Serie TV > Shadowhunters
Segui la storia  |       
Autore: AveAtqueVale    14/11/2017    1 recensioni
Alexander Lightwood è un giovane uomo di ventitré anni costretto dai suoi genitori a frequentare, settimanalmente, un noto psicologo che in qualche modo gli capovolgerà l'esistenza.
Magnus Bane è un brillante e ricercato psicologo incapace di affezionarsi ai propri pazienti -per lui semplici casi da comprendere e rimettere in sesto come fossero puzzle da ricostruire- che si ritroverà ad avere Alexander in cura, ritrovandosi spiazzato dalle loro stesse sedute.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Isabelle Lightwood, Magnus Bane, Maryse Lightwood, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

«Benvenuto Alexander. Io sono Magnus».

Alec non riusciva a smettere di fissarlo incredulo. Non poteva essere vero. Non poteva essere lui il suo medico. Non poteva essere un medico.

Magnus Bane si presentava come un ragazzo più vicino ai venti che ai trenta dal viso giovane e fresco; la sua pelle era di una accattivamente sfumatura color caramello ed il suo viso aveva lineamenti definiti ma non duri. Doveva essere piuttosto alto sebbene essendo seduto Alec non potesse dirlo con certezza, e nonostante a primo impatto apparisse una figura magra e longilinea, ad una seconda occhiata era facile notare la forma delle larghe spalle e dei bicipiti definiti e allenati sotto la camicia. Aveva capelli neri che teneva fissati all'insù in morbide spine, alcune ciocche sfumate di un azzurro vivace e brillante, luccicante, come se vi avesse messo dei brillantini al di sopra, esattamente come quelli che scintillavano sul suo viso attorno agli occhi: ombretto azzurro e eyeliner circondavano la forma allungata delle sue palpebre sottolineando la sfumatura verde-dorata dei suoi occhi. Alec era senza parole. Esistevano asiatici dagli occhi verdi? Apparentemente sì.

Nonostante già la presenza di trucco e ciocche tinte di capelli potesse già essere un motivo per trovare strana la sua natura di medico, il suo abbigliamento era ancora più scioccante. Portava attorno al collo una indefinita quantità di collane alcune più strette ed altre più lunghe e pendenti, semplici ma strane da vedere addosso ad un uomo, e un considerevole numero di anelli alle dita sottili ma forti. Smalto nero faceva sfoggio di sé alle sue unghie mentre una camicia borgogna fasciava le sue braccia allenate ed il petto ampio. Un panciotto in velluto scuro, con una fantasia vintage piuttosto delicata si richiudeva su di essa, ornato da una serie di catenine che ne percorrevano la forma. Aveva uno stile... bah, Alec non avrebbe saputo trovare la parola perfetta per descriverlo, perciò si limitò a pensare che quell'uomo fosse semplicemente diverso.

Non sapeva cosa pensare di lui.

Era possibile non avere una prima impressione di qualcuno? Alec proprio non riusciva a far mente locale. Si sentiva a disagio? Si sentiva rilassato? Nè una né l'altra cosa. Non era più teso come prima ora che ormai aveva davanti quell'uomo, ma al tempo stesso non poteva ovviamente fidarsi di lui, anche se il suo essere giovane lo induceva d'istinto a sentirsi un po' meno a disagio. Avrebbero potuto benissimo essere coetanei se non fosse che era assurda l'idea che quel ragazzo fosse già un famoso psicologo all'età di venticinque anni.

Alec, comunque, si riscosse da quel primo lungo attimo di imbambolamento e rimase in silenzio. Un silenzio risoluto e ostinato. Forse testardo.

Si abbandonò contro lo schienale della poltrona e incassò la testa nelle spalle come un muto atto di ribellione, quasi a voler far intendere che non avrebbe aperto bocca per quanto gli riguardava. Magnus, dal canto suo, distese le labbra verso l'esterno e proseguì.

«Molte persone non sanno davvero cosa aspettarsi quando mettono per la prima volta piede in uno studio come questo, per cui credo che sarebbe propedeutico per entrambi mettere bene in chiaro ciò che faremo nei nostri incontri. O meglio, ciò a cui servono questi incontri» spiegò lo psicologo con tono conciliante e tranquillo, niente affatto a disagio o seccato. Almeno se lo era non lo dava a vedere ed Alec se ne sentì in qualche modo grato.

Il ragazzo non disse una parola, rimanendo chiuso nel suo risoluto silenzio, inspirando a fondo quasi come per voler raccogliere le forze per sopportare quella prima visita. Magnus non si lasciò disturbare dall'atteggiamento poco collaborativo dell'altro e continuò. «Il mio lavoro è quello di aiutare chiunque venga qui a fare chiarezza fra i propri pensieri e sentimenti, liberare paure, riflessioni, desideri e considerazioni. La maggior parte del tempo non parlo neppure, mi limito ad ascoltare il flusso di coscienza dei miei pazienti aiutandoli a liberarsi e a fare qualche domanda mirata per indirizzare al meglio i loro pensieri, li aiuto a ragionare sul perchè provino determinate cose e cosa questi sentimenti possano significare. In definitiva sono i pazienti stessi a fare il lavoro, io fornisco solamente gli strumenti necessari per farlo» spiegò il Dottor Bane senza mai abbandonare con lo sguardo la figura del ragazzo.

Alec strinse la mascella mordendo l'interno della propria guancia con fare nervoso, ruotando il capo verso la propria sinistra dove era posta la grande finestra che ricopriva la quasi totalità della parete. Il tempo fuori non era esattamente il massimo, il cielo era oscurato da grandi nuvoloni grigi e la luce del sole faceva fatica a filtrare in timidi raggi sottili. Tuttavia voleva a tutti i costi evitare di incontrare lo sguardo del terapeuta in un atto istintivo ed inconscio.

Magnus annuì appena col capo schioccando la lingua contro il palato.

«Il primo strumento necessario ad affrontare queste sedute, comunque, non posso fornirlo io. Dipende da te e per quanto posso vedere mi sembra evidente che tu non ne sia in possesso per cui francamente credo che continuare a venire qui sarebbe solamente una perdita di tempo.»

A quelle parole il ragazzo si ritrovò immediatamente a ruotare il capo verso di lui, stranito, con aria accigliata. Era l'ultima cosa che si sarebbe aspettato di sentirsi dire e non era davvero certo di aver sentito bene.

«Cosa?» domandò, confuso, schiudendo le labbra.

«Cosa cosa?» chiese il Dottor Bane, a sua volta, abbandonandosi contro lo schienale della poltrona, stringendosi nelle spalle. «Puoi andare, se vuoi.»

Alec era sempre più sbalordito. «Ma come? Così?» domandò perplesso e totalmente spaesato, se possibile ancor più di prima. «Non cerca di dirmi che è per il mio bene? Che dovrei restare? Che dovrei dirle... dirle... qualcosa?»

«Certo che è per il tuo bene. Non mi diverto mica ad ascoltare ogni giorno, per ore, le paure e i turbamenti di mezza città, che ti credi?» disse il terapeuta con la voce che sfumava leggermente in una mezza risatina. «Questi incontri sono fatti per voi, non per me. Dovete essere voi a voler essere qui in primo luogo. Se non volete essere qui, se non volete lavorare con me o non sentite il bisogno di parlarmi io sono automaticamente inutile e chi dice il contrario è solamente un ciarlatano che cerca disperatamente di incastrare qualche cliente perchè non ne trova di volontari a voler spendere soldi per farsi aiutare da lui.» spiegò l'altro guardando il suo paziente dritto negli occhi. «o lei.» si corresse, poi, con un ghigno divertito.

Alec si sentì strano nel sentire quelle parole.

Non si era aspettato un discorso di quel genere.

Si era aspettato di sentirsi ripetere ancora ed ancora le stesse parole che i suoi genitori gli ripetevano già da anni. Dovresti cercare di, Alec. Dovresti provare a, tesoro. Dovresti, dovresti, dovresti. Come se avesse bisogno di sentirsi dire da loro come vivere la sua vita, come se non sapesse pensare già da solo a cosa dovrebbe o non dovrebbe fare! Come se fosse semplice vivere al meglio giorno dopo giorno. Ma quell'uomo non aveva minimamente provato ad imporgli alcun ché, anzi. Era stato l'unico fino a quel momento a dargli la totale libertà di scegliere cosa fare o cosa pensare. E lo confondeva.

«E lei è così bravo che non ha bisogno di convincere la gente a restare?» Alec cercò di risultare sprezzante o poco convinto, ancora in parte ostile a tutta quella situazione ed alla figura di quel ragazzo davvero troppo giovane per vederlo come un riferimento da cui farsi guidare nella foresta oscura dei suoi pensieri più profondi.

Ma Magnus era avvezzo a comportamenti ribelli e poco collaborativi ed Alec non era affatto una sfida per lui. «Beh, ti ho detto che puoi andare ma sei ancora qui, no?» il sorriso sulle sue labbra era divertito, le dita intrecciate fra loro davanti al viso mentre, totalmente rilassato contro lo schienale della poltrona, guardava al paziente con occhi vispi, brillanti.

Alec avvampò in un istante rendendosi conto che aveva ragione. Si alzò di scatto dalla sedia e si affrettò verso la porta senza aggiungere un'altra sola parola, quasi come se avesse avuto paura che da un momento all'altro il terapista potesse ritirare quelle parole e bloccarlo lì.

«Alexander, aspetta»

La voce del Dottor Bane arrivò a fermarlo un istante prima che la sua mano -già ferma sulla maniglia- la spingesse verso il basso aprendo la porta.

Alec si voltò con espressione scontrosa fissandolo con sguardo duro. «Pensavo non pregasse i suoi clienti per rimanere» La sua voce uscì più acida di quanto non avrebbe voluto, sfumata da una leggera intonazione trionfante.

«Piove.» disse semplicemente l'altro indicando con un cenno della mano il tempaccio fuori dalla finestra. «E non credo tu nasconda un ombrello nelle tue tasche. Ti prenderai un raffreddore.»

Alec voltò il capo verso la grande finestra priva di tende e le sue labbra si schiusero.

Il cielo si era fatto ancora più scuro e i pochi raggi di sole che era riuscito a vedere poco prima adesso erano stati letteralmente divorati da nuvole dense e cariche di pioggia. Grosse gocce cadevano dall'alto, colpendo la finestra ad un ritmo instabile ma continuo. Non si era neppure accorto che avesse iniziato a piovere: era come se improvvisamente le parole dell'altro gli avessero aperto un canale con la realtà facendogli sentire solamente adesso lo scroscio dell'acqua fuori dalla finestra, il cozzare della pioggia contro le finestre, i tuoni che rombavano distanti facendo tremare, talvolta, i vetri.

«Aspetta qui che smetta. Hai diritto ad un'ora, sono passati a stento 15 minuti. Appena smetterà di piovere potrai andartene e non tornare più» lo invitò l'altro stringendosi nelle spalle, portando Alec a mordersi nervosamente il labbro inferiore. Non aveva tutti i torti. Casa sua non era esattamente vicina e ovviamente non aveva niente con cui proteggersi dalla pioggia. Probabilmente doveva essere un nuvolone passeggero considerando quanto in fretta aveva iniziato a piovere per cui magari nel giro di mezz'ora sarebbe già stato libero d'andare... Strinse la maniglia della porta un paio di volte guardando la vetrata opaca davanti a sé che lo separava dalla sala d'attesa prima di imprecare a mezza voce e lasciar andare la presa.

Tornò alla sedia abbandonandosi contro di essa con uno sbuffo nervoso, le gambe lunghe distese davanti a sé per quello che era lo spazio che gli era concesso.

Il Dottor Bane non disse un'altra sola parola, neppure lo degnò di uno sguardo. Si mise a consultare l'agenda davanti a sé scribacchiando appunti e numeri su varie pagine, mentre Alec -dal canto suo- rimase seduto a fissare la finestra alla propria sinistra. La pioggia non accennava a smettere, un lampo brillò di tanto in tanto illuminando a giorno la stanza per un secondo soltanto prima di svanire così com'era arrivato.

Era una situazione imbarazzante e fastidiosa: odiava stare in compagnia di gente che non conosceva e, ancora di più, odiava i silenzi densi e carichi d'aspettativa come quello che si creava fra due persone costrette a condividere un piccolo spazio. Pensò e ripensò alle parole dell'altro cercando di capire quanto odiava quell'uomo -o meglio ciò che rappresentava- e di quanto invece poteva dargli credito. In realtà non voleva ammettere a se stesso che in altre circostanze l'avrebbe trovato persino gradevole con i suoi modi pacati e gentili e l'aspetto senza ombra di dubbio affascinante, seppur leggermente sopra le righe.

«Qual è?» chiese d'un tratto allora, Alec, senza voltare neppure il capo dalla finestra, come se non gli importasse realmente di quello che stava dicendo ma volesse solo colmare quel silenzio imbarazzante. «Il primo strumento di cui parlava» specificò.

Il terapeuta alzò lo sguardo dalla sua agenda portandolo sul ragazzo con aria tranquilla ma sinceramente sorpresa. Una sfumatura che durò un istante soltanto prima che le sue labbra s'alzassero agli angoli in un sorriso accogliente.

«La consensualità» rispose, semplicemente, lasciando la penna che reggeva fra le mani, poggiandola fra le due pagine aperte davanti a sé. «Avevo detto ai tuoi genitori di portarti qui solo se tu fossi stato d'accordo a procedere con i nostri incontri, ma mi pare evidente che non abbiano voluto ascoltarmi.» spiegò inarcando appena le sopracciglia. «Beh, ammetto di non essere sorpreso. Tua madre non sembra esattamente il tipo di donna a cui piaccia non avere il controllo su qualsiasi cosa.»

Alec ruotò il capo per guardarlo come se improvvisamente avesse detto qualcosa di sbagliato.

Magnus captò l'occhiata e subito cercò di chiarire il punto. «Non che sia necessariamente un aspetto negativo, sia chiaro. Quello che volevo dire, Alexand--»

«Alec.»

«Come?»

Il ragazzo espirò pesantemente passandosi la lingua sulle labbra sbrigativamente. «Tutti mi chiamano Alec. Nessuno mi chiama Alexander» ammise guardando la zip della propria giacca, giocherellando nervosamente con quella con le lunghe dita affusolate.

Il dottor Bane si sistemò sulla sedia.

«Come mai?»

«Non lo so. E' più breve, credo. Più facile» si strinse lui nelle spalle. «Ormai ci sono abituato»

«Ti piace di più?» domandò l'altro inclinando leggermente il capo, osservandolo.

Alec alzò lo sguardo per fissarlo, l'espressione mite e rassegnata a dover rimanere lì contro la sua volontà, il solito broncio a distorcere le sue labbra. «Non so, non ci ho mai pensato. Non è importante. E' solo più comodo. A volte dimentico di essere io Alexander, quando mi chiamano così.»

Il terapeuta distese la schiena verso l'alto e inspirò a pieni polmoni.

«Beh, personalmente Alexander mi piace molto di più. Ha un bel suono oltre che ad avere un significato importante»

Alec si limitò a stringersi nelle spalle ed espirare piano. «Come le pare» borbottò lasciando semplicemente cadere il discorso. Non gli importava davvero come avrebbe deciso di chiamarlo, dopotutto non si sarebbero più rivisti, non avrebbe avuto molte altre occasioni di poterlo chiamare in qualsiasi senso.

«E lei? Perchè Magnus?» domandò allora dopo un breve attimo di silenzio sollevando lo sguardo verso di lui, assottigliando appena gli occhi.

Lo psicologo sorrise. «Ha smesso».

Alec aggrottò le sopracciglia con espressione interrogativa.

«La pioggia. Ha smesso.» chiarì l'altro ruotando ora il capo verso la finestra.

Alec seguì la direzione del suo sguardo e vide il cielo leggermente più chiaro; le nubi erano ancora grigiastre e dalla distanza si poteva ancora udire il rombo di tuoni lontani ripercuotersi lungo l'orizzonte, ma in definitiva sembrava che per il momento il tempo si fosse calmato. Non pioveva più, solamente qualche goccia scendeva dal balcone al piano superiore passando davanti alla finestra ad intervalli irregolari.

Il ragazzo quindi si alzò e deglutendo, alzò la zip della giacca fino alla gola per proteggersi dall'eventuale frescura dell'esterno.

«Allora.. io... uhm» borbottò lui non sapendo bene come lasciare l'altro dopo quella bizzarra e totalmente inaspettata seduta. «...vado»

Il dottor Bane lo osservò e mantenne quel sorriso cortese sulle labbra senza esitazione. «Va bene.» disse semplicemente senza scomporsi. «Chiudi la porta quando esci»

Alec annuì e, uscendo, si richiuse la porta alle spalle prendendo un sospiro di sollievo. Finita. Era finita. Il cuore nel petto gli stava esplodendo liberando una serie di strane sensazioni nella sua mente. Conforto, benessere, agitazione, insicurezza, colpa. Si sentiva meglio ad essere uscito di lì perchè era quello che voleva fin dall'inizio, ma al tempo stesso iniziava a temere di aver fatto un errore e di aver sbagliato a prendere quella scelta. Timore di aver deluso i suoi genitori, di aver contravvenuto una loro richiesta, di averli contrariati. Di essersi precluso, forse, una buona esperienza. Ma questo non lo avrebbe mai ammesso.

Si diresse a passo spedito verso l'uscita dalla sala d'attesa, venendo fermato dopo pochi passi dalla segretaria.

«Aspetti, Mr. Lightwood» disse la ragazza alzandosi, un'espressione sorpresa e perplessa sul viso.

Alec si voltò per guardarla fermandosi a mezza strada verso l'uscita, le mani infilate ostinatamente nelle tasche dei jeans.

«Sì?»

«Dobbiamo segnare il prossimo appuntamento» disse lei con la penna già pronta in mano, l'agenda aperta sotto lo sguardo.

Alec boccheggiò per un istante, bloccato sul limite di un confine sottile, fissando la porta dello studio che si era richiuso alle spalle solamente una manciata di secondi prima. Il cuore gli piombò in gola e il sangue defluì rapidamente in tutto il corpo in un istante, prima che il ragazzo si prendesse il tempo di rispondere.

«No. Non serve» mormorò scuotendo la testa, prendendo la sua strada verso l'uscita questa volta senza nessuna voce a trattenerlo per restare.

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Shadowhunters / Vai alla pagina dell'autore: AveAtqueVale