Il
weekend arrivò con uno dei temporali più intensi
e fragorosi degli ultimi sei
mesi, oscurando il cielo fulgido di Enies Lobby e rubando alla sede
governativa, durante tutta la giornata di venerdì,
l’appellativo di Isola senza notte.
Era solo novembre, ma dal freddo pungente e
dall’intensità del vento pareva già
inverno inoltrato. La pioggia tempestava i tetti degli edifici e
scuoteva le
finestre del Palazzo di Giustizia come se dovesse sfondarle; il
vessillo del
Governo Mondiale, simbolo di utopistiche promesse di pace e
stabilità, sbatacchiava
impazzito sotto la spinta violenta delle raffiche, minacciando di
squarciarsi e
cedere all’unica forza naturale cui nessuna legge terrena
avrebbe mai potuto
opporsi.
Erano appena le 22:00 e alla torre principale la maggior parte delle
luci erano
spente. Parecchie stanze erano vuote; alcune in via occasionale, quasi
tutte come
ogni giorno a quell’ora: lavorare nel Cipher Pol, del resto,
significava abituarsi
alle trasferte in terre straniere e alla vita senza fissa dimora.
Faceva però eccezione una sala ai piani più alti
del Palazzo, dove la luce
tremula di una lampada ad olio baluginava sul soffitto e si diffondeva
sulle
pareti, proiettando le ombre simmetriche di un ponticello in legno e
quelle sinuose
dei bonsai piantati per tutto il perimetro.
Immerso in questa semioscurità, Jabura se ne stava steso sul
prato che
tappezzava interamente la sua camera, bottiglia di Baijiu
in una mano e rivista a luci rosse nell’altra.
Non c’era modo migliore di trascorrere il giorno della
Scalogna se non in casa,
nella sua ampia, accogliente tana —più simile alla
dimora di un monaco Zen che
a quella di un predatore, in verità— distante con
il corpo e con la mente da
ogni preoccupazione.
O quasi.
Nonostante i 50 gradi alcolici del liquore ingurgitato e le forme
generose delle
“100 FOCOSE MERAVIGLIE DI ALABASTA” a sollazzarlo,
infatti, i suoi pensieri
erano da un’altra parte, più pressanti di quanto
non fosse disposto ad
ammettere.
Avvertiva ancora l’inquietudine provata il pomeriggio prima,
quando il resto
dei suoi colleghi rompiscatole era partito per la missione su Duma, ma
amplificata a mille: gli si era annidata dentro, era cresciuta nella
notte piantando
malevoli radici tanto più lunghe e profonde quanto
più s’ingrossavano il mare e
la tempesta ad Enies Lobby, e pareva chiaro, ormai, che niente
l’avrebbe
sradicata fino all’alba del nuovo giorno.
Tracannò un ultimo sorso d’alcol e si
rigirò la bottiglia vuota tra le mani,
pulendosi la bocca sull’avambraccio libero. Ne aveva scolata
una intera, ma non
poteva essere abbastanza per i suoi standard, non in quella particolare
combinazione di giorno e numero sul calendario.
Avvertiva ancora con troppa lucidità il vento che fischiava
su per le grondaie
e i flash abbacinanti dei lampi che cadevano in picchiata sul mare
color
dell’abisso.
Non che avesse paura, naturalmente. Lui era un lupo: la paura la
conosceva solo
attraverso gli occhi delle sue prede. Poteva incuterla, fiutarla nelle
membra dei
poveri diavoli a cui dava la caccia, ma provarla in prima persona? Mai.
Considerò comunque l’idea di andare in camera di
Rob Lucci a sgraffignare
qualcos’altro da bere; poteva essere divertente: lo
stronzetto, al suo ritorno,
si accorgeva sempre se qualcosa era fuori posto —lui s’impegnava a fargli trovare le
cose fuori posto— e montava su un
casino dell’altro mondo.
Ridacchiò al ricordo dell’ultima presa con cui lo
aveva messo al tappeto dopo
un acceso scambio di vedute circa la “violazione di
proprietà privata”, quindi
rifletté che probabilmente, a quell’ora, il
collega era nel bel mezzo di uno
sterminio di massa.
Un poco lo invidiò.
Se la sarebbe spassata a giocare con quei pirati da strapazzo, su Duma,
a
promettere che non li avrebbe fatti soffrire, che avrebbe risparmiato
le loro
patetiche vite; solo per rincorrerli un attimo dopo, tramutato in lupo,
affondargli le zanne alla gola e sentirli spirare tra le sue fauci,
poco a
poco, tra le strida soffocate e il caldo fiotto del sangue.
Non gli sarebbe neanche importato della missione indetta per puro
tornaconto
personale di Spandam —pur
di fare bella figura con gli Astri durante la sua visita a Marijoa si
sarebbe venduto
il culo, figurarsi quello dei suoi sottoposti!
Ma quello era venerdì 17.
La
festa di compleanno della Sfortuna, il giorno
in cui le sciagure si davano appuntamento e le disgrazie ti prendevano
per mano
e ti tallonavano fino al cesso di casa per tutte e 24 ore;
finché la
mezzanotte, la santissima mezzanotte del sabato 18, non ti accoglieva
nella sua
benevola, amabile normalità.
Jabura
credeva fermamente in quella che per molti
era futile superstizione, perché la sfiga nei suoi
venerdì 17 ci aveva sempre
lasciato la firma: il giorno in cui si era beccato il primo
provvedimento
disciplinare per “brutalità aggravata e non
richiesta”? Venerdì 17; il giorno
in cui Rob Lucci era stato promosso nel CP9 e si era trasferito nella
stanza
accanto? Venerdì 17; e il giorno in cui gli avevano
sfregiato la faccia, che
per poco non ci rimetteva anche l’occhio? Beh, quello non se
lo ricordava, ma
era pronto a scommettere che fosse un dannatissimo venerdì
17.
Un tuono spezzò il filo dei suoi pensieri, rombando
tutt’attorno alle mura che
sembrarono rabbrividire in sincrono con le sue ossa.
Lanciò un’occhiata delusa alla bottiglia vuota.
«Bah. Sono troppo forte per
questa roba!»
La scagliò via, spense la lampada e si distese su un fianco,
chiudendo piano
gli occhi. Una bella dormita era ciò che ci voleva; la
soluzione perfetta per dimenticare
la iella e non pensare alla noia che lo attendeva l’indomani,
nella terra
inviolabile dei capoccia del Governo.
Fuori il temporale non dava tregua, ululando come un demone in permesso
d’uscita
dall’inferno. Tentò di escludere quel rumore
concentrandosi sui suoni a lui
familiari: il brusio delle foglie smosse dagli spifferi di vento, lo
scroscio placido
del ruscello che lambiva le pareti di roccia artificiale, il colpo
secco e
ritmico dello Shishi odoshi sulla
pietra.
Stava finalmente per assopirsi quando qualcosa —qualcosa di agghiacciante— levò
un gemito nel buio.
«-O... OIIII...!»
Il
Lupo riaprì le palpebre. Si guardò attorno
muovendo solo gli occhi.
«Niwatori?» chiamò, poco convinto.
Il gallo non rispose. Per forza: a quell’ora dormiva chiuso
nel chiosco, e
comunque, anche da sveglio, non avrebbe fatto rumore; se
l’era scelto così apposta.
L’ultimo temerario pollastro che aveva osato svegliarlo
all’alba nel suo giorno
libero era finito al forno con un contorno di patate, giù
alla mensa, senza
troppe remore.
Allora ci fu un altro rumore, simile ad un cigolio, e
un’ombra innaturale
apparve nella parete confinante con la stanza accanto.
Jabura era, di fatto, mezzo sbronzo e fece fatica a mettere a fuoco le
immagini
nonostante la vista notturna amplificata dai poteri del Dog Dog. Dopo
che vide, però, volle
appellarsi con tutte
le sue forze all’idea di essere completamente stordito
dall’alcol.
C’era una cosa nella
parete.
Un’escrescenza che sbucava dal muro... un ammasso immondo di
tentacoli. No.
Capelli.
Attaccati al cranio di Kumadori.
«YOOOO... YOOOOI!»
Jabura sussultò, sgranando gli occhi per la sorpresa.
La testa di Kumadori —solo
la sua testa!—
usciva dal muro e ruotava lentamente, come se qualcuno
l’avesse impalata ad uno
spiedo, mentre i lunghi capelli fradici di sangue e pioggia si
protendevano verso
di lui, per afferrarlo.
«Kumadori...!? Perché sei qui??»
A Duma c’erano almeno
cinquecento
pirati, ricordò il Lupo bisognoso di una spiegazione
razionale, cinquecento
dannati avanzi di galera sparpagliati in lungo e in largo per
l’isola, pronti a
darsela a gambe e a nascondersi appena realizzato di avere il reparto
più
cazzuto del Governo Mondiale alle calcagna: era troppo presto
perché i suoi
fossero di rientro dalla missione.
Non ebbe tuttavia il tempo di riflettere ulteriormente che
lì, accanto alla
testa del nativo di Wa, un arto insanguinato sbucò dal muro,
cercò un appiglio
e trascinò lentamente fuori il resto del suo corpo.
L’agente che conosceva la paura solo attraverso gli occhi
delle sue vittime
adesso deglutì, impietrito.
Dalla parete illuminata dai bagliori spettrali del temporale, proprio
davanti
ai suoi occhi —ai suoi occhi di lupo
a cui nessuna oscurità poteva mentire— Rob Lucci
apparve nella sua stanza,
slavato da un pallore cadaverico, i vestiti pieni di sangue e sporchi
di
terra... attraversando la parete.
Come un fantasma.
«Ma che cazzo...!?» si lasciò sfuggire
Jabura, balzando in piedi talmente in
fretta che per un attimo la testa gli girò e
minacciò di fargli perdere
l’equilibrio. «Come hai fatto a...»
«Ja... bu... ra...!» gracchiò
la
Cosa, gelandogli il sangue nelle vene.
Mano sul cuore, da quando conosceva quello stronzetto, anche dopo
averlo conciato
per le feste, anche quando era tornato sfinito due anni prima, con la
schiena
corrosa dai colpi dei cannoni, mai, mai una fottuta volta, lo aveva
sentito
parlare in quel modo. E non era nemmeno certo che la voce provenisse da
lui,
dal momento che non aveva schiuso le labbra di un millimetro.
È così che parlano i
morti?!
«Vieni
con noi, Jabura!»
Un’altra
voce.
Più stridula della prima. Più infantile.
E Kaku apparve accanto a Lucci, anche lui vomitato fuori dalla parete,
anche
lui esangue, la tesa del berretto squarciata e i lacci di una scarpa
che
strisciavano per terra. Camminava lento verso di lui, caracollando
lievemente,
gli occhi tondi, vitrei, spalancati come globi bianchi sulla faccia di
un
burattino senza vita.
«È solo colpa tua» crepitò la
voce del morto con le sembianze di Lucci,
avvicinandosi.
Grandioso!
Ho la sbornia allucinogena!, imprecò
mentalmente il Lupo, ma l’istinto lo portò a
muovere un passo indietro. «Fermi
dove siete! O vi giuro che...»
«Ci ammazzi?» Il faccino di Kaku si
deformò in un ghigno malefico. «Siamo
già
morti. Sbudellati!»
Jabura ricordò con una stretta alla gola l’ultima
conversazione avuta coi due
colleghi e all’improvviso tutto ebbe senso.
Gliel’aveva mandata lui, la Iella. Doveva andare lui in
missione a Duma.
Doveva morire lui, al posto di Rob Lucci.
Un lampo illuminò a giorno la stanza e nella luce
intermittente le due figure
scomparvero, per riapparire subito dopo ad un palmo di naso da lui.
«Ho detto FERMI, maledizione!!»
Ma
i morti non ascoltavano, non intimidivano di fronte alle minacce.
Cercavano
solo vendetta.
«Oggi morirai anche tu, Jabura.»
«Anche tu!» rise Kaku. «ANCHE
TU!» Allungò
le braccia, pronto a stringerlo in un abbraccio mortifero.
Jabura vide per la prima volta la paura con i suoi occhi, e questo a
Lucci e
Kaku sarebbe potuto bastare.
Sarebbe potuta finire lì, al loro segnale: con Fukuro che
saltava fuori dal
Door Door di Blueno e immortalava la faccia terrorizzata del Lupo con
uno
scatto fotografico; con Jabura che realizzava —imprecando in
ogni lingua nota nel
Vecchio e nel Nuovo Mondo— che tutta quella situazione
paranormale era solo scaturita
da un buon Soru, dalle doti da ventriloquo di quello stronzo
addomesticapiccioni
di Rob Lucci, e —in minima parte, certo— dalla sua
suggestione.
Tutti i membri del CP9 avrebbero potuto ricordare, a distanza di anni,
quello
stupido scherzo come un grande trionfo sul primo esperto di bugie e
tiri
mancini, e rinfacciarglielo per il resto dell’esistenza.
Ma quello era venerdì 17, e la festeggiata non
mancò all’appuntamento.
Fu un attimo.
La
porta d’ingresso si spalancò con uno stridulo
cigolar di cardini nell’esatto momento in cui una folgore,
gravida delle sue
centinaia di milioni di volt, impattò sul Cancello della
Giustizia.
Il tuono deflagrò con una violenza assordante, inaspettata.
Tutto si accese di un
rosso vivo: in quell’attimo sembrò che persino dal
cielo piovesse sangue.
Jabura sentì la morte incombere su di sé come una
mannaia vibrata in aria, annunciata
dal grido di terrore di una giovane donna —troppo
occupata a tener chiusa la zip di Fukuro
per poter coprire la sua, di bocca.
Semplicemente perse il controllo.
Come una fiera impaurita si voltò verso la porta,
caricò il colpo e ruggì, con
tutto il fiato che aveva nei polmoni: «RANKYAKU!»
Il lampo azzurro squarciò l’aria, falcidiando ogni
stelo d’erba sul suo
passaggio. Distrusse l’intonaco, tranciò qualche
alberello sfortunato che aveva
messo radici vicino all’ingresso e finì col
travolgere in pieno il suo bersaglio.
Veloce com’era arrivata, la Sfortuna levò le
tende, spegnendosi nell’eco surreale
della tempesta elettrica.
«J-J-ah...haaaaa-»
Jabura deglutì.
Non capiva.
Non ci capiva assolutamente nulla, e la luce calda e guizzante dei
candelabri fissati
alle lesene del corridoio che ora illuminava il corpo disarticolato del
direttore Spandam, stecchito sulla soglia della sua stanza, non era
d’aiuto.
«Oh... merda!»
Kaku era sempre stato un bambino educato e obbediente, e col senno e la
calma
del poi, Jabura avrebbe ricordato con soddisfazione quella prima volta
in cui
gli sentì pronunciare una parolaccia.
«Questo non era previsto...»
«Sarà
morto?»
«Tanto vivo non è più di
sicuro...»
Le luci della stanza si accesero, restituendo il verde brillante al
prato, il
bianco candido alle piume di un sonnecchiante Niwatori e il rosso
vermiglio
alla faccia martoriata di Spandam.
«Cosa diavolo... »
Più i minuti passavano, più Jabura non ci si
raccapezzava. Di certo, vide solo
che dal muro della sua stanza, là dove era sicuro non
esserci alcuna porta o
finestra, ora erano saltati fuori Fukuro, Kumadori —tutto
intero—, Califa e
Blueno.
«Ma che cazzo sta succedendo??» proruppe, fuori di
sé.
«È il mio nuovo frutto del diavolo. A dopo le
spiegazioni...» spiegò
telegrafico Blueno, per avvicinarsi subito a Spandam col resto dei
colleghi.
«Tu... hai... COSA...?!!»
Ora Jabura
cominciava a capire —no: fiutava limpidamente la puzza di
presa per il culo— e
la cosa non gli piaceva affatto. «EHI!!
Com’è che non sono stato informato?!»
Si voltò furente verso Lucci, che se ne stava in piedi a
contemplare Spandam con
la stessa pietà che avrebbe riservato a una lumaca di mare
spappolata su un
selciato. Lo vide storcere appena le labbra: «Bravo, idiota,
hai ucciso il
capo!»
Jabura formulò così tanti insulti tutti in una
volta che il risultato fu
un’implosione di massa dei suoi centri nervosi. Un
preoccupante tic gli
comparve all’occhio sinistro, mentre sobbolliva e
boccheggiava dalla rabbia.
Stavolta lo avrebbe massacrato! Lo avrebbe ridotto in pezzetti
così piccoli che
ci avrebbero potuto fare la carne in scatola con Rob “NATO
STRONZO” Lucci, così
finalmente avrebbe compiuto un gesto altruista verso
l’umanità!
«DISONORE!!! REPRIMENDA!! DI CHE COLPA CI SIAMO
MACCHIATI??!» si disperò
Kumadori, sguainando la katana «URGE IL MIO SACRIFICIO! ...SEPPUKU!!»
«Non è che se muori risolviamo
qualcosa...»
«...TEKKAI!»
«ALMENO FALLO COME SI DEVE, IMBECILLE!!»
«Chapapapa!! Siamo licenziati, è
così?»
«Calmatevi» sospirò Blueno
«È... Credo sia ancora vivo.»
Spandam, in effetti, rantolò qualcosa di incomprensibile.
«Sono i versi di un maniaco sessuale. Dobbiamo dargli il
colpo di grazia!»
«No, no» Constatò amareggiato Kaku,
sentendo il battito irregolare del
direttore sotto le dita. «Penso che possa
cavarsela...»
«E tanti saluti all’occultamento del corpo...
Chapapa.»
«Ben vi sta!» Esclamò Jabura.
«Vi licenzierà e vi spedirà ad Impel
Down seduta
stante!»
«Se
licenzia noi, licenzia anche te» osservò sdegnoso
Lucci «La colpa è solo della
tua idiozia!»
«La colpa è di chi non ti ha freddato nella
culla!!»
«Basta, voi due!» li separò veemente
Blueno. Era davvero seccato, oltre che rassegnato
all’imminente punizione, perché lo
sapeva
che sarebbe finita male. L’aveva detto sin
dall’inizio, agli altri, che lo
scherzo era una pessima idea, che lui non voleva entrarci nelle loro
—stupide, ma guai a dirlo
davanti a Rob
Lucci— questioni; ma quelli no, lo avevano dovuto tirare in
ballo a tutti i
costi dopo aver visto il suo Paramisha! «Lo porto in
infermeria.»
Prese Spandam tra le braccia robuste e lo sollevò come fosse
un fuscello, o un
bell’addormentato che di bello non aveva più
nulla, dopo l’intervento di
chirurgia estetica ad impatto di Cutty Flam e Jabura.
Con la medesima rassegnazione e conturbato dal rammarico di non aver
potuto pestare
—non ancora— gli autori del complotto ai suoi
danni, il collega più anziano lo
seguì: «Vengo con te.»
Lucci, Califa, Kaku, Fukuro e Kumadori restarono fermi, impalati sul
posto, chi
a cercare chiocciole sull’erba, chi a pulirsi le lenti linde
degli occhiali su
una pezzuola, chi a esaminarsi i lacci delle scarpe.
Jabura investì le facce da gnorri dei colleghi con
un’occhiata minacciosa. «Avete
bisogno dell’invito??»
«Che spudorato!! Mi stai chiaramente molestando!»
«Mmmm...
Mi ritiro nell’intimità del mio rifugio
sicché possa scongiurare gli Dèi di perdonare le
nostre colpe! Yo-yoooi.»
«Il capo si arrabbierà. Io non vengo.
Chapapa.»
«MUOVETEVI O VI SPINGO A CALCI IN CULO PER LE
SCALE!!»
Blueno diede due colpi di tosse, schiarendosi la voce, poi
guardò l’unica
persona davvero in grado di scuotere il gruppo.
Rob Lucci sostenne impassibile il suo sguardo finché il
senso di responsabilità
e di giustizia che gli avevano inculcato sin dai suoi primi anni di
vita non
prese il sopravvento.
«Va bene» disse sfilandosi le mani di tasca
«Diamoci una ripulita e scendiamo
anche noi.»
In questi giorni vado sempre di corsa, ma non posso esimermi dal lasciare alcune note (le ho inserite anche nel primo capitolo, a beneficio dei lettori futuri), perché questo capitolo è il cuore della storia e alcune precisazioni vanno fatte. Non voglio annoiarvi, andrò veloce come il Rocket Man:
- Al CP9 ci si diverte con poco, ossia usi alternativi del Door Door
La chiave di volta della storia che ha reso possibile lo scherzo ai danni di Jabura, lo avrete capito, è il Door Door che Spandam ha consegnato a Blueno alla fine dello scorso capitolo. Il Lupo non sapeva che l'avesse mangiato, non sapeva neanche dell'esistenza del Frutto stesso, per cui tutto ciò che è accaduto, ai suoi occhi appariva assurdo, inspiegabile, paranormale: ho cercato di farvi immedesimare in lui, ma spero che la situazione vi abbia anche strappato un sorriso. Voi potevate immaginare cosa stava succedendo, Jabura no!
- Lucci, Kaku e la performance da zombi
Tutta la “scena horror" era amplificata dalla suggestione di Jabura e dal fatto che fosse un po' brillo (forse era meglio dedicarsi solo alle Bellezze di Alabasta?), ma nel manga, a Water Seven, Lucci e Kaku hanno dimostrato di essere ottimi attori; non dubito che fossero capaci di certe bastardate anche in tenera età.
Kumadori, invece, è solo rimasto incastrato nel muro.
- Fukuro e le foto compromettenti
Anche se lo scherzo non è andato a buon fine per un colpo di sfortuna (Spandam, che è entrato nella stanza di Jabura al momento sbagliato nel giorno sbagliato, è la vera vittima in tutto ciò), il suo scopo era quello di terrorizzare Jabura e immortalarlo con una foto. In un contesto completamente diverso, l'espediente della foto è stato usato da kymyit, mia partner di role oltre che scrittrice meravigliosa, in un GDR che scrivo con lei. Il particolare è secondario nel capitolo, ma ci tenevo a precisarlo!
- Citazioni a go go da Stephen King
Solo piccole curiosità, ma magari a qualche fan del Re piacerà trovare conferme: l'isola di Duma cita il nome e l'ambientazione di Duma Key, uno dei miei romanzi preferiti di King, ambientato su una splendida isola della Florida (che non esiste nella realtà, ma appartiene idealmente all’arcipelago delle Keys); mentre l'esclamazione di Kaku a coronamento della scena horror («Anche tu! ANCHE TU!») è una citazione del famoso tormentone di It (di recente uscito al cinema con un remake): «Galleggerai anche tu!»
Non volevo che Jabura galleggiasse, ma Kaku bambino nei panni di un malefico Georgie Denbrough posseduto da It era uno spettacolo troppo bello per non essere concepito, anche solo nella mia testa.
Chiarimenti ulteriori e retroscena sulla vicenda nel prossimo capitolo, che sarà anche conclusivo di questa mini-long.
Vegethia