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Autore: Damnatio_memoriae    01/02/2018    1 recensioni
Sul continente i ministri dei cinque rioni si affrontano nel Torneo di Palazzo per assicurarsi il dominio della Cittadella, ma nessuno sospetta che nell'ombra stia già tramando da tempo un oscuro pericolo che minerà profondamente le basi delle loro istituzioni, rompendo quella pace che, a fatica, è stata riconquistata dopo il tradimento di Kalendor. E intanto Theresa affronta le sue paure cercando di ricordare un passato troppo lontano e inafferrabile, mentre Daianara tenterà invano di battersi per impedirglielo.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo 10
 
♦ Fra te e la tempesta 
 
“Dove stai andando non lo domando mai.
So che è passato il nostro tempo e ormai
la sola cosa che temo è il ricordo che avrai

di noi, quando alle spalle ci lascerai”
 
 
Tutt’intorno a lei il chiacchiericcio confuso di centinaia di persone continuava. Le donne avvolte nei loro abiti dai colori sgargianti sparlavano, gli uomini più anziani discutevano di politica e quelli più giovani si vantavano delle proprie prodezze con i coetanei o, più volentieri, con le dame che li affiancavano. Sopra la sua testa gli uccelli, in folti stormi, migravano, e sotto di lei, qualche metro più in là, il terreno veniva preparato per una nuova sfida.
Seduti sui loro scranni, Zane e Ophelia attendevano pazientemente l’inizio del torneo, ma alle loro spalle la folla che si andava ammassando sembrava tutto tranne che paziente. Gli abitanti di Morèa, solitamente così estranei a quella competizione, ora si facevano spazio sugli spalti, occupando tutti i posti a sedere disponibili e distribuendosi anche nelle tribune vicine. Sopra le loro teste, lo stendardo del rione sventolava caotico, come caotici erano le urla, il comportamento, lo strepito di quel popolo abitualmente mansueto.
Ma Theresa non vedeva nulla di tutto questo e le sue orecchie ascoltavano, ma non coglievano. I suoi pensieri erano rivolti altrove ed erano così pesanti, così pregnanti, così ingombranti da non lasciare posto a null’altro. A malapena era riuscita a percepire l’insolito distacco di Daia, il suo sguardo perso, i modi tiepidi – un po’ scontenti – con cui le si rivolgeva ormai da qualche giorno. Li aveva notati, certo, ma non affrontati, perché non ne aveva il tempo, perché era distratta, perché i suoi pensieri erano rivolti altrove e sembrava la stessero logorando giorno dopo giorno dall’interno e non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che qualcosa non andasse, che quel posto le fosse completamente estraneo; non riusciva a fare a meno di avere paura la notte quando rimaneva da sola, di sobbalzare a qualsiasi bisbiglio, di temere i suoi incubi e le sue visioni e, allo stesso tempo, di desiderarle per saziare tutti suoi dubbi. E si sentiva strana, sbagliata, paranoica. Si sentiva impazzire. Stava forse diventando matta? Non lo sapeva.
Più di tutto, quella bambina era diventata il suo pensiero fisso e non riusciva a sfuggirne il ricordo. La conosceva, senza averla mai vista veramente. La conosceva, senza sapere chi fosse, senza conoscerne il nome, la provenienza o l’età. La conosceva, senza conoscerla affatto. Ma la conosceva abbastanza da sentirsela dentro, fin nelle viscere, come se qualcuno le avesse scavato a fondo il cuore per farcela entrare a forza. La ricordava ferma davanti a lei, con gli occhi spaventati, i fiori rossi stretti nelle mani, le scarpette blu così familiari e ogni volta la assaliva il desiderio istintivo di proteggerla, e ogni volta una morsa le attanagliava lo stomaco al pensiero di non averlo fatto quando lei glielo aveva chiesto.
La prossima volta, pensò, la prossima volta non sarà così…
«Tess» chiamò Daia, seduta al fianco dell’amica. Le posò una mano sulla spalla. «Mi stai ascoltando?».
La rossa si scosse. «Come? Hai detto qualcosa?».
Daianara aggrottò le sopracciglia. Ritirò la mano, aprì la bocca per rispondere, ma subito ci ripensò e la richiuse. «Nulla» sospirò frustrata.
«Coraggio, dimmi».
«Lascia perdere».
Theresa non insistette. Si passò una mano sulla fronte, scostandosi la frangia troppo lunga dagli occhi. «Evidentemente non era nulla di così importante» concluse.
L’altra girò il viso per cercare il suo sguardo, ma non lo trovò. «Sembra non esserlo mai ultimamente…» bisbigliò tra sé, intrecciando le dita.
Tess prestò poca attenzione a quelle parole e si limitò ad alzare gli occhi al cielo. Si guardò intorno, fra tutte quelle persone e quel rumore. Vide una ragazza raggiungere il padiglione di fronte a loro, con una camminata decisa e uno sguardo circospetto che Theresa sarebbe stata in grado di riconoscere fra centinaia. Si tirò su di scatto per potersi affacciare dal parapetto della tribuna, sporgersi oltre la ringhiera e strizzare gli occhi per vedere meglio. Poi scosse la testa e, così come si era alzata, tornò a sedersi, pensierosa.
«Che cosa stai facendo?» domandò Daia.
«C’è Savannah» le rispose Tess, e se solo l’avesse guardata sarebbe riuscita a vedere il corpo di Daia irrigidirsi e il volto adombrarsi alla pronuncia di quel nome. «Che cosa ci farà qui?».
«Perché ti importa tanto?».
«Non mi importa» ribattè «E’ solo strano che venga ad un incontro come questo, quando non c’è il Ministro di Nika a sovrintendere. A meno che…» si picchiettò nervosamente due dita sulla gamba.
«A meno che cosa?».
«E’ strano vedere Morèa radunata qui. Perché tutta questa gente?».
Daianara tirò su le spalle «Non saprei, forse loro…Tess? Tess, dove stai andando?» domandò e riuscì appena in tempo ad afferrarle un braccio per trattenerla.
«Da Savannah» rispose semplicemente.
«Perché?».
«Qualcosa non va».
«Stai diventando paranoica, Tess».
«Forse è così, ma non ho mai creduto nelle coincidenze. Il mondo è caotico, è vero, ma non è poi così disordinato».
«Bhe, adesso inizia la sfida. Potrai andarci dopo».
«Ma io voglio andare da lei adesso».
«Se davvero qualcosa non andasse, di certo parlare con Savannah non cambierebbe le cose».
«Perché?» cominciò a dire Theresa, innervosendosi «Le cambierebbe rimanendo qui a discutere con te?».
«Cambierebbe per me, se tu decidessi di rimanere qui».
«E come, di grazia?».
«Preferirei che tu non andassi da lei» tagliò corto.
«Perché?».
«Perché sì».
«Non è una risposta, Daia».
«Accidenti, Tess!» proruppe «E’ davvero così grande lo sforzo che ti costa darmi ascolto? Non potresti fare semplicemente quello che ti ho chiesto, senza dover disquisire su ogni singola parola?».
«E dar sempre ascolto ai tuoi capricci? Non sei più una bambina Daianara ed io non sono la tua balia. Ora lasciami andare» strattonò, ma l’altra non lasciò la presa. «Stai iniziando ad infastidirmi».
«Da quando stare con me ti infastidisce tanto?».
«Da quando pretendi di discutere le mie decisioni. Qualsiasi problema tu abbia con Savannah…».
«Io non ho nessun problema con Savannah» la interruppe subito.
«… o con me, ti consiglio di risolverlo in fretta, perché non ho nessuna intenzione di iniziare a giustificarmi con qualcuno, nemmeno con te, delle mie scelte». Così dicendo ritirò il braccio e Daianara fu costretta a lasciare la presa. Theresa si mosse fra i presenti e, con passi rapidi, si allontanò da lei, senza guardarsi indietro.
Raggiunse la ragazza di Nika e ne seguì lo sguardo, rivolto al cielo. Appostati sui tetti, sulle torri, su guglie e su pennacchi, i soldati del corpo dei ballistarii dominavano la zona. Nonostante la distanza riuscì a contarne una trentina, tutti in posizione, sopra le loro teste.
«Che cosa sta succedendo?» la interrogò con irruenza Theresa, senza perdersi in premesse di sorta.
La bionda alzò appena un sopracciglio, ma non si scompose. Incrociò le braccia al petto e con indifferenza rispose: «Scusami?».
«No, non ti scuso».
«D’altronde non sei mai stata brava a farlo».
«E non inizierò di certo adesso. Ma non sono una sprovveduta, Savannah, quindi non trattarmi come se lo fossi. Sento che qualcosa non va» si guardò intorno «Lo sospettavo già prima del tuo arrivo, ma adesso è palese e tu me ne stai dando tutte le conferme».
«Non so di cosa tu stia parlando, Theresa» ribattè scocciata la ragazza. Le diede le spalle, con tutta l’intenzione di evitare quella discussione, e con un gesto appena accennato fece per congedarsi.
L’altra le sbarrò la strada. «Non prenderti gioco di me. Forse potrò non rientrare nelle tue grazie, e di certo la cosa è reciproca, ma che ti piaccia o meno, noi ci conosciamo bene. E nonostante sia passato più tempo di quanto non mi piaccia ammettere, riesco ancora a leggerti come se fossi un libro aperto. La tensione traspare dal modo in cui ti muovi e dai gesti che fai. E da quello che non dici».
«Se sai già tutto questo, perché sei venuta da me per cercare delle conferme che, a quanto pare, non ti servono?».
Theresa ignorò deliberatamente la domanda. «Ti ha mandata Hansel, vero?».
Savannah alzò gli occhi al cielo. «Quando diventi Ministro i compiti che hai da assolvere si moltiplicano e il tempo che ti viene dato a disposizione sembra ridursi di conseguenza».
«Si, ma non è un caso che tutti gli abitanti di Morèa si siano radunati qui, neanche dovessero celebrare la festa di quartiere con tutte le loro urla. Specie contando che nessun seguace di Aron parteciperà al Torneo e il fatto che il borgo non approvi questa tradizione è diventato ormai di dominio pubblico. Allora perché prendersi la briga di venire ad assistere a questo incontro?».
La bionda storse il naso. «Dai per scontato che io conosca la risposta?».
«Sei qui per controllare. Hansel di sicuro sa qualcosa e se lo sa lui, bhe…» la squadrò dalla testa ai piedi e la sua espressione si fece arcigna «Allora è impossibile che non la sappia anche tu».
«Sei sempre stata troppo curiosa, curiosa anche di cose che non avrebbero dovuto riguardarti» disse fredda «Se hai tutti questi dubbi, perché non ti rivolgi a Zane?».
«Perché lo sto chiedendo a te».
«Davvero lo stai chiedendo? A me pare piuttosto tu lo stia pretendendo. E potrai battere i piedi a terra quanto vorrai, se questo ti farà sentire meglio, ma ho l’obbligo di non divulgare nessuna delle decisioni prese dai Ministri e non verrò meno ai miei doveri solo perché una ragazza di Ennon ha deciso di darsi al pettegolezzo».
Theresa serrò i pugni. «E’ stato Hansel ad ordinarti di tenere la bocca chiusa? Potrebbe chiederti qualunque cosa…».
«No, affatto» ribattè a denti stretti Savannah «Sono sufficientemente padrona di me stessa per stabilire da sola cosa ti compete e cosa no. E, per tua sfortuna – e per la mia gioia -, le faccende del Consiglio non ti riguardano».
«Ancora non ti ho sentita dire che mi sbaglio, però».
La bionda fece spallucce e distolse lo sguardo. «Pensala come credi. Tanto lo faresti comunque».
«Che cosa ci fanno i gargoyle lassù?» domandò poi Theresa, sollevando il viso.
«Sorvegliano. È questo il loro compito. Lo fanno sempre, anche quando gli altri non li vedono. Sono in molti a non avere l’abitudine di guardare in alto».
«E hanno l’abitudine di sorvegliare gli spettatori con le balestre puntate? Magari anche caricate?».
«Non saprei» disse Savannah, scuotendo la testa «Tu sei solita cavalcare senza cavallo?».
«Stanno per attaccarci?».
«Ovviamente no».
«Dunque sono in allerta».
«Io non l’ho detto».
«Allora è vero che sta per succedere qualcosa».
«Non ho detto nemmeno questo».
«E quindi che cosa?» sbottò spazientita, a voce troppo alta. L’altra le coprì subito la bocca con il palmo della mano, facendole segno di tacere.
Sbuffò sonoramente, rassegnandosi all’idea che Theresa comunque non se ne sarebbe andata. «Rimani vicina a me e basta. Non fare mosse avventate».
«Io non prendo ordini da te».
«Da adesso sì» rispose in un tono che non ammetteva repliche «Fai come ti ho detto, Theresa».
Dopo aver pronunciato la formula di ringraziamento e aver zittito i presenti, il Giudice lesse i nomi degli sfidanti che avrebbero gareggiato in quell’incontro. Prese tra le mani i fogli di pergamena che i valletti gli avevano consegnato. «Entrino nell’arena Tribeka, del borgo di Kalendor, e Aeriel, della contrada di Morèa» annunciò e i cancelli vennero aperti ai due contendenti e subito un brusìo serpeggiò tra gli spalti. L’uomo e la donna non fecero nemmeno in tempo ad avvicinarsi per il saluto che dal borgo di Morèa si levarono numerose grida.
«Traditore!».
«Sei un vigliacco!».
«Il peggiore dei codardi!».
Uomini e donne si sbracciarono, inveirono, lanciarono improperi e, insieme a loro, anche gli abitanti degli altri rioni che avevano appoggiato le petizioni di Morèa. Alcuni di loro scavalcarono il parapetto e la recinzione e in pochi secondi il loro esempio venne seguito da altri e da altri ancora, fino a quando tutta l’arena non si trasformò in una bolgia.
«Stai facendo il loro gioco!» urlava qualcuno.
«Non sei degno d’essere considerato uno di noi!».
I più si mettevano in salvo e quelli che non volevano essere coinvolti nella rissa si erano già allontanati. Zane, dopo aver messo al riparo Ophelia ed Isolde, tuonò ai suoi di seguirlo e gli uomini di Ennon, insieme ad un manipolo di Nika, cercarono di dividere i rivoltosi. Quando gli abitanti di Tanaro, le spade strette in pugno, si scagliarono a loro volta contro i ribelli (non per arginare le ostilità, ma per prendervi parte) il conflitto si accese. Nessuno, a parte Theresa e Savannah – che avevano fatto sgomberare la tribuna alle loro spalle – si accorse dei dardi che cadevano dal cielo, almeno fino a quando non andarono a segno, colpendo gambe, torace, spalle.
Alcuni gargoyle, imbracciando le loro balestre, si calarono giù dalle torri e dai pennacchi, saltarono da un tetto all’altro, si lasciarono cadere nel vuoto, piegando le ginocchia per attutire una caduta che per qualsiasi essere umano sarebbe risultata mortale; altri si tennero a distanza per ferire i bersagli e nessuno dei loro colpi andava a vuoto.
Dopo due raffiche di dardi, ancora la folla non si era dissipata e anche chi avesse voluto lasciare il campo non ne sarebbe stato in grado, perché le guardie del palazzo li stavano accerchiando velocemente e il panico circolava tra i sovversivi al punto che, tra grida, pianti e spintoni, molti finirono calpestati.
«Daia…!» sussurrò Theresa, gli occhi sgranati, e senza pensarci due volte saltò i gradini tre a tre per raggiungere il padiglione del borgo del ferro.
«No!» urlò Savannah e le si lanciò addosso, aggrappandosi alla sua schiena. Entrambe caddero, rotolando per l’ultima, breve, rampa di scale. La rossa provò a rimettersi in piedi, ma l’altra la tenne ancorata al suolo. «Non ci pensare nemmeno» sibilò.
«Lasciami andare!» sbraitò Theresa, assestandole una gomitata alla bocca dello stomaco e scivolando via.
Estrasse la spada dal fodero e Savannah riuscì appena in tempo a farle lo sgambetto, allungando una gamba per interrompere la sua corsa, e l’altra inciampò. «Non essere avventata!» urlò, mettendosi a cavalcioni sulla sua schiena.
«Savannah, dannazione!» si dimenò, cercando di scrollarsela di dosso «Lasciami andare, lasciami andare!».
«Non essere stupida!» la trattenne e una terza pioggia di dardi si abbatté sui presenti. «Stai ferma!».
«Daia! Daia!» chiamò Theresa e uomini e donne colpiti si accasciarono al suolo davanti ai suoi occhi, in una pozza di sangue.
«Stai ferma!» ripetè Savannah e storse il polso della ragazza per farle cadere la spada.
L’altra urlò di dolore, ma non mollò la presa.
«Mettila giù, Theresa! Mettila giù!» intimò e con la coda dell’occhio vide dirigersi verso di loro un soldato in livrea verde.
Theresa inarcò la schiena e alzò lo sguardo, incrociando quello vitreo, inespressivo e vuoto di Caleb.
Il gargoyle le osservò entrambe per una frazione di secondo, senza poterle riconoscerle, vincolato com’era dall’obbligo che gli era stato impartito troppo tempo addietro e che ora nessuno avrebbe potuto spezzare. Caricò la balestra, puntò l’arma davanti a sé.
In risposta Theresa si accovacciò e trasse a sé la lama. Savannah si mosse, conficcando il ginocchio nella scapola della ragazza e, girando il busto, calciò via la spada.
«Che cosa stai facendo?!».
«Stai zitta!».
Caleb prese la mira, lo sguardo ancora annebbiato, e la bionda si parò davanti a Tess, proteggendola con il suo corpo. Tremarono entrambe e con un sinistro e meccanico click il quadrello venne lanciato, fendendo l’aria.
Il dardo passò sopra le loro teste e si conficcò, vibrando, nelle assi di legno degli spalti.
Savannah guardò Caleb, pronunciò il suo nome, ma lui non la udì. Abbassò l’arma, senza smettere di fissarle.
«Non ti muovere…» sussurrò la bionda all’orecchio di Theresa «Qualsiasi cosa succeda, tu non ti muovere».
Il ragazzo rimase immobile ancora qualche secondo, il busto teso, le gambe divaricate. E Savannah sapeva che, senza le loro armi, Caleb non avrebbe potuto attaccarle, perché non rappresentavano più un pericolo per lui, né per il Palazzo che doveva difendere.
Buttò fuori il respiro che aveva trattenuto fino a quel momento, ma il totem imbracciò nuovamente l’arma e la caricò.
«Ma cos…?» fece appena in tempo a dire Savannah che Caleb si voltò, dando loro le spalle, pronto a colpire.
Davanti a lui Daianara tremava. Guardò prima Savannah e Theresa, distese a terra, abbracciate, poi la spada, a terra, lontana da loro.
Il gargoyle si avvicinò minaccioso e la mora rimase impietrita sotto il suo sguardo tetro. Passò gli occhi dalla spada al giovane, poi di nuovo alla spada e in quell’istante decise di lanciarsi per afferrarla, ma Savannah la prevenne.
«No!» urlò, allungando la mano nella sua direzione «Non farlo».
«Ma…».
«Fai come ti ho detto, Daianara» la interruppe subito «Non ti muovere, non ti muovere».
La ragazza si pietrificò e quando Caleb le fu abbastanza vicino da premerle contro il petto la punta del quadrello, lei tremò.
«Caleb…» lo chiamò, senza ottenere risposta e nei secondi che trascorsero (secondi che a Daia parvero minuti) prima che lui si ritirasse, altri uomini vennero colpiti dai dardi.
Con un bilancio di quindici morti e trentadue feriti, quell’incontro si concluse senza vincitori.
E anche se Daia se ne vergognava profondamente, dopo una settimana dall’accaduto l’unica cosa che ancora le riempiva la mente, nonostante tutte le perdite, tutto il sangue, tutta la paura, tutte le urla, era l’immagine di Theresa e Savannah strette l’una nelle braccia dell’altra. 

 
♦♦
 
La luna era ormai bassa e la luce dei primi raggi del sole iniziava a rischiarare la notte. Sopra di lei, però, il cielo era ancora scuro e nell’aria si poteva annusare l’inconfondibile odore della pioggia.
Seduta sul bordo del letto, le coperte e le lenzuola sfatte, Savannah rimase a fissare la finestra aperta davanti a sé, percependo attraverso la sottile camicia da notte l’aria fredda entrare nella stanza. E in quella posizione rimase, con le mani giunte in grembo, la schiena retta, il mento alzato, fino a quando l’alba non sopraggiunse con tutti i suoi colori, portando con sé il chiacchiericcio di chi, nel giardino di Palazzo, si era alzato per i preparativi del banchetto della Commemorazione.
«Sei così distante, Savannah» sussurrò una voce alle sue spalle, ma lei non si scompose. Una mano si allungò nell’oscurità, posandosi sulla sua schiena per una carezza gentile. Lei percepì le dita sfiorarle le spalle, il collo, seguire il contorno della spina dorsale, senza incontrare nessun rifiuto, ma nemmeno nessun invito. Non ottenendo reazione, Hansel lasciò cadere la mano, sconfortato.
«Non riesco a fare altrimenti» bisbigliò in una scusa Savannah, dopo un troppo lungo silenzio. «Da quanto sei sveglio?».
Il Ministro di Nika si tirò su a sedere «Da un po’. Non riesci a dormire?».
«Chi mai vi riuscirebbe?».
L’uomo abbozzò un sorriso che subito gli morì sulle labbra. «Già…sembra essere la nostra condanna».
Savannah si perse in un lungo sospiro. Girò appena il busto per poterlo guardare e lo vide aggiustarsi la camicia scura, un po’ stropicciata dopo averci dormito.
«Vieni a letto» la invitò lui, accompagnando le sue parole battendo leggermente il materasso nel lato vuoto di fianco a lui.
«Non posso» rispose in un soffio, tornando a guardare di fronte a sé. Un brivido la scosse quando un alito di vento freddo li investì, spalancando una delle ante della finestra.
Hansel tirò via le lenzuola e, afferrata una coperta, gliela posò sulle spalle. La strinse a sé, avvolgendole le lunghe braccia intorno al busto e affondando il naso tra i suoi capelli.
«Mi manchi, Savannah» le sussurrò all’orecchio, inspirando il suo profumo «Dove sei?».
La ragazza abbassò lo sguardo per non dover incrociare i suoi occhi. «Io non lo so…» disse sincera.
L’uomo la strinse più forte a sé, come se la forza potesse cacciargli via dal corpo la sofferenza. «Torna da me».
Savannah sentendo quelle parole si irrigidì e con tono freddo e distaccato ribattè: «Ma io sono già tornata, Hansel». Poi, pensando di essere stata troppo dura, aggiunse «E’ solo che non è servito…».
«Non ci pensare». Il Ministro le accarezzò la testa.
«Come si può non pensarci?».
Lui trattenne il respiro. «Tu mi ami?» domandò e la sua voce tradiva paura. Quando la ragazza non rispose, Hansel le posò una mano sulla guancia e la costrinse a voltare il viso per guardarlo. Fissando i suoi occhi, un po’ tristi, un po’ spaventati, Savannah si sentì in colpa.
«Ti prego» continuò lui «Dimmi che mi ami ancora».
«Non posso farlo. Ho bisogno di tempo, Hansel» aggiunse. Quando l’uomo fece per allontanarsi, lei lo trattenne «No, aspetta».
Lui scosse la testa, gli occhi lucidi. Fece per dire qualcosa, ma Savannah lo prevenne.
«Raccontami» disse tutto d’un fiato «Raccontami di com’eravamo».
Hansel si passò stancamente una mano sul viso, stringendosi fra il pollice e l’indice la radice del naso. «L’ho già fatto. Talmente tante volte che ho smesso di contarle».
«Per favore. E’ l’unica cosa che mi è rimasta di noi».
«Ma noi siamo ancora qui» si oscurò.
No. No, io non ci sono più, pensò lei, ma non diede voce a quelle parole. «Per favore» disse semplicemente.
Il Ministro di Nika fece un profondo respiro e iniziò a parlare, perché non sarebbe mai stato capace di negarle alcunché. «Ti ho conosciuta alla festa del Raccolto. Io ero solo uno dei tanti ragazzi che per farsi rispettare ricorreva alle maniere forti, ma tu... tu eri la cosa più bella che un incosciente come me avrebbe mai potuto vedere. Ti ho guardata e non sono riuscito a resisterti e più ti osservavo più mi rendevo conto che non sarebbe più stata la stessa cosa, per me. Avevi un modo tutto tuo di osservare il mondo, un modo tutto tuo di farti sentire e di porti. Ti ho chiesto di ballare e tu hai rifiutato. Te l’ho chiesto un’altra volta e un’altra ancora e avrei continuato a farlo fino a che tu non avessi acconsentito. Mi hai intimato di lasciarti stare, perché un prepotente come me non sarebbe mai riuscito a conquistare una come te. E allora io…» sorrise «Sono cambiato. Sono cambiato perché tu potessi darmi una possibilità, sono cambiato perché ti volevo così disperatamente e perché da quando ti avevo conosciuta la mia vita sembrava non bastarmi più. Howel mi ha preso con sé e con lui sono cresciuto, sono maturato, mi sono riscoperto. E anche se tu ti eri già scordata della mia esistenza, il tuo pensiero era l’unica cosa che mi permetteva di andare avanti. Sapevo di doverti meritare e quando mi sono sentito pronto, sono tornato a cercarti. Non è stato facile. Eri la persona più diffidente e fredda che io avessi mai conosciuto. E lo sei ancora» sottolineò, storcendo il naso «Ma io non potevo fare a meno di te. E dopo un tempo infinito, ti sei fatta amare. Quando hai acconsentito a sposarmi io mi sono sentito come neanche il più felice degli uomini si sarebbe sentito al posto mio». Lo sguardo di Hansel si fece improvvisamente cupo «Poi, quel maledetto giorno, il ponte ha ceduto. E noi siamo caduti in acqua. Era inverno e la corrente era forte. Ho provato ad afferrarti per metterti in salvo, ma sei rimasta incastrata e sei affondata tra quelle pietre e quelle travi ed io ti ho vista sprofondare sempre di più, sempre di più» la voce gli venne meno. «Quando sono riusciti a trascinarci a riva, tu non respiravi. Ed è stato come se qualcuno mi avesse aperto il petto per smembrarmi il cuore. Eri fredda tra le mie braccia. E non c’era più nulla che io potessi fare».
«Potevi lasciarmi andare…».
Hansel incurvò le spalle come se qualcuno lo avesse colpito. «No, non potevo. Non potevo stare senza di te. Avrei dato tutto, fatto tutto, pur di non vivere quel dolore».
«Sei stato egoista» sussurrò, senza avere davvero intenzione di rimproverarlo.
«L’amore rende egoisti, Savannah» si prese la testa tra le mani «Se avessi saputo che la mia decisione, invece che riportarti da me, ti avrebbe allontanata, allora io…allora io…».
La bionda lo abbracciò quando lo udì piangere e Hansel nascose le proprie lacrime, affondando il volto nel petto di lei, e pensò non si sarebbe mai sentito a casa in nessun altro luogo.
«Tu mi odi. So che è così».
«No» disse Savannah con decisione «No, questo mai. Non ti odio Hansel. Non potrei odiarti nemmeno se lo volessi».
«E allora perché? Perché sei così irraggiungibile per me?».
La ragazza si morse le labbra. «Io…» iniziò, senza avere il coraggio di continuare.
«Ti prego, dimmelo. Io devo saperlo. Fai così male».
«Oh, Hans…» chiamò il suo nome, passandogli le dita fra i capelli e baciandogli la fronte «Io non vorrei fosse così. Ma non ricordo nulla di tutto questo. Io conosco solo quello che tu mi hai raccontato. E mi chiedo se…» deglutì a fatica «Se non sia tutto solo un’invenzione. E un tuo ordine il fatto che io abbia dimenticato la verità».
L’uomo si freddò. «Tu non ti fidi di me?».
«Non mi fido nemmeno di me stessa, come puoi chiedermi di fidarmi di qualcun altro?».
Il Ministro di Nika si allontanò da lei con uno scatto. «Mi credi capace di una cosa così meschina».
«Io non ricordo» spiegò ancora Savannah.
«Ma io si! Io ricordo tutto di noi…ricordo ogni carezza, ogni promessa, ogni bacio, ogni risata. E sto convivendo col fatto che tu mi veda come un completo estraneo, ma non posso accettare questo. Non posso accettare che tu mi veda come un impostore. Non ti sto mentendo. Non ti ho riempito la testa di bugie. Né ti ho ordinato di restarmi accanto contro la tua volontà. Sei libera di andare via, se è davvero questo che desideri. Non ti ho fatta tornare solo per vederti infelice».
Savannah aggrottò la fronte «Liberarmi non mi renderà padrona di me stessa».
«Si riduce a questo tutto quello che provi per me? Un obbligo a cui dover adempiere?».
«Sai che non è così ed è ingiusto che tu lo dica».
Hansel si morse le labbra. «Mi dispiace. Mi dispiace per tutto quello che è successo. Se potessi fare qualcosa per non vedere nei tuoi occhi quello che vedo adesso, lo farei. Farei qualsiasi cosa per riaverti con me, per tornare ad essere quello che eravamo».
Savannah si strinse nelle spalle, abbassò lo sguardo, incrociò le mani, si torturò le dita. «Appoggia Morèa» disse infine e i tiepidi raggi del sole iniziarono a rischiarare la stanza «Non tutti gli uomini sono come te. E un’eternità senza la possibilità di scegliere per sé stessi è il peggiore inferno a cui potresti acconsentire. Guarda me. Guarda quanti morti ci sono stati e pensa a quanti ancora ce ne saranno. Per favore, Hans. Se davvero vuoi salvarci, schierati con Aron».
   
 
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