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Autore: Circe    05/01/2018    5 recensioni
Il veleno del serpente ha effetti diversi a seconda delle persone che colpisce. Una sola cosa è certa: provoca incessantemente forte dolore e sofferenza ovunque si espanda. Quello di Lord Voldemort è un veleno potente e colpisce tutti i suoi più fedeli seguaci. Solo in una persona, quel dolore, non si scinde dall’amore.
Seguito de “Il maestro di arti oscure”.
Genere: Drammatico, Erotico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellatrix Lestrange, Rabastan Lestrange, Rodolphus Lestrange, Voldemort | Coppie: Bellatrix/Voldemort
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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- Questa storia fa parte della serie 'Eclissi di sole: l'ascesa delle tenebre'
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Dal grimorio di Bellatrix: “Il sapore del mio maestro”

Erano passati mesi da quella notte, erano passate le prime semplici missioni e i primi atti più importanti e delicati, erano passati i primi errori e le prime paure, come i primi successi e le vittorie.
Talvolta lui mi era accanto, erano le volte in cui mi sentivo più sicura, sapevo che avrei potuto conquistare il mondo se lui era lì con me. Spesso invece mi lasciava fare da sola, dovevo affrontare tutto e superare tutto contando solo sulle mie forze ed erano i momenti più brutti e faticosi. 
Non mi tiravo mai indietro e tante volte ho probabilmente sbagliato. Ugualmente non mi ha mai punito, mi ha sempre parlato, ascoltato, se doveva correggermi lo faceva a modo suo, con una battuta ironica, una provocazione, una frase detta con quel suo tono freddo il suo sguardo penetrante.
Non voleva mostrarsi comprensivo, ma io lo sapevo che quelle correzioni non le avrebbe mai fatte a nessun altro, solo a me. L’ho sempre sentito vicino, anche quando, in un allenamento o l’altro, mi faceva volare via la bacchetta dalle mani come fosse un gioco e mi prendeva in giro per la mia incapacità.
Allora ridevamo insieme. Era così bello quando rideva che mi sarei fatta togliere la bacchetta mille e mille altre volte.
Mi ero abituata a chiamarlo “mio Signore” anche se dentro di me restava nel cuore “mio maestro” e avevo imparato a guardarlo con occhi diversi mentre, durante le riunioni, le discussioni e gli incontri segreti, lui parlava con tutti noi.
Lo guardavo dentro, non con la legilimanzia, ma attraverso i suoi sguardi, i suoi movimenti, i suoi silenzi.
Avevo scoperto che, così facendo, scoprivo molto del mio maestro. Avevo capito che c’era un altro uomo dietro tutto ciò che voleva apparire, che a volte si celava molto bene, a volte molto male. 
Desideravo solo conoscerlo. Per me non era più solo il mago oscuro più potente dei nostri tempi, o forse di tutti i tempi, volevo capire e conoscere anche quel suo lato fragile dietro a tutta la forza che dimostrava.

Volevo captare le parole dietro ai silenzi ostinati, i segreti nascosti dietro le frasi criptiche che pronunciava e la sofferenza che sentiva sotto all’oblio che cercava.
Fra noi però, non era successo più molto e io ne soffrivo, non sapevo cosa pensare e cosa fare. 

Talvolta i suoi sguardi mi parlavano, le sue mani mi stringevano. Talvolta non si curava minimamente di me in quel senso amoroso e passionale. Mi sentivo in un vortice di dubbi e speranze, trascinata a caso come una foglia nel vento.
Non capivo più nulla.
Non sapevo che fare del mio matrimonio, mi pentivo di averlo compiuto così velocemente e non trovavo più senso in tutti i miei innamorati di cui tanto andavo fiera in passato.

Pensavo continuamente al mio Signore, non sapevo dove fosse finito tutto il mio amore per Rodolphus e non riuscivo a ritrovare dentro me stessa tutta la spavalderia di un tempo. 
“Bellatrix, svegliati! Sto parlando con te!” 
Una voce femminile interruppe i miei pensieri: era Alecto che mi richiamava all’ordine. 

Alecto, fin da quando l’ho conosciuta, mi ha sempre guardata con una certa invidia, e io a mia volta la invidiavo perché era una Mangiamorte già molto prima di me. Dopo lo scontro cruento avvenuto fra noi, in cui Rod ed io abbiamo fatto capire a lei e fratello chi davvero fosse il più forte, questa invidia è diventata più un odio mal celato e un continuo tentativo di prevaricazione. 
Non sopportavo quindi di essere ripresa da lei.
“Chiudi il becco, allora, non tollero di essere disturbata da te, sto leggendo per i fatti miei.”
Ero seduta su un divano, in una delle tante stanze del quartier generale, fingevo di leggere qualcosa, ma i miei pensieri vagavano per conto loro e si fissavano sempre sul mio maestro.
“Chi pensi di essere? Sei appena arrivata. Ti dai arie perché sei una bella bambolina? Infondo cos’hai fatto finora? Niente!”
Mi alzai dal divano immediatamente, con la bacchetta già nelle mani. In pochi secondi la sovrastai: lei tanto piccola e tarchiata mi facevano pena coi suoi tentativi di alzare la testa davanti a me.
“Ti devo ricordare chi delle due ci ha rimesso l’ultima volta che ci siamo scontrate io e te, piccola nullità? Mi pare tu abbia impiegato diverse settimane prima di riprenderti anche solo un pochino, vedi di non provocarmi, perché ti faccio subito fare la stessa fine, se non peggio!”
Non feci quasi in tempo a finire la frase che con la velocità della luce mi afferrò i capelli con le mani, mi fece anche male. Era migliorata parecchio in quei mesi, mentre io arrancavo molto, pagavo il fatto di dover imparare la magia oscura e nello stesso tempo anche le normali tattiche di duello, di incantesimi, di difesa.
Il mio vantaggio era comunque sulla potenza della magia e lo sapevo bene, puntai la bacchetta e la scaraventai lontano, verso il caminetto, lei atterrò malamente con un grosso tonfo: era riuscita a schermarsi, altrimenti sarebbe stato molto peggio. Non feci in tempo a rincarare la dose di incantesimi, che sentii sbattere la porta alle mie spalle.
Subito una voce tagliente mi trafisse il cuore.
“Quanto devo aspettare perché tu ubbidisca ai miei ordini, Bella?”
Mi voltai e lo vidi lì, a pochi passi da me, pallido, freddo e con lo sguardo cupo, ma allo stesso tempo le sue labbra erano piegate in un lieve sorriso, impercettibile. Non sapevo nemmeno se quello strano sorriso fosse reale, o frutto della mia immaginazione tanto fu fugace ed enigmatico.
“Mio Signore… i vostri ordini?” 

Ovviamente non avevo idea di cosa stesse parlando, nessuno mi aveva comunicato nulla.
“Alecto sicuramente ti avrà detto che volevo vederti subito.” 

 Rivolse lo sguardo alla mia rivale che nel frattempo si era alzata in piedi e si stava avvicinando.
“Sì, mio Signore, l’ho fatto, ma Bellatrix sapete com’ è, spesso impegnata a divagare con la mente penso non mi abbia nemmeno sentito e ascoltato.”
Mi morsi le labbra forte per non parlare e, per non attaccarla di nuovo, affondai le unghie nel palmo della mano che reggeva ancora la bacchetta.
“Scusatemi, mio Signore, sono qui, potete chiedermi quello che desiderate.”
Lui mi guardò a lungo a volte sembrava mi volesse studiare, non disse nulla.

Alecto ci rimase palesemente male, desiderava vedermi umiliata o punita, ma rimaneva perennemente delusa.
Il mio maestro mi fece invece segno di entrare nella stanza adiacente, e così feci, lui entrò con me e richiuse la porta alle sue spalle. Ci ritrovammo soli nella stanza piena di oscurità, di candele accese e qualche lampada che emanava luce fioca.
“Vieni a sederti vicino a me, ti devo dire alcune cose.”
Quella stanza era pregna di magia oscura, la sentivo e la percepivo da tutto, era una delle sue preferite, dove passava più tempo tra incantesimi, prove, letture e non so che altro. Ero sempre felice di ritirarmi lì insieme a lui, sia che fossimo da soli sia che ci fosse qualche altro Mangiamorte.
Presi posto, come al solito, sul bracciolo della grande poltrona dove si sedeva lui solitamente: era il mio posto da sempre, in un certo senso me lo ero conquistato quel posto al suo fianco. Lui spense un paio di candele soffiando leggermente su di esse, il buio divenne maggiore, poi si lasciò cadere sulla poltrona vicino a me. Lo fece in quella maniera scomposta, forse un po’ lasciva, che mi piaceva tanto. 

Mi accomodai meglio, voltandomi verso di lui, mentre lui appoggiava la testa di lato, leggermente vicina a me, tanto che quella particolare vicinanza mi toglieva il respiro. Mi soffermai, ancora una volta a guardarlo, non mi stancavo mai di osservare mille particolari di lui.
Aveva tagliato leggermente i capelli, che prima portava più lunghi, aveva il viso pallido, i vestiti che sembravano sempre troppo leggeri per tenerlo al caldo.
Era anche leggermente dolorante, cosa che ogni tanto gli succedeva, mi ero accorta che spesso soffriva di dolori alla testa di cui non parlava mai, ma che non sfuggivano al mio sguardo attento.
Rimase infatti appoggiato allo schienale e alzò solo lo sguardo verso di me, abbassandolo subito dopo aver parlato.

Sembrava stanco.
“Sai che non amo particolarmente che i miei Mangiamorte litighino tra di loro…”
Sospirai senza rispondere.
“Fra te e Alecto non scorre buon sangue, mi è parso di capire. E la cosa riguarda anche Rodolphus e Amycus.”

Lo guardai un po’ indispettita, speravo volesse dirmi altro.
“Volevate parlarmi di questo, mio Signore?”

Lui ovviamente non si lasciò minimamente deviare dalle mie rimostranze, mi guardò anzi dritto negli occhi, imperiosamente.
“Tu rispondi a questo.”
Abbassai lo sguardo, presi tempo. Giocherellai un momento coi miei capelli, poi mi decisi a rispondere. 
“Sì avete ragione, non andiamo particolarmente d’accordo, anzi, direi che non andiamo per niente d’accordo.”
Lui allora spostò lo sguardo altrove, in direzione delle candele accese di fronte a noi.

“Come mai?”
Alzai le spalle, non sapevo cosa dire, avrei voluto solamente accarezzargli i capelli e restare in quel silenzio inumano e delizioso. Non mi importava nulla di quei due incapaci.
“Non saprei dirlo, davvero, mio Signore, piano piano ci siamo ritrovati così.”
Lentamente il mio maestro prese la bacchetta e accese il fuoco nel camino, poca cosa, solo qualche brace, poi rimase ancora un po’ in silenzio, guardando la bacchetta e rigirandola nella mano.
“Sai perché ho creato la cerchia dei Mangiamorte, Bella?”
“Perché volevate un gruppo che, come voi, sapesse sfidare e vincere al morte, perché tutti noi potessimo vivere sempre al limite, sfidare ogni limite, e sentirci vivi nel tentativo di andare oltre.”
A quelle parole mi ha sorriso con un’ espressione a metà tra la complicità e l’accondiscendenza.
“Sì per quello, ma anche perché volevo ricreare una famiglia.”
Rimasi in silenzio per aspettare che continuasse, di queste cose non mi aveva mai parlato.
Lui tornò ad adagiarsi allo schienale della poltrona, senza guardarmi, sembrava tranquillo, ma la stretta delle dita sulla bacchetta tradiva in lui una forte tensione.
“Sì una famiglia, quella famiglia che mi è mancata e quindi me la sono creata io.” 
Ero attentissima, ma lui rimase un attimo zitto. Non capivo se cercasse le parole con cui continuare, oppure stesse valutando se spiegarmi oltre, o addirittura sorvolare. Alla fine però riprese tranquillamente.
“Io non ho conosciuto nessuna famiglia, sono cresciuto da solo, in un orfanotrofio.”
A quelle parole feci un collegamento immediato con ciò che avevo visto nella sua mente tanto tempo prima: quel posto freddo, quei volti tristi e vuoti, quelle grida nella notte, quai pianti di bambini. 

Quello doveva essere l’orfanotrofio, il posto dove è vissuto lui.
Mi venne mal di stomaco, ricacciai indietro quei ricordi e tornai con la mente a quell’istante.
Nel momento in cui spostai di nuovo lo sguardo verso di lui, anche lui fece lo stesso con me, tenne i suoi occhi fissi nei miei in un modo così appassionato e possessivo che non dimenticherò mai.
“I miei Mangiamorte più vicini lo sanno, voi più giovani, appena arrivati forse no, a meno che non giri la voce.”

Qui mi fece un sorriso leggermente inquietante: forse sapeva che spesso si parlava di lui, immaginava che io in particolare volessi sapere tutto di ciò che lo riguardava.
“No, mio Signore, non sapevo di queste cose, non se ne parla mai tra di noi, conosco solamente ciò che mi avete fatto capire voi.”
Restò con gli occhi fissi nei miei, come a voler capire se gli stavo dicendo la verità. Poi mi sciolse da quella stretta di sguardi e si rilassò di nuovo.
“A te soltanto ho raccontato di più, tu sola hai visto di più. Hai capito che posto era.”
Alzò il tono quando pronunciò quelle parole e mi lanciò un’occhiata complice che invece di spaventarmi mi fece piacere, mi sentivo le guance bollenti e il cuore batteva fortissimo.
“Non esattamente, maestro. Nel senso che non è facile per me immaginare quel posto, cosa succedeva, come siete stato là voi…”

Alzò la mano senza dire nulla: era un chiaro invito a non andare oltre.
Mi fermai subito, anche se in realtà avrei voluto fargli molte domande, avrei voluto sapere tante altre cose. 
Probabilmente lui non desiderava nemmeno pensarci.
In quel momento intuivo solamente questo: non voleva soffermarsi sul passato. 
Solo col tempo avrei imparato a capire quanto fosse per lui un problema insormontabile, quanto davvero il suo passato influisse ancora sul presente e lo facesse in maniera devastante. 
Rappresentava per lui un dolore tanto intenso e sempre presente che lo portava ad una continua e perenne autodistruzione nel tentativo di non sentirlo.
“Per me voi siete l’erede di Serpeverde, vedo sempre questo di voi, anche se so che c’ è altro nella vostra vita passata.”

Non aggiunsi altro, non aggiunsi cioè che percepivo baratri enormi di sofferenze e paure e violenze, di cui io non ero pienamente a conoscenza, ma che potevo solo immaginare e che vedevo tornare a riaffiorare spesso in lui, nonostante li mettesse a tacere ogni volta che si ripresentavano.
Si vedeva dagli occhi, dagli sguardi, dai silenzi, dalla rabbia nascosta, pronta a uscire travalicando tutto.
“Sì, io sono l’erede di Serpeverde, ma contrariamente a chiunque di voi sono cresciuto in un posto diverso, in un modo diverso e ho affrontato cose diverse, che mi hanno reso più forte e potente di quanto già non fossi.”
Fece una pausa e posò la bacchetta sul tavolino vicino, tornando poi ad appoggiare la testa poco lontano da me, in quel modo scomposto e doloroso che lo rendeva bello e dannato e mi faceva venire una stretta forte allo stomaco che poi risaliva su, fino ad arrivare al mio cuore.
“Ora ho voluto creare i Mangiamorte, Bella. Un gruppo, una famiglia, qualcosa di grande. Ho sopportato le vostre beghe perché mi facevano comodo, mi sono servite per portare Rabastan tra di noi, Rodolphus lo sapeva, eravamo d’accordo, ma ora basta, adesso che tutto è finito la dovete smettere anche voi di litigare. Non voglio vedere problemi. Non so se mi sono spiegato.”
Nonostante conoscessi ormai abbastanza bene la sua mente analitica e il suo pensiero lungimirante, restavo sempre stupita di come ci manovrasse tutti nell’ombra, ogni cosa, ogni persona, e difficilmente ci si poteva accorgere dei suoi raggiri, delle sue mosse occulte e segrete. 

A me piaceva proprio così, con i suoi occhi cupi, con la sua espressione impenetrabile, talvolta assorta e talvolta assente, col suo veleno nelle vene.
“Sì, mio Signore, vi siete spiegato, cercherò di andare più d’accordo con i Carrow, sarà lo stesso per Rodolphus. Non ci saranno più problemi, vedrete, non avrete più da lamentarvi.”
Rimanemmo zitti per un po’ di tempo, il discorso era evidentemente concluso, ma il mio maestro non ne iniziava uno nuovo, restava silenzioso, tranquillo.
Non appena vidi che mi stava guardando, senza tuttavia aprire bocca, mi emozionai tanto da voler rompere il silenzio.
“Di cosa volevate parlarmi, maestro, quando mi avete mandata a chiamare da Alecto?”
Lui non si scompose minimamente, mantenne la stessa posa a lo stesso sguardo di prima, probabilmente mi rispose senza nemmeno pensare.
“Volevo darti istruzioni per un’azione, ma ora non ho più voglia.”
Silenzio di nuovo.
Lo guardavo cercando di capire, ma non lo capivo.
Lui distolse lentamente lo sguardo da me, lo pose verso il tavolino poco più lontano, uno pieno di boccette e scatoline, poi ancora lentamente lo ripose su di me, portandosi il dorso della mano sulle labbra, massaggiandole pensieroso.
Mi osservava in modo strano e il mio cuore intuì subito qualcosa, perché tornò a battere violentemente, creando quella dolce confusione piena di attesa.
“Ora proprio non mi va…” 

Allungò la mano afferrandomi il polso. Mi stringeva forte, sentivo il sangue pulsare fra le sue dita.
Mi guardava in maniera del tutto particolare, come se avessimo un’intimità nuova, tutta da scoprire.
“Vieni qui accanto a me…” 

Mi prese in modo deciso anche i fianchi, facendomi scivolare su di lui attaccati l’uno all’altra. 
Eravamo talmente vicini che non solo i corpi si toccavano, ma anche le labbra si sfioravano, il mio viso era accanto al suo, sentivo il suo profumo, il suo respiro accelerato, forte. 
Il suo sguardo imperioso cazzava col mio sorpreso, quasi timido.
Seguivo solo le sue mosse, mi sentii avvicinare, mi strinse forte dandomi un bacio improvviso e violento, mordendomi le labbra con una sensualità divoratrice, che io ricambiai immediatamente.
Mentre ancora mi stringeva polso e fianchi, lo sentii divaricare leggermente le gambe, iniziò lentamente a diradare i baci, a guardarmi fissamente, mi sussurrava cose fra un tocco e l’altro delle labbra e fra una battaglia e l’altra delle lingue.
“Ora ti va di farmi passare il mal di testa?”

Gli sorrisi subito, avevo solo voglia di lui, voglia di accontentarlo qualsiasi cosa mi chiedesse. Avevo aspettato tanto questo momento, l’avevo sognato e desiderato. 
Finalmente mi cercava di nuovo, ancora più di prima.
Non era infatti una vera domanda, era una volontà che non aveva bisogno di attendere risposta, si aprì semplicemente i pantaloni.

Mi eccitava da morire quell’atto imperioso e desideroso, chiusi gli occhi, assaporai quel momento. 
Lo guardai per un attimo ancora negli occhi, poi, mentre ancora mi baciava e mi mordeva le labbra, mi spinse il capo verso il suo sesso, non attendeva altro che essere leccato, succhiato, amato.
Mi piaceva quella sensazione che mi dava, mi faceva sentire un po’ depravata, mi faceva sentire totalmente al suo servizio, mi faceva sentire quanto gli potevo dare piacere.
Amavo servirlo a quel modo.
Strofinai il suo sesso sul mio viso, come fosse la cosa più bella e dolce della mia vita. Lo desideravo nella mia bacca, sulla mia lingua, fra i miei denti.
Lo avrei amato come non mai.
Lo sentii caldo, duro, potente tra le mie labbra, sulla lingua, nella bocca. Mi faceva morire di piacere anche così.
Andai avanti a succhiarlo per lungo tempo, prima lentamente,  poi forsennatamente, finché non lo sentì gridare, ma ancora non ne avevo abbastanza, per cui continuai, a costo di fargli sentire male.
Il dolore era comunque parte di noi.
Mi sentii inondata dal suo sapore.
Fu il sapore amaro più dolce e piacevole che io avessi mai assaggiato.
Il sapore del mio maestro.

 
 
   
 
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