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Autore: Damnatio_memoriae    25/01/2018    2 recensioni
Sul continente i ministri dei cinque rioni si affrontano nel Torneo di Palazzo per assicurarsi il dominio della Cittadella, ma nessuno sospetta che nell'ombra stia già tramando da tempo un oscuro pericolo che minerà profondamente le basi delle loro istituzioni, rompendo quella pace che, a fatica, è stata riconquistata dopo il tradimento di Kalendor. E intanto Theresa affronta le sue paure cercando di ricordare un passato troppo lontano e inafferrabile, mentre Daianara tenterà invano di battersi per impedirglielo.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo 9
 
♦ Le ragioni del biancospino ♦

 
“Sboccia il fiore esprimendo la mancanza
del suo bene più prezioso. E la distanza, 
che porta il cuore a morire di speranza,
davanti al loro impegno non avanza”
 

 
Daia guardò Theresa uscire insieme a Raven dalla stanza per dirigersi all’arena e rimase a fissare la porta anche dopo che questa si fu richiusa alle loro spalle. Si rivolse alle domestiche che suo padre aveva chiamato e chiese loro, nel modo più cortese che conosceva, di poter rimanere da sola. Si sentiva intrappolata nella sua stessa camera, messa da parte senza una ragione e, soprattutto, sola. Sola anche se insieme a Theresa, che quando le stava accanto sembrava persa in un mondo tutto suo. La osservava, quando vi riusciva, con occhi pieni di pietà e rammarico e Daia iniziava a chiedersi per quanto ancora sarebbe riuscita a sopportare quello sguardo così estraneo.
Percepiva tra di loro un imbarazzo e una distanza che non aveva mai conosciuto e ogni conversazione, anche la più leggera, si caricava di pesanti silenzi e frasi di circostanza. E ora Tess aveva colto al volo l’occasione per allontanarsi da lei senza doversi sentire in colpa, perché supportata da una scusa inattaccabile, e poco importava che Daia non avrebbe potuto essere presente a quella sua prima sfida.
Forse tutto si riduceva davvero solo a quello, al fatto che Theresa la percepisse come una presenza superflua, che non sentisse il bisogno di averla accanto a sé in un momento così importante, che non avesse mosso poi troppe obiezioni a riguardo - proprio lei che più di tutti odiava le restrizioni.
Si chiese se Tess si sarebbe guardata intorno, come era solita fare durante i suoi allenamenti, per cercarla tra gli spettatori; se, non vedendola in mezzo a tutti quei volti, avrebbe provato dispiacere. Ma in fondo non era così certa di voler conoscere la risposta. Sapeva solo che avrebbe aspettato il suo ritorno, forse un po’ avvilita, un po’ amareggiata, di sicuro arrabbiata, ma l’avrebbe comunque aspettata.
Tornò al suo letto, a quel materasso che ormai aveva preso la sua forma, e a quella moltitudine di cuscini che la facevano sprofondare. Tirò le coperte, coprendosi le gambe, e prese in mano il ricamo che aveva lasciato in sospeso. Cucì di malavoglia, o almeno provò a farlo, ma all’ennesimo errore e al quarto filo spezzato tornò a perdersi nei suoi pensieri.
Rimase immobile, gli occhi fissi sulle mani incrociate e la testa in fermento, fino a quando un rumore alla sua sinistra non la distrasse. La finestra, prima solo socchiusa, si aprì lentamente e il vento soffiò sulle tende d’organza, facendole gonfiare. Dal piano superiore calò una figura, poggiando i piedi sul davanzale, aggrappandosi alla cornice di pietra per rimanere in equilibrio. Scivolò nella stanza con un movimento fluido, abituato com’era a muoversi agilmente tra pennacchi, torri, merli, a spostarsi senza far rumore, come il vento che soffia ma che nessuno riesce a vedere.
Daia spalancò gli occhi, colta di sorpresa. Il suo primo istinto fu quello di scattare giù dal letto, correre verso la porta e chiamare le guardie, ma quando le tende si gonfiarono nuovamente, mostrandole il volto del visitatore, rimase al suo posto.
Caleb, vestito della sua livrea verde un po’ scolorita e i capelli troppo lunghi lasciati spettinati, la fissò con uno sguardo imbarazzato e forse per questo rimase fermo al suo posto, senza volersi avvicinare, come se si sentisse in colpa per essere entrato senza aver bussato, ma non abbastanza rammaricato da voler tornare indietro.
«Che cosa state facendo?» domandò Daia, tentando di nascondersi dietro le coperte in uno slancio di pudore.
«Scusatemi, non era mia intenzione spaventarvi».
«E quale sarebbe stata la vostra intenzione allora?».
Il ragazzo, fermo in piedi davanti a lei, incrociò le braccia al petto e spiegò con semplicità: «Nessuna in particolare. Sorvegliavo quest’ala del Palazzo, perché è questo il mio compito, e ho potuto ascoltare le vostre conversazioni. Non ho origliato» si affrettò subito a dire, vedendo l’espressione di Daia «Solo, il mio udito è più sviluppato del vostro. Sono stato creato così. Riesco a vedere ad una grande distanza, posso riconoscere i volti dei passanti dietro il muro di cinta e contare gli uomini che si sono seduti negli spalti dell’arena; vedo i mercanti che sbaraccano le loro bancarelle e i giardini, gli alberi, i ruscelli. Quando è brutto tempo riesco a vedere i riflessi nelle gocce di pioggia e la rugiada cadere dalle foglie e…».
«Davvero emozionante» lo interruppe scocciata Daianara «Riuscite anche a vedere la mia disapprovazione per esservi introdotto nella camera da letto di una signora senza essere stato invitato o quantomeno annunciato?».
Lui fece spallucce «Si, certo, ma non servono i miei occhi per vederla».
La ragazza sbuffò sonoramente «Spero che la vostra capacità di camminare sui tetti sia più spiccata dell’acume che dimostrate».
«Spero sinceramente che il mio acume sia più sviluppato della vostra gentilezza».
«Ma…!» iniziò Daia «Quanta sfacciataggine!».
«La verità è sempre un po’ sfacciata» replicò lui con un mezzo sorriso, scostando le tende per sedersi sul davanzale.
«Che cosa volete da me?».
«Darvi una mano. Non credo siate interessata a conoscere quel che avviene oltre il confine del Palazzo, ma se lo desiderate posso raccontarvi quel che avviene nell’arena. Ho sentito che non potete lasciare la vostra stanza, ma di fatto non c’è nulla che vi impedisca di osservare il prossimo incontro, anche se attraverso i miei occhi». 
Daia, anche se colpita da quell’affermazione, continuò a guardare il suo ospite con sospetto, ma lui non diede segno di fastidio.
«Potete davvero vedere Theresa?» domandò infine, la fronte corrucciata.
Caleb girò il collo per poter vedere dietro di sé e abbassò lo sguardo sul sentiero che passava sotto la finestra, qualche piano più in basso «Si. O almeno potrò farlo quando raggiungerà il campo».
«Perché dovreste fare una cosa per me? Non ci conosciamo nemmeno. Cosa volete in cambio?».
Lui scosse la testa «Non voglio nulla. Non è un peccato essere gentili. E a questa altezza, in questa torre, sono solo anche io. E la noia è la miglior amica della solitudine. Ho solo pensato avrebbe potuto darvi sollievo sapere quel che accade laggiù» ma vedendo che Daia non accennava a rilassarsi aggiunse «Non siete una persona che si fida facilmente, vero?».
«Non direi».
«Credo che la solitudine possa essere condivisa. Voi siete rimasta in questa stanza da sola ed io, al momento, non ho nessuno con cui trascorrere il mio tempo».
«Savannah non è con voi?».
«Suppongo che se a farvi visita fosse stata lei, forse voi vi sareste scandalizzata di meno. Ma le sedute dei Ministri si stanno facendo sempre più frequenti e delicate e Savannah sa bene che il suo posto non è vicino a me, ma accanto ad Hansel. Anche se, in realtà, è più facile che i servi facciano amicizia tra di loro che non con il padrone».
«E’ così che vi vedete?».
«No, non proprio. A differenza dei miei compagni, io non nego la mia condizione e tutto sommato sono felice anche così. Mi limito a godere della libertà che ho, senza passare il tempo a domandarmi quando finirà».
«E’ una visione alquanto…bizzarra» commentò Daia.
«Non più di molte altre». Il ragazzo tornò a guardare fuori dalla finestra e strizzò gli occhi «Bhe la vostra amica e il curioso stanno scendendo le scale. Parlano, ma non riesco a sentire quello che dicono».
«Pensavo aveste detto di avere un buon udito» ribattè Daia.
«Nei limiti del possibile. E il vento soffia nella direzione sbagliata. Quindi avete deciso di volere il mio aiuto?».
«Diciamo piuttosto che ho voluto ovviare alla vostra solitudine».
«Però non sono io ad essere stato lasciato da solo in questa camera».
«Theresa non mi ha lasciata» ribattè con veemenza la ragazza «E’ solo che…».
«Solo che cosa?».
«Solo che non sono affari vostri».
«Su questo avete ragione. Ma, come avete detto voi, non servono necessariamente gli occhi di un gargoyle per notare certe cose».
«Cosa volete dire?».
«Conosco Savannah da diverso tempo e lei conosce Theresa da altrettanto. Credo possa farvi ancora un certo effetto vederle insieme. Anche se la competizione è forte ed entrambe hanno qualcosa da rimproverarsi, continuano ad avere un modo di comprendersi che riguarda solo loro e che nessun altro può capire. È un legame sottile, ma ben radicato. Non deve essere facile sentirsi esclusi dal loro mondo».
«Io non mi sento esclusa da niente» rispose a denti stretti Daia.
«Allora forse mi sono sbagliato e quello che c’è stato in passato è già stato dimenticato».
Daianara aprì la bocca per rispondere, ma subito la richiuse. Distolse lo sguardo dal ragazzo, non riuscendo più a sostenerlo, e si limitò a dire «E’ stato molto tempo fa».
«Eppure i cantastorie continuano a raccontare che il primo amore non viene mai scordato».
«Non era amore» concluse la ragazza con tono incerto. Un nodo le si formò alla bocca dello stomaco, pesante come un macigno, e torturandosi le mani aggiunse «Il loro non era amore…».
«Perché dite questo?» domandò il giovane e sul volto gli si dipinse un’espressione contrita, di chi comprende il dolore del prossimo ma non per questo riesce a far tacere la propria curiosità.
Daianara strinse tra le mani le coperte, arruffandone il bordo, come se tutto il rancore potesse uscirle dal corpo con un gesto così semplice. «Loro non possono stare insieme ora, così come non potevano stare insieme in passato. Non sono fatte per stare insieme e Savannah non lo vorrebbe nemmeno. E neanche Tess lo vorrebbe, non l’ha mai guardata in quel modo. E’ stata solo…» si prese del tempo per cercare le parole giuste «E’ stata solo un’infatuazione di qualche mese e null’altro. Un’ammirazione, ecco. La classica ammirazione che una ragazza può provare per una donna più adulta. E Theresa non ci pensa più da allora ormai, è una storia archiviata. E Savannah ha Hansel, così come Tess ha me. Ed io ho lei».
Caleb la guardò fisso, prendendosi le mani nelle mani. «Allora perché, se ne sei tanto sicura, lei non è qui con te?».
La ragazza serrò la mandibola. «Theresa ha…dei compiti importanti da svolgere. Siamo qui per questo. Ed io ho intenzione di supportarla e di appoggiarla in tutte le sue scelte. Perché è così che bisogna fare. Bisogna fare delle scelte. Ed io ho fatto la mia. E lei…farà la sua, quando si sentirà pronta. Ne sono sicura».
Il gargoyle girò la testa per guardare fuori. Sotto di loro, più in là, nell’arena, una ragazza dai capelli rossi stava montando il suo stallone nero. «Io credo che la sua scelta l’abbia già fatta» sussurrò «Così come l’ha fatta Savannah, quando è stato il momento. Spero sia come dici tu».
«Ho bisogno che sia così» tagliò corto Daianara, ma ormai il dubbio si era insinuato nella sua mente.
 
♦♦♦
 
Nella sala del consiglio ancora si tenevano riunioni, ancora si tentava di giungere ad un compromesso, ancora volavano insulti, imprecazioni, minacce e, ancora, non si era arrivati ad alcun risultato. Intorno al gigantesco tavolo di legno intagliato si erano seduti i Ministri, ognuno sul proprio scranno, ma nessuno era riuscito a mantenere la posizione durante l’acceso dibattito che era seguito all’apertura dell’assemblea. Kasimir si era alzato più volte da quello che lui reputava essere il suo trono per accompagnare le invettive con espliciti gesti; Hansel si era limitato a girare per la stanza con passi pesanti, salvo tornare a sedersi e rialzarsi nuovamente trascorsi pochi minuti; Aron, i palmi delle mani appoggiati al bordo del tavolo e il corpo proteso in avanti, gridava ancora le sue ragioni; Botte di ferro, seduto accanto al posto vuoto di Ophelia, ascoltava con attenzione le intenzioni dell’uno e dell’altro, ma dopo tutte quelle estenuanti sedute e nonostante tutto il tempo trascorso nelle ultime settimane a cercare di giungere ad una presa di posizione, ancora non era riuscito a decidersi sul da farsi, diviso com’era. Diviso tra la volontà di sua moglie e quella del suo maestro, dalla necessità di mantenere in vita le tradizioni e di riformarle, dal dubbio di scegliere la cosa più giusta o quella più corretta; da una parte la strada più breve e in salita, dall’altra la più lunga e pianeggiante. E lui lo sapeva meglio di chiunque altro che, tentando di accontentare tutti, non avrebbe fatto altro che contrariarli uno alla volta.
«E’ vostro compito assicurare l’ordine!» accusò Kasimir, puntando il dito.
Il Ministro di Morèa ribattè subito: «E’ mio compito assecondare i principi di una vita, difendere diritti che ho sempre sostenuto andassero protetti, appoggiare i nostri cittadini, tutti, da Tanaro a Kalendor, da Ennon a Nika, affinchè possano avere la facoltà di dar voce alle proprie idee e non bisbigliarle per timore d’esser accusati di tradimento!».
«E’ già tradimento!» sbottò l’uomo, diventando rosso in viso «Una Morèa che si rifiuta di partecipare al Torneo, che scende in strada per ricercare adepti al pari di una setta, che fa blocco all’entrata della Cittadella, che manda il suo Ministro a chiedere, anzi a pretendere, un esonero da tutti gli obblighi e non dai privilegi di…».
«Abbiamo chiesto un’indipendenza che ci è stata negata!» lo interruppe Aron con foga.
«L’avete reclamata!».
«Quale altra possibilità ci avete lasciato?!».
Il Ministro di Nika si schiarì la voce «Avete chiesto a questo Consiglio di analizzare la proposta. Abbiamo preso in carico la vostra richiesta, l’abbiamo discussa e votata e la maggioranza si è espressa. Ora intimate di voler procedere comunque nei vostri propositi, con il consenso o meno di questa assemblea, dunque mai avete avuto l’intenzione di rispettare le nostre volontà, benchè inizialmente le promesse di Morèa fossero state differenti».
«Questo è avvenuto prima della mia elezione» ribattè Aron «E’ vero, mio padre promise di rispettare le decisioni del consiglio, qualsiasi fosse stata la delibera, ma io non ho intenzione di rimettermi a voi, né a nessun altro, per questioni che vanno al di là di me e di voi. Non si tratta di un capriccio, o di strategie politiche o economiche. Gli abitanti di Morèa, e non solo, rifiutano di appoggiare un sistema corrotto, rifiutano di essere partecipi della carneficina che si compie ogni giorno sotto i loro occhi, rifiutano un potere che non li rappresenta. Vi abbiamo chiesto di riformare il sistema e di seguirci in questo percorso e vi siete rifiutati. Vi abbiamo allora chiesto di concederci l’autonomia per non costringerci a scendere a patti con la nostra coscienza e anche su questo siete stati contrari. Siamo dunque in una dittatura?».
«Vi siete limitato a criticare questa istituzione senza fornirne alcuna valida alternativa, per un sistema che va avanti, così com’è, da secoli. E pensate davvero di potervi presentare così, a sentenziar parole vuote, a menar le mani all’aria e suggerire di ridurre tutto in macerie e ricostruirlo, come se non avessimo tentato di fare nulla di buono in tutti questi anni».
«Stiamo parlando di persone!» sbraitò il giovane Ministro «Persone che non sono nella condizione di difendersi, di scegliere, di tutelarsi. Abbiamo mai chiesto loro il permesso di poter decidere della loro esistenza? Abbiamo mai chiesto loro di scegliere da che parte schierarsi? Abbiamo mai domandato, anche solo ad uno di loro, qualora avessero potuto scegliere, cosa avrebbero deciso per loro stessi? No! E’ un abominio quello che è stato perpetrato qui e vi dobbiamo porre fine. E’ nel ciclo naturale delle cose morire, ma tentare di fermare la morte e condannare un individuo ad un’esistenza simile…non equivale certo a restituirgli la vita. Dal sale non potrà mai nascere un fiore. Lasciate la terra ai cadaveri e il cielo ai vivi: non è mai stato saggio confondere le due cose. E se foste sinceri con voi stessi, prima che con gli altri, ammettereste che la legge che impone a chiunque di celare la verità è una sola: la paura di una rivolta. Ammettete che la situazione vi è sfuggita di mano e che l’immensa diga che avete costruito per arginare qualsiasi tipo di problema sta cedendo proprio davanti ai vostri occhi. E che vi state voltando per rifiutare di accettare il vostro fallimento. Parliamo di persone» ripetè e guardando Kasimir negli occhi aggiunse «E se non volete impegnarvi per ciò che sono ora, dovreste almeno impegnarvi per ciò che sono state».
Quando anche quella seduta si concluse - con un voto a favore, tre contrari e uno nullo - i quattro Ministri uscirono dalla sala, che venne chiusa e sigillata dietro di loro dai due gargoyle, nel più totale e gravoso silenzio.
Savannah, ferma nel corridoio in attesa della fine della consulta, si affiancò ad Hansel, scuro in viso, sfiorandogli appena il braccio; i gemelli di Tanaro si affrettarono dietro a Kasimir e, cercando di mantenere il passo del loro padrone, si aggrapparono uno da una parte e una dall’altra al suo lungo e pesante mantello; anche Aron si allontanò veloce dai suoi compagni e nel freddo corridoio di marmo rimase solo Zane, perso a contemplare il cielo azzurro, oltre le grandi vetrate, e a trovarlo così sfacciato in quel momento.
Botte di ferro indugiò qualche istante prima di decidersi a raggiungere l’uscita. Non voleva andare da sua moglie per non dover ancora leggere il biasimo nelle sue espressioni, nei suoi gesti e nelle sue parole; non poteva andare da sua figlia, anche lei incapace di nascondere la propria disapprovazione bene quasi quanto la madre; e non se la sentiva di andare da Howel solo per riversare sul vecchio maestro le proprie inquietudini. Presto sarebbe stato chiamato a prendere delle decisioni e per allora sarebbe stato pronto. Fino a quel momento, tuttavia, si sarebbe preso tutto il tempo necessario per soppesare con cura le sue scelte e, se avesse dovuto pentirsene, almeno nessuno avrebbe potuto accusarlo di leggerezza.
Con le spalle curve e le mani incrociate dietro la schiena, Zane camminò senza una meta precisa lungo il colonnato dell’ala nord, poco distante dalla Sala del Consiglio, ed improvvisamente si sentì come quei vecchi che rimuginano su questioni esistenziali solo per poter riempire le ore vuote della giornata fra un pasto e l’altro.
Se avessi d’un vecchio anche il discernimento, pensò Botte di Ferro, a quest’ora sarei a cavallo…
Giunto al limitare dell’androne, il Ministro di Ennon fece per voltarsi a ripercorrere la strada a ritroso, ma si fermò quando scorse oltre l’ultima fila di colonne una figura. Aron, avvolto nei suoi indumenti scuri, se ne stava appollaiato sulla balaustra come una piccola gazza al riparo dal sole. Il parapetto era molto basso e, se si fosse sporto un poco di più, avrebbe potuto toccare con mano i cespugli da poco fioriti. Ma i suoi occhi erano così stanchi che Zane temette non si sarebbero rallegrati nemmeno alla vista dei primi germogli.
Tutto il suo corpo suggeriva affaticamento, persino abbandono, e sembrava così perso a contemplare il vuoto che non si accorse nemmeno di Botte di ferro fino a quando questi non lo salutò assestandogli una sonora pacca. La spalla ossuta del ragazzo incassò il colpo con difficoltà, ma lui non sembrò aversene a male.
«Zane» ricambiò il saluto con un sorriso sincero ma stentato.
«Come mai ancora qui?» gli chiese l’uomo, appoggiandosi al parapetto «Pensavo stessi raggiungendo Howel». 
«E’ così. Ho solo pensato di fermarmi qualche minuto per concedermi un po’ di tempo per schiarirmi le idee. D’altronde non penso di cogliere di sorpresa mio padre nel riferirgli l’esito di questo consiglio: non credo si aspetti, almeno per il momento, un risultato diverso da quello ottenuto oggi» un sorriso amaro gli si dipinse in volto «E’ anche vero che l’impazienza è sempre stata un suo grande difetto e non vale la pena alimentarla. Anche se mio padre ha ceduto la sua carica spontaneamente, continua a pensare e ad agire come un Ministro e odia essere tenuto all’oscuro. Penso sia stata una vocazione per lui, uno stile di vita, piuttosto che un impegno…e noi tutti lo considereremo sempre come il vero Ministro di Morèa, fino alla fine dei suoi giorni».
«Non è facile prendere il posto di un uomo come tuo padre, lo comprendo. Le aspettative sono molto alte e i paragoni fin troppo facili. Ma non credere che i tuoi sforzi non siano apprezzati. Ammiro il lavoro che stai facendo e la tenacia con cui lo porti avanti, a prescindere dai contrasti che possono sorgere tra noi. Per fortuna» aggiunse Zane «sono ancora in grado di ammirare un uomo senza farmi fuorviare dalle sue opinioni politiche».
«E di questo te ne sono grato. Solo preferirei che il tuo pensiero venisse condiviso da tutti».
Botte di ferro si passò una mano sulla ruvida barba con fare pensoso. «E’ più difficile di quello che può sembrare, cugino. Morèa ha sollevato una questione complessa e i fantasmi che bisogna affrontare sono molteplici. Alcune corde non sono affatto facili da toccare e possono provocare reazioni spiacevoli. Nessuno di noi cerca di renderti difficile questo compito più di quanto non sia per sua natura e posso assicurarti che cerchiamo in tutti i modi di fare del nostro meglio. E se il nostro meglio a volte contrasta con i tuoi propositi, è assolutamente in buona fede».
«Cerco solo di fare ciò che reputo più giusto per la mia gente» rispose Aron, sconfortato.
«Non credere che questo non sia anche la prerogativa di Hansel e di Kasimir. Non c’è nulla, nulla, che più li terrorizzi di una guerra a cui non sono stati preparati e cercano di fare quanto è in loro potere per evitarla». 
Il tono del Ministro di Morèa si fece tagliante «Esasperare un disaccordo è la via più certa per giungere ad una guerra disastrosa. E Kasimir…» pronunciò il suo nome a denti stretti «Lui più di tutti dovrebbe comprendere le mie parole. Eppure non mi stupisce che non ci riesca».
Le folte sopracciglia di Zane si aggrottarono. «E’ stato molto difficile per lui». 
«Non è stato l’unico a piangere la scomparsa di Lia. Tutto quello per cui sto combattendo, tutto quello che ho sognato e sperato…tutte le mie ragioni e tutti i miei sforzi dipendono solo da lei» abbassò lo sguardo «C’è il suo ricordo dietro ogni mio gesto».
Zane gli posò una mano sulla spalla e la strinse benevolmente.
«Lei era speciale» continuò Aron, senza riuscire a guardare il suo interlocutore negli occhi «Lo era davvero. Non si meritava nulla di tutto quello che le è capitato».
«Aron, capisco il tuo rammarico e sai meglio di tutti che le mie parole sono sincere. Ma se Kasimir avesse potuto scambiare il proprio destino con quello di sua moglie, l’avrebbe fatto senza alcun ripensamento. La amava». 
«Anche io!» proruppe il giovane Ministro. Poi, nel tentativo di ricomporsi, aggiunse sommessamente «L’amavo anche io e la amo ancora. Il suo ricordo non mi lascia andare e vorrei davvero ricordarla come la donna stupenda che era, con il suo sorriso, la sua spensieratezza, il suo buonumore… ma Kasimir mi ha tolto questa possibilità. Io la conoscevo, Zane. La conoscevo meglio di chiunque altro e so che non avrebbe mai voluto questo per sé. E se Kasimir l’avesse amata a sufficienza, se lui l’avesse amata più del suo egoismo, allora l’avrebbe lasciata andare. Ora, invece, l’unico ricordo che mi è rimasto di lei è quell’immagine terribile…».
«Non cadere nella cieca convinzione che per Kasimir sia stato semplice. Ha sempre difeso le nostre leggi con caparbietà e quando si è trovato costretto ad applicarle su Lia ne è stato logorato. Ma non è venuto meno a sé stesso e ha fatto ciò che era giusto fare. Si è comportato come lui stesso avrebbe preteso si comportasse chiunque altro nella sua situazione. La legge è una sola e non può cambiare solo per il dolore di un uomo. E la legge non prevede eccezione per i ricaduti» disse Zane, riferendosi a tutti quegli uomini che, una volta morti e costretti a risvegliarsi come totem, disubbidivano agli ordini dei loro padroni. «Su di loro l’innesto non funziona».
Aron serrò le mani in due pugni e la mascella si irrigidì. «Avrebbe dovuto saperlo. Lui avrebbe dovuto sospettarlo. Lia amava la libertà come un’aquila ama le proprie ali e non l’avrebbe barattata per nulla al mondo. Era troppo fiera, troppo forte, troppo indipendente per poter essere sottomessa. Troppo orgogliosa per risvegliarsi e assecondare gli ordini di un qualsiasi burattinaio!».
«Nessuno poteva sapere che non avrebbe ubbidito, una volta risvegliata».
«Io sì!» scoppiò Aron, battendo un pugno sul davanzale «Io lo sapevo! E anche Kasimir lo sapeva, ma era troppo cieco per ascoltare le mie parole! E io l’ho vista bruciare sul rogo per colpa della sua debolezza. E non smetterò mai di detestarlo per averla uccisa di nuovo. Lia se ne è andata odiando tutti noi. Se ne è andata pensando che io l’avessi tradita. Contava su di me, credeva che io sarei riuscito a far rispettare la sua volontà. E invece ho perso la battaglia più importante, l’unica che valeva la pena d’esser combattuta».
Zane guardò fisso il suo compagno per un istante. Lo vide acceso di rabbia, angosciato dal rimorso e sicuro come può esserlo solo chi non ha più paura di perdere nulla. «Ti ho visto crescere alle spalle di Howel» gli disse «E ti ho visto perso per una donna che non potevi avere. E so che l’hai guardata morire e questo ti ha spezzato, perché le leggi degli uomini non possono essere perfette. Ma ora davanti a me vedo solo il Ministro di Morèa e la carica che ricopri ti vincola a proteggere la tua gente, al di là delle tue sofferenze. Arriverà un giorno in cui dovrai rispondere delle scelte che hai preso e in quel momento saranno le azioni del Ministro, e non dell’uomo, ad essere messe in discussione. E nascondersi dietro al ricordo di Lia non sarà più sufficiente, come non lo sarà per nessuno di noi. L’onere di cui ti sei fatto carico è così grande, e in sé così altruista, che non lascia spazio per il tuo dolore e non può essere condizionato dal tuo passato. Separa quel che deve essere separato, stabilisci dei confini, fai in modo di essere irreprensibile: i nostri errori sono la sconfitta di questa amministrazione e la pena di migliaia di persone».
«Lo sai, Zane» rispose avvilito Aron, scuotendo la testa «Tu e mia cugina l’avete già vissuto sulla vostra pelle il fallimento di questa istituzione, e allora perché nemmeno tu riesci a vedere ciò che vedo io?».
«L’unica cosa che distingue il mio dolore da quello di mia moglie è che la sofferenza di Isolde può essere mostrata agli altri. Non ricopro questa carica per poter manipolare la legge a mio piacimento, ma per essere certo che qualcuno faccia il bene dei miei uomini e dei vostri. E sono chiamato, dalla mia morale, a prendere decisioni che rispondono a questo obiettivo e a null’altro. Non provo a dimenticare perché sarebbe impossibile riuscirci, ma valuterò le tue proposte se porteranno più bene che male».
«Che cosa ne pensa Isolde di tutto questo?».
«Conosci già la risposta. Io posso aver perso il mio migliore amico, ma lei…» sollevò lo sguardo e osservò le nuvole rincorrersi «Lei ha perso la sua metà di cielo. E passerà il resto della vita a domandarsi cosa ne sarebbe stato di Roan se lei non avesse deciso di rivelargli la verità».
«Eravate inseparabili, voi tre».
«E lo siamo ancora, a modo nostro. Roan rimane ad oggi l’uomo più grintoso e coraggioso che io abbia mai conosciuto. Abbiamo commesso l’errore di pensare che fosse forte abbastanza, forte a sufficienza per capire che, a sua volta, era stato un uomo, prima di morire. Ma la realtà ha un peso enorme e quel peso lo ha schiacciato. E ora siamo rimasti solamente io ed Isolde e il fantasma di Roan non ci lascia mai soli. Lei lo ama ancora e non potrebbe essere altrimenti: il filo che unisce un totem al suo padrone è così spesso da eludere qualsiasi impedimento, anche la morte. Ed io, amando lei, continuo ad amare anche lui».
Aron incrociò le braccia al petto «Mia cugina non ti appoggerà fino a quando tu non appoggerai Morèa».
«E’ la mia condanna» sentenziò Zane «Ma neanche per lei, questa volta, farò eccezioni».
 
♦♦♦
 
Dovette passare una settimana prima che Theresa potesse nuovamente scendere in campo assieme ad Argo e, quando lo fece, il sole sembrò volerla accompagnare. Era stata una mattinata limpida e solo poche nuvole avevano chiazzato il cielo azzurro, come delle pecorelle sparse su un prato; era soffiato un vento dolce, anche se ancora un po’ freddo per via dell’umidità della notte precedente, ma che faceva venir voglia di respirare a pieni polmoni l’aria un po’ frizzante e di vivere con serenità quell’atmosfera tranquilla. Era una di quelle mattine che portava con sé il brio e la voglia di fare, come nelle giornate d’estate.
L’incontro quella volta si era svolto in un’arena più piccola, in prossimità della scala d’accesso al Palazzo e, infatti, tutti gli uomini e le donne che non erano riusciti a trovare posto nelle tribune o intorno agli steccati, si erano ammassati sugli scalini di metà rampa e, sporgendosi oltre il parapetto di marmo, avevano assistito allo scontro con gli occhi bene aperti ed il cuore entusiasta. Theresa aveva visto alcune mamme tenere in braccio i bambini più piccoli e i papà portare sulle spalle le loro figlie; i ragazzini più grandi si erano sbracciati per poter vedere, altri si erano fatti strada spintonando; qualche bimbo o qualche bimba fortunati erano riusciti ad accaparrarsi una buona visuale ma, non essendo ancora sufficientemente alti, erano stati costretti a rimanere in punta di piedi per tutta la durata della sfida. In molti erano giunti per assistere a quell’incontro, ma Tess non sapeva se tutta quella folla fosse dovuta ai pettegolezzi che ancora la riguardavano, alle voci che erano corse dopo la sua ultima vittoria o, ancora, alla sua nomea. Prima di entrare nell’arena in groppa al suo totem, aveva sentito un uomo dire alla compagna «Guarda! E’ quella la figlia adottiva del Ministro di Ennon», una bambina di pochi anni, certamente del Borgo del legno, strattonare la mano della madre per chiederle con ingenuità «Mamma, mamma, è quella la ragazza pazza?» e un ragazzo fare cenno ai suoi amici per dire «E’ come la mia gatta: una meticcia. Né di Tanaro, né di Ennon».
Qualunque fosse stata la ragione di quell’affluenza, Tess si era sentita galvanizzata. Sugli spalti di legno si erano appostati sia Isolde che Botte di Ferro per darle il loro sostegno. Anche Daia era venuta ad assistere, ormai completamente guarita e libera dalle medicine di Howel, ma Tess percepiva qualcosa di diverso nel suo comportamento, forse un po’ di distacco o un po’ di cruccio, che non si sapeva spiegare se non attribuendolo ancora allo scontento della ragazza per non aver insistito nel portarla con sé il giorno della sua prima sfida.
Lo scontro era stato avvincente e molto sentito, all’insegna della correttezza e del divertimento; d’altronde Theresa conosceva troppo bene il suo sfidante per non aspettarsi qualcosa di diverso. Bryon di Ennon, conosciuto da tutti giù al borgo come Bryon Mezza-brocca per via della sua statura, era stato uno dei fabbri più bravi della contrada prima di ritirarsi e godersi il piccolo gruzzoletto che aveva guadagnato in quarant’anni di lavoro. Non aveva però perso l’abitudine di allacciarsi alla cintola i ferri del mestiere – un po’ in tutti i sensi – e a portarseli in giro per le strade acciottolate di Ennon e alla locanda dei Tre Ronzini, dove ancora passava le lunghe ore del pomeriggio a tracannare birra scura, la più spumosa e forte, a lodare i figli (cinque maschi e sette femmine) e ad inveire contro la moglie (che tuttavia sapeva inveire più di lui).
L’unica cosa che Bryon era certo d’aver amato più del suo lavoro e della sua famiglia era il suo totem, Meridia, una giumenta vivace e testarda dal mantello grigio scuro che non lo abbandonava mai. Certo, insieme formavano una coppia ironica: lui basso e grassoccio, un po’ troppo fumantino; lei piccola e gracilina, alquanto permalosa. Non erano fatti per combattere e di questo Bryon ne era consapevole: non si erano mai allenati e mai ne avevano sentito il bisogno, ma si rallegravano entrambi di potersi mettere ancora alla prova. «L’unica cosa davvero importante è divertirsi» diceva lui «E se per farlo dovrò incappare in brutte figure tanto meglio: per quel che vale, non sono mai stato bello!».
Quando Bryon e Theresa si erano avvicinati per il saluto, nel centro dell’arena, l’uomo, dopo averle mostrato la lancia, si era avventato su di lei per stringerla in un abbraccio stritolatore e sollevarla da terra.
«Mostrami cosa sai fare, ragazza!» le aveva detto infine, assestandole una sonora pacca sulla spalla «Non serve che tu ci vada leggera con me: voglio un po’ di ferro da poter battere!».
In verità non fu Tess a dargli del filo da torcere, ma la sua cavalla, che non sembrava avere alcuna intenzione di competere in uno scontro. Quando Bryon provò a salire in sella, un po’ goffamente vista la stazza, Meridia partì ad un passo abbastanza sostenuto nella direzione opposta e il suo padrone, un piede impigliato in una staffa e l’altro ancora posato a terra, saltellò su una gamba per tutta l’arena, urlando con la sua voce bassa: «Devi stare ferma! Comportati da cavallo, non da somaro!», scatenando il riso di tutti i presenti. Una seconda volta il cavallo si impennò, disarcionando il povero Mezza-Brocca che, impreparato, ruzzolò giù dalla groppa, rotolando sulla sua grossa pancia, ricoprendosi di terra vestiti, barba e capelli. «Lo giuro Meridia» aveva detto con aria minacciosa, indicando la giumenta con l’indice «Ti porterò giù alle cave a trascinare carrette per un mese».
Lo scontro si era risolto com’era prevedibile, in fretta e indolore. Forse non era stato avvincente, ma in tribuna e sui gradini della lunga scalinata gli spettatori si erano divertiti e i bambini degli altri rioni avevano chiesto il permesso ai genitori per poter andare ad accarezzare Meridia.
Tess lasciò il campo insieme ad Argo, diretta alle stalle, proprio mentre Bryon aiutava due bambini a sedersi in groppa alla giumenta, mentre un ragazzino le accarezzava il muso e un altro il fianco.
«Siamo stati bravi, comunque» scherzò la ragazza, accarezzando il collo dell’animale che, in risposta, sbuffò dal naso. Entrò nel grosso capannone di legno che gli stallieri avevano preparato per i cavalieri di Ennon e si diresse verso il box di Argo. Passando davanti agli altri vani vide che alcuni di questi erano rimasti vuoti, mentre negli altri riuscì a riconoscere quasi tutti i totem dei suoi compaesani.
Quando Argo entrò nel suo posto, Tess gli tolse briglie e morso, appendendoli alla parete di fronte, e prese tra le mani il forcone per sistemare la paglia, sparsa sul pavimento.
«Ora ti pulisco…» sussurrò all’orecchio del cavallo mentre gli accarezzava il muso «So che non ti piace quando lo fanno gli altri». Gli strigliò il mantello, prima con una spazzola dura, poi, quando Argo iniziò a dare segni di fastidio, passò ad una più morbida; gli tolse i nodi dalla criniera e dalla coda e con un panno bagnato gli pulì gli occhi e il muso, continuando a parlare, saltando da un argomento ad un altro.
«A volte faccio davvero fatica a capirla…» continuò, riferendosi a Daia «Sembra stia in un mondo tutto suo. Quando decide che deve essere arrabbiata si arrabbia, quando decide che deve essere felice sorride e chiunque deve riuscire a starle dietro. Sarebbe in grado di portare rancore per qualsiasi cosa, per anni, non ho mai conosciuto una ragazza testarda come lei. Non trovi anche tu? Mhm?» lo chiamò e quando non ricevette in risposta nessuna reazione lo chiamò di nuovo. L’animale drizzò le orecchie, ma intorno a loro tutto era silenzio.
«Argo?» chiamò ancora la rossa, perplessa.
Lo stallone iniziò a battere lo zoccolo sul pavimento con fare agitato; nitrì, poi nitrì più forte, indietreggiando, girandosi, girandosi ancora, come a cercare una via di fuga che fra quelle quattro pareti gli era negata.
«Argo, aspetta» cercò di placarlo Tess «Stai calmo, stai calmo, va tutto bene». Gli posò una mano sul dorso e l’altra sul muso per rassicurarlo della sua presenza, ma l’animale non cessò di scalpitare e si impennò. La ragazza, la schiena schiacciata contro la parete di legno per non essere calpestata, provò ancora a tranquillizzarlo da qualsiasi cosa potesse averlo spaventato, ma Argo sembrava più imbizzarrito che mai.
«Che cosa ti prende?» chiese ripetutamente Theresa, ma quando rischiò di essere travolta dalla stazza dell’animale fu costretta ad ordinargli con voce chiara e ferma: «Argo, stai fermo! Stai fermo!».
Lo stallone drizzò immediatamente le orecchie e abbassò la coda; i suoi movimenti si fecero più rigidi, obbligati, come se delle corde invisibili gli si fossero avvolte intorno agli arti e alla testa. Negli occhi marroni, prima spalancati e attenti, brillò una strana luce e poi più nulla, come se qualcuno gli avesse spento tutte le intenzioni, tutta la vita. Il totem emise un ultimo, lungo sbuffo dalle narici, poi rimase immobile.
Theresa riconobbe quello sguardo vacuo, quello sguardo smarrito. L’aveva visto certo molte volte ad Ennon e l’aveva riconosciuto la settimana precedente sul volto di Camària. Il bacio del potere, come veniva comunemente chiamato nei rioni, si dipingeva immancabilmente nelle espressioni di quanti avevano ricevuto un ordine al quale non potevano sottrarsi. E Theresa, quel riflesso che inquinava lo sguardo, lo aveva sempre detestato.
Tirò un sospiro profondo e si avvicinò ad Argo, una mano protesa per accarezzargli con la punta delle dita la criniera scura.
«Mi dispiace amico mio» gli sussurrò preoccupata, dandogli qualche colpettino leggero sul collo. «Che cosa hai visto? Non ti sei mai comportato così…».
Argo scosse leggermente la testa, poi aprì e chiuse la bocca più volte, come era solito fare quando masticava il morso. I suoi occhi tornarono ad essere vivaci, profondi, ma si poteva leggere ancora della confusione nel modo in cui la guardava. Improvvisamente si scostò dalla padrona, sottraendosi alle sue carezze. Gli zoccoli tornarono a battere freneticamente il terreno, i nitriti interruppero il silenzio e il cavallo si erse sulle gambe posteriori con fare minaccioso.
Theresa, colta di sorpresa, impartì di nuovo il suo ordine, scandendo bene le parole, ma quando vide che il totem non le ubbidiva, raggiunse con un balzo la porta basculante dell’abitacolo e la spalancò con un calcio. Il colpo fu così forte che il cancelletto batté contro il proprio stipite, si richiuse e si riaprì.
Tess rimase ferma all’imboccatura della cabina, pronta ad impedire la fuga di Argo, ma l’animale non sembrava essere affatto intenzionato a scappare. Al contrario, lo vide schiacciarsi impaurito lungo la parete opposta, scuotendo la testa, mostrando i denti, le orecchie abbassate e all’indietro, il corpo in sofferenza. Istintivamente la ragazza si voltò e la mano sinistra corse lungo il fodero, ma alle sue spalle non c’era nessuno e gli unici rumori che si sentivano erano i chiacchiericci fuori la stalla e i versi concitati di Argo.
La rossa lasciò cadere la mano lungo il fianco e raddrizzò le spalle. «Non capisco» disse scoraggiata rivolgendosi al totem «Cos’hai? Cosa stai cercando di dirmi? Non capisco» ripetè, prendendosi la testa fra le mani e massaggiandosi le tempie, provando a pensare. «Come hai fatto a…» iniziò a chiedere, ma si interruppe subito quando udì una voce flebile bisbigliarle all’orecchio:
Canterò ancora una volta per te, prima di allontanarmi…per ricordarti la mia voce…ascolta…ascolta la mia ultima canzone…ci sarà sempre un’ultima occasione…”. 
Tess sobbalzò. Un brivido le corse lungo la schiena. Si girò con uno scatto, il cuore in gola, i nervi a fior di pelle, ma alle sue spalle non c’era nessuno e tutto nella stalla era silenzio. Guardò più attentamente a destra, a sinistra, in alto, si girò ancora e ancora. Nessun altro, a parte lei, vicino ad Argo.
«Che razza di posto…!» imprecò a bassa voce, rientrando con circospezione nel box. Ora Argo annusava la paglia fresca che Theresa gli aveva sparso per terra, il corpo rilassato, gli occhi gentili e lo sguardo placido. Sollevò il muso solo quando uno spiffero trascinò con sé alcuni steli secchi, allora guardò fisso davanti a sé, la porta di legno ancora lasciata aperta, poi tornò a smuovere la paglia.   
Fu solo un attimo. In mezzo a quelle travi, a quel fieno, alle selle e ai finimenti, un movimento. Un tocco di colore, una sensazione di inquietudine nell’aria, un qualcosa che stonava in tutto quello spazio, un suono di passi, un ticchettio lontano ma assordante. Delle scarpette blu.
Ferma sull’entrata, stretta nel suo piccolo vestito azzurro, puntinato di fiori bianchi, una bimba la guardava tenendo fra le mani un mazzo di gladioli selvatici, i cui petali erano tinti di un forte color rosso. 
Tess rimase ad osservarla come pietrificata per una manciata di secondi. In sottofondo, urlate da un’immensa lontananza, frasi e parole si accalcarono nella sua testa, voci distinte si sovrapposero.
Corri con me. Prova a prendermi, prova a prendermi!”; “Non dovrà sapere nulla, mai. Lascia che dimentichi, lascia che viva”; “Potrai anche piangere con lei, ma la legge non cambierà solo perché tu l’hai trasgredita!”; “Non è importante quello che diranno gli altri. Io non ti farò del male. E tu non ne farai a me…”; “Dovremo trovarti un nome, ora che fai parte della nostra famiglia”; “Puoi odiarmi, deridermi, evitarmi, maledirmi, a me starà bene. Solo, non dimenticarmi”; “Siamo molto, molto più di questo noi due…molto più di quello che ammetti di vedere”. 
La rossa aprì la bocca per parlare ma l’unica cosa che riuscì a dire fu: «No, non di nuovo…».
«Non ascoltarle» le consigliò la bambina di fronte a lei. Aveva una voce dolce e un accento familiare. «Non ha senso che tu lo faccia se non puoi capirle».
Theresa rimase immobile al suo posto, la fronte corrugata, gli occhi spalancati, incapace di reagire. Squadrò la bambina. Aveva la pelle chiara e le gote rosate, i capelli scuri non troppo lunghi le incorniciavano il viso tondo; gli occhi grandi avevano una piega triste. Stringeva al corpicino il suo mazzo di fiori come se fosse la cosa più preziosa nel suo piccolo mondo. Il vestito le lasciava scoperte le braccia, le ginocchia – un po’ sbucciate – e il collo. Tess osservò i segni violacei che le solcavano la gola.
La bimba seguì il suo sguardo. Alzò una mano e con le dita si toccò i lividi. «Non volevi farmi male» la rassicurò «Io lo so».
«Come? Come lo sai?».
«Lo so perché ti ho voluto bene dal primo momento in cui ti ho vista…».
«Chi sei tu?».
«Ma…» cominciò la bambina, presa alla sprovvista. Gli occhi le si riempirono di sofferenza e un nodo le serrò la voce, che si fece ancora più sottile e malferma. «Ti sei dimenticata di me?».
Theresa si limitò a scuotere la testa. «Non ricordo…».
«Non mi hai creduta. Non mi credi mai. Perché non ti fidi di nessuno?».
«Mi fido di me stessa».
La bambina abbassò gli occhi e la sua bocca si corrucciò. «No, è una bugia. Tu non ascolti, tu non capisci. Se ti fidassi di te stessa ricorderesti… ricorderesti me».
«Perché è così importante?».
La piccola incurvò le spalle a quella domanda, come se avesse ricevuto un forte colpo. Lasciò cadere i fiori che si sparsero intorno a lei sul pavimento. Prese tra le mani un lembo della gonna e iniziò a stropicciarlo. «Perché fa male» spiegò piangendo.
«Cosa fa male?».
«Perderti». I fiori a terra erano morti, le foglie si erano annerite e i petali avevano perso tutto il loro colore, ma la bambina si chinò ugualmente a raccoglierli uno ad uno con attenzione. Sollevò il viso e una lacrima le rigò la guancia, si raccolse in una fossetta e si perse, ma il dolore rimase scritto indelebile nel suo sguardo. «Tu lo sai, Tess? Lo sai quello che si prova a vederti andare via?».
«Ma io non sono andata via» ribattè confusa l’altra.
«E’ il silenzio che si spezza…» disse la bambina, persa in un ricordo lontano.
«Come?».
«E’ il silenzio che si spezza in mille parole…ma non sono mai quelle giuste».
«Io non capisco, non capisco proprio» Theresa si stropicciò gli occhi per risvegliarsi da quello strano sogno, ma quando li riaprì la piccola era ancora ferma davanti a lei. La guardava dal basso, minuta com’era. La guardava come aveva guardato i suoi fiori prima che marcissero ai suoi piedi, con amore e speranza, e per un secondo Tess si sentì il cuore stretto in una morsa e le venne l’impulso di abbracciarla, di stringerla, di portarla al sicuro, ma la diffidenza era tanta e il sospetto lo era anche di più.
«Chi sei?» domandò ancora.
La bambina non le rispose. Un fremito la scosse. Si girò a destra, poi a sinistra, poi ancora a destra. «Lui è qui» annunciò. Guardò Tess con disperazione, si avvicinò a lei di uno, forse due passi. Allungò una mano e la supplicò: «Afferrala». 
La rossa si accovacciò sulle ginocchia per arrivare alla sua altezza e protese le dita, arrivando a sfiorare quelle dell’altra. Le toccò appena i polpastrelli freddi e gli occhi della piccola si illuminarono di sollievo. Poi Theresa ritirò turbata la mano, stringendosela al petto.
«Non posso» spiegò in un soffio.
La bambina tornò a piangere. «Prendi la mia mano».
«No».
«Ti prego…lasciami tornare a casa».
«No».
Intorno a loro l’aria si fece pesante, una spessa coltre di cenere nera scese dal cielo mentre la terra sputava fumo. In lontananza delle rovine, una fila di prigionieri, ognuno con le proprie lapidi; tombe svuotate, richieste di aiuto, corpi ammassati nelle fosse fuori città o in carri lasciati a bordo strada.
La bambina aveva smesso di piangere. I suoi fiori erano tornati rossi e rigogliosi come appena raccolti, ma questo non era più sufficiente a renderla felice. Stringeva la mano di un uomo alto, avvolto in pelli scure, segnato in viso dal fuoco e dall’acciaio. Una grossa cicatrice gli scavava l’occhio, lo zigomo, la guancia, piegandogli a forza la bocca in un sorriso storpio.
«Eri tu la mia casa…» spiegò la bambina a Theresa e il suo tono mal celava un’accusa «Io ho scelto te. E papà ha dato la vita per salvare la tua. Tutto si paga, nulla viene dato per nulla». Un’idea le balenò nella mente e aggiunse subito: «Nulla tranne…».
L’uomo le strinse la mano in una stretta più dura e lei smise di parlare.
«Tranne cosa?» domandò Tess, ma i due erano già spariti. «Nulla tranne cosa? Chi sei tu?» continuò ad urlare alla cenere.
«Theresa…?» la chiamò una voce.
«Dimmelo!».
«Theresa…».
«Che cosa vuoi da me?!».
«Theresa, calmatevi».
Una mano ferma si posò sulla sua spalla e i contorni confusi di quel luogo sconosciuto lasciarono posto ad una figura ammantata, un volto abbronzato, due occhi a mandorla.
Raven, fermo davanti a lei, schiena retta e mento alzato, la scrutava con intensità. La sua espressione non lasciava trasparire nulla, ma gli occhi scuri erano incatenati ai suoi e se fossero stati una lama l’avrebbero trapassata da parte a parte. Tutto intorno a loro era come prima, come l’aveva lasciato, tutto come avrebbe dovuto essere: fuori dalla stalla le voci dei passanti, gli echi lontani di un altro torneo, Argo che nel suo box muoveva annoiato la coda per scacciare le mosche.
Theresa si coprì il viso con una mano e tentò di riprendere fiato. Un senso di vertigine le attanagliò lo stomaco, si sentì mancare la terra sotto i piedi. Con un gesto rapido si asciugò la fronte sudata.
Raven continuava a studiarla in silenzio; Theresa sospettava volesse analizzare ogni sua mossa per andare poi a riferirla al Ministro di Ennon.
«I-io stavo…».
L’uomo la interruppe con voce dura «Non so cosa steste facendo, ma so cosa non dovreste fare ora: mentirmi. Le notti sono lunghe e silenziose e le pareti di questa corte sono troppo sottili per sperare che io non senta la vostra voce e gli incubi che racconta. Parlate, ma nessuno mai risponde. Non so quanti conoscano il vostro segreto fra queste mura, ma se altri venissero a scoprire di questa vostra poca…» cercò la parola più adatta «lucidità, vi sarebbero dei risvolti inaspettati e di certo non graditi».
«Non importa quello che gli altri pensano di me».
«Zane non potrà continuare a difendervi e un nuovo episodio come quello ai danni della figlia di un Ministro non potrà essere insabbiato ancora. Il passo è molto breve, troppo breve, per arrivare ad un incidente diplomatico. Questo non è il luogo ideale per nascondere dei segreti: tutti desiderano che il sole splenda e il più piccolo angolo d’ombra viene visto con sospetto. E i tempi che corrono non sono dei più felici. Avrete sicuramente molte carte nella vostra mano ancora da giocare, ma il matto non deve essere tra queste. Molti occhi sono puntati su di voi, occhi di persone che non aspettano altro che un pretesto per lanciare accuse. E se le accuse saranno fondate o meno, non importerà a nessuno. Siate scaltra, siate furba. Giocate dalla parte sicura del campo».
«Andrete a riferirlo al Ministro di Ennon? Siete qui per questo, vero? Per assicurare che io non faccia male a nessuno».
Raven ritirò la mano «No. A differenza del Ministro non ho ragione di reputarvi un pericolo. Ma siete imprevedibile e il problema dei soggetti imprevedibili è che non possono essere conosciuti a fondo. Non riferirò nulla a Zane, non finchè non ci sarà una ragione per farlo, e non lo farete nemmeno voi. Rendere partecipi gli altri delle proprie debolezze è la scorciatoia più ovvia per essere attaccati. Solo non si saprà come e da chi. Non dite nulla a nessuno. Chiunque abbia detto che la lealtà rende più forti probabilmente non ha mai avuto la necessità di proteggere qualcuno».
L’uomo le voltò le spalle, dirigendosi senza far rumore verso l’uscita, ma Tess lo trattenne.
«Raven…» lo chiamò, la voce incerta.
«Dovete chiedermi qualcosa?».
«In effetti è così» lo raggiunse «Se siete un curioso, allora dovete conoscere molte cose».
«In un certo senso. Conosco tutto quello che avviene nella cittadella».
«Sapete nulla riguardo un uomo segnato in volto da una cicatrice?».
La spia arcuò un sopracciglio «Sapreste essere più specifica?».
Theresa si morse le labbra «Non molto. E’…» provò a ricordare «E’ un uomo giovane. Io credo che sia stato il fuoco, forse un incendio, a rovinargli il viso. E una grossa cicatrice gli taglia la faccia, proprio qui» si aiutò col dito «Sul lato destro».
Raven si prese qualche secondo prima di rispondere «Nessuno che valga la pena ricordare» asserì con distacco «A meno che voi non vi interessiate agli uomini di bettola o ai marinai falliti. O ai morti».
La ragazza sbuffò sonoramente «Allora non è vero che sapete tutto».
«Io conosco tutti quelli che sono giunti alla Cittadella. Non dovreste cercare nei luoghi sbagliati le risposte alle domande giuste».
«Vi state prendendo gioco di me?».
«Affatto. Ma, se mi è consentito, cosa vi angoscia al punto da affidarvi a qualcuno la cui obbedienza, secondo voi, va a chi lo paga di più?».
«Forse per inseguire un cane serve un altro cane».
«Certo» la assecondò «E’ uno degli scenari possibili».
Con un inchino si accomiatò, ma Theresa non aveva ancora finito. Posò lo sguardo prima su Argo poi sul suo interlocutore.
«Un’ultima cosa» disse a voce più alta mentre Raven usciva dalla stalla «E’ possibile che un totem disubbidisca ad un ordine del proprio padrone?».
«No» rispose lui con decisione «Non più».  

 
   
 
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