutio. >>
<< Dalle stelle? >> chiese l’Imperiale, sollevando quello che sarebbe dovuto essere un sopracciglio.
<< Due stelle. È un sistema binario. >> disse Nemo, incredibilmente docile.
<< Basta così, ti sei meritato il panorama oggi. >> concluse il capitano, visibilmente soddisfatto.
Si voltò e uscì dalla cella, lasciando che il vetro calasse silenzio dietro di lui.
Dopo diverso tempo dalla visita, Nemo non avrebbe saputo dire quanto, l’umano si accorse che nella stanza mancava qualcosa, un rumore di fondo che aveva sempre ignorato.
Scese dal letto e si avvicinò alla vetrata che lo separava dal corridoio.
Era un ronzio, un ronzio sconosciuto e che non aveva mai notato, eppure ora sentiva che mancava.
Toccò il vetro, consapevole che sarebbe nuovamente volato al suolo per la scossa.
La corrente elettrica non c’era più.
Il Khorsiano l’aveva disattivata.

   
 
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