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Autore: Damnatio_memoriae    18/01/2018    2 recensioni
Sul continente i ministri dei cinque rioni si affrontano nel Torneo di Palazzo per assicurarsi il dominio della Cittadella, ma nessuno sospetta che nell'ombra stia già tramando da tempo un oscuro pericolo che minerà profondamente le basi delle loro istituzioni, rompendo quella pace che, a fatica, è stata riconquistata dopo il tradimento di Kalendor. E intanto Theresa affronta le sue paure cercando di ricordare un passato troppo lontano e inafferrabile, mentre Daianara tenterà invano di battersi per impedirglielo.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 8
 
♦ La malerba ♦
 
“Il rimorso si consuma su un paesaggio devastato,
nei ricordi di quel popolo che è stato maltrattato.
E perdi tempo a domandarti che ne sarebbe stato
se quel giorno in quell’assedio non ti fossi consegnato”
 

 
Raven, dopo essere stato annunciato dal paggio come un legato del Ministro di Ennon, rimase immobile sull’uscio della porta, con un’espressione beffarda cucita sul viso e lo sguardo puntato sulle due ragazze presenti nella stanza, nonostante il galateo imponesse un atteggiamento dimesso e occhi bassi per chiunque non fosse stato invitato ad entrare. Ma ogni curioso era conscio del fatto che la buona creanza, più che un insieme di codici di comportamento, fosse un guazzabuglio di finto perbenismo e moralismo di facciata, e l’unica cosa che poteva fare la differenza era capire con chi potersi permettere di ignorarla e con chi no. E Raven era sempre stato bravo a capire chi si trovava di fronte.
Tess e Daia squadrarono il nuovo venuto, la prima con fastidio, la seconda con sospetto, e solo dopo una manciata di secondi Daianara si decise a congedare il paggio con un gesto incerto, in un tacito invito. La spia si portò una mano al petto in segno di ringraziamento, ma non accennò alcun tipo di inchino e mosse qualche passo claudicante nella loro direzione, fermandosi a debita distanza. Era vestito di semplici abiti scuri e un corto mantello violaceo gli circondava le spalle, ondeggiando ad ogni suo movimento.
«Mi compiaccio di vedere che le vostre condizioni migliorano» iniziò rivolgendosi alla figlia del Ministro, che era tornata a sedersi compostamente sul bordo del letto, le mani in grembo. «Soprattutto» continuò «Mi compiaccio ancora una volta nel constatare come le chiacchiere delle malelingue siano abili nell’inventare i fatti tanto quanto lo sono i carpentieri nel costruire forti. In effetti, giungendo qui, mi sono divertito ad intrattenermi con quanti vi reputavano ormai in fin di vita, irrimediabilmente menomata o anche pazza».
La ragazza storse il naso a quelle parole e quando Tess fece per ribattere la trattenne con un gesto della mano. «E io mi compiaccio quanto voi nel constatare come almeno uno dei due riesca a trarre divertimento da questa situazione».
«Credo solo sarebbe uno spettacolo da non perdere osservare le loro espressioni quando vi vedranno camminare tra loro viva e in piena salute. E aggiungerei con piena padronanza delle vostre facoltà mentali» le sorrise, ma Daia non ricambiò.
«Non credo abbiate allenato i vostri occhi per perdervi alcunché e di certo questo è il posto migliore per assistere a spettacoli simili. Per vostra sfortuna non sono avvezza alle burle e ad Ennon le tragedie non sono gradite, pertanto mi scuserete se non mostrerò interesse alcuno per le reazioni dei cortigiani rispetto alla mia condizione. Lascerò a voi l’onore di osservarle con attenzione, ma spero non sentirete il desiderio di venirmele a riferire».
Il curioso scosse la testa e Tess percepì una nota di sarcastico divertimento in quel suo modo pacato di dimostrare il proprio disaccordo. Sembrava che nulla fosse in grado di indispettirlo o irritarlo e la sua capacità di distaccarsi dal resto del mondo, ignorando qualsiasi forma di biasimo o polemica, aveva un che di invidiabile.
«Accoglierò la vostra richiesta, ma vorrei rifletteste su queste mie parole: scoprirete che non esiste altra verità all’infuori di quella a cui viene data una voce e che i pensieri che rimangono taciuti, per quanto giusti possano essere, si perdono nel vuoto. Potrete certamente ignorare ogni maldicenza, ma nulla uccide un uomo più delle parole che di lui vengono dette. Qui, come altrove, siete ciò che gli altri pensano voi siate, siete come gli altri desiderano vedervi, siete le vostre dicerie e nulla più di questo» gli occhi scuri dell’uomo si fissarono su Theresa «E se vi reputeranno pericolosa, a nessuno importerà la verità. Le maschere che ognuno di noi indossa sono nate dal pettegolezzo ed è questo l’unico strumento che possedete per poter essere ascoltate. Siate furbe. E se sarete più intelligenti di quanti vi circondano, riuscirete a trasformare le loro chiacchiere in armi. In caso contrario, diverranno le vostre più visibili mancanze».
Daianara assunse un’espressione compostamente contrariata, ma non alimentò oltre quella conversazione che le pareva così fuori luogo, specie perché tenuta da un individuo che reputava essere di dubbia moralità. 
«Vi ringrazio per i vostri suggerimenti» disse concisa «Vedrò di farne un uso appropriato».
Raven fece per rispondere con una qualche formula di cortesia, ma Theresa lo prevenne con decisione «Non siete di certo giunto fin qui per renderci partecipi di queste sottili accortezze. Qual è dunque il motivo della vostra visita?».
La spia di palazzo si voltò ad osservarla con aria compiaciuta e incatenò i suoi occhi neri a quelli di Theresa che, per nulla intimidita, mantenne alto lo sguardo.
«In verità devo ammettere che sono venuto qui per voi» accompagnò le parole con un gesto eloquente della mano destra «Vi dissi che mi sarei ripresentato qualora aveste avuto bisogno di me e, per quanto possa immaginare il vostro disaccordo in merito a quanto mi accingo a riferire, non sono un uomo che ha contratto l’abitudine a venir meno alla parola data. Forse vorreste dissentire, e le vostre espressioni manifestano in modo eccellente l’idea che vi siete fatte di me, ma posso assicurarvi che non sono io quello da temere».
Daia lanciò un’occhiata turbata all’amica, che si limitò ad alzare un sopracciglio con fare scettico.
«Cosa volete da Theresa?».
«Solo informarla che l’ultimo scontro a cui ho avuto il piacere di assistere si è concluso e che il giudice ha appena inviato i suoi valletti ad informare voi» si girò verso la rossa «e il vostro sfidante che l’arena vi attende. Mi sono sentito in dovere di precederli».
Tess spalancò gli occhi euforica e in quel momento si sentì solo entusiasta ed eccitata. Ora sembrava non avessero più molta importanza i suoi sogni e le paure che ne derivavano. Era pronta per la sua rivalsa, per mettere in pratica gli insegnamenti del suo maestro, per combattere ancora con Argo e, certamente, per vincere.
«Tocca a me!» strinse fra le sue le mani di Daia, regalandole un enorme sorriso «Finalmente!».
La ragazza contraccambiò la stretta, un po’ meno convinta, ma disse ugualmente: «Sarà un incontro da non perdere».
«Queste giornate prendono una piega che mi piace! E’ ora di aguzzare i ferri!».
«Sarà meglio sbrigarsi» Daianara scese dal letto «Non sono ammessi ritardi in queste circostanze».
Raven, dietro di loro, fece un passo avanti, schiarendosi la voce con un colpo di tosse. «Purtroppo gli ordini di vostro padre, il Ministro di Ennon, sono stati precisi a riguardo e anche le parole del Ministro Howel, seppur più garbate, sono state chiare: voi dovrete rimanere a letto».
«Che cosa?» Daia lo squadrò in malo modo, presa in contropiede.
«Sono venuto per scortare la vostra compagna al torneo e per assicurarmi che le disposizioni di vostro padre venissero rispettate. Dovrete restare qui, almeno fino a quando Howel non deciderà per voi diversamente».
«No» sbottò la ragazza «Io sto bene. Io…».
«Mi rendo conto» la interruppe il curioso «che la situazione non deve essere delle più piacevoli e che la decisione non vi aggrada, ma non può essere altrimenti».
«Voglio parlare con mio padre. Esigo di vederlo!».
 Le labbra di Raven si stesero in un sorrisetto agghiacciante «Me ne rammarico, ma non siete nella condizione di esigere alcunché. Il Ministro di Ennon è al momento impegnato in una riunione del Consiglio, così come il Ministro di Morèa. Rimarrete qui» concluse in un tono che non ammetteva repliche.
«Ma…» Daia cercò con lo sguardo l’amica «Tess, diglielo. Non sono mai mancata».
«Ha ragione» cercò di sostenerla Theresa «Abbiamo sempre fatto questa cosa insieme».
«Non questa volta» tagliò corto Raven e, per porre definitivamente termine alla discussione, invitò con un gesto la sfidante a seguirlo fuori dalla stanza.
«Tess» provò ancora a persuaderla Daia.
La rossa passò lo sguardo prima su di lei, poi sul loro ospite e nuovamente su Daianara. «Mi dispiace» disse, presa tra l’incudine e il martello «Non sarà nulla di speciale, vedrai. Durerà meno del previsto» tentò di essere convincente, ma l’impazienza che sentiva addosso le impedì di dilungarsi ancora in altre spiegazioni «L’importante è che tu ti rimetta. Potrai fare ancora il tifo per me, più avanti».
Fuori dalla camera, Theresa procedette con ampie falcate lungo il corridoio, verso l’arena. Dietro di lei, il curioso avanzava altrettanto speditamente, ma i suoi passi non facevano rumore. Il respiro era regolare, anzi quasi impercettibile, e se la ragazza non si fosse sentita il suo sguardo sulla schiena, probabilmente non avrebbe mai intuito di essere accompagnata.
Le venne spontaneo accelerare il passo per lasciarlo indietro. “Mettiti nella condizione di guardare il tuo nemico” raccomandava sempre Donovan “Se non puoi farlo, metti più distanza possibile tra te e l’avversario. Se non puoi fare nemmeno questo, scappa. Esiste solo una cosa più stupida della fuga ed è morire per orgoglio”.
Non che temesse che lo scagnozzo di Botte di Ferro potesse farle del male o, quantomeno, non in pieno giorno e con i lacchè del giudice in giro per il Palazzo a cercarla. Tuttavia si sentiva in dovere di diffidare di quell’uomo e della sua nomea, e se anche avesse voluto chiedergli aiuto, quei suoi occhi così profondi e l’espressione scaltra di chi cade sempre in piedi non la mettevano a suo agio.
«C’è qualcosa» iniziò Raven senza dare l’impressione di essersi accorto di nulla «Che a mio avviso rende singolare agli occhi dei visitatori il borgo della lana. E non parlo certo dei fiumi, dei rigagnoli e dei canali che solcano le terre di Tanaro, o delle sue paludi, dei suoi laghi e delle sue cascate. Interessanti e degne di attenzione saranno sicuramente le lane pregiate e le spade che lì vengono create con tanta dedizione e con molta più presunzione. Ma nulla rende intrigante un luogo quanto le cose che nasconde e che tutti, nonostante ciò, conoscono. Strana è la legge: vieta l’ovvio, non si esprime sull’incerto e consente la trasgressione».
Le mani di Tess si chiusero in un pugno e la mascella si irrigidì «Le conosco bene le attrattive a cui state così sottilmente alludendo. Tutti gli uomini dei borghi le conoscono e la maggior parte di loro le ha sperimentate. Ennon si è già espressa in merito quando è stata richiesta la sua opinione e, per quanto mi riguarda, è stata anche fin troppo permissiva».
La spia sorrise «E’ ovvio che conoscete la storia. Mi chiedo se siate abbastanza preparata anche sulla realtà».
«Non serve essere informati, è sufficiente non essere ingenui» rispose duramente «Non mi interesserebbe se ogni taverna ospitasse un casino, purchè ogni persona fosse libera di scegliere come usare il proprio corpo. Tanaro non è certo il luogo ideale per manifestare le proprie idee. O le proprie preferenze».
«Propositi ideali, se non fosse che molti potrebbero obiettare che sulle proprietà il diritto di scelta spetta solo al padrone».
«Nessun uomo dovrebbe essere padrone di un altro uomo».
«Dubito che un protettore si senta responsabile dei propri totem, specie se ricorre al sesso mercenario».
«Invece dovrebbe se li crea solo per riempire le proprie case!» obiettò scocciata la ragazza «E’ innaturale il potere che obbliga qualcuno a compiere azioni riprovevoli e a farle passare come volontarie».
Il curioso abbassò lo sguardo «Parlate come se ne aveste avuta una prova».
«Pensavo che voi curiosi sapeste sempre tutto» tagliò corto Theresa e rimase chiusa in un ostinato e lungo silenzio, finchè Raven si rassegnò a non ricevere ulteriori chiarimenti. Superarono un secondo corridoio e scesero la rampa di scale che portava fuori dal Palazzo, ai giardini. A quel punto la rossa, spinta da una immagine che le aveva occupato la mente, parlò. «Non fui io, ma Daia» disse «ad averne conferma. Io sapevo già quello che lei non voleva ammettere: che non tutti gli uomini sono come suo padre, integri e senza macchia. Decise di seguire delle voci circa un bordello ad Ennon, gestito da un magnaccia di Tanaro che aveva pensato di poter ampliare i suoi affari oltre i confini della contrada. Il commercio fantoccio lo chiamavano» precisò con disgusto «Secondo loro non poteva esserci nome più appropriato per la tratta di totem. Quelle donne erano tutte consenzienti e al tempo stesso nessuna lo era veramente. Avevano tolto loro anche la possibilità di discernere ciò che era giusto da ciò che non lo era. Quando Botte di Ferro fece chiudere quello squallore, Daia provò a scuoterle, a persuaderle…ma l’ordine era già stato impartito e la loro vita era stata segnata e se anche lei fosse riuscita a salvarle tutte, nessuna di loro l’avrebbe ringraziata. Fecero quello che era scontato facessero: seguire il loro padrone. E quando lui tornò a Tanaro loro andarono con lui e Zane non potè impedirglielo. C’erano anche delle bambine. Daia ricorda ancora tutti i loro nomi. E’ sempre stata troppo sprovveduta».
«Suppongo che Tanaro abbia un concetto di “donna” differente dal vostro. Specie quando di donne, effettivamente, non si può parlare».
Theresa si fermò di colpo e girò il viso per poterlo guardare negli occhi. «Ed il loro concetto di “donna” è uguale al vostro?» domandò con aria minacciosa. Squadrò l’uomo in attesa di una risposta, ma l’espressione di Raven era impenetrabile.
La spia sorrise enigmatica «Forse lo scoprirete da sola» rispose e la sorpassò.
«Perché avete voluto affrontare questo argomento proprio con me?» domandò sospettosa Tess senza muoversi di un passo.
«Perché pensavo doveste essere informata sul vostro sfidante».
«Chi è?».
«Voi non lo conoscete» premise Raven «Ma a Tanaro è famoso, non di certo per i propri meriti, bensì per quelli del padre. Gli sono stati dati molti nomignoli, nessuno dei quali piacevole, eppure a mio avviso tutti fin troppo leggeri. In ogni caso, nell’arena verrà annunciato come Solome, del borgo dei telai. Il padre è conosciuto per aver gestito una serie di bordelli di bassa lega nella zona dei laghi, in prossimità del porto, dove erano solite sbarcare navi mercantili provenienti al di là del Grande Golfo. Mi pare superfluo aggiungere quale tipo di merci trasportassero le galere. Siete una ragazza perspicace, sono certo lo intuirete da voi. Il punto è che, sebbene ufficialmente il Ministro di Tanaro sia intervenuto con una legislazione appropriata, i porti della sua contrada risultano essere sempre ed immancabilmente protagonisti di un insolito via vai di acquirenti delle più disparate specie. E il padre del vostro sfidante è, insolitamente, sempre il primo della fila. Ma il vostro problema, al momento, non è quel ragazzino un po’ troppo arrogante e viziato, ma il fatto che il giudice di gara sia uno degli ospiti preferiti di queste bettole. E quando viene ospitato raramente dorme solo».
Sul volto di Theresa si dipinse un’espressione nauseata e la bocca si piegò in una smorfia. «Il che, io immagino, dovrebbe farmi dubitare della sua imparzialità».
«Non è mio compito suggerirvi cosa pensare. Io metto a disposizione gli strumenti, che al momento vi mancano, per poter osservare gli eventi nel loro insieme. E’ tutto vostro l’ingrato compito di trarne le deduzioni che riterrete più opportune».
«Sostanzialmente ve ne tirate fuori».
«Non mi è stato chiesto di rimanerne dentro».
«Allora cosa suggerireste di fare?».
Raven alzò gli occhi al cielo «Per vostra fortuna, Solome è al suo primo torneo ufficiale. E’ una grande esperienza. E tutte le grandi esperienze possiedono un denominatore comune: il pubblico. Amici, parenti, compaesani, scommettitori, vecchie antipatie, qualche fiamma…questo gioca a vostro vantaggio».
La ragazza accennò un sorriso, ma fu solo per un momento «Il giudice non si comprometterebbe fino a questo punto, davanti a tutti, solo per mantenere un buon rapporto con un furfante qualsiasi».
«Un furfante ricco» precisò la spia, scendendo l’ultimo gradino della scalinata.
«Quanto è corrotto questo posto?» si domandò Theresa.
«Oh, non immaginate quanto» rispose divertito lui.
L’arena era già pronta ad attenderli, gli spettatori disposti disordinatamente sulle tribune di legno, sufficientemente vicini al campo di gara, abbastanza lontani per sentirsi al riparo. Su una gradinata rialzata, protetto da due gendarmi, il giudice di gara sedeva sul suo scranno come un re assiso in trono, e voltava gli occhi da una parte all’altra del campo, forse annoiato, forse impaziente. Alla sua destra e alla sua sinistra due ragazzetti in livrea gialla tenevano tra le mani l’uno la clessidra del gioco, ancora riempita di granelli dorati, l’altro un cuscino di velluto su cui erano stati poggiati i biglietti di papiro con su scritto, a bella grafia, i nomi degli sfidanti. La toga color vinaccia dell’arbitro e i pesanti gioielli che portava appesi al collo avrebbero permesso a chiunque di riconoscerlo anche tra la folla più numerosa e, di questo, ne andava certamente orgoglioso e non tentava di mascherarlo.
Sugli spalti, le genti delle cinque contrade si erano divise più o meno equamente i posti a sedere e quelli in piedi: il borgo di Tanaro era certamente quello più numeroso e acceso, donne e uomini cantavano all’unisono ballate tradizionali e agitavano freneticamente i loro arazzi; del rione di Kalendor, così come per quello di Morèa, quasi nessuno era giunto ad assistere alla gara e molti se ne erano andati dopo il termine dello scontro precedente; degli abitanti di Nika Tess non riconobbe nemmeno un volto familiare, ma i presenti sembravano tutti attenti e incuriositi, anche se la loro naturale compostezza non lasciava trapelare più del lecito; di Ennon in molti avevano preso posto per supportare la loro compaesana e, quando la videro arrivare, un manipolo di fabbri iniziò a battere il piede del martello sul parapetto dello spalto, mentre un altro battè a terra le lance a mo’ di incitamento. Theresa rispose al loro benvenuto con il segno di saluto e incrociò lo sguardo di Isolde, seduta nelle prime file. La donna, schiena retta e mento alzato, non si scompose come i suoi vicini all’entrata della ragazza, ma scambiò con lei una lunga occhiata e accennò un assenso. Per Tess quel muto incoraggiamento fu più che sufficiente.
Raven si congedò da lei con un veloce e poco sentito inchino e, con la camminata incerta che sempre lo contraddistingueva, rimase in disparte ad osservare e commentare lo svolgersi degli eventi.
Oltre la staccionata di legno scuro che delimitava l’area del campo di combattimento, anche Argo sembrava attendere impaziente l’inizio dello scontro. Il suo manto nero era stato strigliato a dovere dagli scudieri e ora, vista la pioggia che iniziava a cadere dal cielo, sembrava ancora più lucido. Theresa gli corse incontro, concentrata sull’obiettivo della sfida ed entusiasta di poterla affrontare ancora con il suo totem, in una nuova rivincita che, questa volta ne era certa, l’avrebbe appagata completamente. Il cavallo drizzò le orecchie e nitrì quando vide la sua padrona avvicinarsi.
«Ci siamo!» sussurrò trepidante Tess, allungando una mano e tenendola aperta di fronte a sé. Argo poggiò il muso al suo palmo per riceverne la carezza ed entrambi rimasero in quella posizione per un lungo istante, persi l’uno nelle intenzioni dell’altra, ed entrambi si sentirono stretti in un legame indissolubile che trascendeva qualsiasi emozione ed ignorava qualsiasi regola, più forte di tutti i rapporti che si sarebbero mai potuti instaurare tra un uomo e un altro uomo. Era la certezza del “per sempre” più sincero e l’unico a cui Theresa credesse veramente. Ora si sentivano pronti. 
Quando il Giudice di gara si alzò in piedi, sull’arena prima chiassosa scese un discreto, seppur poco duraturo, silenzio.
«Che si dia inizio al ventiduesimo giogo del terzo girone per la nomina a Mastro Artigiano» provò ad urlare l’uomo, rivolgendosi alla platea lì presente. La sua voce era più flebile di quanto ci si potesse aspettare da un individuo della sua stazza. «Come sempre confidiamo in rettezza, rispetto e coscienza. Siamo qui per fare in modo che questi principi vengano rispettati». Pronunciò una formula di ringraziamento a cui tutti i presenti risposero: «Meleth!».
Il primo valletto fece un passo avanti, mostrò la clessidra e la capovolse. Il secondo sporse al suo padrone i frammenti che erano stati precedentemente estratti, affinché potesse rendere noti ufficialmente i contendenti.
«Si schierino indi Solome, del borgo di Tanaro e Theresa, della contrada di Ennon. Gli sfidanti entrino nell’arena».
Il cancello venne aperto e Tess, tenendo Argo per le redini, si mosse a passo sicuro verso il centro del campo da gioco, il tacco degli stivali che leggermente affondava sul terreno bagnato. Anche il suo rivale le venne incontro, ma data la lontananza e quella fastidiosa pioggerella, Tess non riuscì subito a mettere a fuoco i contorni della sua figura. Solo quando furono abbastanza vicini la ragazza riuscì finalmente a riconoscere il suo avversario. Era un ragazzino acerbo, dai vispi capelli rossicci e il viso coperto di foruncoli; non era ancora molto alto, ma gli arti lunghi e sottili suggerivano che nel giro di pochi anni sarebbe cresciuto superando tutti i suoi coetanei di un paio di spanne. Gli occhi chiari sembravano inespressivi, ma l’atteggiamento e il sorriso di scherno che aveva cucito in volto erano gli inconfondibili tratti degli uomini di Tanaro.
Era vestito con abiti di semplice fattura, ma i tessuti erano molto al di là delle possibilità economiche di un cittadino qualsiasi. La stessa cosa non poteva dirsi per la giovane che procedeva mesta alle sue spalle. Il totem di Solome aveva un aspetto dimesso, trascurato; gli abiti erano sgualciti e rattoppati in più punti, ma nonostante fossero così stropicciati, la scollatura troppo pretenziosa, i colori accesi, il trucco un po’ troppo presente per quel viso così dolce e la gonna ampia non lasciavano dubbi circa la condizione di quella ragazza. I capelli, tagliati all’altezza delle spalle, erano lisci e neri, come i suoi occhi, occhi che apparivano assai gentili, ma spenti, privi di qualsiasi guizzo, incapaci anche di riflettere la luce. Tess rabbrividì a quella vista pietosa, ma non diede mostra del suo turbamento.
Quando si trovarono uno di fronte all’altra, la rossa sguainò la sua spada corta dal fodero e la piantò a terra, quindi si inginocchiò. Anche Solome impugnò la sua spada bastarda e ne conficcò la punta nel terreno, ma non si inginocchiò, né accennò alcun tipo di ossequio; quando il suo totem invece abbozzò una riverenza, accompagnata da un timido sorriso, lui la riprese malamente.
«Camària!» sibilò il suo nome, facendole segno di ricomporsi e la ragazza ubbidì all’istante. 
«Da dove provieni forse non insegnano l’educazione?» chiese Tess, rompendo il saluto.
Solome la degnò a malapena di una risposta. «Da dove provengo io il rispetto va portato solo a chi conta davvero».
«Conterò con piacere le tue scuse quando avremo finito qui» sorrise di rimando.
«Ho sentito parlare di te. Sei la figlioccia del Ministro di Ennon, quella che dicono essere nata nel borgo sbagliato. Non gareggi nemmeno con la lancia».
«Fai attenzione ragazzino, la lingua lunga non serve quando non si ha la vittoria in tasca».
Fece spallucce. «Per quello che vale, io credo si sbaglino. Tutti loro. Non sembri avere proprio la stoffa per essere una di Tanaro». 
Prima di allontanarsi e montare su Argo, vide il ragazzo levare la spada e passarla bruscamente a Camària.
«E questa volta vedi di non sbagliare» le intimò, dirigendosi al limitare dell’arena.
Theresa arricciò il naso. «Che vigliacco…» pensò ad alta voce mentre Argo, sotto di lei, scalpitava.
Impugnata la sua spada di acciaio chiaro, la rossa fece roteare il polso, in un blando riscaldamento, e saggiò il terreno sempre più scivoloso facendo muovere il cavallo di qualche passo. Davanti a lei, Camària si era messa sulla difensiva, le spalle incurvate, le gambe pronte a scattare; brandiva l’arma con due mani, ma tutto del suo corpo suggeriva disagio.
Ogni schiamazzo dalle tribune cessò, lasciando spazio solo a qualche mormorio di sottofondo.
La rossa si strofinò gli occhi per pulirli dalle gocce di pioggia, attendendo un attacco della rivale, ma quando fu chiaro che Solome non avrebbe mai impartito l’ordine per la prima mossa, alzò la spada e si preparò alla carica. Con una leggera pressione, Argo partì al galoppo e Camària, anziché spostarsi, scattò verso di loro per iniziare uno scontro frontale. Nonostante la gonna sembrasse ingombrante, la ragazza si muoveva agilmente, con una velocità superiore alla norma, gli occhi fissi sull’obiettivo.
A poca distanza dalla rivale, Tess si sporse dal dorso di Argo per mettere a segno il suo fendente. Solome urlò un ordine e il totem schivò il colpo, come una marionetta mossa da fili invisibili, spostandosi lateralmente con un balzo. Sembrò per un attimo perdere l’equilibrio e Tess ne approfittò, preparandosi per un secondo fendente. Tirò le redini e il cavallo si girò, ma quando fu faccia a faccia con Camària questa raccolse da terra una manciata di sabbia bagnata e gliela gettò sul viso, riempiendole gli occhi. Argo si impennò davanti a quel movimento brusco ed indietreggiò quel tanto che bastava per non essere più alla sua portata.
«Dannazione!» esordì Theresa, strofinandosi gli occhi, cercando di ripulirli il più velocemente possibile «Giochi sporco!». 
«Mi dispiace» rispose Camària, sinceramente contrita. Per un attimo i suoi occhi si accesero di vita, il volto si contrasse e mostrò cenni di espressione, ma fu solo per un attimo.
«Azzoppa il cavallo!» sbraitò Solome «Colpisci adesso!».
All’ordine del suo padrone, lo sguardo della ragazza tornò ad essere vitreo e privo d’intenzione. Si mosse come in trance verso Argo, tenendo dritta la spada davanti a sé.
«No!» urlò Tess e con un colpo di tacco fece allontanare l’animale per poter guadagnare tempo e tornare a vedere chiaramente. Camària, dal canto suo, li seguiva in corsa, ma per quanto potesse essere veloce non sarebbe mai stata in grado di raggiungerli.
Theresa sentiva gli occhi irritarsi e lacrimare e quando tentava di aprirli non riusciva a distinguere altro che macchie di colore senza contorno. Serrò e riaprì le palpebre più e più volte e solo nel momento in cui smisero di bruciare tirò le redini, con l’intenzione di affrontare Camària di petto. La ragazza non si arrestò e continuò a correre verso di loro, la spada alzata, sicura di colpire. Tess attese il momento giusto. Vide il totem rallentare, piegare le ginocchia per prepararsi al salto, alzare le braccia per sferrare un attacco obliquo che avrebbe squarciato il ventre di Argo. Ma aspettò ancora, perchè tutti i conflitti si misuravano in secondi, e sarebbe stata quella frazione di secondo in più a darle maggiori possibilità di vittoria; quell’attimo che avrebbe permesso a lei di giocare sulla sorpresa e che avrebbe impedito all’altra di coprirsi il costato una volta affondata la spada.
All’ultimo secondo, prima che fosse troppo tardi, Argo scartò a destra e mentre l’attacco di Camària fendeva la pioggia, Tess si portò alle sue spalle, roteò la spada e, lasciando libere le redini, afferrò con entrambe le mani l’impugnatura. Prima che Solome potesse intuire la sua mossa e ordinare a Camària di schivare, Tess colpì la ragazza all’altezza delle costole. Il pomello di ferro dell’elsa le schiacciò il costato, togliendole il respiro, e Theresa continuò a colpirla, sulle spalle, sulla schiena, alla bocca dello stomaco, aspettandosi di vederla allentare la presa sull’arma. Dall’altra parte dell’arena, Solome continuava a sbraitare comandi.
L’ultimo attacco che Tess sferrò, quasi snervata, fu di lama e lacerò il fianco di Camarìa. Le stoffe del vestito e della sottoveste si tagliarono di netto e la spada affondò, seppur non in profondità, nel suo corpo. Ma, ovviamente, lei non sanguinò. Si portò istintivamente una mano alla ferita e Tess sfruttò l’occasione per colpirle il polso: girò la spada e le battè la mano col dorso della lama. La ragazza aprì le dita e la sua arma scivolò, a pochi passi da lei. Subito fece per scaraventarsi a terra e riprenderla, ma Theresa la anticipò, saltando giù dalla groppa del suo totem e schiacciandole la mano sotto lo stivale. Con l’altro piede calciò lontano la spada. «Argo!» urlò, facendo segno al cavallo di dirigersi in quella direzione. L’animale ubbidì, nitrendo e sbuffando dalle narici, posizionandosi davanti all’arma come un cane che protegge il suo osso.
Tess indietreggiò, lasciando libera Camària, che rimase a terra, in ginocchio. Dalla platea si levarono le grida di Ennon e gli applausi di Nika, mentre il borgo di Tanaro taceva. Per tutti, lo scontro era finito.
La rossa si asciugò la fronte bagnata con la manica del camiciotto, aspettando che il giudice di gara alzasse le braccia per annunciare il vincitore. Rinfoderò la spada corta, poggiò le mani alle ginocchia e tirò un lungo e profondo respiro. Ma l’unica voce che si udì, chiara e aspra, fu quella di Solome.
«Rialzati!» ordinò, agitando i pugni in aria «Continua! Dannazione, continua!».
«Hai perso!» urlò di rimando Theresa «Arrenditi ragazzino!».
«Mai! Mai contro una come te! Attacca, attacca!».
La mano di Tess corse all’elsa quando Camària si rimise in piedi, il vestito rovinato e sporco di terra. Le gocce di pioggia le scendevano lungo il viso e i capelli bagnati le si appiccicavano al collo.
Anche Argo fece per lasciare la sua posizione, ma la rossa lo fermò. «Rimani lì» disse senza voltarsi a guardarlo «Non deve prendere quell’arma». Lanciò un’occhiata al Giudice, ma non le sembrò che questi avesse intenzione di riprendere il giovane contendente per l’insana ostinazione di cui stava dando mostra.
Camària vacillò, come se non avesse completamente il controllo dei suoi arti, quindi si scagliò contro Theresa a mani nude, sotto gli incitamenti di Solome.
Tess sfilò il fodero dalla cintura e lo usò per proteggersi dagli assalti della ragazza che cercava di graffiarle il viso con le unghie. Alcune volte la veemenza della rivale la costrinse ad indietreggiare, in altre riuscì a colpirla con la custodia. Camària finì a terra altre due, tre, quattro volte. Dopo la quinta Tess cessò di contarle.
Gli uomini di Tanaro, dall’alto delle loro tribune, battevano le mani e agitavano i blasoni; gli altri rioni, per contro, mormoravano disapprovazioni. I pochi di Morèa che erano rimasti ad assistere cominciarono ad inveire, alzare pugni e sputare minacce. Solo allora il Giudice di Gara iniziò a dare segni di ripensamento.
Theresa non avrebbe saputo dire per quanto tempo lei e Camària andarono avanti in quel modo, senza giungere ad alcun risultato. Iniziava a sentirsi stanca, le gambe erano indolenzite, i riflessi rallentati e il terreno si era fatto molto scivoloso. Con un ulteriore sforzo, la ragazza alzò il fodero e lo calò con energia sulla spalla della giovane, che cadde nuovamente in ginocchio davanti a lei. Tess dovette trattenersi dall’estrarre la spada. Se l’avesse usata per trapassarla da parte a parte, o per azzopparla, o per accecarla, l’incontro si sarebbe certamente concluso in maniera incontestabile. E lei era certamente affaticata, provata, snervata, ma per nessuna ragione sarebbe giunta a tanto pur di vincere.
Scosse la testa e scacciò il pensiero. «Per favore» disse, cercando gli occhi della ragazza davanti a lei «Ora basta». Le allungò una mano per aiutarla ad alzarsi «Non voglio continuare così».
Camària alzò lo sguardo e annuì impercettibilmente. Respirava affannosamente, tremava, ogni movimento le procurava dolore. Afferrò la mano che le era stata tesa, ma quando si rimise in piedi il fianco le cedette e Tess dovette sorreggerla.
«Scusatemi…» sussurrò con voce spezzata il totem.
«Che cosa stai facendo?!» abbaiò Solome «Stupido essere! Giuro che questa volta il tuo bel faccino non ti salverà, mi hai sentito? Non ti salverà! Non è finita fino a quando non lo dico io! Vedi di riprenderti, inutile straccio!».
«Basta così» sibilò Tess, le mani chiuse in un pugno. Si lasciò Camària alle spalle e raggiunse il ragazzo di Tanaro, il quale continuava imperterrito ad impartire ordini, senza però che il tuo totem avesse la forza di metterli in pratica. Lei se ne stava così, immobile sotto la pioggia, accennando di tanto in tanto dei movimenti, senza arrivare mai a finirli; gli occhi le si illuminavo e le si offuscavano, come una fiamma in procinto di spegnersi, ma a lui non importava.
Solome indietreggiò quando Tess estrasse la spada corta, buttando a terra il fodero.
«Non ti avvicinare!» urlò, facendo la voce grossa.
Theresa per tutta risposta si lanciò su di lui, afferrandolo per la collottola e strattonandolo. Gli abitanti di Morèa la incoraggiarono con grida e versi. «A me non puoi dare ordini, piccolo gradasso. Mi sono spiegata? Ora che non c’è nessuno ad impedire che i tuoi bei vestitini si sporchino te ne stai con la coda fra le gambe e le orecchie abbassate, come il più codardo dei cani. Ti piace giocare a fare il prepotente? Bene, hai giocato con me e io ho vinto e nessuno salverà te adesso, marmocchio viziato!».
Solome aprì la bocca per rispondere, poi la richiuse. Cercò di spingere via Theresa, ma lei aumentò la stretta. Guardò oltre le sue spalle e urlò ancora: «Vieni subito qua Camària!».
«Lasciala stare!» la rossa alzò la spada, puntandogliela al cuore «Tu prova a parlare ancora, prova anche solo a biascicare un ordine e giuro che la lingua sarà solo l’ultima cosa che ti taglierò».
Solome si divincolò ancora sotto la sua presa e infine Theresa lo lasciò andare, buttandolo a terra. A quel punto lui si piegò per sfilarsi un piccolo pugnale, lungo e sottile, da sotto la casacca e con mano malferma fece per colpire la sua rivale, puntando allo stomaco. Ma i suoi movimenti furono troppo lenti e troppo goffi e la ragazza si scostò ancora prima che lui potesse affondare il colpo. Con un calcio poderoso ai reni, Tess lo buttò nuovamente a terra e gli salì a cavalcioni sulle spalle, per immobilizzarlo. Gli strappò il pugnale dalle mani e piegandosi su di lui sussurrò: «Sei un moccioso patetico. Non te l’hanno insegnato che le armi si mostrano al momento del saluto?».
«L’ho fatto!» si difese subito lui.
«Non ci provare, non mi scordo facilmente di chi tenta di offendere la mia intelligenza. Questo giochetto ti costerà la squalifica». Alzò il pugnale in aria, per farlo vedere a tutti gli spettatori. Poi, fissando il giudice, lo calò sulla testa del ragazzo che, spaventato, contrasse ogni muscolo del corpo e strizzò gli occhi, lagnandosi.
«Spero tuo padre l’abbia pagato profumatamente» concluse e la punta dell’arma gli sfiorò la guancia, graffiandogli lo zigomo, mentre veniva conficcata nel terreno.
 
♦♦♦
 
Sotto la settima torre campanaria, in direzione sud-est, si apriva un modesto giardino recintato, il più dimesso fra tutti i parchi che circondavano il Palazzo della Sacra Cittadella, pieni dei loro alberi rigogliosi, dei loro ruscelli e laghetti artificiali, dei loro fiori così accuratamente disposti. Si trattava di uno spazio che era stato ricavato a ridosso delle alte mura e al di là di queste il chiacchiericcio della folla al mercato e in piazza o il rumore proveniente dalle armerie e fucine si facevano sentire. Pensato probabilmente per ospitare altri padiglioni o alloggi per la servitù, infine il terreno era stato recintato e abbandonato. Il terreno era acciottolato e ospitava solo qua e là qualche ciuffo d’erba; il sentiero che era stato precedentemente tracciato, con grandi pietre tonde e levigate, conduceva al nulla; le panchine, mai state troppo utili, erano coperte di foglie secche e terra. Eppure, nonostante conoscesse altri luoghi certamente più silenziosi e piacevoli, Ophelia non avrebbe scambiato quel giardino con nessun altro al mondo. Non mancava mai di recarsi in quel posto dimenticato da tutti - o forse mai cercato - quando le si presentava l’occasione di sostare a Palazzo e ogni volta che varcava il cancelletto di ferro arrugginito per mettervi piede, il ricordo della sua vecchia casa la pervadeva. Era un giardino abbandonato, trascurato, svuotato, così come lo erano le rovine di Kalendor, e come loro sarebbe presto stato dimenticato anche da chi ne conservava ancora la memoria.
Dopo la guerra, della sua città natale non erano rimaste che le vestigia e i ruderi del borgo si affacciavano ancora sulla strada che portava a Morèa, attraversando campagne ormai sterili e disabitate. Ophelia si era recata spesso alle rovine, insieme a quello che rimaneva della sua gente, ma con il passare del tempo e l’avanzare dell’età le sue visite si erano fatte sempre più sporadiche e brevi, sia perché non erano rimasti in molti a rendere disponibili le proprie carrozze per una simile destinazione, sia perché i ruderi erano divenuti il ritrovo ideale di banditi, tagliagole e malfattori che di notte accendevano i fuochi e davano inizio a losche trattative. Ish-kalei, la città senz’anima. Così veniva chiamata la vecchia Kalendor da quanti parlavano ancora il dialetto del luogo, ma fuori dal borgo nessuno più osava menzionarla e molti non ne sentivano nemmeno il bisogno. I sopravvissuti alla ribellione si erano spostati ad ovest e in mezzo alle colline Kalendor era stata ricostruita con impegno e fatica, ma non possedeva quasi più nulla dello splendore di un tempo. Le grandi finestre pigmentate, gli alti palazzi, le botteghe ad ogni angolo, i chiassosi mercati coperti da pannelli di vetro intarsiato che coloravano l’ambiente di ocra, rosso e arancio, i venditori di pietre preziose, specchi e calici, erano tutti un lontano ricordo.
Ophelia rammentava come fosse andato tutto distrutto all’arrivo delle legioni della Cittadella. I corni della capitale accompagnavano i soldati in fermento, seguiti dai cavalieri di Tanaro, dagli uomini di Ennon e dagli arcieri di Nika e a nulla valsero i fossati, le catapulte, gli sbarramenti quando li circondarono. Dalle feritoie dei forti di Kalendor si scorgevano fila e fila di uomini e nessuno sapeva spiegarsi come fossero riusciti a reclutarne così tanti in così poco tempo, con la carestia e l’epidemia che decimavano la popolazione in ogni dove. Poi la decisione di Ophelia di dichiarare la resa e abbassare il ponte levatoio, come aveva promesso di fare ad Howel, e a quel punto la fine di qualsiasi speranza. Quando le forze di Morèa giunsero a Kalendor era ormai troppo tardi.
«No!» aveva urlato Howel, il più giovane Ministro del reame, scendendo da cavallo «Si erano consegnati! Che cosa avete fatto?».
«Solo quello che era giusto facessimo» aveva risposto altezzosamente l’allora in carica Maestro di Palazzo, tra le mani i ferri arroventati per marchiare i sopravvissuti. I Ministri che lo avevano accompagnato si erano scambiati uno sguardo d’assenso.
«Avete mosso guerra ad un popolo disarmato! Non siete degni del ruolo che ricoprite, né di essere considerati uomini, quando vi comportate come bestie assetate di rivalsa! Avete giurato di proteggere questa gente e ora io mi chiedo, in mezzo a tutte queste macerie e a questo sangue, che fine hanno fatto le vostre promesse?!».
«Nessun voto può essere mantenuto davanti ad una chiara prova di tradimento!» aveva ribattuto il Ministro di Ennon, avvicinandosi a quel giovane allampanato che, vicino a lui, sembrava ancora più smilzo e inerme.
«Siete voi i traditori se giustificate con le menzogne le vostre azioni!».
«Bada bene ragazzino» aveva iniziato, tirandolo per la collottola «Sei arrivato dove ti trovi molto in fretta e altrettanto rapidamente possiamo rimetterti al tuo posto!». Lo aveva scaraventato a terra, la faccia nella polvere, ed Howel era rimasto lì, in ginocchio, con una sensazione d’impotenza a schiacciargli il cuore e ad avvilirgli lo spirito. Ophelia lo aveva guardato struggersi mentre veniva portata via in catene e quella fu l’unica volta in cui lo vide piangere. Ve ne sarebbe stata una seconda, ma questo lei ancora non lo sapeva.   
Ci abbiamo provato, amico mio, pensò Ophelia distrattamente, l’unica colpa che possiamo rimproverarci è quella d’esser stati troppo ingenui. Ma Kalendor ti è riconoscente ed io ti devo tutto. Hai allevato i tuoi discepoli come fossero la tua prole, li hai educati a sentirsi uno il fratello dell’altro, hai insegnato loro a dubitare dei vincitori e a provare pietà per i vinti, per far sì che nulla di quanto accaduto potesse ripetersi. Eppure ora sono divisi, perché l’animo umano non può essere cambiato. Oh caro, vecchio amico mio, ne abbiamo viste troppe per credere ancora di poter disporre del futuro come più ci aggrada. Lascia che sia il tempo a decidere. E se la guerra arriverà, non importerà più tutto l’impegno che avrai speso per evitarla. 
Le sue riflessioni vennero interrotte quando una piccola mano paffuta le strattonò la veste per richiamare la sua attenzione. Il Ministro di Kalendor abbassò lo sguardo e sorrise dolcemente e le rughe intorno alla bocca si accentuarono «Scusa cara, questo posto mi fa tornare in mente tanti ricordi. E si sa, alla mia età i pensieri non corrono veloci come un tempo! Cosa stavo dicendo?».
La bambina fece per rispondere, ma quando suo fratello la sorpassò di corsa, urtandole una spalla, gridò solo: «Smettila Dustan!». Il bambino non diede segno di averla sentita e continuò a girovagare per il piccolo giardino, seguito da Levi che, seppur composto nel suo abito così formale, non gli negava mai il gioco.
La piccola Dorota aggrottò la fronte e le labbra si serrarono in un broncio, ma quando Ophelia le accarezzò una guancia tutta la sua disapprovazione sparì. Il vecchio Ministro la prese per mano e si trascinò con lei fino alla panchina più vicina. Prima di sedersi, Dorota ripulì il legno dalle foglie secche per non sporcare il vestitino che le piaceva tanto.
«Perchè non sei venuta oggi alla riunione?» le chiese noncurante la bambina, facendo dondolare i piedi avanti e indietro. Le sue scarpette non arrivavano a toccare terra.
«Non è ancora giunto il momento» rispose solo «Per ora credo che le mie parole possano essere più utili qua fuori che lì dentro».
Dustan, poco distante da loro, si mise a raccogliere delle pietre, scegliendo accuratamente quelle più tondeggianti. «Papà si è molto arrabbiato» disse sovrappensiero.
Ophelia annuì «Lo so. E’ una cosa che i grandi fanno spesso».
«Tu non ti arrabbi mai?» chiese incuriosita la piccola di Tanaro.
«Ti svelo un segreto» sussurrò Ophelia con aria complice, portandosi un dito alla bocca, e gli occhi di Dorota si fecero vispi e attenti «Da dove provengo, tutte le donne usano intrecciarsi i capelli. Si dice che non esista altro modo per intrappolare i sentimenti cattivi, quelli che sporcano l’animo, se non imprigionandoli nelle ciocche di una lunga treccia. E più saranno le emozioni di cui vorrai liberarti, più code avrà la tua treccia. E chiunque la guarderà saprà quante battaglie stai combattendo…qui dentro» le toccò il petto, all’altezza del cuore.
Il viso pieno di lentiggini di Dorota si illuminò e i suoi occhi vagarono sulla lunga treccia bianca del Ministro di Kalendor. Allungò le dita per toccarle i capelli con aria incuriosita ed Ophelia, intuendo le sue intenzioni, girò il busto per permetterglielo. La bambina sentì i capelli fini e morbidi sotto i polpastrelli e tra le ciocche canute non scorse nemmeno più un filo colorato. Chiese: «Quante code ha la tua treccia?».
«Cinque. Ma ogni giorno possono cambiare».
«Potresti intrecciare i capelli anche a me?».
Ophelia accennò col capo un segno d’assenso e dopo essersi seduta più comodamente, piantando bene i piedi a terra, invitò Dorota a salirle sulle ginocchia. La bambina di Tanaro non se lo fece ripetere due volte e si arrampicò sulla lunga gonna chiara del Ministro, mostrando un’euforia ed una gaiezza che solitamente custodiva più gelosamente. Ophelia lasciò che Dorota si perdesse a guardare nel suo specchio mentre le passava le dita affusolate e rattrappite fra i capelli setosi, facendo attenzione a sciogliere ogni nodo senza farle male. Con dimestichezza, l’anziana donna intrecciò le ciocche ramate della piccola fino alle punte e poi nuovamente, fino a creare una bellissima, piccola treccia dalle molte sfumature rossastre. Dorota, in silenzio, accarezzava la superficie del cimelio di Kalendor e gli occhi castani indagavano il riflesso con rassegnata malinconia. Nessuno sarebbe stato in grado di indovinare l’immagine che in quello specchio si era venuta formando e neanche Ophelia era in grado di vedere ciò che l’animo celava con così meticolosa cura. Eppure le sembrò così ovvia la nostalgia di quegli occhi e di quelle carezze, che subito le disse: «Hai i colori di tua madre tra i capelli. Sono molto belli».
All’inizio Dorota non diede segno di averla sentita, ma dopo qualche secondo annuì con decisione.
«Ti ricordi di lei?».
La bambina scosse la testa. «No. Ma la vedo qui» indicò con il dito un punto vuoto nello specchio «Insieme a papà».
Dustan, poco lontano da loro, smise immediatamente di giocare con Levi e gettò a terra tutte le pietre che aveva accuratamente raccolto. «C’è la mamma?» chiese trepidante e non attese la risposta per raggiungerle di corsa. Con riluttanza Dorota girò lo specchio per permettere anche al fratello di guardarvi dentro e gli occhi del bambino rimasero spalancati fino a quando, sulla superficie impolverata e graffiata, non si delineò la figura di una donna. Era vestita con abiti semplici, anche se sullo sfondo si scorgevano poltrone di velluto e tende ricamate a filo d’oro; la carnagione era pallida, quasi malata, ma lo sguardo era ancora pronto e tutto il viso era costellato di minuscole lentiggini; la bocca sottile era curvata in un sorriso gentile e affettuoso e i lunghi capelli ramati erano lasciati sciolti. Quando la donna nello specchio allungò la mano, Dustan si alzò in punta di piedi per poter avvicinare la fronte e ricevere la carezza della mamma, ma la sua pelle incontrò solo la superficie fredda e dura. Tuttavia non ne fu stupito, perché si era già da troppo tempo abituato a quella mancanza, e forse per questo non ci rimase nemmeno male.
Dorota attese qualche secondo, poi girò nuovamente il cimelio, vi buttò ancora un rapido sguardo e, dopo aver visto materializzarsi il suo desiderio, se lo strinse forte al piccolo petto muovendo leggermente il busto a sinistra e a destra, come se questo potesse accompagnare meglio la sua stretta.   
Dustan la guardò perplesso. «Cosa fai? Piangi?» chiese ingenuamente.
«No. Io non so piangere» spiegò con semplicità la sorella «Non ho lacrime».
Ophelia regalò alla bambina un sorriso mesto e le accarezzò la testa. «Per piangere non sempre servono le lacrime. A volte un sorriso è il più grande dolore che qualcuno possa mostrare» le sussurrò all’orecchio.
Dorota annuì sommessamente, anche se non comprese appieno le parole del Ministro, e si limitò a giocare con la sua nuova treccia.
«Nostro padre diceva che la mamma aveva i capelli più lunghi e belli di tutto il borgo» disse sovrappensiero Dustan.
«E aveva ragione» lo assecondò Ophelia «L’avrebbe riconosciuta anche fra centinaia e centinaia di dame. E non è cosa facile».
«Già…» bisbigliò il bambino «Tutte le donne di Tanaro hanno i capelli rossi…». 

 
   
 
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