2.
Filtri
e Pozioni Piton era un ambiente piuttosto stretto e dai soffitti bassi
e, per accedervi, il cliente doveva scendere alcuni scalini che s’infossavano
poco sotto il livello della strada. A lui si presentava, quindi, una porticina
ben verniciata di un denso nero opaco sopra alla quale l’insegna recitava il
nome del negozio in eleganti lettere argentee su sfondo nero. La sala che
accoglieva i visitatori non godeva di una grande illuminazione e sin dalla
mattina colonne di candele levitanti dovevano rischiarare l’ambiente con le
loro fiammelle. La luce si riversava su scaffali carichi di ingredienti pozionistici, mazzi di erbe appesi, giare di spezie e
alcuni manufatti alchemici poggiati su semplici tavolini in legno. Era una
bottega piuttosto spoglia, in effetti, ma a detta del suo proprietario un
negozio per Pozionisti non doveva avere i fronzoli di
una boutique.
Chi fosse entrato in Filtri e Pozioni avrebbe, sicuramente,
trovato alla cassa – una grossa cassa in ferro appollaiata su un lungo bancone
– una donna minuta, le spalle strette e l’altezza modesta, che ogni mattina si
pinzava i ciuffi biondi che le cadevano sul viso con una molletta a forma di
gatto.
Si era presentata da Piton ormai una ventina di giorni prima. Lui ne era stato
ben sorpreso, perché, naturalmente, non era abituato alle visite: aveva bussato
attorno alle dieci del mattino per presentarsi con quelle parole che lui,
purtroppo e per fortuna, non aveva potuto ignorare.
E ora eccola lì, a porgere sorrisi a
clienti un po’ sorpresi, un po’ guardinghi.
Harry sapeva che quella mattina
l’avrebbe trovata nel negozio. Passeggiando per Notturn
Alley senza particolare enfasi, il giovane passò in
rassegna i luoghi che lui stesso aveva fatto chiudere. Lì sorgeva la bottega
che millantava di vendere potenti reliquie di Voldemort.
Laggiù il negozio di un Mangiamorte era addormentato
dal suo arresto. E qui e là, nei vicoli malfamati, l’Auror
in incognito poteva anche notare altri traffici illegali che avrebbe volentieri
sventato… ma sarebbe dovuto andare oltre. Quel giorno
nessun Potter del Ministero stava camminando per quelle vie.
Quando fu a pochi passi dalla
bottega dell’ex insegnante, Harry s’infilò in un vicolo buio sgombro, trasse
dalla tasca la sua fida fiaschetta e ne bevve il contenuto. Il gusto
nauseabondo della pozione Polisucco gli irruppe nella
bocca.
Il ragazzo, che aveva indossato
abiti e scarpe più larghe del solito, fu colto dall’ormai familiare sensazione
di crescita. Il suo corpo aggiunse alcuni centimetri alla sua altezza, il suo
petto si allargò e i capelli scombinati si ritrassero nel suo cuoio capelluto,
diventando un fine, irto tappeto castano.
Jeremia Jill, impiegato all’Ufficio del
Trasporto Magico, uscì dal vicolo e se ne filò direttamente nella bottega,
aprendone la porta che scricchiolò con raffinato gusto gotico.
«Buongiorno!» trillò la voce
argentina della donna dietro al bancone. Sorrideva cortese, le mani appoggiate
sulla superficie perfettamente pulita.
Jeremia abbassò la testa cupamente in un
saluto del tutto appropriato per la zona. Iniziò a camminare nello spazio
angusto, guardandosi attorno: due grosse credenze mostravano bezoar, minerali
di poco valore, giare piene di interiora di rospo e code di topo.
«Attenzione!» lo avvertì la donna
quando, distrattamente, stava per inciampare in uno dei tavolini sparsi per la
sala. Su di esso stava poggiato un teschio di bufalo.
Jeremia si voltò, non una parola, verso la
parete su cui erano stati appesi diversi mazzi di erbe. Targhette di legno
indicavano il nome dell’erba e il grado di freschezza che possedeva. Un altro
tavolino, stavolta con un vaso pieno di ossicini. Jeremia
si avvicinò al bancone.
«Cerco dell’oro» disse senza
preamboli. «Oro in polvere. Mi serve per una pozione ringiovanente di terzo
grado»
La donna dietro al bancone annuì.
«Arrivo subito allora» disse, prima
di voltarsi e sparire oltre la porta che teneva alle spalle. Jeremia attese per un po’, guardandosi attorno. Poi la
porta si aprì di nuovo e non fu solo la donna a uscirne ma anche un uomo dalla
carnagione olivastra e i capelli corvini che, se non fosse stato per parecchi
fattori, sarebbe potuto sembrare precisamente uguale a Piton.
Però non era lui, andiamo.
L’uomo aveva, innanzitutto, i
capelli lunghi. Più lunghi del solito, comunque, e non solo sembravano lavati e
spazzolati di fresco, ma erano anche legati in un nodo confusionario. Ed era
anche vestito sì, di nero, ma non come un qualsiasi studente della vecchia Hogwarts se lo sarebbe aspettato, perché a contrastare i
pantaloni neri indossava una camiciola di lino bianca che, probabilmente
intento a mettere mano a quale intruglio, aveva arrotolato sugli avambracci.
«Cercava della polvere d’oro?»
chiese l’uomo. Il tono della sua voce, invece, non era cambiato: strascicato,
duro, quasi disinteressato. Però il dardeggiare dei suoi occhi esperti
dimostrava il contrario.
«Sì» rispose semplicemente Jeremia. Piton lo squadrò, come
riconoscendo qualcosa in lui, ma senza esitare trasse una bilancina da sotto il
bancone e aprì la busta che aveva portato con sé.
«Quanto?» chiese.
«Due dramme» rispose Jeremia.
Piton versò una modesta quantità di
polvere d’oro nella bilancina e, con occhio esperto, misurò e confezionò la
merce. Poi consegnò la bustina alla donna, facendo un burbero cenno di saluto
al cliente prima di sparire oltre la porta.
La donna sorrise a Jeremia.
«Sono cinquanta galeoni» disse.
Jeremia tirò fuori un sacchetto da
cinquanta e li pose sul bancone. Poi sfilò dalle dita della commessa il
pacchetto, salutò abbassando la testa e andò via.
Fuori, un vento gelido colse Jeremia. L’uomo iniziò a scendere lungo la via a passo
lento, senza dare nell’occhio. Una volta in Diagon Alley si mischiò alla ressa che, quasi eterna, affollava la
via dei negozi e lì, in un angolo di strada accanto al muro, si smaterializzò.
Riapparendo all’interno del locale
di servizio dell’ascensore del suo palazzo, Harry diede una ginocchiata contro
uno dei contatori che sbucavano dal muro e imprecò. Aprì la porta sbirciando,
ma non vedendo nessuno si levò dallo stanzino umido e salì un paio di piani, entrando
poi al numero 5 del palazzo.
Nel suo appartamento nessuno poteva
materializzarsi o smaterializzarsi. Erano le protezioni più comuni accordate
agli Auror per proteggere le mura domestiche. Harry
si levò la giacca e l’appese ad uno dei ganci accanto alla porta d’ingresso,
poi s’infilò in cucina e là lanciò sul tavolo, senza tanti complimenti, la
bustina con le due dramme di oro in polvere.
«E cosa me ne faccio di cinquanta
galeoni d’oro io…» mormorò, aprendo il frigo e
prendendo il succo di arancia. Ne bevve un po’ direttamente dal cartone,
pensieroso.
Aveva deciso da un bel pezzo di
entrare nella bottega di Piton per sondare il terreno
con Inga, ma non aveva messo in conto di sondarlo
anche per quanto riguardava il commercio gestito dal suo ex insegnante. Però
vedere che nulla di particolarmente prezioso era esposto gli aveva fatto specie
e aveva inteso che, se avesse voluto spiare l’uomo a cui aveva salvato la vita
più di un anno prima, avrebbe dovuto chiedere merce tenuta nel retro. E così la
sua curiosità l’aveva avuta vinta.
Ed era stato strano. Non si era
aspettato di vedere Piton cambiato, anzi. Non che il
cambiamento fosse stato poi abnorme, ma era comunque evidente. Aveva un’aria
più salubre, più curata e meditata. E poi vederlo senza le sue orribili
palandrane aveva dimostrato che il fisico dell’uomo era comunque diverso da
quelli dei soliti quarantenni con la pancia da birra. Era stato curioso e quasi
piacevole, come spiare nella quotidianità di uno strano animale.
Harry ridacchiò tra sé e sé al
pensiero. Piton era un piccolo rettile insensibile al
caldo del deserto e lui era lo studioso che si imbacuccava nelle sahariane per
andare a studiare.
Guardò l’orologio magico appeso
sopra alla porta della cucina. Mancava ancora un bel po’ prima che la pozione
finisse il suo effetto. Non che avesse fretta. Avrebbe dovuto ingannare il
tempo finché non sarebbe stato pronto ad iniziare la seconda fase del suo
piano.
Fu solo verso sera che l’Auror Potter poté tornare a Nocturn
Alley. Aveva letto di nuovo il fascicolo sul suo
obiettivo prima di vestirsi, poi, soddisfatto del proprio piano, era tornato
per strada, a fendere il buio pesto che già era calato sulla città. Diagon Alley era una bomboniera
di luci, dopo il tramonto: fu con piacere che Harry si appostò all’angolo da
cui, poco prima, era partito per tornare a casa, attendendo che qualcuno si
decidesse ad inciampare su di lui e sulla sua tazza di vin brulé.
Inga avrebbe dovuto smontare per le sei
dalla bottega di Piton. Calcolando che probabilmente
il vecchio acido l’avrebbe trattenuta, il tempo poi di salutare e di scendere
lungo la via deserta, Harry sapeva che l’avrebbe incrociata entro breve.
E, infatti, non passò molto tempo
prima di vederla avvicinarsi, sbucando dal buio di Nocturn
Alley, i capelli biondi e il cappotto bianco bordato
di pelliccia bordeaux che spiccavano nelle ombre della parte peggiore del
centro. Harry attese di vederla arrivare al punto di non ritorno, poi allungò
un passo e la donna e la sua tazza collisero perfettamente.
«Ehy!»
esclamò lei, saltando su. Il vino caldo aveva macchiato il suo cappotto in una
scia di violaceo disastro.
«Oh cielo» fece Harry. «Mi dispiace
così tanto, io… permettimi»
Trasse la bacchetta e con un
movimento si affrettò a riparare al danno mentre la donna lo guardava, la bocca
socchiusa e l’espressione mista tra il divertito e l’arrabbiato.
Harry la guardò, desolato.
«Perdonami, camminavo rasente al
muro per non essere spazzato via dalla gente ma ci siamo spazzati via a
vicenda»
La donna sorrise.
«Non fa niente» disse. «Grazie di
avermi pulito il cappotto»
Harry si strinse nelle spalle.
«Altrimenti avrei dovuto comprartene
uno nuovo» scherzò, e lei fece una risata cristallina. Il suo viso pieno,
tirato su da eleganti zigomi torniti, era di un candore eccezionale e, grandi e
brillanti, sulla pelle spiccavano i suoi occhi castani.
«Mi chiamo Elena» si presentò lei,
allungando una mano a Harry. Lui la prese e se la portò alle labbra.
«Sono Harry» fece lui. Elena abbassò
le ciglia davanti alla galanteria dello sconosciuto e lui sorrise lievemente.
«Senti, lo so che probabilmente
stavi correndo dal tuo ragazzo o a fare qualsiasi tu debba fare, ma… hai cenato?»
Elena rise ancora.
«Stavo correndo proprio a cenare»
rispose. «Da sola. Nessun ragazzo»
«Allora mi permetti di offrirti
qualcosa? C’è un bel posto poco lontano da qui…
almeno posso rimediare alla brutta figura»
Elena lo guardò, sembrava studiarlo.
Harry incassò tutti gli sguardi di lei, avvertendo quasi il suono dei suoi
acuti meccanismi cerebrali. Ma finse così bene che lei sorrise e lo prese a
braccetto.
«Quando uno sbadato gentile ti offre
una cena non puoi rifiutare» disse.
S’incamminarono verso una taverna in
cui Harry non era mai entrato se non con lo sguardo attraverso le vetrate da
cui si vedevano le belle panche rivestite di cuscini rossi, i tavoli illuminati
dalle candele e le coppie intente a discorrere. Il
giovane aprì la porta ed entrò, tenendola poi a Elena.
«Che idillio» commentò lei. Harry
non era sicuro le piacesse: sentiva, infondo, di non essere il solo a recitare.
Però questo sentimento lo incuriosì ancora di più.
«Due?»
Una piccola cameriera si era
avvicinata. Harry annuì e la ragazza scortò lui ed Elena ad un tavolo ben
illuminato, imbandito di piatti di legno e fiori di poinsettia stregati che si
aprivano e si chiudevano.
«Elena» disse Harry, gustandosi il
suono di quel nome. «Non ho incontrato molte Elena nella mia vita»
La donna ridacchiò.
«Non che sia stata molto lunga,
direi» commentò. Harry fece un cenno col capo.
«Touché»
rispose. Lei si stava levando il cappotto, rivelando la tunica nera che le
aveva visto addosso nella bottega.
«Ma comunque, io vengo dall’Ucraina»
aggiunse a mo’ di risposta. «Il mio nome viene da laggiù»
La cameriera non permise a Harry di
rispondere, presentando una lista poco variegata di bevande. Il giovane lasciò
la scelta a Elena e, quando la cameriera si fu allontanata, poté continuare il
discorso.
«Sono stato in Ucraina» disse con
tono rievocativo. «Ero piccolo. In vacanza, coi miei zii»
Nulla di più falso la sua mente
avrebbe potuto produrre. Però riuscì a far passare una subitanea ombra sul viso
di Elena, che però la nascose bene.
«E cosa ricordi?» chiese. Nel mentre
la bottiglia di sidro che aveva ordinato arrivò e Harry riempì i bicchieri.
Elena afferrò subito il suo.
«Ah, Odessa» rispose Harry. «La
Scalinata Potemkin. Mi sentivo minuscolo davanti a
quelle scale. E la Cattedrale. Con quelle cupole fatte d’argento»
«In Russia dicono che le cupole
delle nostre chiese siano dorate così che Dio possa scorgerle meglio» disse
Elena. Harry le sorrise.
«Ed è certamente così, sono
meravigliose. Di dove sei?»
«Turka»
rispose Elena. «Molto lontana da Odessa»
Harry rise.
«Devo sembrare un turista ottuso»
disse.
Elena scosse la testa.
«No, non lo sembri. Mi manca, il mio
Paese» disse, una vena di nostalgia nella voce. Harry la studiò, gli occhi
verdi illuminati dalla luce delle candele.
«Cosa ti ha portata qui?» chiese.
Elena, che aveva iniziato a sfogliare il menu, gli lanciò uno sguardo ma
rispose senza alzare la testa.
«Sono una Pozionista.
Quando ho finito la scuola ho iniziato a fare la gavetta nelle botteghe pozionistiche del mio Paese ma ho sempre sognato di venire
qui a lavorare con un uomo… un uomo famoso nel
settore»
Harry alzò un sopracciglio, curioso,
ma Elena si sporse verso di lui con un bel sorriso.
«Credo prenderò una bella zuppa di pomodoro»
disse.
«Mi lasci con la curiosità di questo
signore?» chiese il ragazzo, e lei rise, leggera.
«No, no. Si chiama Severus Piton. Lo hai mai
sentito?»
Il viso di Harry scolorò.
«Piton?»
ripeté. Lei annuì vigorosamente.
«Siete pronti per ordinare?»
La cameriera era tornata, taccuino
magico alla mano. Elena non attese oltre e richiese subito la sua zuppa. Harry,
un po’ stranito, ordinò lo stesso.
«Sono…
sorpreso» disse poi, quando la ragazza fu andata via. «Sono stato suo allievo.
Di Piton, intendo»
Elena spalancò i grandi occhi
castani.
«Davvero?» esclamò, e parve
sinceramente colpita. «E com’era? Insomma, è evidentemente un tipo strano e… oh, cielo, scusami, ma da quando sono qui non parlo
praticamente con nessuno e la prima persona che conosco…»
«…conosce Piton» concluse per lei Harry. La donna sorrise, abbassando
le lunghe ciglia. Era un gesto che faceva spesso, quando le persone di norma
sarebbero arrossite. Il giovane si trovò a pensare che la bellezza di Inga era davvero senza limiti e un po’ gli dispiacque
ricordarsi che sotto quella bella pelle e quei boccoli biondi si nascondeva una
minaccia.
«Avanti, dimmi tutto, non essere
timida» la incitò, e lei iniziò a parlare a raffica del vecchio, burbero,
solitario Piton. Sentendone parlare Harry si rese
conto di quanto fosse divertente affacciarsi sulle opinioni altrui circa
quell’uomo. Inga ne era illuminata. La sua
eccitazione circa il lavoro alla sua bottega sembrava perfettamente reale e,
infondo, Harry credeva potesse esserlo. Ma perché era così interessata a Piton? Era solo per una fama che, ne era certo, l’ex
professore aveva guadagnato nella comunità pozionista?
Inga si lamentava con fare delizioso del
temperamento burbero di Piton. Harry rise di gusto
quando lo imitò, raccontandole quanto difficile era sopportarlo a scuola. Poi
vide i suoi occhi brillare quando trattò dell’enorme sapienza del Pozionista e lui si ritrovò ad annuire. La zuppa finì in un
mare di parole e il sidro restò ancora finché i piatti non furono portati via.
«Scusami, credo di aver davvero
parlato troppo» disse a quel punto Elena, portandosi una mano alla bocca. Harry
le lanciò uno sguardo e lei, di nuovo, abbassò le ciglia.
«Non hai parlato troppo» disse lui.
«È bello sentire quanto tu sia entusiasta del tuo lavoro»
«E tu?» chiese la donna. «Tu cosa
fai?»
Harry sospirò.
«Io lavoro al Ministero» rispose.
Scrollò le spalle. «Non il posto che desideravo, ma niente»
Gli occhi di Elena si erano induriti
e Harry fece finta di non notarlo. Piuttosto chiese, innocente: «Dolce?»
Lei scosse la testa.
«Forse dovrei andare a casa, domani
sarà una lunga giornata»
Harry pagò la cena senza
preoccuparsi di mostrare a Elena la gran quantità di denaro che aveva con sé.
Lei lo notò e gli sorrise cortesemente quando uscirono dal locale.
«Quindi, che cosa ti fanno fare al
Ministero?» chiese.
«Oh, mi occupo di uso improprio dei
manufatti Babbani» rispose Harry. «Sai, un water
intasato qui, una chiave rimpicciolita là»
Elena annuì.
«Niente maghi oscuri da cacciare,
allora» disse, strizzandogli l’occhio. Harry abbassò le spalle in un gesto
teatrale e lei rise.
«Dai, anche noi possiamo essere
interessanti» sorrise il ragazzo. «Non sono gli Auror
a gestire tutti i disastri che fanno certi maghi»
Elena lo prese di nuovo a braccetto.
«Hai ragione. Siamo simili, io e te:
tu a gestire i lati più basilari della magia, io a vendere la merce più
basilare delle pozioni»
«Senza di noi nulla funzionerebbe,
se ci pensi» rispose Harry, la voce più profonda. Elena lo guardò.
«Sì, è vero. Siamo modesti ma
valiamo» rispose.
Camminarono per un po’ in silenzio,
finché Elena non si fermò accennando, con la testa, ad un palazzo sghimbescio.
«Io ho qui il mio appartamento» disse.
Si allontanò un passo da Harry, poi lo afferrò e gli pose tre baci sulle
guance.
«Grazie mille. Mi sono divertita»
aggiunse.
Harry cercò di stare al passo col
saluto ma non riuscì e lei rise. Il giovane si sfiorò la tempia con un dito.
«Buonanotte, Elena, e grazie della
compagnia. È stato splendido»
La donna abbassò la testa, poi si
avvicinò alla porta. La aprì e prima di entrare guardò ancora Harry.
«Se passi da queste parti fammi un
fischio» disse. «Mi piacerebbe uscire con te, qualche volta»
«Tra un water intasato e un bezoar
venduto» aggiunse Harry. Elena annuì, poi alzò una mano in seguo di saluto e
sparì.
Harry attese di vedere la porta
chiudersi, poi attese ancora, così da sembrare un innamorato da filmetto Babbano da due soldi. Poi riprese la strada, sicuro di
avere addosso un paio di occhi. Occhi malvagi.