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Autore: misstaken    06/02/2018    1 recensioni
ATTENZIONE: AGGIUNTO PROLOGO, NOTE, MODIFICATO PRIMO CAPITOLO
Attraversando le barriere spazio temporali che delimitano la nostra realtà, si giunge in un altro universo, parallelo e contrario al nostro: l’uno si fonda sulla vita e sull’ordine, l’altro sull’anti-vita e sul caos. Le due dimensioni non dovrebbero mai entrare in contatto, e per questo esistono dei guardiani, gli Inbetweeners, che stanno a metà tra i due mondi, preservandone l'equilibrio.
Alice è una solare aspirante ballerina, mentre Max è schiva, taciturna, ma soprattutto dotata di poteri paranormali. Le due sono una il contrario dell’altra, e allo stesso tempo sono complementari. Quando a Newberry cominceranno a verificarsi strani eventi, si renderanno presto conto che l’unione delle loro forze è l’unica speranza di salvezza per il loro mondo. Tra creature malvagie assetate di sangue, portali che si affacciano su altre dimensioni, eroi e traditori, Max ed Alice si renderanno conto che bene e male, luce e buio, ordine e caos non sono poi così distinti.
Questa è la prima storia che rendo pubblica. Mi farebbe piacere avere qualche feedback, anche suggerimenti e critiche, siccome sto scrivendo tutto molto di getto! Grazie a chi spenderà qualche minuto per leggermi!
Genere: Fantasy, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Traduzione | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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CAPITOLO V

Il Ballo

Max

 

 

Max parcheggiò la macchina a qualche isolato di distanza. Il motore si spense con un singhiozzo, ma lei non lasciò andare il volante: la schiena ritta contro il sedile, le braccia tese, riusciva soltanto a guardare di fronte a sé, gli occhi sbarrati. Tentò di regolarizzare il respiro, e di calmare il turbinio di pensieri che le frullavano in testa. Avrebbero dovuto andare alla polizia? No, come potevano spiegare loro che la loro amica era stata divorata da un mostro che avevano evocato per sbaglio? Nessuno avrebbe creduto ad una storia del genere. Piuttosto, vedendola coperta di sangue e in stato confusionale, avrebbero pensato che lei avesse qualcosa a che fare con la sua morte. Potevano raccontare la cosa come se si fosse trattato di un incidente, ma sarebbero comunque finiti nei guai per essere entrati in una zona recintata senza permesso, senza contare che una semplice caduta dalle scale non avrebbe giustificato la quantità di sangue che le era schizzata addosso, né le condizioni del corpo di Jocelyn. Sempre che ci fosse ancora, il suo corpo. No, risolse infine Max, riacquistando lucidità. Dovevano comportarsi come se nulla fosse successo, come se quel giorno non avessero visto Joss. Se avessero ritrovato i resti della ragazza nel centro commerciale, vedendone le condizioni avrebbero sicuramente pensato a un’aggressione da parte di qualche animale selvatico, e, in quel modo, lei non ci sarebbe finita di mezzo.

Rilassando le braccia, prese finalmente un ultimo respiro.
“Richie, ascoltami bene, adesso”, disse Max, rivolgendosi al ragazzino. “Non possiamo andare dalla polizia. Non possiamo dire di sapere niente di quello che è successo a Joss, o penserebbero ad un nostro coinvolgimento. Non penso crederebbero alla storia del mostro”. Richie annuì, in silenzio. “Non possiamo fare nulla, per Joss, ora. E se vogliamo occuparci di quel mostro, è meglio che io non venga arrestata”. Lui annuì ancora, sempre sull’orlo delle lacrime. “Quindi, ora andiamo a casa, dirai a tua madre che abbiamo preso in prestito la sua macchina per andare a riportare un libro in biblioteca, o qualcosa del genere”, proseguì Max. All’improvviso, le venne in mente di non avere le chiavi del veicolo: dovevano essere rimaste in tasca a Joss. Si chiese se Richie si fosse domandato come avesse potuto far partire la macchina senza chiavi. Decise di non chiedere nulla. “Tua… Tua madre ha delle chiavi di riserva, no?”. “Sì. Ne abbiamo tre: una la tiene mamma, una è appesa all’ingresso, e una… una…” Richie deglutì. “Una la teneva Joss”, concluse.
“Ottimo”, disse Max. “Dille che abbiamo usato quella di riserva”. Max si sporse verso di lui, staccando le mani dal volante per prendergli il viso tra le mani. Richie alzò lo sguardo, sorpreso, mentre lei lo guardava fisso negli occhi, con gravità. “Ce la farai, Richie? Hai capito quello che ti ho detto di fare, e perché lo devi fare?”.
Richie arrossì, fissando dentro agli occhi di Max, quasi come se ne fosse ipnotizzato. Si riprese, scuotendo appena la testa. “S-sì. Sì, capisco. È tutto ciò che possiamo fare. Ce la farò, Max, non preoccuparti. Ci penso io”.
Max sospirò. Avrebbe voluto abbracciarlo, ma si rese conto che lo avrebbe imbrattato di sangue. Così, gli disse solo: “Mi dispiace, Rich. Mi dispiace tanto. È colpa mia”.
“Non è colpa tua” ribatté lui, serio. “Joss ha fatto qualcosa di molto stupido, e per caso tu eri lì, e non sei riuscita a fermarla. Se non ci fossi stata, l’avrebbe fatto comunque. E comunque, non potevamo sapere che quella storia fosse vera…”. Max sospirò, cacciando indietro le lacrime che le pungevano gli occhi. “Lo so”, disse solamente, corrucciata. Poi si alzò, aprì la portiera della macchina e scese, esaminandola, alla ricerca di tracce di sangue. Non sembrava che ce ne fossero: c’era solo qualche impronta insanguinata sul volante. Guardandosi, si assicurò di essere sporca solo sul viso e sul petto. Poi, si pulì con una salvietta le mani ed il volante, e infine risalì, mise in moto, e si diresse verso casa.

La strada di fronte alla caffetteria era deserta. Scendendo, controllò ancora una volta di non aver lasciato tracce. Controllò anche che Richie fosse pulito e insospettabile, e lavò via le tracce del pianto dal suo volto. Poi, lo guardò correre in casa, e dopo aprì il bagagliaio, si caricò la cassa con la sfera rimanente sulle spalle e infine, approfittando dell’oscurità, scivolò come un fantasma dalla porta di ingresso, salì le scale di corsa e si infilò nell’appartamento. Sbatté la porta, lasciò cadere la cassa e si accasciò sul pavimento, il volto nascosto tra le mani. Tremava e singhiozzava incontrollabilmente, ora che non doveva più trattenersi. Aveva visto una persona morire di una morte terribile davanti ai suoi occhi, ed era tutta colpa della loro stupidità. Si sarebbe picchiata, in quel momento: si rese conto di essere solo una ragazzina idiota.
Quando riuscì a ricomporsi, esaminò il contenuto della cassa, tremante, assicurandosi che la sfera fosse intatta, e ferma. Vista così, sembrava solo un ammasso di fango secco. Max sentì una morsa gelata attraversarle lo stomaco, ma sapeva di non avere scelta: doveva custodirla. Liberarsene poteva significare che finisse nelle mani sbagliate, facendo fare a qualcun altro la fine di Joss. Non era certo entusiasta di dormire nella stessa stanza di un uovo contenente un potenziale mostro assassino, ma non poteva fare molto altro: Joss era morta, e non poteva permettere che qualcun altro perdesse la vita a causa sua. Così, spinse la cassa sotto al letto, pregando qualunque divinità che la sfera non si risvegliasse, e finalmente si diresse in bagno.
Si osservò allo specchio, e vide che era conciata parecchio male: il sangue le aveva schizzato il volto, i capelli e il petto, dove si era allargato in grosse chiazze scure, penetrando nei vestiti. Max si spogliò, mettendo giacca, maglietta, pantaloni, scarpe, e biancheria a mollo in una tinozza di acqua bollente, dopo aver spruzzato dello smacchiatore sulle tracce di sangue. Si infilò poi in doccia, lavandosi con attenzione, mentre ai suoi piedi l’acqua e il sapone si tingevano di rosso. Una volta uscita, svuotò la tinozza, la lavò, mise i vestiti in lavatrice, e pulì il piatto e le pareti della doccia. Fece lo stesso con il pavimento, seppure non avesse gocciolato sangue entrando, ripassando mentalmente tutto ciò che aveva fatto da quando era salita in macchina a quando ne era scesa, pensando se avesse dimenticato qualcosa.
Quando, finalmente, ritirò i vestiti dalla lavatrice, notando che ogni traccia di sangue era scomparsa, si tranquillizzò giusto un poco.
Si buttò sul letto, gli occhi sbarrati. Ovviamente, non ci sarebbe stato verso di dormire, questo Max lo sapeva. Passò una notte insonne ed inquieta, fissando l’orizzonte in attesa di vedere le prime tracce dell’alba. I suoi pensieri vagavano da Jocelyn, al mostro, alla sfera sotto il suo letto. Non aveva idea di cosa fare.

Quando il cielo si ingrigì appena, si alzò, fece colazione, e si preparò lentamente per andare a lezione. Aveva ragionato sul fatto che sarebbe potuto sembrare sospetto non presentarsi, e, inoltre, l’idea di restare nella stessa stanza con quella sfera la faceva impazzire. Aveva deciso di lasciarla a casa, per quanto la inquietasse il pensiero di sua zia che, solo due piani più sotto, si aggirava ignara. Tuttavia, lasciarla in macchina in un parcheggio brulicante di studenti le parve un’idea ancora peggiore. Così, distrutta, ma incapace di sentire la stanchezza, salì in macchina, mise in moto e partì alla volta di Heathfeld, come ogni mattina.


Alice

 

 

Alice scivolò nel posto accanto a Max a informatica, Alex al seguito. La ragazza fissava nel vuoto, il viso appoggiato sul palmo della mano, gli occhi sbarrati, e sembrava non avere un bell’aspetto. “Max?” Alice la chiamò, incerta, ma lei non ebbe reazioni. “Max. Max!” Alice la scosse dolcemente per un braccio, e Max sobbalzò sulla sedia, guardandosi intorno stranita. “Ciao. Scusami, non volevo disturbarti. È solo che… ehm… sembravi… Stai bene?”, disse, guardandola con aria interrogativa. Max strizzò gli occhi e si stropicciò la fronte, riprendendosi. Era pallida come un cencio. “Sì, sì, io… non ho dormito molto, stanotte. Ma sto bene”.
“Beh, ti conviene andare a casa a riposarti, allora” Alex sorrise, stiracchiandosi, “Perché stanotte ci sarà da uscire di testa!”. Max lo guardò, confusa. “S… Stanotte?”, disse, incerta. “Ma sì, il ballo! È stasera, non ricordi?”. Alex la guardò, improvvisamente preoccupato. “Non lasciarmi da solo, eh!”.

Alice guardò Max stringersi le braccia intorno alla vita, in un involontario gesto difensivo che le fece tenerezza. “Certo che no. Non ti darò buca. Dormirò qualche ora oggi pomeriggio, ecco”. Max fece un sorriso dall’aria forzata, ma lei continuò a osservarla di sbieco per tutta la durata della lezione. Al suono della campana, Max si affrettò ad uscire dall’aula, come suo solito, e, come ormai era tradizione, Alice la seguì, scorgendola in fondo al corridoio mentre si infilava in bagno. Aprì leggermente la porta, facendo attenzione a non farsi notare: Max stava in piedi, reggendo il suo peso sulle braccia, i palmi delle mani appoggiati al lavandino, la testa china. Tremava incontrollabilmente.
Alice si infilò all’interno del bagno, mentre Max, alzando il viso, la scorse nel riflesso dello specchio. Le sue guance erano rigate di lacrime: Max le asciugò frettolosamente con le maniche, nascondendosi il volto. Alice si avvicinò con calma, posando una mano sul suo avambraccio, e attese, finché Max non sollevò lo sguardo, guardandola finalmente negli occhi. Schiuse le labbra per dire qualcosa, ma sembrò non riuscirci: così, si morse il labbro inferiore, tremante, abbassando nuovamente gli occhi.
“Cosa c’è che non va?”. Alice la tirò leggermente per un braccio, facendola voltare, e poi spingendola indietro, in modo che appoggiasse la schiena al lavandino. Max scosse la testa, le mani sul volto. “Max, parlami. Ne hai palesemente bisogno”. Max la guardò, finché, con un filo di voce, le disse: “Non posso. Non posso, Alice. È pericoloso”. “Se è pericoloso, significa che tu sei in pericolo, e se è così, io voglio aiutarti”. Si fissarono negli occhi per qualche secondo, e Alice sostenne il suo sguardo, decisa. Infine, Max si raddrizzò di scatto, trascinandola in un angolo, e abbassandosi, in modo che i loro volti distassero solo pochi centimetri. “Cosa mi diresti se ti dicessi che ho visto qualcuno morire?”, bisbigliò, a denti stretti. Alice la guardò, scioccata. “Cosa mi diresti se ti dicessi che ieri, nel centro commerciale abbandonato, un mostro ha risucchiato la faccia di Jocelyn Bennet?”. Aveva una strana luce negli occhi, sembrava quasi pazza.
“Penso… penso che tu abbia bisogno di riposarti. Ti riporto a casa, e lì possiamo parlarne, che ne dici?”. Max scosse violentemente la testa, e assunse un’aria terrorizzata. “No. Non a casa. Non è sicuro”. “Allora andiamo a casa mia”, ribatté Alice. “Va meglio, così? Ti faccio un tè o qualcosa, e potrai riposarti. Poi, una volta che ti sarai calmata, parleremo di questa cosa”. Max si appoggiò al muro, stropicciandosi gli occhi. “Va bene”, disse soltanto.
Circa venti minuti più tardi, si stavano dirigendo alla macchina di Max. Alice aveva lasciato le chiavi della sua ad Alex, ma insistette per guidare. “Non sei nelle condizioni”, disse seccamente a Max. Lei la guardò, belligerante, ma Alice troncò il litigio sul nascere. “Vuoi restare qui a discutere, o ci diamo una mossa? Ti giuro che guido alla perfezione”. Senza dire una parola, Max la fissò. Poi, lentamente, estrasse le chiavi della macchina da una tasca del giubbotto, e, tenendole tra il pollice e l’indice, le lasciò oscillare un po’ sopra al palmo teso di Alice, per poi lasciarle cadere all’improvviso. Lei le afferrò con uno scatto. “Ottimo”, le sorrise soddisfatta.
 

Più tardi, Alice la fece accomodare sul divano: non ci volle molto perché Max crollasse addormentata, evidentemente esausta. Alice la guardò: anche nel sonno, non riusciva ad apparire rilassata. Si chiese che cosa diamine le fosse successo, e cosa significasse quello che le aveva detto nei bagni. Passò qualche ora così, finché non si svegliò di colpo, guardandosi intorno. Alice le posò una mano sulla spalla, risospingendola a posto, e spiegandole dove si trovasse.

“Oh”. Max si portò una mano alla fronte, e le scoccò uno sguardo apologetico. “Devo essere crollata. Mi spiace, davvero”. “Non preoccuparti”. Alice si morse un labbro, guardandola. “Ad ogni modo, grazie. Non… non potevo dormire a casa, e direi che è merito tuo se stasera non mi addormenterò sulla spalla di tuo fratello”. Alice sentì un peso scivolarle sullo stomaco, a quelle parole: il ballo. Le era passato di mente.
Max si alzò. “A proposito”, proseguì “credo che farei meglio ad andare a prepararmi”. “E la cosa di cui dovevamo parlare?”. Alice si alzò a sua volta, immusonita. “Ne… ne possiamo parlare, non so… in un altro momento?” Max la guardò, seria. Alice sentì di odiarla: voleva davvero rimandare una cosa così? “Sul serio, Al. Non me la sento, adesso”. Il fatto che l’avesse chiamata con un nomignolo le fece un effetto strano. La guardò, e si sentì intenerire alla vista del suo viso provato. “Non c’è problema”, disse, tentando di sorriderle. “Ci vediamo stasera, allora”. Quando ballerai con mio fratello, aggiunse mentalmente.

Un’ora più tardi, in casa Dawson, erano tutti presi dai preparativi. Alice se ne sarebbe stata volentieri a casa: non le andava di guardare suo fratello avere Max tutta per sé per una sera, ma, allo stesso modo, non si spiegava il perché di questi suoi pensieri.
Sentì Ben imprecare, al piano di sotto. Allacciò la zip del suo vestito blu, indossò i tacchi alti e si guardò allo specchio: era bella, Alice, quella sera. I capelli lisci e neri le scendevano dolcemente sulle spalle, e il colore del vestito si intonava ai suoi occhi.

Scese le scale, trovando Alex in agitazione nel suo smoking nero, e Ben che, sorprendentemente, sembrava nelle sue stesse identiche condizioni.
“Cosa succede?” chiese lei, circospetta.
“Jocelyn non si fa sentire da ieri”. Ben camminava avanti e indietro, passandosi una mano tra i capelli di tanto in tanto. “Non posso credere che mi dia buca per il ballo, quella stronza!”. Sferrò un calcio al muro. Poi, assunse un’aria preoccupata. “Non le sarà successo niente, vero?”, chiese, torcendosi le mani. “Cosa mi diresti se ti dicessi che ieri, nel centro commerciale abbandonato, un mostro ha risucchiato la faccia di Jocelyn Bennet?”. Le parole di Max le risuonarono nelle orecchie, e lei sentì un peso sul cuore, sebbene le trovasse incredibili. “Va’ a prenderla a casa, Ben. Qualunque cosa sia successo, te lo spiegherà”, rispose quindi Alice, semplicemente. “Giusto” borbottò lui, dirigendosi alla porta, e spalancandola solo per trovarsi davanti Brett, che sfoggiava un sorrisone nel suo completo grigio. “Comportati bene”, gli ringhiò Ben, uscendo.
“Non c’è bisogno di raccomandazioni. Io sono un gentiluomo, non è vero, piccola?”. Brett ammiccò ad Alice, che sentì lo stomaco rivoltarsi. “Sei più figa del solito, stasera”, aggiunse. “Sì, grazie” disse lei, senza guardarlo, e facendo per uscire.
“Al?”. Alice si voltò, al suono della voce di suo fratello, il cui sguardo oscillava tra Brett e lei, a disagio. “Non… non è che potreste accompagnarmi?”.
Alice lo fissò, sorpresa. “Non devi passare a prendere Max?”, chiese.

“Viene da sola…”. Alex si guardò i piedi, arrossendo. Brett rise sguaiatamente, ed Alice sentì la bile risalirle lungo lo stomaco: aveva voglia di prenderlo a pugni, e la serata non era ancora iniziata. “Allora vieni con noi”, disse, secca.
Poco più tardi, davanti all’ingresso della sala da ballo della scuola, dove si teneva la festa, Alice si chiese mentalmente, per l’ennesima volta, chi diavolo gliel’avesse fatto fare di obbedire alle convenzioni sociali ed andare al ballo con Brett, che aveva sparato una battutaccia dietro l’altra, mentre guidava.
Alex si tormentava le mani, guardandosi intorno. “Ehi, nanetto”. Brett gli circondò le spalle con un braccio. “Sei sicuro che non ti abbia dato buca? Guarda che se così fosse te ne troviamo un’altra che sia… alla tua altezza” Brett ridacchiò da solo, ma Alex, guardando alle spalle di Alice, parve illuminarsi.
“E’ arrivata”, disse. Alice si voltò. Max si fermò a pochi passi da loro, di una bellezza mozzafiato in un vestito rosso scuro. Un’elegante treccia raccoglieva parte dei suoi capelli, lasciando alcuni dei suoi boccoli ricadere in una cascata di lato. Alex le si avvicinò, e lei gli sorrise, esitante. Arrossendo, ma sorridendo a sua volta, lui le prese il braccio. “Sei davvero bellissima”, disse, raggiante. Max rise. “Anche tu non sei niente male, piccoletto”. Non indossava i tacchi, ma era comunque più alta di Alex. “Che ne direste di entrare, madame?”. “Ne sarei deliziata, monsieur”. I due risero ancora, e, oltrepassandoli, Max lanciò uno sguardo di fuoco a Brett, sorridendo invece frettolosamente ad Alice. Lei sentì le guance andarle a fuoco.

“Beh, ci diamo una mossa?” disse Brett, afferrandola per un braccio e quasi trascinandola dentro, mentre lei, trasognata, seguiva Max con lo sguardo.
La sala da ballo era arredata elegantemente, e una massa di studenti avvolti in vestiti colorati occupava già la pista da ballo. Brett la condusse al banco dei drink, che era già gremito, dove iniziò a sbraitare e ridere con i suoi amici, dandole di tanto in tanto qualche pacca sulla spalla. Le ragazze che li accompagnavano socializzavano tra loro, ma Alice, a braccia conserte, scrutava la sala alla ricerca di Max e di suo fratello. Li vide in un angolo, vicino ad un paio di altri studenti, mentre chiacchieravano. Max sorrideva e rideva come Alice non l’aveva mai vista fare: sembravano divertirsi. Incurante di quello che accadeva intorno a lei, mosse qualche passo nella loro direzione. Brett la afferrò per un gomito, trattenendola. “Hey, dove vai, bellezza?”, disse, traendola a sé. Infastidita, Alice pose un minimo di distanza tra se stessa e il petto di lui. “Vado da mio fratello”, rispose a denti stretti.
“Oh, assolutamente no! Ora andiamo a ballare!”, rispose lui. La trascinò in pista, dove le si allacciò stretto, muovendosi sconclusionatamente a tempo di musica. Alice adorava ballare, e non solo in modo professionistico, ma sentì l’impulso di vomitargli sulle scarpe.
Dopo quelli che sembrarono alcuni giorni di quella tortura, intravide nuovamente Max ed Alex sulla pista da ballo. Lei sembrava leggermente preoccupata, mentre lui le mostrava, probabilmente, come ballare. Alla fine, parve prenderci la mano, e la canzone cambiò in un lento. I due rimasero a distanza, ma parlavano fitto, lui che la guidava con le mani sulla sua vita, e lei che lo seguiva, le braccia intorno al suo collo.
Alice si sentì bruciare dentro. All’improvviso, Brett ficcò la faccia nell’incavo tra il suo collo e la sua spalla, premendole le labbra sulla pelle, e lei fece un balzo all’indietro, orripilata.
Combattuta tra il desiderio di picchiarlo, di picchiare Alex, di picchiare Max, o semplicemente di chiederle di ballare, riuscì solo a ringhiare “Ho bisogno di un po’ d’aria”.

Brett fece un sorriso sornione, che lei ignorò. “Molto bene, allora. Facciamo una passeggiata. Una signorina come te non può uscire da sola”.

I due si diressero all’uscita, mentre lui le avvolgeva un braccio intorno alla vita.
Una volta fuori, lei inspirò profondamente, ad occhi chiusi, per calmarsi. Non aveva senso che si sentisse così. Certo, il suo partner faceva schifo. Per lo meno, ora Brett teneva la bocca chiusa. Era piacevole camminare in silenzio, pensò. Almeno, lo pensò finché non sentì il suono della macchina di Brett che si apriva.
All’improvviso, Alice realizzò che si trovavano nel bel mezzo del parcheggio. La musica della festa si sentiva solo in lontananza, e Brett spalancò la portiera della macchina, in attesa.
“Che stai facendo?”. Alice indietreggiò istintivamente. Brett rise. “Va bene essere avventurosi, ma non vorrai mica farlo qui fuori, no?”.
“Fare cosa?”. Il sorriso di Brett si irrigidì un poco. “Coraggio, Alice. Non fare storie, ora. Non è divertente”.
“Credo che tu abbia capito male. Io volevo solamente fare una passeggiata, Brett”, rispose lei, fredda.
“Certo, e sappiamo tutti come finiscono le passeggiate, no? Entra in macchina”, rispose Brett, spazientito.
“No. Io torno dentro”.

“Certo, come no!”. Brett la afferrò per un braccio, tirandola a sé. “Lasciami!” strillò lei, la voce rotta dal panico. “Entra nella cazzo di macchina!”.

I due lottarono brevemente, ma lui era troppo grosso, troppo forte. Prendendola per i polsi, la bloccò, spingendola contro la fiancata della vettura. Lei sbatté contro la portiera, cercando inutilmente di liberarsi. Le premeva addosso con tutto il corpo. “Smettila-smettila, che ti piace!”. Soffocò le sue grida forzandola in un bacio. Alice tentò di morderlo, di calciarlo, ma lui rise, facendo per sollevarle la gonna.
Un pugno sbucò dal nulla, colpendo Brett sulla tempia, e facendolo cadere. Alice si piegò in avanti, le lacrime che le rigavano il volto. Scivolò lentamente lungo la fiancata della macchina. Lui gemette, sfiorandosi la testa. Max torreggiava sopra di lui, lo sguardo in fiamme. “Vattene”, scandì. La sua voce era una lama di ghiaccio, letale. Sembrava pronta ad ucciderlo.
“Fatti i cazzi tuoi, Caulfield, dannazione!”. Brett fece per scattare in piedi, caricando Max, ma, prima che potesse fare qualunque cosa, lei allungò la mano, le dita contorte come se stesse stringendo qualcosa. Brett si portò le mani alla gola, tossendo, scivolando a terra, e venendo poi rialzato su, come se la mano invisibile di un gigante lo stesse trascinando. Sbatté contro un palo, cercando di togliersi la morsa invisibile che lo stingeva al collo. Max fece qualche passo in avanti, gli occhi fissi su di lui, la mano tesa e un’espressione di puro odio sul volto. Brett iniziò a diventare viola, gli occhi strabuzzati. Alla fine, respirando affannosamente, Max abbassò la mano, riluttante, e lui cadde a terra, tossendo, senza fiato. Poi, si voltò verso Alice, aiutandola a rialzarsi, e fece qualcosa che lei non si sarebbe mai aspettata: la abbracciò, stringendola forte a sé. Colta di sorpresa, Alice si ritrovò a ricambiare l’abbraccio, aggrappandosi a Max come un naufrago ad un salvagente. Nascose il viso nella sua spalla, singhiozzando e tremando.
“Stai bene?”, mormorò Max, dolcemente. Alice annuì con forza. “Ora sì”, rispose. “Allora, per favore, puoi portarmi via, prima che io lo ammazzi?”. La voce di Max tremò pericolosamente. Alice la prese per mano, e si allontanarono, fino a raggiungere la vecchia Golf di Max. Salì, e Alice la imitò. Max mise in moto, guardando fisso di fronte a sé, e iniziò a guidare, restando in silenzio. Alice guardò Heathfeld allontanarsi dal finestrino, ancora scossa.
“Non ti sto rapendo”, disse infine Max. “Ti porto a bere qualcosa di caldo. E ho bisogno di mettere qualche chilometro tra me e Brett, altrimenti stasera mi arrestano”. Per qualche motivo, Alice non pensò che fosse un’esagerazione.

“Grazie”, disse solo. “Se non ci fossi stata tu, io… non so come sarebbe finita. Anzi, lo so. È tutta colpa mia”, aggiunse. “Me l’avevi detto di Brett, mi avevi avvertita, e io invece sono andata lo stesso con lui, per dare retta a…”. “Zitta”, la interruppe seccamente Max. “Ascoltami bene. Niente di quello che è successo stasera è colpa tua. L’unico che ha colpe, qui, è quell’idiota di Brett”. Pronunciando il suo nome, Max strinse le mani sul volante, al punto che le sue nocche sbiancarono. Alice non sarebbe riuscita a esprimere a parole la gratitudine che provava, così restò zitta, guardando la città addormentata scorrere di fianco a loro.
Poco più tardi, stavano entrando nella caffetteria della zia di Max. Il locale era vuoto, e Chelsea Caulfield, dietro al bancone, stava asciugando dei bicchieri.

“Max!”, esclamò, vedendola entrare. Sembrava sorpresa di vederla. Max fece cenno ad Alice di sedersi a un tavolo appartato, in un angolo, e scambiò qualche parola con la zia. Tornò pochi minuti dopo, tra le mani un vassoio con due fette di torta, due tazze di tè fumante e un bicchiere d’acqua.

Scivolò sul divanetto accanto ad Alice, disponendo le vivande di fronte a loro. “Bevi”, ordinò poi, porgendole l’acqua. Lei obbedì, non rendendosi conto di quanta sete avesse finché non ebbe vuotato il bicchiere.
“La torta è al triplo cioccolato-una delle mie preferite. Spero non ti dispiaccia che mi sia presa la libertà di scegliere anche per te”.
Alice rise debolmente. “Non credo potrei mai lamentarmi di ricevere una torta al triplo cioccolato”, rispose. Ne assaggiò una forchettata: era deliziosa.
“Non saresti dovuta uscire da sola con Brett, comunque”, osservò Max, addentando la sua.
“Lo so. Brett è orribile. Non volevo andare con lui, stavo uscendo per i fatti miei. Ero arrabbiata… e mi ha seguita”. Alice si sentì riprendere calore piano piano, la paura che scivolava via, mentre si lasciava cullare dalla voce morbida di Max.

“Arrabbiata?”, disse Max, interrogativa. “Sì. Tu e Alex vi stavate divertendo, e io ero bloccata con quello”, disse, infilzando i resti della torta con veemenza.
“Ah. Eri gelosa, quindi”, disse Max, l’ombra di un ghigno che le aleggiava sulle labbra. “Non ero- sta’ zitta!”, ribatté Alice, arrossendo suo malgrado. “Come hai fatto a trovarmi, comunque?”.

“Ti ho vista uscire con Brett, e ti ho seguita. Gli stavo leggendo la mente da tutta la sera, non mi piaceva affatto”. “Quindi, mi stavi spiando?”, la stuzzicò Alice, dandole un colpetto col gomito. “Stavo tenendo d’occhio Brett. E ho fatto bene, direi”. Alice rabbrividì, senza rispondere: ripensare a quello che era appena successo le faceva venire una morsa gelata allo stomaco.

“Sei tranquilla, ora?”, chiese Max. Alice ci pensò su. Le rivenne in mente la sensazione di nausea che aveva provato nell’avere Brett addosso. In quel momento, le era quasi sembrato suo padre. “Sì, lo sono. Mi sa… è che queste cose hanno particolare effetto su di me… da quando mio padre…”. Alice si interruppe bruscamente.
“Da quando tuo padre…?” la incalzò Max. Alice le sorrise. “Mi spiace, Misteriosa Max, ma anche io ho i miei segreti. Forse, quando ti aprirai anche tu, te ne potrò parlare”, tagliò corto lei. Max non insistette. “Ad ogni modo, grazie per avermi salvata. Sei il mio angelo custode”, le disse, con un sorriso leggermente malizioso. Max fece una smorfia. “Taci, Dawson. Lo sai che avrei salvato qualunque altra ragazza, al tuo posto”, ribatté. Lei rise. “Però, non stavi controllando gli accompagnatori di ogni altra ragazza questa sera. Stavi controllando il mio. Chissà quante ragazze non stai salvando, in questo momento, solo per stare qui con me”.
“Beh, immagino che nessuna di quelle ragazze stesse morendo di gelosia al pensiero di non poter ballare con me, al posto del proprio fratello gemello”, rispose Max, sorridendole. Alice non rispose: invece, prese un po’ della glassa rimasta nel piatto e gliela spalmò in faccia. “Hey! Ma quanti anni hai, Biancaneve? Cinque?”. Lottarono un po’, e nel processo altra glassa finì sulle loro facce. Infine, si ripulirono, e Alice appoggiò la testa sulla spalla di Max, sospirando. La sentì irrigidirsi, e poi rilassarsi: infine, Max allungò una mano, coprendo la sua, sul tavolo, e stringendola, forse per confortarla. Rimasero un po’ così, prima che Alice si voltasse a guardarla. Il suo viso era un po’ troppo vicino: si ritrovò a fissare i suoi occhi verdi, persa, avvicinandosi ancora, involontariamente.
La borsa di Alice squillò e vibrò, facendole sobbalzare entrambe. Si allontanarono, arrossendo, mentre lei frugava nella borsa, estraendo finalmente il cellulare, e rischiando di scaraventarlo a terra grazie al tremito delle mani. Riuscì a rispondere. “Che c’è?”, disse, portandolo all’orecchio. Era Alex.
“Stai bene? Dove sei? Sei con Brett? Max è con voi?”, esclamò, preoccupato. “Sto bene, sto bene, Alex”, rispose Alice. “Sono con Max. Ora arriviamo, e ti spiego, okay? Tranquillo”. Scambiò ancora qualche battuta con il fratello, prima di riattaccare. Si rivolse quindi a Max. “Penso che sia meglio tornare, prima che chiamino la polizia”, disse. Max si alzò. “Scommetto che ora tuo fratello è felice che l’abbia fatto venire in macchina con te, per non lasciarti sola col gorilla”, fece, calma. “Cosa? L’hai fatto apposta?”, chiese Alice. Max si limitò a farle l’occhiolino.
Una mezz’oretta più tardi, stavano parcheggiando vicino alla scuola. Scesero, e Max le mise un braccio intorno alle spalle, scortandola nell’oscurità. Alice si rese conto che stavano per passare di nuovo vicino alla macchina di Brett, e si sentì mancare. Cercò di trattenersi, quando si rese conto che Max si era bloccata. La guardò, interrogativa. Fissava qualcosa di fronte a loro, ed era sbiancata. Alice seguì il suo sguardo, e urlò. Sotto al lampione, qualcosa di grosso e scuro stava divorando quello che restava di Brett. Al suo grido, la creatura si voltò, emettendo un suono a metà tra un sibilo e un ruggito. Non aveva né naso né occhi, solo una lunga fenditura piena di denti aguzzi alla base della testa. La creatura scattò verso di lei, ma Max si frappose tra di loro, salvandola per la seconda volta. Sollevò la mano destra, e la creatura volò all’indietro, uggiolando. Max si preparò al combattimento, ma, con un ultimo ululato di dolore, il mostro fuggì, perdendosi nell’oscurità.
Max cadde in ginocchio, reggendosi il petto, ansimante. Alice si accovacciò al suo fianco. “Max! Max! Stai bene?”. Lei annuì, risollevandosi con calma, gli occhi fissi sul cadavere di Brett. Un’espressione di orrore le deformò il viso. “L’abbiamo lasciato qui, da solo…”. “Max, non è stata colpa tua! Max, ascoltami! Non potevi saperlo…”. “Sì, che potevo. Lo sapevo. Ho già visto quelle cose”, rispose lei. “Cosa… cosa era?”. Cose? Significava che ce n’era più di una in giro? Alice la prese per le spalle, scuotendola. “Max, parlami, dannazione!”.
“Lo farò. Ti parlerò. Ma dobbiamo andarcene da qui, e in fretta. Potrebbe tornare. Corri a prendere tuo fratello, io vi aspetto in macchina davanti all’ingresso”, disse Max, agitata. Alice la guardò, nel panico. “Non ti lascio sola…” cominciò. “Vai!”, disse semplicemente Max, correndo verso la macchina. Alice si voltò, e corse a perdifiato verso la sala da ballo, cercando di individuare Alex tra la massa di studenti. Il fratello era in attesa vicino alla porta. Lei lo prese per un braccio, tirandolo. “Cosa stai facendo? Al, fermati!”. “Vieni! Vieni e basta!”. La macchina di Max spuntò sgommando, e i due si fiondarono dentro. “Che sta succedendo?”, chiese Alex, dal sedile posteriore.
“Non lo so nemmeno io”. Max ingranò la marcia e partì a tutta birra. “Ma mi sa che ci tocca scoprirlo”.

   
 
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