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Autore: _Polx_    25/11/2017    5 recensioni
Il suo non era un animo credente: di rado gli capitava di pregare e mai offriva oblazioni agli Dèi. Quel giorno, tuttavia, decise di seguire un antico rito nella disperata speranza d'ottenere ascolto. Incise un lieve taglio sul palmo della propria mano e lasciò che il sangue spillasse nel piatto di rame, poi pregò in silenzio perché, sebbene gli risultasse tremendamente difficile da ammettere, cominciava a temere per la vita di quel bambino.
Genere: Drammatico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'Piccole anime infelici'
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Si risvegliò colmo d'angoscia, poiché non sapeva quanto tempo avesse trascorso nell'incoscienza e il cielo cominciava già a tingersi d'oro. Tuttavia, sebbene respirasse con la fievolezza d'una brezza morente, in Astar vi era ancora vita. Questa consapevolezza rinfrancò Asor, poiché le quindici ore previste erano trascorse da molto e, come da lui sostenuto fin dal principio, il sangue della Prima Stirpe aveva infuso al piccolo una tenacia negata ad altri.
Sobbalzò quando udì la voce di Diamante alle proprie spalle: “non dovresti attardarti oltre”.
Lui la guardò: fioca, insonne, gli occhi annebbiati, i capelli scarmigliati.
“Non hanno bisogno di me” replicò.
“Tuttavia pretendono che presti fede al tuo servizio”.
“Non hanno bisogno di me, ora” ribadì.
“Non puoi assentarti tanto a lungo” lo sovrastò con altrettanta insistenza “comprenderanno dove ti trovi, incolperanno me e Astar della tua negligenza e in questo momento lui davvero non necessita del loro odio” il suo sguardo era ora implorante “vai via, Asor. Lasciaci soli. Dimenticati di noi, ora che finalmente puoi farlo”.
Asor non trovò parole per zittirla.
Si chinò accanto al capezzale e avvicinò a tal punto il volto a quello di Astar da percepire sulla propria fronte il febbrile calore della sua. Bisbigliò poche parole in una vecchia lingua, antiche preghiere appartenenti alla Prima Stirpe, poi volse all'uscita: “tornerò prima dell'imbrunire”.
Aprì la porta e lì si bloccò, perché vide di fronte a sé un uomo che conosceva: Ruben, Comandante suo pari, molto caro al Generale che ostinatamente gli aveva negato qualunque sostegno poiché figlio della sorella di questi. Ad accompagnarlo erano sei soldati, arrivati fin lì su un grosso carro che ora sostava a pochi passi dalla dimora di Diamante.
Fu Ruben a spezzare il silenzio: “pare che finalmente si sia per te riaperta la strada verso la nomina a Generale. Entro qualche mese sarai mio superiore”.
Asor ignorò quelle parole: "mi assento qualche ora e già viene richiesta la mia presenza?" provocò piuttosto.
"Ci è stato riferito d'un corpo da reclamare" fu la concisa risposta.
Il Comandante lo guardò stranito e non seppe rispondere con prontezza, tanto che due sottoposti lo superarono senza remore e varcarono la soglia di casa.
"Le vostre informazioni sono errate" asserì infine, poi osservò con più attenzione il grande carro su cui erano giunti i soldati. Scorse piccole membra scavalcarne le travi lignee, alcune già livide di putrefazione, altre ancora bianche come cenci.
Il suo stesso voltò impallidì come se tutto il sangue ne fosse stato drenato: "Ruben, non vi sono corpi da reclamare" ribadì e il panico acuiva la sua voce "v'è un malato, questo è vero, ma respira ancora, Ruben, respira ancora" faticava a dividere la propria attenzione tra gli uomini che, ignorando le proteste di Diamante, ne invadevano la casa e le parole dell'altro Comandante.
"Fingerò che la visita effettuatasi la scorsa notte in questa casa sia avvenuta in via legale" replicò Ruben "detto ciò, pare che l'infermo qui ricoverato abbia superato ogni tempistica prevista per la sua sopravvivenza. Non è saggio ignorare la minaccia d'un cadavere infetto: deve essere prelevato e smaltito".
"Ma non vi è cadavere" inveì Asor "guarda tu stesso, Ruben. Non vi è cadavere. Il bambino è vivo".
"Non è ciò che ci è stato riferito dal medico che così gentilmente s'è offerto di visitarlo la scorsa notte" insistette l'altro con aspro sarcasmo.
"Quel medico è un ciarlatano e spezzerò le sue ossa quando scoprirò il motivo per cui abbia accettato d'abbassarsi a simili menzogne".
"Lui non ha colpa. Ha riferito la situazione del tuo bastardo, come da protocollo, e ha sottolineato la soglia delle quindici ore entro cui il bambino sarebbe morto. Ne sono trascorse ventidue".
"E il bambino vive ancora!" lo sovrastò Asor, scosso dai fremiti dell'ira e della paura.
Poi un uomo in armi uscì dalla dimora con un'esile figura avvolta nelle coltri, caricata sulle sue spalle. La voce di Diamante squillava oltre la porta chiusa, ma le era precluso qualsiasi intervento.
Asor comprese e cercò d'intervenire, ma fu fermato.
"Ruben, non hai il diritto di fare questo. Non ne hai il diritto!".
"Il tuo spirito è evidentemente alterato" lo liquidò l'altro "non vorrei che ti compromettessi a causa del tuo temperamento".
"Stai per seppellire un vivo".
Quello sbuffò, spazientito.
“Da quando i Comandanti supervisionano il recupero delle vittime del morbo, Ruben? Da quando?”.
“Da quando nomi come il tuo risultano turpemente coinvolti nella triste vicenda”.
“Turpemente? Quello è mio figlio, Ruben. State per gettare mio figlio in una fossa comune. Per le divinità, cosa devo fare per farti riacquistare la ragione?”.
“Non comprendo il tuo turbamento. Manterremo la più completa discrezione sull'accaduto e il tuo nome sarà nuovamente lindo. Festeggia anziché disperarti”.
Quando vide Astar scaraventato nel carro, Asor agì senza pensare e colpì duramente i due soldati che cercavano di trattenerlo. Ruppe la mandibola a uno e spezzò il naso dell'altro.
“Uomini, per favore, tenetelo a bada” sospirò Ruben, rimontando in sella “il Generale rivuole il Comandante Asor in servizio entro tre giorni: ammanettatelo e gettatelo in cella per una notte, se necessario. Lasciate che sbollisca”.
E così fecero.
Fu trattato con ogni riguardo e non vi era chi osasse rivolgersi a lui senza ostentare il più profondo rispetto, ma ciò non gli impedì d'essere trattenuto all'interno di solide mura, i polsi incatenati, perché aveva dimostrato di saper essere pericoloso e aggressivo, se avvicinato in momenti di particolare livore.
Tuttavia, infine il suo spirito si sopì, arreso, annichilito, e il Comandante stette nella propria gabbia senza più minacciare ribellioni, né proferir parola.
Al calare della sera seguente, passi lievi si avvicinarono alla prigione e un'esile figura si fermò di fronte alle sbarre, proiettando la propria ombra su di lui, che pure non badò ad essa, né alzò lo sguardo.
“Hanno ingabbiato entrambi. Tu in una cella, io nella mia stessa casa”.
Asor riconobbe la voce di Diamante e solo questo riuscì a ghermire la sua attenzione. Sollevò il capo e la guardò stranito, speranzoso persino, ma lei vestiva a lutto e pareva trascinare le tenebre con sé.
“Sono riuscita a fuggire” continuò la donna “e ho seguito le loro tracce. Sono giunta con troppo ritardo”.
Asor scosse il capo, distogliendo lo sguardo, pregandola di tacere, ma lei proseguì: “la fossa era ormai colma e tutto ciò che conteneva carbonizzato. L'hanno bruciato assieme agli altri”.
Dovette tacere, poiché le catene stridettero come armi in battaglia quando lui le sbatté con tale violenza da scuotere le loro saldature e un nome fu quello che con incommensurabile odio scaturì dalle sue labbra.
Chiamò Ruben più volte. Lo insultò. Lo sfidò a mostrarsi e ad avere il coraggio di sfoggiare la propria vigliaccheria di fronte a lui.
Diamante attese che desse sfogo alla propria collera: “è stato un onore conoscerti, Comandante” concluse allora “e ti chiedo perdono per tutti i guai che ne sono seguiti” poi gli voltò le spalle.
A quel punto fu il suo nome che Asor invocò, con incertezza e supplica, ma lei non gli diede ascolto. Camminò nell'ombra che calava dai cieli e gravava sul suo cuore, fino a scomparire nelle tenebre che l'accompagnavano.
 
 
  
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