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Autore: Il_Signore_Oscuro    22/12/2017    3 recensioni
Il mondo si ricorda solo dei grandi personaggi, di coloro che hanno avuto un ruolo centrale negli eventi più importanti del suo tempo. Mentre il grande meccanismo della Storia divora tutto il resto, precipitandolo nell'oblio. Io però ho scavato e scavato, consegnando alla vostra memoria una storia diversa, una storia che era rimasta nell'ombra. Una guerra più profonda, e combattuta lontano dagli occhi dei molti...
Da oltre dieci generazioni i Cangramo sono i leali alfieri degli Argona, i potenti sovrani della costa orientale di Clitalia, la terra divisa fra i molti re. I Cangramo dominano su una piccola contea nell'estremo sud-est, una contea che comprende il Porto del Volga, la Valspurga alle pendici del Monsiderio e l'antica Rocca Grigia, costruita su un'altura a strapiombo sul mare. I quattro fratelli Cangramo cercheranno di ritagliarsi un posto in un mondo violento e insidioso, intessuto di amori, battaglie, inganni e segreti. Mentre lontano dagli occhi, un male a lungo dimenticato, antico e potente, getta la sua ombra sul futuro degli uomini...
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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CAPITOLO IX
La mano che ti nutre
(Carlo)
 
 

Il viaggio di ritorno verso Argonia aveva richiesto due giorni e mezzo, fra lo smantellamento del piazzaforte e la redazione dei verbali per gli archivi. La marcia fu meno serrata rispetto all’andata, non v’era più alcuna preoccupazione nel cuore dei soldati, se non quella di sorvegliare i prigionieri e ubriacarsi una volta ritornati alle loro case. Quando la capitale delle Coste dell’Est fu in vista, il sole di mezzogiorno si stagliava alto in un cielo terso e il suo tocco era gentile e tiepido sulla pelle, sotto le armature. Tutto ciò di cui Carlo aveva voglia era riempirsi la pancia, e stendersi sul letto per lasciarsi cadere in un sonno profondo. Quando si fosse sentito pienamente riposato avrebbe provveduto a scrivere una missiva per suo padre.
Principe e cavaliere procedevano innanzi, tenendo il passo, nell’ampia Via del Sale : una strada che percorreva la costa dell’est in tutta la sua estensione, connettendo fra loro le più grandi città, tutte vassalle del potente re di Argonia.

La marcia proseguiva con relativa calma, i soldati certo chiacchieravano animatamente fra loro, discutendo cosa ne sarebbe stato dei ribelli catturati o se l’impresa sarebbe valsa un aumento di stipendio, c’era ancora chi contava i giorni passati da quando si era sbattuto una baldracca nel bordello. Insomma, i soliti discorsi. Ma poi un gracchiare rauco al ciglio della strada spezzò la quiete,  proveniva da qualche parte oltre un albero contorto. Un odore dolciastro si insinuò nelle narici del giovane cavaliere, preparandolo a ciò che avrebbe visto di lì a poco, mentre la via si curvava lievemente…
due corvi si contendevano un occhio, fu il più grosso ad avere la meglio. Emise un verso trionfante e con Il suo becco scuro si mise a scavare nella pupilla, strappò via l’iride e la mando giù con un solo boccone. Era un banchetto quello che si parava davanti a tutti loro: un banchetto di mosche, vermi e cornacchie; di stralci di pelle strappati via e smangiucchiati; di lembi di carne viva messa a nudo.
Dalla bocca spalancata fuoriusciva la punta smussata del palo di legno, penetrata attraverso il corpo di quel povero disgraziato “Per i sette inferi, gliel’hanno infilato su per il culo…” alla base il legno si era impregnato di sangue ormai secco e macchie di merda scura, miste a ciò che rimaneva degli intestini dilaniati.
«Guardatelo, s’è cagato addosso tanto gli è piaciuto!» si sbellicò uno dei soldati, insieme a due commilitoni. Un cartello appeso al collo del morto recava un’unica scritta, incisa a caratteri cubitali SODOMITA. Carlo guardò ad Alfonso, mordendosi le labbra, gli occhi sbarrati: il Principe fissava il cadavere, sforzandosi di celare qualsiasi emozione gli erompesse dal profondo. Ma il cavaliere sapeva, sapeva cosa agitasse in quell’istante il suo animo orgoglioso
«Voi tre!» tuonò a un tratto «calate giù quel disgraziato e dategli una degna sepoltura».
«Ma, mio signore, vostro padre-» provò a protestare uno dei soldati, con un insulso pizzetto a scurirgli il mento.
«Mio padre» il Principe voltò il sauro dal manto fulvo, la sua voce era ferro rovente «non è qui con un esercito di uomini a cui basterebbe un ordine per metterci te su quel palo» si avvicinò all’uomo, la sua voce era ora come lo schiocco di una frusta «sono curioso soldato: tu e i tuoi amici vi cagherete addosso con un tronco di legno a sfondarvi il deretano?». Carlo provò una certa soddisfazione nel vedere umiliato chi aveva tirato fuori una così infelice battuta, ma ciò che divertiva lui non era un bene per il Principe, non questa volta.
I tre non osarono replicare e munendosi di accette si industriarono per togliere quel morto dalla vista, bofonchiando qualche protesta a bassa voce. Il resto degli uomini ritornò alla marcia verso Argonia, come se nulla fosse accaduto.

Carlo guardava con premura al suo signore. Non vi fu bisogno di parole, bastò uno sguardo perché i due si distanziassero all’unisono dal resto della colonna.
«È stato stupido alterarsi così per una battuta, questo lo sai, vero?» sibilò il cavaliere, lanciandogli un’occhiata in tralice.
Lui non rispose, non subito almeno. I suoi occhi erano lucidi, le labbra serrate in una morsa di teso silenzio.
«Non puoi comportarti in questo modo, non di fronte agli uomini. Avranno sospetti, inizieranno a spargere dicerie sul tuo conto!» quel mutismo lo stava seriamente irritando, ma finalmente Alfonso si decise ad esplodere, facendo ben attenzione che la sua voce non superasse un certo volume.
«A te non fa incazzare?!» ringhiò «Il pensiero che potevo esserci io al posto di quel disgraziato, o magari tu!» il suo labbro inferiore tremolò.
Carlo denegò col capo, sospirando «Abbiamo sangue nobile nelle vene, il tuo più del mio, nessuno oserebbe tanto».
«Non esserne così sicuro, Cangramo.» concluse, con tono acido, cacciando il cavallo al galoppo per i pochi metri che ormai li separavano dalle porte della città. E intanto Carlo rimaneva indietro, sospirando al pensiero di ciò che gli sarebbe toccato fare di lì a qualche ora “Non lascia simili questioni in sospeso, non lo fa mai…”.
Come per allontanarsi dai pensieri oscuri dell’imminente futuro, i suoi occhi si levarono a contemplare Argonia, la magnifica capitale della Costa Orientale.

La città era cinta da un anello di mura di forma ottagonale, con il porto che si diramava in massicce dita di pietra verso est. La roccia candida era rinforzata di placche di bronzo sui merli: in giornate assolate come questa, a Carlo sembravano gli artigli rapaci di un falco predatore. Su le torri di guardia si potevano scorgere le punte oblunghe delle macchine da guerra: scorpioni, i cui dardi avrebbero infilzato cinque uomini disposti l’uno in fila all’altro, completi di armatura e maglia di ferro. Da lontano poteva sentire rumoreggiare il mare. Chiuse gli occhi immaginando la spuma salata insinuarsi fra i ciottoli, quella scena quietò il suo animo.
Rimase qualche istante a contemplare i drappi di tessuto ai lati del portale: recavano il passero d’oro in campo azzurro. Ricordava la prima volta che aveva visto quello stemma, ricordava la prima volta che aveva visto Argonia: non aveva mai potuto credere che potesse esistere al mondo una fortezza come quella, o perlomeno che nessuno fra gli uomini potesse erigerla.
Se Argonia era una ballata epica, musicata dalla melodia di cento e più violini, con fiati annessi, la Rocca Grigia di contro sembrava una canzonaccia da taverna, accompagnata alla bell’e meglio dal ruttare degli avventore ubriachi. “Eppure talvolta mi manca la mia melodia da taverna” pensò, mentre si riuniva ad Alfonso alle porte della città.
Quando giunse anche la colonna, il portale di quercia, con rinforzi in piombo, si spalancò e una folla festante cominciò a bersagliarli con fiori e grida di giubilo. Urlavano di gioia, tutti quanti: dai popolani ai lati della strade ai bambini che intralciavano il cammino dei cavalli, levandosi di mezzo solo all’ultimo secondo; dalle signore sui balconi, alle allegre puttane nei bordelli. “La metà di loro non ha neanche idea di cosa abbiamo fatto là fuori” una margherita dai petali sgualciti gli balzò sulla sella “a loro basta festeggiare e starnazzare: galline in un pollaio!” pensò il cavaliere, lanciando in terra il fiore con un dito. Alfonso d’altra parte aveva mollato il broncio e adesso offriva al popolo di Argonia i suoi migliori omaggi e sorrisi, levando il braccio e salutando trionfante.

Se qualcuno avesse visto Argonia dall’alto, avrebbe certo pensato che somigliasse alla ruota di un carro: otto grandi strade erano i suoi raggi, divisi l’uno dall’altro da file ordinate di abitazioni, attività commerciali e artigianali di vario tipo. Ogni cittadino, dal più umile dei manovali al più ricco dei mercanti, residente ad Argonia, viveva in un edificio eretto in solida pietra. Dal suo arrivo Carlo non aveva mai veduto una singola casa che fosse stata tirata su’ a legno e paglia. Certo, non tutte le abitazioni erano uguali: man mano che ci si avvicinava al centro le dimensioni e la magnificenza cresceva, le case che davano sulla piazza inferiore del Palazzo Reale erano costellate di merli intagliati in forma di grifoni, sirene e altre creature mitiche. Invece quelle a ridosso delle mura erano dotate del solo pianterreno, semplici ed essenziali nell’aspetto e nell’architettura.
Ad un punto la strada iniziò a inclinarsi in una salita, nel frattempo la folla aveva cominciato a ritirarsi e il grosso dei soldati si era disperso, per riunirsi alle proprie famiglie. Alfonso e Carlo smontarono da cavallo e insieme salirono i settanta scalini che attraversavano la Piazza Inferiore e la Piazza Superiore, portando direttamente al cortile su cui si affacciava la porta del Palazzo. Nei giardini tutti intorno, i nobili della corte li osservavano da debita distanza, protendendosi in inchini e riverenze al loro passaggio o a un loro cenno di saluto.
Il vociare della folla era ormai sopito in lontananza, adesso non si udiva che il cinguettio dei passeri e il canto di qualche menestrello nascosto alla vista. Arrivati dinanzi all’ingresso due picchieri si scostarono per lasciarli passare: una cappa cobalto scendeva dalla  spalla sinistra al fianco destro.

Nella sala del trono un gigantesca passero era appollaiato su un ripiano dietro lo scranno. Le piume d’oro e di bronzo delle sue ali si incurvavano come a voler avvolgere il re in un abbraccio, mentre il becco affusolato si rivolgeva verso l’entrata. Ai lati del volto oblungo Carlo vide luccicare i due zaffiri che la statua aveva al posto degli occhi, sostenne il loro sguardo silente senza battere ciglio “Chissà come canterebbe una bestia del genere, che rumore farebbero le sue ali?”. La sua attenzione si rivolse poi al sovrano, il padre di Alfonso e l’uomo a cui il Conte Cangramo aveva giurato fedeltà.
La voce di re Ferrante era acuta almeno quanto quella dell’animale sul suo stemma, c’era chi lo chiamava “Il passero d’inverno”. Dai suoi occhi di un azzurro opaco, quasi grigio, molteplici archi di occhiaie scendevano ad allargargli le orbite contuse. La sua barba del colore della polvere scendeva contorta sul petto leggermente incavato. Gli abiti, una tunica di seta verde mare e la cintura giallo canarino, cingevano un corpo emaciato, tremante come un randagio infreddolito. Quando il re si alzò per accogliere il ritorno di suo figlio, il cavaliere fu convinto di udire le sue ossa scricchiolare.
Accanto al trono c’era un ometto alquanto bassino, il cui abito talare conteneva a stento l’ampia curva del suo ventre.
Quando il re si avvicinò, Carlo poggiò il ginocchio destro in terra e chinò il capo in segno di rispetto.
«Padre» recitò Alfonso, mentre Ferrante gli posava le mani affusolate sulle ampie spalle.
«Mio Re» pronunciò Carlo, baciando l’anello con il sigillo degli Argona.
«Figlio mio, che esito ha avuto la tua spedizione?» chiese il sovrano, giungendo le mani dinanzi al ventre rinsecchito.
«La rivolta del Clan delle Asce è sta sedata. Ho già dato disposizioni perché i prigionieri siano deportati ad oriente» disse Alfonso, scoccando un’unica occhiata all’uomo grassoccio, che non proferiva parola.
«Ben fatto, figlio mio, che siano gli infedeli a sopportare certi piantagrane nelle fila dei loro schiavi» un eccesso di tosse smorzò la sua voce «Hai reso un grande servizio alla nostra casata e ai potenti Orimberga, nostri grandi e magnanimi signori. Dico bene Vicario Toniacci?»
L’uomo fece tre passi avanti e incurvò le labbra in un sorriso mellifluo.
«Certo, mio buon re. Anche se» incrociò le braccia, lanciando un’occhiata incerta al Principe «sarebbe stato meglio che certi uomini, ribellatisi al fato che il Redivivo ha stabilito per loro, fossero stati offerti a lui stesso per essere giudicati»
«Non sono un macellaio, quegli uomini hanno guadagnato il diritto a serbare le proprie vite nel momento in cui hanno gettato le loro spade ai miei piedi» ringhiò Alfonso, accigliandosi.
“Non fare l’idiota… non adesso” pensò Carlo, stringendo i pugni.
«Via, via, non c’è bisogno di alterarsi così» Ferrante allargò le braccia, mostrando un sorriso ebete «i mali che rechiamo agli infedeli sono fonte di letizia per il Redivivo!». A un tratto il re si portò un dito alle labbra e fissò il vuoto per qualche istante «Solo adesso mi rendo conto di non avervi presentati, l’età ormai gioca brutti scherzi alla mia memoria.» la sua espressione si incupì, increspandogli il volto di rughe «Ahimè, il caro Bernardo Picini è passato a miglior vita qualche giorno fa,» si rallegrò nuovamente «ma la Città Santa ha provveduto a rifornirci d’un nuovo vicario, figlio mio. Toniacci, questo è il mio unico figlio ed erede, Alfonso»
«Ho avuto il piacere di sentir parlare di voi, Principe: la vostra fama di condottiero vi precede» esclamò con tono accomodante, porgendo una delle sue mani tozze e sgraziate.
Senza troppo entusiasmo Alfonso la strinse. Uno zigomo del sacerdote sobbalzò, mentre tendeva un sorriso. Quando sciolse la mano dalla stretta, Toniacci se la massaggiò con discrezione: negli occhi vi fu un lampo di stizza.
«Oh, Alfonso» esclamò Ferrante «il Vicario ripoterà ordine e rettitudine ad Argonia. Questa città è, ahimè, piena di peccatori che offendono il Redivivo e il suo Santo Culto. Proprio stamane uno di loro è stato purificato, fuori dalle porte della città».
«Sacra la sua missione, nel nome della Furia» biascicò Alfonso, cavandosi a forza quella formula di rito dalla bocca.
«Che contro il peccatore si scagli implacabile» concluse il Vicario, con voce solenne.
Re Ferrante sembrò tanto entusiasta che poco ci mancava iniziasse a battere le mani.
“Il vedovato l’ha reso demente, in lui non vedo nulla dell’uomo che si dice abbia sfidato il re dei corsari Syrcuzàn” e quel pensiero fu un boccone amaro: la vecchiaia e la pazzia potevano davvero rovinare un uomo.
«E voi Carlo? Vi siete battuto bene, com’è degno della vostra casata?»
Alfonso non gli diede il tempo di replicare
«Mi ha salvato la vita, padre. L’ho insignito del titolo di cavaliere sul campo di battaglia»
«Sono ben lieto di sentirlo!» esclamò il sovrano, scuotendo le spalle del giovane Cangramo «non vi attardate nell’annunciarlo al Conte, ne sarà così fiero! E sì, sì, mandategli i miei saluti!»
«Lo farò al più presto, maestà» replicò Carlo, con un cenno del capo.
«Bene, bene» giunse le mani, volgendo lo sguardo a Toniacci «Vicario, è passato mezzogiorno, volete accompagnarmi al Tempio? Debbo recitare le mie preghiere prima del pasto»
«Fa parte del mio ufficio, maestà» acconsentì l’ometto grassoccio. Senza attardarsi in saluti di congedo, re Ferrante si avviò di gran carriera verso l’uscita del palazzo, seguito a pochi passi di distanza dal sacerdote. Le porte furono richiuse alle loro spalle.

Una volta rimasti soli, Alfonso si guardò intorno per controllare che nessun altro fosse al momento nella sala del trono. Poi i suoi occhi ricaddero pericolosamente su Carlo. Il Principe cavò un sacchetto dalla cotta di maglia e lo lanciò al cavaliere, che pur se preso alla sprovvista lo afferrò al volo, sentendolo tintinnare fra le mani.
«Vai» intimò l’Argona, con tono fermo e perentorio.
«Un’altra volta?!» se lo aspettava, ma avrebbe provato a farlo desistere «Ti scopriranno, razza di idiota, lascia passare un po’ di tempo!»
«L’hai visto quell’uomo alle porte della città, vero? O me lo sono immaginato?!» i suoi occhi lucidi bruciavano di fiamme azzurrine «Vai! Ora!» questa volta arrivò fin quasi ad urlare. Carlo sbuffò, bofonchiando un’imprecazione e si avviò fuori dal Palazzo, lasciando il Principe solo con la sua rabbia e i suoi pensieri.

“Idiota! Idiota! Idiota!” pensò Carlo, assestando un pugno alla parete nel vicolo in cui si era nascosto per tirar su il cappuccio che adesso gli celava il volto “E ancor più idiota sono io che gli vado dietro”.  Un gargoyle lo fissava con i suoi occhi di pietra dall’alto del cornicione di marmo nero, venato di un grigio pallido e fumoso. “Per i sette inferi, capisco che non facile vedere che tuo padre ti vuole morto, ma rischiare una guerra solo per questo?! Quale padre non vuole vedere morto il proprio figlio? Sennò che ci manderebbero a fare nei campi di battaglia? Sì, armati di spada e scudo solo per zittire la loro sporca coscienza”. Melodie oscure si celavano dietro l’accecante bellezza di Argonia “Un re demente e un principe sentimentale” Carlo sputò in terra, avviandosi guardingo verso la casa con i gargoyle di guardia ai cornicioni.

L’abitazione di Lucio Manfredi era la più vistosa fra quelle che circondavano il palazzo reale: l’edificio si sviluppava per quattro piani su una base rettangolare. Pareti di roccia bianca si alternavano a sezioni di marmo scuro, sulle quali erano appollaiate le grottesche creature alate, dai volti cupi e silenti.
Carlo pose la mano sul battente e bussò tre volte, ascoltando il cigolio metallico e il rumore che echeggiava all’interno. Rimase in attesa, passando il pollice sulla testa di passero della daga: in qualche modo sembrava quietare l’ansia che gli si arrampicava su per la gola. Batté la punta del piede sul pavimento, ritmicamente. Fino a quando dall’interno non provenne un rumore di passi e la porta si aprì con un cupo cigolio. Il valletto indossava una livrea nera con i risvolti argentati, aveva la pelle bronzea tempestata di minuscoli nei e lentiggini in corrispondenza del naso. I suoi grandi occhi viola scuro lo fissavano vacui, senza proferir parola.
«Vorrei conferire con il signor Manfredi, è in casa?».  
Il valletto non rispose, il suo sguardo si posò sull’ascia e la daga che pendevano dai fianchi di Carlo. «Oh, giusto» sfilò le armi dai foderi e gliele porse. Il giovane servo le prese senza sforzo e con le mani a ciondoloni lungo i fianchi si avviò per le quattro rampe di scale che conducevano all’ultimo piano di palazzo Manfredi. All’interno la casa era ricolma di opere d’arte provenienti da ogni angolo del mondo: statue bianco latte che ritraevano, con grazia e perfezione, la forma e la consistenza della carne umana; macchie di colore su tela che creavano paesaggi contemplabili solo nei sogni più fervidi e fantasiosi; totem di legno intagliato, recante grottesche facce di animali; vasi talmente antichi che sarebbe bastato un soffio a farli diventare polvere. Non mancavano animali impagliati, con gemme al posto degli occhi: c’erano tigri ombra-fuoco dalle lunghe zanne a forma di mezza luna; maiali di fiume; basilischi dalle scaglie variopinte; insetti grandi come lupi e lupi grandi come orsi; giganteschi uomini scimmia con artigli di ossidiana al posto delle dita.
I pavimenti erano rivestiti da tappeti monocromatici neri in perenne contrasto con il pallore dei muri e delle colonne intagliate.

All’ultimo piano c’era lo studio, ben illuminato dalla luce delle finestre che si ergevano alle spalle della scrivania, un tavolo di legno massiccio ricolmo di spessi tomi rilegati in pelle. Un uomo segaligno ne consultava qualcuno, assiso a un sedile di mogano foderato, e su altri ancora intonsi la sua penna d’oca grattava rapida, tracciando lettere dai contorni aguzzi e spioventi ghirigori. Quando vide Carlo alla porta, l’uomo levò gli occhi di ossidiana e un sorriso d’avorio gli si dipinse sulle labbra sottili.
Una coda di cavallo scendeva per la sua schiena: aveva capelli di un nero lucido, profumato con degli olii, striati d’argento in corrispondenza delle tempie. Il naso si protendeva dal viso aguzzo in una gobba contorta. Indossava una camicia di lino bianco, coperta da un corpetto di cuoio scuro e da un abito di seta scura finissima, mentre il bacino era cinto da una fascia di argento usata a mo’ di cintura.

L’uomo grattò la superficie del tavolo con il ditale d’argento che gli cingeva l’indice “In effetti è più un artiglio che un ditale, a cosa mai gli servirà?”.
«Guarda, guarda chi torna a trovare il buon vecchio Lucio. Se non è lo scudiero del nostro amato principe Alfonso» sibilò l’uomo compiaciuto.
«’Cavaliere’, Manfredi.» lo corresse Carlo, corrucciandosi.
«E cavaliere sia» sorrise beffardo «siedi, siedi, in cosa posso esserti utile?». Il giovane Cangramo si accomodò a uno sgabello sistemato dinanzi alla scrivania, il valletto rimase alla porta, in attesa di ordini.
«Non è a me che servono i tuoi servigi» sbuffò indispettito.
«Andiamo, non tergiversiamo nel puntiglio» lo incalzò l’uomo, sporgendo in avanti il suo muso.
Carlo tirò fuori il sacchetto affidatogli da Alfonso e lo lanciò di malomodo sul tavolo, tamburellandosi poi il ginocchio con le dita. Gli occhi di ossidiana di Manfredi ebbero un luccichio e prese a saggiare il peso del sacchetto. Mugugnò, con un pizzico di stupore.
Sciolse le fibbie che chiudevano la iuta con un gesto del dito e diede un lieve morso a una delle monete d’argento che ne cavò fuori. Il suono dei denti contro il metallo prezioso diede a Carlo un brivido, dovette concentrarsi per allontanare quella sensazione “Mi chiedo se se le morda una per una tutte le volte…”.
«A occhio e croce direi che il nostro Principe vuole morto qualcuno» constatò Lucio «di chi si tratta?»
«Puoi immaginarlo da te, Manfredi» rispose secco il cavaliere.
I suoi occhi si sbarrarono in una sorpresa tanto fasulla, che un attore che si stupisce della morte del suo personaggio nell’ennesima replica di uno spettacolo, sarebbe sembrato più convincente «Sembra che Argonia avrà bisogno di un nuovo vicario. Sai, immagino che Utopia trovi più economico mandarci qui i suoi sacerdoti piuttosto che continuare a pagare i loro stipendi.» Manfredi sorrise, compiaciuto della sua stessa macabra battuta.
Prese fra le mani uno dei registri, lo sfogliò e declamò ad alta voce
«Padre Mattia, avvelenato durante la cena. Padre Giuseppe, incastrato per spionaggio a favore dell’Impero Manide. Padre Benso, linciato in una sommossa popolare. Padre Luca, morto per dissenteria» Manfredi ghignò compiaciuto «quella sì che fu un’idea originale! Stavolta direi di mettere su qualcosa di più ’movimentato’, che ne dici di una rapina finita male?».
Carlo rimase disgustato dal divertimento che si palesava nella voce del Manfredi «Non voglio saperne nulla io, fa quel che ti pare» replicò acido.
«Andiamo Cavaliere, alla fine io e te non facciamo niente di tanto diverso: entrambi ammazziamo uomini eseguendo gli ordini del grande e potente Principe Alfonso, futuro illuminato sovrano di Argonia» lo punzecchiò, con tono mellifluo.
«Io n-non faccio quello che fai tu, io combatto con onore» ricusò Carlo, infastidito da quell’insinuazione «Se qualcuno ti pagasse uccideresti il tuo re o il Principe stesso».
«Non essere sciocco, Cavaliere» ghignò Manfredi «Anche un cane sa che non deve mordere la mano che lo nutre e, modestamente, mi reputo di molto più intelligente di un cane. In ogni caso, puoi assicurare al Principe che il nostro buon vicario non vedrà l’alba di domani».
Carlo grugnì un assenso e si avviò fuori dallo studio, preceduto dal giovane valletto. Il ragazzo si limitò a condurlo all’uscita e lì lo salutò, congedandolo con un gesto del capo, prima di chiudergli la porta in faccia.

«Hm» mugugnò il Cavaliere. Lanciò occhiate intorno per controllare che nessuno lo vedesse e si calò la cappa giù dal capo, riprendendo la via verso il castello. “Quell’uomo si è costruito la sua ricchezza col sangue. È una fortuna che il suo nome sia sul libro paga di Alfonso, altrimenti…” il numero di contatti e relazioni che Lucio Manfredi intratteneva in città, sia nell’alta società che negli angoli più bui dei bassifondi, lo rendevano l’uomo perfetto a cui il Principe ricorreva per disfarsi in modo discreto di certi personaggi scomodi. Gli obbiettivi presi di mira più di frequente erano proprio i vicari: sacerdoti mandati da Utopia, la Città Santa, ogni qual volta un re, o comunque un nobile, ne faceva richiesta per vegliare sulle anime della propria famiglia e del proprio popolo. Non c’era un solo uomo dotato di qualche potere a Clitalia che non avesse un vicario nella propria città. Severo, suo padre, aveva relegato il sacerdote a Valspurga, un conglomerato di villaggi dove l’influenza del messo di Utopia lasciava il tempo che trovava.
Ad Argonia le cose erano differenti: con il sostegno del sovrano il vicario aveva carta bianca sulle punizioni da infliggere ad eretici, blasfemi, atei e sodomiti. Certo non erano mancati uomini miti come l’ormai compianto Bernardo Picini, il quale si limitava a ramanzine e prescrizione di preghiere per il peccatore, ma c’erano anche stati vicari severi e inflessibili, capaci di infliggere le peggiori torture a chi non fosse in linea con il Culto del Redivivo.
Ogni qual volta un vicario violava quel limite che Alfonso aveva ben chiaro nella mente, il Principe provvedeva affinché fosse tolto di mezzo, calibrando la pena alla colpa. Manfredi faceva in modo che tutto sembrasse casuale o dettato da ragioni esterne alla volontà degli uomini. Ed era pagato profumatamente per fare al meglio il suo lavoro (e perché rimanesse al servizio di un solo uomo). Altresì il Manfredi non aveva remore a manifestare la sua ricchezza, inferiore per entità solo a quella della famiglia reale: simbolo più evidente delle sue finanze erano i suoi taciturni schiavi dagli occhi viola. Una volta il Cavaliere aveva chiesto al Principe perché quei ragazzi non spiccicassero mai mezza parola, lui gli aveva risposto che in terre lontane, oltre l’impero Manide, società di schiavisti si servono di stregoni per far di quei ragazzi dei preziosi muti: certo, qualunque uomo poteva provvedere a tagliare la lingua al proprio schiavo, ma certo il padrone che facesse ciò non sarebbe stato benvoluto dal suo sottoposto e un giorno o l’altro si sarebbe ritrovato nel letto con la gola tagliata. Da quel che aveva visto gli schiavi di Lucio Manfredi non soltanto erano trattati con il massimo riguardo dal loro padrone, ma sembravano nutrire per lui una fedeltà assoluta e incondizionata “Eppure sono pur sempre schiavi” pensò Carlo, con un filo di amarezza. La Rocca Grigia non si era mai servita della schiavitù, i servi di Castel Cangramo erano tutti retribuiti e liberi di lasciare la loro mansione, qualora questa non fosse stata più loro gradita.  
 
Carlo era contento di quella scelta che era stata di suo padre e dei suoi avi prima di lui, “Almeno in questo la mia canzonaccia da taverna è più elegante di una ballata”. Un rumore cupo provenne dal suo stomaco: era dall’ora di colazione che non toccava cibo, nelle cucine del castello avrebbe potuto mangiare le migliori prelibatezze di Argonia, ma aveva voglia di un’atmosfera un po’ più allegra e meno solenne. Come per esaudire una sua richiesta silenziosa, nel suo sguardo si palesò un’insegna di legno tenuta su da un’impalcatura di ferro battuto: Il Boccale e la Borsa. Carlo si avvicinò alla porta ed entrò, mentre l’atmosfera della locanda lo attirava sé, come un amante fra le sue braccia: c’era la voce del menestrello che incalzava gli avventori con vecchie canzoni di mare, stringendo e tirando la sua vecchia fisarmonica scassata; c’era il tintinnare dei boccali l’uno contro l’altro; il berciare imprecazioni di un giocatore d’azzardo che aveva appena perso tutto in una giocata quanto mai avventata; lo schiocco di uno schiaffo sulla faccia di un uomo, ad opera di una cameriera a cui era stato palpato il sedere e le risate che ne seguirono; l’aroma della birra che si mischiava al profumo della carne abbrustolita.
«Aye, cavaliere!» lo salutò uno dei soldati che aveva ancora una brutta contusione sulla faccia, lascito della battaglia sulla Corona «Vieni, siedi con noi!» lo invitò, insieme con i suoi compagni d’arme. Carlo accettò di buon grado e dopo che gli ebbero fatto spazio sulla panca si accomodò, cercando con gli occhi la cameriera.
«Come ci si sente, mio signore? Erano anni che aspettavi di diventare cavaliere!» la voce del soldato era resa malferma dalla birra e alla fine della frase sussultò in un singhiozzo.
«Bene, soldato, non che sia cambiato molto, eh» rispose, sorridendo «sempre agli ordini di qualcuno devo obbedire». Qualcuno al tavolo berciò una risata, battendo un pugno sul legno.
«Quello lo facciamo tutti, mio signore. Ma ora puoi tornartene a casa tua, no? Nessuno più ti obbliga a star qui?» poi si affretto ad aggiungere ad occhi sbarrati «Per carità, ci mancherà sul campo di battaglia, ma dico, è solo curiosità»
«Rilassati soldato» lo rassicurò «in realtà potrei tornarmene da dove sono venuto, ma preferisco restare qui: almeno a corte posso trovare un buon partito da sposare, lì da dove vengo io non c’è una nobildonna nel raggio di chilometri» ghignò «se non contiamo mia sorella». Un'altra fiumana di risate seguì alla battuta, Carlo sentì l’ansia che l’aveva preso durante il colloquio con Alfonso sciogliersi pian piano.
Qualcuno dal fondo della tavolata gridò «Senti a me, non ci fai un bell’affare a sposarti! Mia moglie è una tale rompiballe» e un altro rispose «Bartolo, neanche tua moglie ha fatto ‘sto grande affare a sposarsi una faccia da culo come la tua!». Il battibecco che iniziò lasciò a Carlo il tempo per rimuginare sui reali motivi per cui non ritornava alla Rocca Grigia
“Anche se lui non fosse qui, anche se non fosse il mio signore, cosa può offrirmi una terra di cui non sarò mai il Conte? Di cui non deciderò mai le sorti?” quel pensiero gli mise malinconia “Anche per Argonia è la stessa cosa, ma qui posso servire il mio signore e combattere in suo nome. Anche se lui non fosse qui… ma lui è qui e mi manca il suo corpo” la malinconia, e una certa rabbia per quel mondo che non gli consentiva di costruire la vita che realmente desiderava, si mescolarono, alla sponda del bicchiere di birra che ora portava alla bocca, condensandosi in un senso di profonda tristezza. Una melodia che adesso gli si arrampicava su per la gola e batteva forte alla porta, per poter uscire. Si alzò dalla panca e andò verso il menestrello, calandogli una manciata di monete per farsi dare la fisarmonica “Cantare, per fuggire ogni tristezza”.
Quello gli diede lo strumento senza troppe proteste: con quel denaro se ne sarebbe potute comprare altre cinque di fisarmoniche.
Nella taverna calò un silenzio carico di aspettative, qualcuno gridò dai tavoli
«Vai Ser Suonatore! Facci cantare!».
 «E sta’ zitto Calogero, che sei stonato come una campana!» e di nuovo su’ con le risate, ma Carlo non ascoltava, tutta la sua attenzione inseguiva le parole che volevano esplodere.
La sua voce fuoriuscì forte e melodiosa, retta su quel filo d’intonazione su cui solo in pochi sanno camminare: senza mai tremare, senza mai barcollare, senza mai cadere.
«Solo in sta’ notte scura
solo star più non so»
Una donna dagli occhi blu e la scollatura profonda lo guardò e lui pose su di lei lo sguardo mentre cantava.
«Fa’ freddo e le lenzuola
son troppe per un corpo sol»

Lasciò che lo strumento gli desse una pausa, con il suono pieno e fragrante.
«Dimmi amore mio
quando ti sposerò»

Gli avventori ripeterono in coro. Carlo accelerò brevemente il ritmo.
«A tuo padre
per la tua mano
anche la sua taglierei.
Non mi fermeranno
una regina, un duca, né un re»
«Dimmi amore mio quando ti sposerò!»
ripeterono gli avventori insieme, il ritmo della canzone iniziò a farsi più allegro.
«Ma no, ma no! Dimmi amore mio
quando ti potrò montar, che la sacca è piena
ma non di monete sai»
«Non di monete sai!»

Allungò il viso verso la donna dagli occhi blu e quella gli stampò una bacio sulle labbra. Dai tavoli partirono risa ed esultanze.
«Lo faremo al chiar di luna
meglio d’un baio o un palafreno, dai!»

«Aye! Aye!»
Non gradiva particolarmente la piega sporca e volgare che la canzone andava prendendo, ma in una taverna la gente andava divertita. Esaltato, Carlo balzò su uno dei tavoli, calciò via un bicchiere e cantò all’oste «Te li pago io i danni Giampiero, solo fammi ancora cantar. Solo un poco, un altro poco che sarà mai?» quello si accigliò ma poi non poté fare a meno di ridere. Carlo ripeté le strofe una seconda volta, e quando gli avventori le ebbero imparate e presero a cantare al posto suo, sempre più velocemente, battendo i pugni sul tavolo, alzando i bicchieri, lui lanciò all’aria la fisarmonica e prese a ballare con la donna dagli occhi blu lì sul tavolo. Le fissava ballare le tette dietro la scollatura. Gli venne duro e le diede un bacio: la sua bocca aveva il sapore delle spezie piccanti e le sue labbra piene si scioglievano ad ogni morso.
Con gli occhi la donna indicò la rampa di scale che saliva verso il piano di sopra “Non chiedo di meglio”. Fra le risa e gli schiamazzi Carlo lanciò una moneta all’oste e seguì la donna verso su’, mentre urla e allusioni venivano da giù, gridati a gran voce.

La donna dagli occhi blu richiuse la porta della camera, lasciando fuori ogni rumore perché il silenzio potesse avvolgerli. Tre scatti metallici di serratura.
Lei lo guardò in tralice mentre tirava via una stringa della camicetta.
Lui sorrideva ebete, steso sul letto.
La donna aveva un corpo formoso, con il bacino largo e un paio di seni pieni, un poco cadenti per la loro grandezza. Ma il suo viso, quello era perfetto: guance tonde e pelle diafana, con questi occhi blu resi più luminosi dal trucco nero che li circondava. Certo si trattava di una puttana, era risaputo lì nella locanda, ma a Carlo questa volta non interessava. Mentre cantava era a lei che il suo amore era fuggito e per qualche ora l’avrebbe amata, fino alla fine della tenzone.
Un sentimento che si sarebbe disfatto con il seme che fluiva fuori “Si può dire che siamo complementari”.
Quando fu nuda, lei gli slacciò i calzoni e li tirò giù, passando la sua lingua sul membro. Lo strano solletico che ne derivò lo fece fremere. Rivolse gli occhi al soffitto, con un sorriso a distendergli la faccia. Quando il membro fu turgido lei gli salì sopra: aveva la fica più larga dell’ultima donna con cui era stato, ma risultava ugualmente calda e accogliente.
Lui le piantò lo sguardo negli occhi, prendendole una mano e intrecciando le dita alle sue. I suoi movimenti erano fluidi e continui, emetteva solo piccoli gemiti: profondi ma silenziosi. “Sa di certo fare il suo lavoro”. Carlo sentì che sarebbe potuto venire lì in quell’istante, ma non voleva “Lei è solo all’inizio”. La mano destra abbandonò le sue dita, salì dalla coscia per il bacino e il fianco morbido, si strinse sul seno, rigirandosi il capezzolo fra l’indice e il medio.
Con l’altra mano Carlo scese a pizzicarsi la gamba, un piccolo lembo di pelle, stringendo abbastanza forte da sentire un dolore fastidioso, ma sopportabile. Questo lo aiutò a durare, fino a quando i respiri di lei non si fecero lievemente più rumorosi, a breve distanza l’uno dall’altro, fino al gemito finale che venne come un lungo e unico sospiro. In quel preciso istante nessun trucco potette più trattenere il Cavaliere dal venirle dentro, con la sensazione di svuotamento e quel leggero tremolio che gli frustava sempre il ginocchio destro e la punta dei piedi.

Quando ebbero finito, lei si sdraiò accanto a lui e lui si girò di fianco per guardarla.
«Sei venuta?» gli chiese.
Lei fece cenno di sì con la testa, con le labbra leggermente inarcate. “Non saprò mai se è vero o se mi sta mentendo, immagino sia parte del lavoro”. «Sei stato bravo» disse, deglutendo un boccone di saliva.
Carlo cacciò un risolino e sospirò «Sono sicuro che lo dici a tutti».
«Questo è vero,» ghignò lei «ma con te sono seria».
Il giovane Cangramo inarcò un sopracciglio.
«Va bene, dico a tutti anche ‘questo’» risero insieme, fissando il soffitto l’uno accanto all’altra.
«Sai, è questo che manca con la persona con cui sto… la spensieratezza» disse Carlo, portandosi una mano dietro la nuca.
«È di tua moglie che parli, cavaliere?» chiese lei, un po’ stupita.
Carlo trovò divertente pensare ad Alfonso vestito da donna e dovette contenersi per non mettersi a ridere da solo «Diciamo di sì».
«Un rapporto vero e profondo è fatto anche di discussioni,» disse lei, mordendosi un labbro «non può essere sempre spensierato».
Carlo la guardò con un’ombra di scetticismo nello sguardo «Una puttana che mi da consigli in amore?».
Lei gli diede uno schiaffetto leggero sulla guancia, alzando le sopracciglia «Si dice ‘prostituta’ e poi cosa credi, cavaliere, anche io amo e ho amato. E se mio marito andasse a letto con un’altra gli taglierei via le palle».
Carlo si mordicchiò la lingua «Lui non dovrebbe dire lo stesso?».
«Io ci campo con questo lavoro, non provo sentimenti per gli uomini con cui giaccio» replicò lei.
«Mi stai dicendo che non ti piace il tuo lavoro?» chiese Carlo, tirandosi a sedere.
«Questo non l’ho mai detto» rispose, con un altro dei suoi sorrisi «dico solo che io ci porto il pane a casa con questo mestiere».
Il giovane sbuffò, piuttosto scettico «Sarà, ma a me sembra un po’ una scusa…»
«Una scusa che né tu né mio marito potete usare» incalzò lei, divertita.
«Sappi che sostituire la mia coscienza non ti frutterà più denaro» lo punzecchiò, alzandosi in piedi e risollevandosi le braghe.
«Certo» ammise lei «ma il tempo fra la cavalcata e le chiacchiere dopo il sesso sì» si tirò a sedere, incrociando le braccia.
Carlo denegò col capo sfilando dalla sua saccoccia tre monete d’oro e due d’argento (più di quanto avesse mai pagato per una puttana) «Dannata donna, tuo marito è fortunato ad avere una moglie tanto intelligente» lasciò i soldi sulla sponda del letto e si avviò verso l’uscita, rigirandosi uno zecchino d’argento fra le dita. «Dipende dai punti di vista, Cavaliere!» le rispose lei. Carlo sorrise lanciando dietro di sé la moneta d’argento.

Fuori dalla taverna il cielo s’era colorato di un violetto spento, quasi più nessuno girava per le strade quando il crepuscolo veniva al mondo. “Argonia… così bella quando si avvicina la notte, quando è silenziosa” gli sembrava una città tanto diversa da quella che l’aveva accolto nel suo ritorno dalla spedizione sulla Corona. Per terra c’erano fiori e petali calpestati da cento e più passi della gente, dei cavalli, dei carri “quando è la roccia ad essere la protagonista. E il rumore e la carne sono messi da parte”. Non aveva ormai altro da fare se non avviarsi verso il Castello: avrebbe scritto una lettera a suo padre, a lume di candela o magari avrebbe dormito prima. Provò un timido moto di stanchezza e indolenza al pensiero di quanto si sarebbe dovuto concentrare per mettere su carta la buona novella: cercare nelle parole quando andasse posto un accento e quando no, quando mettere una consonante due volte e quando solo una. Le lettere erano state sempre una faccenda tanto complicata “Ma sì, dai, la scriverò domani mattina. Quando sarò al pieno delle mie forze. Per stasera dormirò” poi una vocina nella sua testa lo richiamò ad un altro dei suoi doveri “dovrò ricordarmi di avvisare Alfonso che il destino del vicario è stato segnato, quanto meno si rilasserà”.
Con la mente iniziò a fantasticare su chi sarebbe stato il prossimo messo spedito da Utopia, se avrebbe avuto vita tranquilla come il buon Bernardo Picino o avrebbe fatto una fine orribile come tanti prima di lui. Per il bene del Principe sperò che si trattasse del primo caso: più ne faceva fuori, più si esponeva agli occhi degli Orimberga.
Era sicuro che, non fosse stato per suo padre, Alfonso avrebbe provveduto a scannare con le sue stesse mani i vicari affidati alle cure di Manfredi. Se gli approcci sottili che adottava per i messi della Città Santa avesse avuto la testa di usarli anche in guerra o in politica… avrebbe potuto vincere tante battaglie senza neanche iniziarle. “Manfredi mi disgusta, ma è una indubbia risorsa. Credo sia sprecato utilizzarlo per cose di così poco conto. Se gli chiedesse di assassinare il Re…” la frase di Lucio ritornò rapida alla sua mente: un cane non morde la mano che lo nutre. “Già” rispose, fra sé e sé, “ma se una mano diversa offrisse più cibo, che ne sarebbe del vecchio padrone?”.

Solo dopo qualche minuto realizzò quanto quei ragionamenti fossero disumani: per quanto Ferrante e suo figlio Alfonso avessero i loro contrasti, e le loro abissali differenze, erano pur sempre legati dall’amore che un figlio nutre verso il padre. Anche Carlo amava suo padre, per quanto vi fossero fra loro delle differenze “e mai e poi mai vorrei vederlo morire” pensò con tristezza, mentre delle voci attiravano il suo sguardo in direzione di un vicolo nelle vicinanze del Tempio, a una certa distanza dalle piazze che precedevano il palazzo reale.
«Abbiate pietà! Sono un uomo del Redivivo!» la voce era rotta da un pianto disperato. Carlo si spallò al muro, sbirciando la scena: due uomini tenevano fermo il vicario, mentre un altro con un curioso berretto a tesa larga, con una piuma rossa, si rigirava fra le mani un coltellaccio ricurvo.
«Taci, grassone» berciò l’uomo col cappello, la sua voce era ruvida come un ferro consumato dalla ruggine «dove tieni il denaro?»
«I-io, nella tasca interna d-del saio» balbettò il vicario, con gli occhi e il naso che gocciolavano «prendete ciò che volete, ma lasciatemi vivere».
L’uomo con il coltellaccio cacciò una risata e iniziò a frugare nelle vesti del vicario, cavando fuori un sacco rigonfio «Paga grossa, ragazzi!» esultò il bandito.
«Prendeteli tutti, ve ne prego! Ma lasciatemi vivere, per il Cuore! Per il Cuore del Redivivo!» implorò l’uomo.
«Puoi scommetterci che non ti lasciamo un soldo» replicò, deridendolo «dal tuo dio non ti servirà il becco di un quattrino» avvicinò la faccia a quella del sacerdote, il suo tono sembrò farsi solenne «Manfredi ti manda i suoi saluti».
La lama del coltellaccio aprì la gola da parte a parte e un copioso flusso di sangue si liberò dalle carni, i banditi non si diedero nemmeno il disturbo di aspettare che fosse morto prima di andar via.

Carlo si avvicinò, raccogliendo gli ultimi istanti di vita del vicario. L’uomo grassoccio gli rivolse uno sguardo pietoso, portandosi le mani alla gola, nel vano tentativo di parlare. Carlo incrinò la bocca, disgustato dalla scena e dall’acre odore di merda che riempiva l’aria e i calzoni del Toniacci.
Si chinò sul vicario e parlò sottovoce, perché solo lui potesse sentire
«Anche un passero ha i suoi artigli» sentenziò, prima di sputargli addosso un denso grumo di muco e saliva.
Toniacci strabuzzò gli occhi e fu scosso da un tremore, prima che la morte gelasse l’espressione terrorizzata che gli deformava il volto grassoccio.
“Non saprò mai se ha capito: poco male, non me ne frega poi molto” con il cuore più leggero riprese il cammino verso il Palazzo di Argonia, avvolto ora dalla sera e le sue stelle.
    

    



NdA: Pubblico un po’ prima del previsto perché nei prossimi giorni sarò impegnato e non avrò il tempo per postare. Come promesso il capitolo è più ciccione del solito e bello carico di novità, fra personaggi e relazioni che vengono alla luce. Che ne pensate di quello sciroccato del Re Ferrante? E del misterioso Lucio Manfredi? Pensate che Alfonso stia agendo bene o, come sostiene Carlo, rischia di ficcarsi in grossi pasticci?
E poi vorrei un piccolo consiglio: visto il numero di scene zozze o cruente, sarebbe il caso di alzare il rating o mantengo quello arancione? Fatemi sapere :3

Un abbraccione grande grande
e soprattutto Buon Natale!

Il Signore Oscuro
   
 
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