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Autore: AveAtqueVale    15/11/2017    3 recensioni
Alexander Lightwood è un giovane uomo di ventitré anni costretto dai suoi genitori a frequentare, settimanalmente, un noto psicologo che in qualche modo gli capovolgerà l'esistenza.
Magnus Bane è un brillante e ricercato psicologo incapace di affezionarsi ai propri pazienti -per lui semplici casi da comprendere e rimettere in sesto come fossero puzzle da ricostruire- che si ritroverà ad avere Alexander in cura, ritrovandosi spiazzato dalle loro stesse sedute.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Isabelle Lightwood, Magnus Bane, Maryse Lightwood, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Uscito dallo studio Magnus poteva finalmente lasciarsi alle spalle le vesti del Dottor Bane e tornare ad essere il solito se stesso, amante del divertimento e dei vizi. Certo, poteva sembrare assurdo che considerando il suo mestiere fosse il tipo di persona che amava le feste e la movida notturna, ma Magnus Bane era pur sempre un uomo -un ragazzo- e non concepiva in che modo il fatto che amasse divertirsi potesse essere un problema. Francamente trovava più preoccupante l'idea di non amare il concetto di divertimento. Nessuno dei suoi pazienti, comunque, si era mai lamentato della sua professionalità o delle loro sedute: tutti, dal primo all'ultimo, erano rimasti spiazzati dal suo aspetto, dal suo abbigliamento e non di meno dalla sua giovane età, ma per quei pazienti che non avevano lasciato l'ufficio dopo i primi cinque minuti credendo che fosse uno scherzo di cattivo gusto, Magnus era stato un grandissimo aiuto. Era sempre stato disponibile e distaccato, capace di osservare ogni differente situazione con imparzialità ed occhio critico, dando consigli ben ponderati e in maniera sempre cortese. Non aveva mai imposto il suo parere professionale a nessuno ma aveva sempre cercato di guidare i propri pazienti verso l'auto presa di coscienza dei loro stessi pensieri, l'unica cosa che lui credeva sensata da fare nel suo mestiere.

Per essere così giovane era eccezionalmente maturo e i suoi pazienti più di una volta si erano chiesti come potesse essere possibile che alla sua età -sconosciuta ma sicuramente giovane a giudicare dal suo aspetto e dai suoi lineamenti- fosse già uno dei migliori psicologi del Paese.

Quella sera, dopo il suo ultimo appuntamento, Magnus si era diretto a casa per farsi una doccia e risistemarsi il trucco che dopo una intera giornata di lavoro lo aveva già annoiato. Era stata una giornata come tante, costellata di nuove lacrime, nuove grida e nuovi pazienti, uno dei quali non avrebbe mai più rivisto molto probabilmente. Alexander Lightwood era un giovane uomo imprigionato in una famiglia fin troppo apprensiva e soffocante che aveva grandi difficoltà a relazionarsi col prossimo. Probabilmente il problema alla radice di tutto stava proprio nel modo in cui era stato cresciuto in casa, tenuto dentro una campana di vetro, educato da genitori rigidi e piuttosto chiusi, con una chiara idea di come dovrebbero andare le cose e di come invece non sarebbero dovute andare. Era bastata una semplice manciata di minuti con Maryse Lightwood per capirla e Magnus era quasi certo che era stato proprio il suo atteggiamento carico di aspettativa a far crescere il ragazzo con quel carattere chiuso e ostile. Il modo in cui sembrava a tutti i costi voler sfuggire dagli sguardi altrui gli lasciava pensare che probabilmente aveva solamente una profonda paura di deludere chiunque attorno a sé e di non volere che qualcuno gli prestasse troppa attenzione perchè altrimenti avrebbe potuto deludere il prossimo ancora più platealmente. Magnus aveva provato una fitta di compassione per quel povero ragazzo, ma non aveva avuto modo di aiutarlo in quanto il giovane non riteneva di aver bisogno di aiuto o, forse, non aveva ancora capito di averlo.

Quale che fosse la verità il ragazzo era fuggito dal suo ufficio e probabilmente non ci avrebbe più rimesso piede.

Peccato pensò Magnus mentre si infilava sotto la doccia dopo essersi spogliato nel suo ordinatissimo e fornitissimo bagno. Era bello da guardare.

 

 

Giunto al Pandemonium club, Magnus controllò il proprio telefono per leggere il messaggio che gli era appena arrivato.

Catarina (00.58) : Ti aspetto al bancone.

Infilò l'apparecchio nella tasca interna della giacca di velluto blu notte-visto che i pantaloni di pelle avevano tasche praticamente inutilizzabili in quanto troppo strette- e avanzò verso il bancone facendosi largo fra la folla di corpi danzanti e sudati. Si era sistemato i capelli tirandoli su con una generosa quantità di gel brillantinato mentre il trucco accoglieva sfumature di viola e blu che risaltavano il colore verde-dorato delle sue iridi.

Catarina era facile da localizzare con la sua pelle bianco latte ed i capelli neri come la notte dalle ciocche di un blu elettrico inconfondibili. Magnus la raggiunse sedendosi allo sgabello accanto al suo accavallando le gambe con un unico movimento elegante.

«Allora. Mi dici cos'è che vuoi festeggiare?» domandò lui senza troppi preamboli con un ampio sorriso sulle labbra e lo sguardo accattivante di chi sapeva di poter conquistare chiunque volesse senza alcun problema. «Non dirmi che ti sei trovata un ragazzo perchè davvero non ci credo».

Catarina si voltò verso di lui con un ampio sorriso sulle labbra e i suoi grandi occhi scuri a specchiarsi nei suoi. «Ma ti pare? Dove lo trovo il tempo per un ragazzo, me lo dici?» assecondò lei la sua battuta mentre il barista si avvicinava a loro dopo il cenno della mano di Magnus.

«Due birre» ordinò rapidamente Magnus senza prestare troppa attenzione al ragazzo, attento a non esagerare con gli alcolici visto che l'indomani avrebbe dovuto lavorare. Di nuovo. «Magari è un tuo paziente. Che ne so? Io al posto tuo mi sarei già sparato con degli orari come quelli» si strinse lui nelle spalle con una faccia inorridita. «E dire che era solo tirocinio... pensa quando lavorerai in un ospedale vero»

Catarina a quel punto assunse un'espressione a metà strada fra l'eccitato ed il colpevole.

«A tal proposito...» lei iniziò a dire fermandosi quando il barista porse loro le due birre appena aperte. «...ecco la grande novità è che mi hanno preso a lavorare al New York Presbyterian Hospital. Il medico referente per cui ho lavorato al tirocinio ha contattato un suo amico che lavora lì per fargli il mio nome e lui ha detto che anche se mi sono laureata da solo due settimane si fida abbastanza del suo giudizio per accettarmi nel suo reparto» disse quasi tutto d'un fiato la ragazza mordendosi il labbro inferiore, reggendo la birra fra le mani senza però ancora bere neppure un sorso.

Magnus l'ascoltò come imbambolato per tutto il tempo, ritrovandosi a schiudere le labbra al termine del discorso con aria sorpresa e meravigliata. «Ma è...» boccheggiò per un istante sbattendo le ciglia con fare confuso. «...è fantastico!» esclamò alla fine cercando di stamparsi in volto un sorriso sincero e genuino. «E' meraviglioso Catarina, sono davvero fiero di te» continuò poggiando la birra sul banco per allungarsi verso di lei in un abbraccio.

Lei si fece ancor più piccola fra le braccia del suo amico, affondando il viso nell'incavo della sua spalla, stringendolo a sua volta stando attenta a non versargli la propria birra addosso. Si lasciò avvolgere dal calore del suo corpo per un lungo momento, incurante della musica spaccatimpani e delle occhiate curiose che mezzo locale stava lanciando loro. Era sempre stato un mistero al Pandemonium Club di come quella ragazza dalle ciocche blu fosse l'unica a non essersi mai portata a letto Magnus Bane. Ma la sola idea faceva ribrezzo ad entrambi che, dal canto loro, sono sempre stati come fratelli.

E poi, a dirla tutta, avevano dormito insieme una infinità di volte da quando avevano preso a convivere assieme nel loro loft di Brooklyn.

«Grazie. E' un grande passo per me. Sono un po' nervosa, ma non vedo l'ora di iniziare» rivelò lei quando i due sciolsero l'abbraccio, passandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

«E quando inizierai?» domandò lui guardandola in viso.

Catarina si morse il labbro inferiore assumendo un'espressione colpevole. «La settimana prossima. Lunedì è il mio primo giorno» rivelò nervosamente arricciando labbra e naso con fare quasi preoccupato.

Magnus strabuzzò appena gli occhi con fare sorpreso. «Così presto?» domandò basito rimanendo per un attimo senza parole, cosa che per chi lo conosceva bene era piuttosto rara. «Uh, capisco» mormorò annuendo meccanicamente fra sé e sé, sorseggiando distrattamente la birra più per spasmo involontario che per vero bisogno.

«Però, caspita, il Presbyterian Hospital? E' lontano. Come farai a muoverti in tempo per arrivare lì ogni giorno?» domandò lui aggrottando appena le sopracciglia.

Catarina a quella domanda si ritrovò a umettarsi le labbra, stringendole appena fra loro per un breve ma infinito attimo. «Infatti non posso, Magnus. Io... avrei trovato un monolocale nell'Upper East-Side, a qualche isolato dall'ospedale.» rivelò lei con un tono adesso molto più serio e teso, la preoccupazione chiaramente udibile nella sua voce. L'uomo a quel punto sembrò essere travolto da una ondata di improvvisa consapevolezza e i lineamenti del suo viso si rilassarono in un attimo in netto contrasto col tumulto che invece gli era appena esploso nel cuore.

«Oh. Sì. E' naturale. Certo» disse con un sorriso palesemente finto sulle labbra. Voleva davvero essere felice per la sua amica in quell'importante momento della sua vita, ma qualcosa dentro di lui si era come spezzato nel sapere che anche lei, alla fine, se ne sarebbe andata lasciandolo solo. Lei sembrò quasi leggergli nella mente e si affrettò a stringere la mano dell'amico con la propria mentre ne cercava lo sguardo per incatenarlo al proprio.

«Mi dispiace. Mi dispiace tanto per tutta questa fretta, per averti avvisato con così poco anticipo, ma non era una occasione che potevo rifiutare. E questo non cambierà niente tra di noi e lo sai» disse lei lasciando salire ora la mano da quella dell'amico al suo volto, carezzando la sua guancia col proprio pollice. «Rimarrai comunque il mio migliore amico e potrai scrivermi o chiamarmi in qualunque momento se avrai bisogno. Sarò sempre dall'altra parte della cornetta con una scusa pronta per fuggire sul primo taxi verso Brooklyn» cercò di rassicurarlo con la sua voce sincera e carica di preoccupazione.

Magnus sapeva che Catarina era preoccupata per lui, sapeva che in quel momento doveva sentirsi responsabile, come se lo stesse abbandonando. E lui si sentì colpevole per farla sentire in quel modo invece di farla sentire felice per se stessa e quella grande notizia. Essere infermiera è tutto quello che lei aveva sempre voluto fare per sentirsi utile in società e quell'ospedale era davvero prestigioso: era un sogno divenuto realtà per lei e non avrebbe fatto assolutamente nulla per rovinarglielo.

«Catarina... non sono uno dei tuoi pazienti, lo sai?» le disse allora lui, sorridendo, portando l'indice della sua mano libera al centro della di lei fronte, con un buffetto amichevole. «Smettila di preoccuparti per me, so vivere anche da solo ti ricordo. Dovremmo festeggiare invece di scambiarci addii strappalacrime! Vai a Manhatthan mica in Giappone!» le ricordò lui alzandosi e bevendo un lungo sorso di birra.

Catarina sorrise con una sfumatura malinconica a brillare nei suoi occhi.

«Forza!» la incitò Magnus lasciando la bottiglia mezza piena sul bancone e allungando le mani verso di lei. «Adesso andiamo in pista e balliamo. Così ti togli quel muso lungo dalla faccia. Ci bsta il lavoro a farti venire le rughe, non metterci anche con questi bronci inopportuni»

La ragazza si alzò accettando le mani che l'altro le stava porgendo. «Ehi! Io non ho le rughe!»

«Sì sì, va bene» la zittì amichevolmente Magnus scoccandole una occhiata provocatoria.

Catarina gli tirò un amichevole scappellotto dietro la testa e i due scoppiarono a ridere iniziando ad agitarsi al ritmo della musica assordante che li circondava.

 

*

 

Per Alec il ritorno a casa quel giorno era stato altrettanto stressante.

Non appena varcò la soglia dell'abitazione sua madre lo guardò con aria sorpresa e confusa, non capendo che cosa potesse farci il ragazzo già di ritorno ben mezz'ora prima del previsto.

«Alec?» domandò lei preoccupata vedendolo richiudersi la porta alle spalle e dirigersi di gran carriera verso le scale, quasi sperando che loro non si accorgessero del suo arrivo. «Già a casa? Come è andata?» domandò sua madre guardandolo dall'ingresso, qualche gradino più in basso di lui che rimase bloccato dalle sue domande a mezza scala.

Il ragazzo sospirò cercando il modo migliore per spiegare quanto accaduto quel giorno senza farla scomporre troppo.

«Mi ha detto che potevo andare se non volevo rimanere. Non lavora con pazienti che non vogliono essere lì, così me ne sono andato» riassunse trattenendo quel per fortuna che gli era rimasto bloccato sotto la lingua.

Sua madre parve quasi impallidire nel sentire quelle parole, neanche avesse appena detto la più atroce eresia che potesse passargli per la mente.

«Quel ciarlatano!» esclamò la donna stizzita e furibonda. «Ma che razza di medico è se non si prende cura dei suoi pazienti? E noi che lo abbiamo anche profumatamente pagato! Adesso che torna tuo padre...»

A quelle parole Alec non potè fare a meno di voltarsi verso di lei sulle scale e fissarla con una espressione truce e decisa. «Guarda che lui me l'ha detto che voleva che io fossi d'accordo per andare da lui. Lo sapevate che non mi voleva lì contro la mia volontà. E grazie a Dio almeno lui sembra ragionare qui!» esclamò lui irritato e innervosito, prima di voltarsi e arrivare al piano di sopra per chiudersi nella sua stanza lasciando una Maryse visibilmente allibita e senza parole ai piedi delle scale.

 

 

«Lo sai che gridarle contro le farà credere ancora di più che ti servano quelle visite, vero?» domandò Isabelle richiudendosi la porta della stanza di Alec alle spalle una manciata di minuti dopo il suo ritorno a casa.

Alec era steso sul suo letto con un braccio poggiato contro gli occhi e il buio della sera tutt'attorno. Non aveva voglia di accendere la luce, non aveva voglia di muoversi o fare nulla. Solo sospirare e meditare su quanto era successo solo in quell'ultima giornata.

«E tu? Credi che mi servano?» domandò lui senza smuovere il viso o un solo muscolo, la voce bassa e quasi atona.

Isabelle si avvicinò per sedersi sul letto del fratello, stringendosi nelle spalle. «Penso che non importi cosa pensiamo noi» disse semplicemente senza pensarci su due volte. Per qualcuno quel commento sarebbe potuto passare come un tentativo di lavarsi le mani di ogni responsabilità, ma Alec sapeva che Isabelle intendeva davvero quello che aveva detto. Gliene fu grato.

Sospirò stancamente scostando il braccio dal viso e ruotando il volto verso di lei.

«A quanto pare nemmeno quello che penso io» borbottò lui con un lieve spasmo delle labbra, inspirando a fondo e poi espirando.

Sua sorella mise su una espressione dispiaciuta mentre guardandolo cercò di sistemare le cose per come le era possibile. «E' solo preoccupata, Alec. Non vuole essere...»

«Preoccupata di cosa Izzy?!» sbottò lui esausto sollevandosi improvvisamente a sedere, lasciando scivolare poi le gambe oltre la sponda del letto per mettersi in piedi nella penombra della sua camera. «Non può solamente accettare che io sia così?» domandò stanco, arrabbiato, cercando di trattenere la furia nascondendola con semplice esasperazione. «E' il mio carattere! Mi piace la tranquillità e la pace, perchè non le va bene? Altri genitori sarebbero felici! Perchè loro credono che io sia pazzo invece?» chiese lui assottigliando lo sguardo, puntandosi con forza un indice contro il petto, cercando di contenere la voce e il fastidio. «A me piace stare in camera e a te andare alle feste, perchè sono io quello sbagliato fra di noi?»

Isabelle schiuse le labbra nell'accogliere improvvisamente quel fiume di parole. Non era offesa o risentita del suo dire, ma era sinceramente preoccupata per la condizione del fratello che sembrava davvero sul punto di esplodere. «Nessuno dice che tu sia sbagliato fratellone, davvero. Sai che mamma è sempre esagerata, ma è perchè ti vuole bene...» cercò di calmarlo lei alzandosi a sua volta e cercando di raggiungerlo muovendosi per la stanza, le sue mani a poggiarsi sui bicipiti del fratello decisamente più alto di lei.

Alec chiuse gli occhi con fare stanco sentendosi improvvisamente pesante.

«E' meglio se stai con lei adesso, prima che perda la testa» cercò di dire alla fine con un sospiro, riaprendo gli occhi e guardando la sorella con uno sguardo spento.

Isabelle sapeva che voleva solamente rimanere da solo. Annuì lasciando andare le sue braccia e quindi si avvicinò verso la porta in silenzio, fermandosi solo prima di aprirla per lanciare all'altro una occhiata incoraggiante.

«Vedrai che questa fissa le passerà» cercò di sostenerlo con un mezzo sorriso, sparendo subito dopo oltre la porta della stanza. Alec si lasciò cadere a sedere sul letto tenendosi la testa fra le mani. Non credeva che quella fissazione le sarebbe passata, né che avrebbe mai guardato a suo figlio senza vederlo come un caso clinico da sistemare.

 

 

I dieci giorni successivi trascorsero all'insegna di un clima teso e piuttosto nervoso in casa Lightwood. Maryse continuava a cercare di convincere Alexander a ripensare all'idea dello psicologo mentre suo padre cercava solamente di tenere buona sua madre prima che le saltasse una coronaria nel tentativo di trattenere l'agitazione che aveva dentro.

Alec dal canto suo continuava a rifiutare di voler anche solo aprire la conversazione e cercava di dileguarsi ogni volta il più velocemente possibile così da evitare qualche tipo di lite in famiglia.

Quel giorno tuttavia Maryse si era decisa a voler aprire il discorso piazzandosi fra suo figlio e la porta della sua stanza.

«Alec non puoi scappare per sempre» gli disse lei con le braccia conserte sul petto, l'espressione severa e rigida di sempre sul viso così simile a quello fresco e giovane di Isabelle. «Prima o poi dovremo parlare, affrontare la cosa»

«Non c'è niente da affrontare, mamma.» rispose risoluto Alec mentre si stava infilando la sua felpa nera leggermente troppo larga, la zip a venir alzata fino alla gola. «Nè di cui parlare. Ora, se vuoi scusarmi...»

Lasciò in sospeso la frase mentre i suoi piedi lo portarono ad avvicinarsi alla donna in un chiaro intendere che avrebbe voluto lasciare la stanza e uscire. Ma Maryse rimase dov'era, sospirando stancamente, guardando al figlio con gli stessi occhi con cui ci si sarebbe aspettati di guardare un malato che rifiuta di prendere le sue medicine.

«Ma Alec se solo potessi..»

«STO BENE, MAMMA!» sbottò lui, ad alta voce, stringendo i pugni lungo i fianchi, trattanendo malamente tutta la confusione ed il casino che sentiva di avere dentro, lo stress e la frustrazione che cercava di seppellire e nascondere da sempre in fondo allo stomaco. «Non mi serve aiuto, non mi serve parlare e non mi serve che strapaghi uno strizzacervelli per cercare di aggiustarmi!»

Aggiustarmi. Come se fosse stato un oggetto o qualche tipo di strana macchina. Come se fosse rotto e ci volesse solamente un po' di colla e di tempo per risistemare le cose, per farle andare bene. Come se ci fosse qualche pezzo da cambiare al posto di parti considerate difettose. Era così che Alec si sentiva, che si era sempre sentito. Maryse non lo aveva mai sentito parlare così e, sbiancando, si ritrovò a sciogliere l'intreccio delle braccia sul petto lasciandole pendere molli lungo il corpo, boccheggiando per la prima volta senza parole. Alec si rese conto di trovarsi su una sottile linea di confine in quel momento. Se avesse detto anche solo un'altra sola parola non era certo che avrebbe potuto controllarsi e a tutti i costi doveva riuscire a farlo. Non poteva esplodere per quanto gli sarebbe piaciuto farlo e perciò invece di aspettare che sua madre dicesse altro, si limitò a spostarla per uscire dalla sua stanza e quindi correre di sotto per raggiungere la porta d'ingresso.

Uscì di casa di gran carriera, a passo spedito, con il cappuccio della felpa abbassato sulle spalle e le mani ostinatamente spinte nelle tasche, i jeans scoloriti e consunti a proteggerlo dal vento di quella sera di Novembre. Di lì a poco sarebbe stata ora di cena e per strada iniziavano a diffondersi gli aromi provenienti dai vari pub e trattorie dove poter trascorrere una tranquilla serata. I negozi stavano iniziando a chiudere, le varie attività giornaliere si accingevano a concludere la loro giornata. La gente per strada passeggiava sfrecciandogli accanto senza neanche degnarlo di una occhiata. Chi era al telefono, chi camminava con gli amici, chi col fidanzato. Gente che rideva, scherzava e parlava. Vecchietti seduti alle panchine, bambini che correvano con gli zaini a pendere pesanti sulle loro piccole schiene. La vita caotica di New York sembrò passargli attorno senza che lui potesse realmente toccarla. Ogni cosa sembrava vorticare in un turbinio di suoni e colori attorno a sé mentre lui si sentiva come congelato nel tempo, incapace di raggiungere chiunque altro, desideroso di urlare a squarciagola fino a quando chiunque non si sarebbe fermato -esattamente come lui- nel circondario.

Camminava a passo svelto senza una vera meta col bruciante desiderio di colpire qualcosa, di rompere qualcosa. Le mani chiuse a pugno prudevano nelle sue tasche e i suoi grandi occhi azzurri bruciavano di una fiamma oscura e distante, buia. Sentiva le lacrime salirgli agli occhi, pizzicare fastidiosamente mentre il vento freddo di Novembre frustava il suo viso. Non erano lacrime di tristezza, erano la prova della fatica che stava sopportando per evitare di urlare.

Si sentiva vicino al punto di implodere, come se avesse accumulato troppe e troppe cose nel suo corpo ed ora non fosse più in grado di contenerle. Si sentiva male al solo pensiero di dover soffocare tutto il casino che aveva per la mente. Avrebbe solamente voluto buttare tutto fuori, avrebbe voluto liberarsi, sentirsi vuoto, libero per una volta dall'enorme peso di quei pensieri e quelle verità che gli scavavano nel fondo dell'anima.

E fu proprio mentre questo lacerante desiderio di libertà si faceva strada dentro di lui che Alec si accorse di dov'era andato a finire. Davanti a sé si innalzava l'imponente edificio dove solo una manciata di giorni prima aveva giurato di non tornare. Alec si bloccò fissando le porte dinnanzi a sé a labbra schiuse, un vago senso di confusione ad aleggiargli attorno. Perchè? Perchè era finito lì? Non voleva entrare. Non voleva vedere quell'uomo, non voleva parlare. Ma si sentiva stanco. Era sfinito, avrebbe voluto solamente crollare lì e piangere per ore per cercare di sciacciar via assieme alle lacrime anche il peso di tutto quello che aveva dentro.

Perchè sua madre non poteva accettarlo così? Perchè non poteva smetterla di avere tutte quelle aspettative su di lui? Cercare di cambiarlo, di farlo sentire qualcuno che non era e che non sarebbe mai stato? Perchè suo padre non prendeva le sue difese? Perchè non si esprimeva mai? Perchè nessuno aveva interesse a sentire quello che lui avesse da dire?

 

Il mio lavoro è quello di aiutare chiunque venga qui a fare chiarezza fra i propri pensieri e sentimenti, liberare paure, riflessioni, desideri e considerazioni.

 

Alec si sentì stremato.

Stremato al punto da sfiorare la disperazione e da sentirsi in trappola, come se avesse corso così lontano dal sentiero della sua vita da non avere più idea di dove si trovasse e non sapesse più come fare per tornare sulla sua strada. Si sentiva perso, solo e confuso. Si sentiva stupido e ad un passo dall'arrendersi a tutto ciò che c'era attorno a lui, vicino al lasciarsi travolgere dalle violente ondate che quella vita di tanto in tanto gli mandava contro. Un sospiro tremante uscì dalle sue labbra mentre le sue mani ancora prudevano dal desiderio di schiantarsi contro qualcosa fino a sanguinare. Era un pensiero stupido, lo sapeva e per questo stava cercando in tutti i modi di impedirsi di abbandonarsi a quell'istinto. Alla fine decise di arrendersi e lasciarsi guidare non dalla rabbia ma dalla stanchezza.

Varcò la soglia dell'edificio seguendo gli stessi corridoi che aveva già percorso poco più di una settimana prima, ritrovandosi alla fine a comparire nella piccola sala d'attesa dalle pareti gialline e senza finestre nella quale aveva seduto poco tempo addietro. La segretaria stava indossando la giacca, la borsa pronta sulla scrivania per essere raccolta, mentre solamente la lampada sulla sua scrivania era ancora accesa. La giovane rimase sorpresa nel vederlo lì, soprattutto con quell'espressione funerea sul viso. Alec si sentì terribilmente a disagio lì, in imbarazzo, mentre muovendo qualche passo nella sala si lasciava cadere sul divanetto con la stessa flemma di chi si fosse arreso al proprio destino dopo una lunga ribellione.

«Ehm... stiamo chiudendo. Gli appuntamenti sono finiti per oggi» mormorò la ragazza con voce quasi colpevole, indicando con una mano il foglio appeso sulla parete lì accanto con su indicati gli orari di visita del Dottor Bane. «Se vuole possiamo fissare un appuntamento però» propose lei cercando di andare incontro ai bisogni del ragazzo in evidente difficoltà davanti a lei.

Alec si sentì quasi schernito e preso in giro dal destino.

Era arrivato fin lì, si era arreso ad entrare e... non era neppure nell'esatta fascia oraria?

Perchè? Perchè era sempre così fuori sincrono col resto del mondo?

Il ragazzo abbassò la testa sconfortato, portando le mani a stringersi nella sua zazzera scura con fare esausto. Scosse appena il capo in modo arrendevole non trovando più nemmeno la forza di alzarsi e andarsene.

«Alexander» la familiare voce che aveva creduto di non sentire mai più in vita sua lo riscosse dai suoi pensieri stranamente tranquilla, giungendo quasi come una mano tesa nella sua mente. «Che ci fai qui?» domandò ancora con voce morbida, accomodante, portando il ragazzo ad alzare lentamente il capo.

Alec portò le iridi sulla figura del Dottor Bane e si ritrovò a vederlo piuttosto sfuocato. Un velo di lacrime brucianti si era levato davanti alle sue palpebre rendendo il mondo un insieme di macchie confuse e poco nitide davanti ai suoi occhi. Si sentì debole e patetico e rassegnato, quasi non gli importava neppure che l'altro lo stesse vedendo in quelle condizioni.

«Io...» la sua voce era un soffio roco nel silenzio della stanza. Cercò di chiudere e riaprire gli occhi fino a scacciare quel velo nebbioso davanti alle iridi fino a quando la figura dell'uomo non fu completamente a fuoco. Lo stava guardando in viso con espressione assorta ma silente. Non sembrava intenzionato a dire niente, come se stesse unicamente aspettando che fosse lui a fare qualcosa. E improvvisamente Alec si sentì uno sciocco per essere venuto fin lì. Non riusciva a parlare, non voleva neppure dire niente eppure al tempo stesso voleva rovesciare tutto fuori. Ma senza che l'altro sentisse. Aveva senso? Non molto, lo sapeva, ma se ne rese conto solo in quel momento. Si sentì un idiota e col cuore che riprese a battere imbarazzato nel petto tirò su col naso voltando il capo, passandosi una mano sul viso. «Non importa. E'... è tardi» disse solamente come se fosse improvvisamente rinsavito, deglutendo a vuoto.

Si alzò dal divano con le gambe molli e il cuore pesante voltandosi verso la porta quando la voce dello psicologo lo raggiunse.

«Entriamo. Accomodati» disse voltandosi ed aprendo la porta del suo studio buio, la sua mano a scivolare sulla parete interna della stanza per accendere la luce dall'interruttore ivi posto. «Lucy ci penso io a chiudere l'ufficio, vai pure.» aggiunse rivolto allora alla segretaria che, dal canto suo, guardò i due ragazzi con aria perplessa prima di annuire e sistemarsi la borsa in spalla, avviandosi dunque verso l'uscita.

Alec la lasciò passare ritrovandosi bloccato sul posto ad osservare il terapeuta. Egli l'osservò di rimando con espressione pacata, gentile, come se stesse solamente aspettando che fosse Alec a scegliere cosa fare e lui ci si sarebbe regolato di conseguenza. Il ragazzo si sentì padrone di fare una scelta e per la seconda volta questa possibilità gli veniva offerta da quell'uomo.

Lo guardò tentennando per diversi istanti prima di annuire e seguirlo a testa bassa, con gli occhi in fiamme e la gola stretta in una morsa di ghiaccio.

   
 
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