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Autore: Damnatio_memoriae    11/02/2018    2 recensioni
Sul continente i ministri dei cinque rioni si affrontano nel Torneo di Palazzo per assicurarsi il dominio della Cittadella, ma nessuno sospetta che nell'ombra stia già tramando da tempo un oscuro pericolo che minerà profondamente le basi delle loro istituzioni, rompendo quella pace che, a fatica, è stata riconquistata dopo il tradimento di Kalendor. E intanto Theresa affronta le sue paure cercando di ricordare un passato troppo lontano e inafferrabile, mentre Daianara tenterà invano di battersi per impedirglielo.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo 11
 
♦ Il colore del gladiolo 
 
“La voglia che ho di te mi spinge a rimanere,
ma dopo ci ripenso e desidero scappare.
Guardandoti non riesco ad ignorare il piacere,
guardandomi non posso trascurare il dolore.”
 

Un tempo erano le Arpie, guardiane del cielo, o almeno questo era quello che i rotoli tramandavano, una leggenda copiata, trascritta e tradotta nei centri del continente da così lungo tempo che i più, ormai, avevano smesso di chiedersi da quanto. La storia di Fërun, il regno oltre le nuvole, era impressa in quei fogli e viveva all’interno delle mura delle cappelle, nei pilastri di ogni basilica, nelle vetrate istoriate delle chiese. Prima del sole e della luna, prima di qualsiasi germoglio o goccia d’acqua, erano stati solamente cielo e nuvole e al di sopra di entrambi donne alate rincorrevano il vento e scatenavano tempeste. Fu Kara, del dominio della Serra, a tradire Fërun e ad essere condannata all’esilio. Forse spinta dall’amore, forse dal capriccio, forse dalla curiosità, si spinse oltre il mondo conosciuto, sotto la coltre di nubi che avvolgevano il suo regno. Le ali le vennero allora strappate dalla schiena e il sangue delle ferite colorò il cielo, affinchè tutte le Arpie potessero conoscere la sua colpa e la sua punizione. Privata delle ali, Kara precipitò nel vuoto, ma la sua vertiginosa caduta venne interrotta dalle sorelle giunte in suo soccorso. Afferrata a pochi metri da terra, la guardiana si trovò circondata da lande sterili, terre desolate, fiumi di lava e rocce nude.
Mosse a pietà, le sue sorelle le fecero tre doni: dalle lacrime di Keylin, la Colomba, nacquero mari, laghi e rigagnoli che nutrirono la terra, permettendole di generare frutti; ammaliati dal richiamo di Kenra, l’Allodola, animali di ogni specie occuparono il continente; e infine Kleofe, la Rondine, raccolse le piume di Kara e le incastonò come pietre preziose nel cielo, per fare in modo che di notte le stelle accompagnassero sua sorella nei sogni, permettendole ancora di librarsi in aria. E da Kara nacque una nuova stirpe di Guardiani senz’ali, che non aveva tuttavia smesso di guardare il cielo e desiderare di volare. Ancora adesso i religiosi, osservando il tramonto infuocato, pensavano al sangue versato dall’Arpia traditrice ed erano certi di riconoscere, in quel rosso, il sangue delle sue ali.
Quella leggenda sulle origini del loro mondo si era talmente ben radicata nell’immagine popolare che non stupiva vedere agli incroci delle strade, nelle piazze, nelle case, incise sulle colonne, le figure delle tre sorelle e di Kara, la Fenice, più spesso rappresentate attraverso i loro animali. E loro sculture erano state portate anche nella basilica di Palazzo, gremita di gente, per allestire la sala in onore del banchetto della Commemorazione, l’ultimo grande evento prima che i reami si chiudessero in un rigore ascetico, in memoria della grande epidemia che aveva sconvolto il continente al tempo della guerra civile.
Le pesanti tende cremisi che, in parte, celavano la serie di vetrate sulla lunga parete meridionale; i bacini dorati - posti anche sul piano superiore della basilica - straripanti di gerbere, rose, tulipani, garofani rossi che riempivano l’aria di un dolce profumo; i candelabri e le lumiere che gettavano una luce soffusa sull’intero abitacolo; i musici, con i loro liuti, le arpe, i flauti che davano con le loro allegre ballate inizio alle danze. Ovunque era opulenza, ovunque era sfarzo: negli ori, nei marmi, nei vestiti e nei gioielli delle dame. Era l’incanto di Palazzo. Quello stesso incanto studiato per distogliere l’attenzione dei presenti dai problemi di più urgente rilevanza. E, alcuni dicevano e molti altri condividevano, per tenere a bada il popolo di Morèa e il suo Ministro.
Se gli uomini, nelle loro vesti migliori, facevano orgogliosamente sfoggio degli emblemi che si erano scelti (la Fenice, la Rondine, la Colomba o l’Allodola), le donne – come da tradizione – li celavano ai più, nascondendo i gioielli che li raffiguravano al di sotto delle gonne, all’interno delle maniche, nella scollatura dei corpetti. Solo poche dame mostravano con spavalderia il loro simbolo, in una sorta di linguaggio di corte codificato che Theresa non aveva nessuna voglia di comprendere.
Osservò Daia da lontano aggirarsi tra la folla. Portava un vestito bianco, stretto in vita, e lo strascico seguiva ogni suo passo, come la spuma del mare le onde; un leggero mantello, colorato di un azzurro spento, le copriva la schiena ed era stato fermato sul petto da una fibula dall’intaglio modesto; i capelli erano stati raccolti da Vidia in una elaborata pettinatura lasciata morbida al punto che, ai lati del viso, qualche ricciolo era scappato ai fermagli bronzei.
«E’ bella…» sussurrò al suo orecchio una voce maschile e subito Theresa si voltò.
Caleb la affiancava impettito, la livrea da gargoyle fin troppo riconoscibile fra quello sfarzo.
«Chi?» chiese la rossa, presa alla sprovvista.
Il ragazzo abbozzò un sorriso sbieco, ma sul suo viso di eterno adolescente anche il più malizioso degli sguardi sarebbe risultato gentile. «Daia» spiegò lui, incrociando le braccia al petto. Una spilla, agganciata poco sopra la spalla sinistra, portava il simbolo dell’Allodola.
Theresa non lasciò trasparire alcuna emozione e rispose solamente: «Suppongo di sì».
Caleb fece schioccare la lingua sul palato e con tono canzonatorio commentò «Non riesci proprio a sbilanciarti più di così?».
«Perché mai dovrei farlo?».
«Per le persone, a volte, bisogna compromettersi».
Theresa sorrise «Io almeno non ho provato ad ucciderla». Si fece seria «Ad ucciderci tutti».
Il gargoyle arricciò le labbra e incatenò i suoi a quelli della ragazza. «Ne sei sicura?» domandò, anche se già conosceva la risposta.
Tess aggrottò la fronte e la sua espressione si fece scura.
«Tranquilla» Caleb portò le mani avanti «Era per dire. La gente mormora, in questo posto più che negli altri, ed io ho un buon udito. Per fortuna» aggiunse «Il tuo piccolo incidente è già stato dimenticato. La memoria delle persone è breve quando c’è così tanto su cui spettegolare. E presto» aggiunse «Dimenticheranno anche il mio».
«Si, bhe…» iniziò la rossa, tornando a guardare Daianara «In ogni caso, smettila di fissarla in quel modo o gli inservienti dovranno raccogliere i tuoi occhi dal pavimento».
«Va bene» la accontentò Caleb, divertito «Forse raccoglieranno anche i tuoi».
Savannah seguì il Ministro di Kalendor e il suo totem tra la gente, in una profusione di inchini e frasi di circostanza a cui Ophelia rispondeva sempre cordialmente. Lontani da loro, Hansel, Kasimir e Zane si erano appartati in un angolo e confabulavano concitatamente, ma a bassa voce, senza avere intenzione di godersi il banchetto.
«C’è così tanto da discutere…» commentò la vecchia, rigirandosi lo specchio di Kalendor tra le mani come se fosse la cosa più preziosa «E così poco tempo per farlo. Ma il destino è tiranno: non soggiace ai comandi di nessuno e conosce già la strada da percorrere. Un po’ come il cuore delle persone, che non può essere domato o controllato». Il vecchio Ministro la guardò di sottecchi, con fare allusivo, e nei suoi freddi occhi azzurri Savannah percepì un ammonimento.
«Quando giungerà il tempo» continuò Ophelia, procedendo mesta «Anche tu capirai che la libertà, senza qualcuno con cui condividerla, non è altro che una nera solitudine. Le guerre d’amore sono soltanto un’illusione: distruggono anche i vincitori».
Le labbra di Savannah si stesero in un debole sorriso, ma questo non bastò ad illuminarle il volto.
«Coraggio, cara» le sussurrò l’anziana, allungando le dita per carezzarle la mano e la bionda la lasciò fare, perché solo lei sembrava essere in grado di leggere le sue apprensioni.
Il grande salone si affacciava su un porticato rialzato in marmo, abbastanza ampio da consentire di continuare le danze anche all’aperto. Due ampie scalinate permettevano di raggiungere il giardino, in verità piuttosto spoglio e non troppo bene illuminato. Una sola fontana zampillava acqua al centro dell’immenso spazio e più in lontananza, quasi nascosta dalle fila di alberi, si poteva intravedere la torre del Crocevia.
Daianara distolse lo sguardo dal parco su cui ormai era scesa, troppo precocemente, la sera, e quando Ophelia, accompagnata da Savannah, la raggiunse, accennò un breve inchino, salutando così entrambe. Non molto tempo dopo sopraggiunsero anche Theresa e Caleb e se a quest’ultimo Daia riservò uno dei suoi sorrisi più sinceri, evitò di incrociare lo sguardo dell’amica, fingendo che la sua presenza non le desse turbamento.
«Il buio si avvicina?» domandò come di consueto Ophelia, senza però aspettarsi una risposta diversa dal solito.
«No» le risposero in coro i ragazzi e solo Caleb e Theresa si lasciarono scappare qualche sottile battuta.
Ophelia porse il suo prezioso specchio prima a Savannah, che vi guardò dentro a stento - e subito se ne crucciò -, poi a Caleb, che del riflesso sembrò orgoglioso, quindi a Daia.
«Guarda, bambina» la invitò Ophelia, sollevando l’oggetto verso il suo viso. Sfiorò la superficie offuscata con le dita ossute e Daianara guardò prima il cimelio, poi il Ministro, con fare dubbioso.
L’anziana la incoraggiò. «Nessuno vedrà mai riflesso, qui dentro, qualcosa di cui non è già a conoscenza. Bisogna solo imparare ad accogliere quello che si rifiuta di accettare. I sogni sono ciò che sono» commentò, persa in un ricordo lontano «Possono farci morire dentro, se non sappiamo come affrontarli».
Daianara aprì la bocca per avere delucidazioni, ma poi decise di tenersi le sue domande per sé. Si guardò allo specchio e strizzò gli occhi per vedere, oltre tutta quella polvere e quei graffi, emergere qualcosa. Attese e proprio quando stava iniziando a rassegnarsi, vide delle ombre ammassarsi, dei contorni definirsi, e piano piano, come uscita dalla nebbia, la vide. E già sapeva che sarebbe stata lei. I lineamenti del suo viso si delinearono con chiarezza sotto il suo sguardo attento, e così la bocca, gli zigomi, gli occhi scuri e ridenti, i capelli rossi. Theresa, al di là dello specchio, la cercò, allungò le mani per sfiorarla e Daia, istintivamente, fece lo stesso. La vide sorriderle, socchiudere le labbra, sussurrare parole e sull’ultima frase Daianara si sentì avvampare. Ritirò istintivamente la mano, abbassò lo sguardo e sperò che nessuno lo notasse.
«Basta così…» sussurrò imbarazzata, stringendosi nelle spalle ed indietreggiando di un passo, quasi il suo desiderio potesse uscire dallo specchio e mostrarsi a tutti.
Ophelia corrugò la fronte e la sua espressione si fece interrogativa.
«Sei diventata rossa» commentò Theresa, allungando il collo per guardarla.
«No, non è vero» mentì la mora, evitando i suoi occhi. Non potè vederla, ma lo sguardo di Tess si accese di curiosità.
«Chi hai visto?» domandò subito, una nota divertita nella voce.
«Nessuno».
«Oh, avanti!».
«Smettila, Theresa».
«Di chi ti sei invaghita?» chiese, stupita per non essersene accorta prima. Le venne naturale guardare Caleb, per osservare la sua reazione, ma il ragazzo sembrava imperscrutabile. Solo Savannah, le braccia conserte e lo sguardo cupo, guardava la ragazza con aria di rimprovero.
«Lasciala stare, Tess» la ammonì, ma non ottenne l’effetto sperato.
La rossa allungò una mano e la posò sulla spalla di Daia, costringendola a girarsi. «Su, dimmelo! Lo conosco?».
Fece appena in tempo a finire la domanda che subito Daianara si sottrasse al suo tocco in malo modo, quasi furiosamente, e accaldata sulle guance e sul petto urlò: «Ti ho detto di smetterla!».
Qualcuno, intorno al gruppo, smise di chiacchierare, qualcun altro si voltò ad osservare la scena. Poco più in là, anche Isolde osservò perplessa la figlia e Daia temette di sprofondare, tanta era la vergogna.
Gli occhi di Tess, dopo un primo spaesamento, si indurirono. «Ma si può sapere qual è il tuo problema?».
La ragazza ingoiò il groppo di saliva che le si era formato in gola. Si passò la mano sulla fronte e sugli occhi. «Sei tu il mio problema».
Sentendosi osservata, e per questo ancora più a disagio, Daia si congedò velocemente, prima che l’altra potesse ribattere. «Scusatemi, ho bisogno di un momento» disse impacciata e sgusciò via come il peggiore dei malfattori.
Si diresse, il più velocemente possibile, dall’altra parte del salone, dove erano state allestite tavolate colme di carni, pasticci, dolciumi, vini. Alcuni invitati si stavano servendo del sidro, un paio di ragazzi si stavano sporgendo sulla tovaglia ricamata per raggiungere il vassoio più lontano. Daianara li superò cercando di non farsi notare e, trovato un angolo libero, appoggiò il palmo delle mani al bordo del tavolo, prendendo un profondo respiro. Il cuore ancora in gola, si sentì gli occhi lucidi, ma non avrebbe saputo dire se la rabbia che sentiva montarle dentro fosse dovuta alla sua gelosia – che la faceva agire in maniera così sconsiderata – o a Theresa, che proprio non riusciva a capirla – o forse non voleva.
Prese un bicchiere pulito e, dopo aver trovato una brocca ancora piena, si versò dell’acqua con mano malferma. Si bagnò appena le labbra, perché la nausea che le attanagliava lo stomaco le impediva di buttare giù qualsiasi cosa.
Una mano piccola e bianca le si posò sul polso e Daia trasalì. Per un attimo credette che Tess l’avesse raggiunta, ma quando alzò lo sguardo, incrociando gli occhi chiari di Savannah, non capì se sentirsene delusa o rincuorata.
«Savannah» la chiamò dopo essersi schiarita la voce con un colpo di tosse.
L’altra non rispose e si limitò a fissarla.
La mora si imbronciò e fece per allontanarsi, ma la ragazza la trattenne.
«Non vai bene per lei, Daianara» asserì in un soffio, senza mezzi termini.
Lei si accigliò. «Come, prego?».
«Mi hai sentita».
Daia aprì la bocca per ribattere, ma tutto quello che le uscì fu un poco convincente: «Non so di cosa tu stia parlando».
La bionda non la assecondò e continuò imperterrita. «Siete troppo diverse e a questo non c’è futuro. Io conosco Theresa».
Con uno strattone, Daia si sottrasse alla sua presa. «La conosco anche io».
«Bene. Allora sai che ama la sua libertà, sai che vuole vivere senza costrizioni, sai che detesta qualsiasi forma di imposizione e che rifugge ogni legame. Amerà sé stessa sempre più di quanto amerà te e tu questo non riuscirai a sopportarlo. Perché le persone che vivono in questa maniera possono concedersi solo alle persone come loro. Sono egoiste».
«Stai farneticando» la liquidò con un gesto della mano, ma Savannah non aveva ancora finito. Le afferrò le spalle e incatenò i suoi occhi a quelli della ragazza.
«Tu non sei nulla di tutto questo, Daia. Tu non sei come lei. E non potrai mai capirla fino in fondo» sussurrò e l sua voce sembrava piena di rimorso «Theresa spiccherà il volo da un momento all’altro e tu sarai la sua gabbia. Vuoi un amore incondizionato, ma lo stai cercando nel posto sbagliato».
«Non sai niente di noi, Savannah. Stanne fuori».
«So che Tess ti distruggerà e che tu glielo lascerai fare. E in questo modo distruggerai entrambe. Devi fermarti ora».
«E tu non devi intrometterti».
«Vi state sfaldando e ormai è evidente. Sai che ho ragione. Lasciala libera».
«Ma che cosa diavolo vuoi da me?».
«Voglio che lasci perdere, prima che sia troppo tardi. Qualsiasi cosa tu stia aspettando, qualsiasi cosa tu stia cercando…non forzarla ad essere quello che non è. Non legarla a te in questo modo, non essere la sua catena. Non te lo perdonerebbe mai…e tu non otterresti ciò che desideri. Non sarà mai come tu vuoi che lei sia».
La voce di Daia tremò «La vuoi per te, non è vero? Vuoi portarmela via».
«No, affatto, non è come credi» ribattè con decisione Savannah «Ma che ti piaccia o meno, io e Theresa siamo legate in un modo che tu non potrai mai scoprire. Sei diversa da noi, Daia» sussurrò e guardò oltre la ragazza, incrociando il viso di Hansel «Lo siete entrambi…».
La mora si trattenne dalla voglia di spintonarla e vomitarle addosso tutto quello che fino a quel momento aveva deciso di tenersi dentro. Ma non le avrebbe dato quella soddisfazione.
Voltandole le spalle, disse in modo un po’ ammaccato «Scusami. Vado a prendere una boccata d’aria».

 
​♦​
 
Theresa strinse i pugni con forza e, se le sue unghie fossero state più lunghe, le si sarebbero conficcate nella carne.
Proprio non capiva, non comprendeva. Non ricordava in quale momento la sua amicizia con Daia si fosse incrinata al punto da generare, ormai, solo litigi e incomprensioni. Ma era stanca di essere guardata come se avesse commesso una colpa imperdonabile, stufa di leggere nei suoi occhi solo risentimento e, sopra ogni cosa, scocciata di essere ignorata in quel modo e di vedere ogni suo tentativo di riavvicinamento perdersi nel nulla. Era una tregua l’unica cosa che chiedeva, un armistizio per una faida così stupida, nata da ancora più stupide gelosie. Ma Daianara non sembrava essere affatto propensa ad aggiustare le cose.
Liquidò il gruppo in fretta, con aria seccata, e si rifiutò di guardare nello specchio del Ministro di Morèa quando Ophelia glielo chiese. Evitò anche Isolde, per evitare di doverle dare delle spiegazioni, e fece quello che avrebbe voluto fare fin dall’inizio: isolarsi.
E mentre Theresa si rifugiava ai margini della sala, dove nessuno l’avrebbe importunata, l’orchestra intonò un altro ballo e un altro ancora, fino a mezzanotte e anche oltre, quando la luna ormai era alta nel cielo e tutti si sentivano euforici. Le gonne ampie delle dame si muovevano all’unisono al ritmo dei tamburi, i tacchi battevano sul marmo e rimbombavano, rimbombavano, rimbombavano, e anche le voci riecheggiavano, quasi assordanti, in centinaia di chiacchiere e risate forzate. Tutto era rosso intorno a loro: le tende, le tovaglie, le torce, i fiori. Gerbere, rose, tulipani, garofani che senza la loro acqua appassivano. Gerbere, rose, tulipani, garofani e gladioli. Gladioli rossi e scarpette blu.
Fu un attimo, una frazione di secondo, e su Theresa si abbatté la consapevolezza che ancora una volta avrebbe visto cose che nessuno poteva vedere e udito cose che nessuno poteva capire. Forse nemmeno lei. Eppure quella visione era diversa da tutte le altre, perché si sentiva scorrere nelle vene l’urgenza, percepiva che il tempo a disposizione stava passando e che presto sarebbe tutto finito. Di nuovo.
“E’ il fuoco. E’ il fuoco la risposta. Purifica e cancella ogni traccia della tua esistenza”; “Papà non lasciare che la portino via, non lasciarglielo fare!”; “Pagherai per quello che hai fatto Zane, pagherai per tutte le tue mancanze. E lei…lei morirà con te ed io mi assicurerò che accada”; “Non avevo altra scelta, non mi hai lasciato altra scelta!”.
«Non puoi restare qui, Tess» le disse la bambina preoccupata, scuotendo ripetutamente la testa, e anche se era molto lontana da lei, Theresa riuscì comunque a sentirne la voce nella mente.
In piedi, ferma davanti alla vetrata che si apriva sul terrazzo, la piccola la guardò con sofferenza. Fra le braccia, stretto con forza, il suo mazzo di fiori rossi, che sembrava volesse parlarle di lei.
«Perché? Perché?» domandò Tess e come in trance si fece largo tra la gente per raggiungerla. Allungò una mano per sfiorarla, ma era ancora più lontana, oltre i vetri, fuori dalla sala, in terrazza.
«Non è il tuo posto questo» spiegò semplicemente e come se quelle parole l’avessero dilaniata aggiunse tremando: «Ma vorrei che lo fosse».
«Io ti conosco. So che è così!».
“Hai infranto la nostra promessa. Ed io non potrò mai, mai più fidarmi di te”.
«Mi conoscevi. Ma ora…» sussurrò e la sua voce si ruppe «Ora è tutto così distorto e tu sei così lontana».
«No, no, no» ripetè Theresa, più a sé stessa che a lei «Posso starti vicina. Posso salvarti!». Sentì sulle guance l’aria gelida della notte e le gocce di pioggia che cadevano da quel cielo senza stelle e capì – anche se non le importava – di essere uscita.
«Devi prima salvare te stessa».
“Rimarrai con me, Tess. Rimarrai con me, anche a costo di nasconderti al resto del mondo”.
«Ti prego, dimmi il tuo nome».
«No» pianse la bambina e alla vista di quelle lacrime Theresa si sentì morire.
«Ti prego! Ne ho bisogno!».
«Tu conosci già il mio nome. Ma dimmi…conosci il tuo?».
La ragazza rimase interdetta e si arrestò. «Certo» le rispose, ma il tono della sua voce tradiva un’insicurezza più profonda.
«E’ solo una bugia. Pensaci. Nessuna imitazione può essere perfetta e si sgretolerà davanti ai tuoi occhi, se i tuoi occhi sapranno dove guardare».
«E se non lo sapessero?».
La piccola si morse le labbra e le lacrime si confusero con la pioggia che le stava bagnando entrambe. All’improvviso, come un richiamo lontano, la bambina sollevò gli occhi. Era atterrita.
«Mi troverà…» bisbigliò con spavento e, spaesata, si catapultò giù dalle scalinate ancora illuminate, verso l’oscurità del giardino.
“Nemmeno per lei la legge potrà cambiare”.
«No!» urlò Theresa, provando ad afferrarla, ma quando le sue dita si strinsero sul vuoto, si lanciò all’inseguimento e quasi non inciampò sul primo gradino.
“Quando una cosa è troppo bella per essere vera, probabilmente non è vera affatto”.
La bambina corse e Tess, nonostante l’oscurità che la avvolgeva, impedendole di scorgerla, la sentì ridere. Ridere di gusto, ridere spensierata, o ridere come chi sa che fra poco dovrà morire.
«Prova a prendermi, prova a prendermi!».
«No, smettila. Fermati!».
«Non ci si può fermare Tess. Se ti fermi, cadi nel labirinto».
«Torna da me!».
“Una cosa non diventa reale solo perché lo desideriamo…”.
«Dove sei?!» urlò Theresa, guardandosi intorno, ma tutto improvvisamente si era fatto più nitido, più reale e la sua bambina era sparita. La chiamò ancora e ancora e la sua voce rimbombò, senza ottenere risposta.
«Dannazione!» sibilò, prendendosi la testa tra le mani e scuotendola forte, come se tutta la sua pazzia potesse uscirle dal corpo in quel modo. Il vento scuoteva le fronde degli alberi, in lontananza la musica risuonava, tutte le luci erano ormai troppo distanti e i suoi occhi faticarono a mettere a fuoco i contorni di quel giardino così spoglio. Solo la fontana, più in là, sputava in aria i suoi spruzzi, che si perdevano fra le gocce di pioggia. E accasciata sul terreno umido una figura ne stava sfiorando languidamente con le dita la superficie increspata dell’acqua.
Il vestito di Daia era ormai fradicio e le balze della gonna le si appiccicavano alle gambe; anche i capelli, prima raccolti, le ricadevano ora sul collo, incollandosi alla pelle. Persa fino a quel momento nei suoi pensieri, la ragazza fermò la mano a mezzaria quando si accorse della presenza di Tess, ma non accennò a muoversi. La rossa le lesse negli occhi un’intenzione diversa dal solito, la guardava con sofferenza e rassegnazione, l’espressione tiepida, come se il calore che la avvolgeva di solito si fosse spento in quella notte fredda. La ragazza distolse il viso quando Theresa si avvicinò, guardandosi ancora intorno circospetta, e tornò a giocare con l’acqua della fontana, senza darle attenzione.
«Che cosa stai facendo Daia?».
La mora accennò un sorriso tirato prima di rispondere «Nulla».
«Piove a dirotto».
«Adoro la pioggia…» sussurrò immergendo la mano e l’acqua gelida la inghiottì fino al gomito «Mi ricorda te. Così imprevedibile, così certa, così trasparente. Così necessaria» all’improvviso si fece seria «Fredda e devastate».
«Daia devi rientrare» le disse Theresa, sedendosi sul bordo della vasca, accanto a lei. Cercò il suo sguardo, ma la ragazza sembrava evitarlo. Allora si sporse sulla fontana fino a quando la sua immagine non si delineò, confusa e scura, sulla superficie dell’acqua.
Daia corrucciò la fronte «Lo vedi?» domandò «Nemmeno qui il tuo riflesso mi lascia in pace. Patetico, non trovi?».
«Non penso affatto tu sia patetica».
La mora si morse le labbra e con voce incerta disse «Però siamo belle… siamo belle quando ci troviamo insieme nello stesso riflesso».
«Daia…».
«Almeno qui possiamo esserlo».
«Dobbiamo rientrare» ripetè la rossa e le allungò la mano da afferrare. L’altra la osservò qualche istante, incerta se prenderla o meno, quindi ritrasse la mano dall’acqua e, ancora bagnata, strinse quella dell’amica. Theresa la trasse a sé e, aggiustandole il mantello sulle spalle, la coprì. Daia tra le sue braccia tremava.
«Vieni» la tirò, ma l’altra rimase ferma al suo posto e, come se non avesse desiderato fare altro per tutta la sera, si lanciò verso di lei e le gettò le braccia al collo. Premette il corpo contro il suo, stringendola fin quasi ad inglobarla, affondando il viso nell’incavo della sua spalla.
Theresa sentì l’odore dei suoi capelli e della sua pelle inondarle le narici. «Che cosa fai?» chiese confusa.
«Non lo vedi?» le bisbigliò Daia all’orecchio «Noi non siamo fatte per stare lontane». Si scostò da lei per sfiorarle la guancia con le dita. «Di cosa hai tanta paura?» chiese con occhi tristi.
«Paura? Io non ho paura di nulla» rispose l’altra. Le strinse il polso in una stretta ferrea e le allontanò la mano dal viso, ma non la lasciò andare. Le loro mani rimasero unite, ferme a mezz’aria.
«Allora smettila di allontanarmi, smettila di fuggirmi. Nessun posto sarà mai abbastanza lontano per me, Tess. Nessun posto» ripetè «Finchè mi terrai chiusa qui, con te. Ti ho fatto così tante volte le mie scuse da perderne il conto».
«Scuse per cosa?» domandò la rossa, ma Daia non le rispose.
«Tu ancora non mi hai perdonata. Non è il mio perdono che cerchi Theresa, non è con me che sei arrabbiata».
«E allora con chi?».
Daia accennò un sorriso mesto e socchiuse le labbra «Ancora non capisci Tess…?». Si sollevò in punta di piedi e le sue scarpette blu affondarono nel terreno umido. Le sfiorò il naso con il proprio, abbastanza vicina da sentirne il respiro sul viso, ancora troppo lontana per percepirne il calore sulla bocca. E si fermò così, gli occhi fissi negli occhi, la mente di Theresa annebbiata, inebriata dal suo odore, al punto da non avere più la consapevolezza di quello che succedeva intorno a loro.
«Stringimi» le sussurrò semplicemente Daia e il suo bisbiglio si perse nella pioggia, ma Tess riuscì ancora ad udirlo. La assecondò istintivamente, portando la mano che ancora aveva libera alla sua vita, sotto il mantello, su per le scapole. Sentì sotto i polpastrelli il tessuto ruvido del corpetto ed il calore che emanava il suo corpo, nonostante l’umidità.
«Più forte…» bisbigliò ancora Daia, senza fuggire il suo sguardo. La rossa emise un respiro basso e vibrante e con uno scatto la strinse contro di sè fin quasi a togliersi il respiro. Con una mano le accarezzò la schiena, e Daia si inarcò sotto il suo tocco, mentre con l’altra risalì la spalla, il collo, la nuca, sentì sotto le dita i capelli bagnati. Avvicinò le labbra alle sue e le costò uno sforzo immane non avventarsi sulla sua bocca quando la ragazza la schiuse per lei.
«Tess…Tess ti prego» la implorò Daia, prendendole il viso tra le mani.
«Non posso…» sussurrò Theresa, il respiro affannoso e il cuore in subbuglio «Io con te non posso».
«Non ci pensare» concluse la mora e prima che l’altra potesse replicare le conquistò la bocca, indagandole le labbra con la lingua, saggiandone ogni centimetro. Tess si lasciò trascinare, mordendole il labbro, sentendo sulla propria pelle il suo respiro e quando la sentì pronunciare il suo nome, con la voce spezzata e il fiato corto, si accese. Le tenne ferma la testa per baciarla a fondo, mentre l’altra mano si faceva strada lungo i seni, i fianchi, il ventre. Daia gemette e forti brividi le corsero su per la schiena e a quel punto, per Theresa, non ci fu più nulla da fare, non ci fu più modo di salvarsi e, se anche ci fosse stato, lei non l’avrebbe colto, perché in quel momento Daia sembrava l’unica via di fuga possibile.
Le circondò la schiena con le braccia, la strinse al punto che, con un minimo sforzo, sarebbe stata in grado di sollevarla da terra. La sentiva così piccola, così indifesa in quell’abbraccio, e credette di poter rimanere in quella posizione in eterno, i loro petti vicini, le labbra sulle labbra. Mosse le mani per accarezzare il suo corpo, ma le dita si posarono sul nulla. Tutto intorno a lei era immobile, solo la pioggia incessante continuava a cadere e bagnare la terra. Davanti a lei non c’era più nessuno.
Un’altra visione e nulla più. Solo un’altra beffa della sua mente.
Eppure…Daia. Theresa rimase ferma, nella stessa posizione, davanti a quella fontana solitaria, i pensieri ancora eccitati, il cuore che le martellava nel petto e non accennava a volersi calmare.
«Tess! Tess!» si sentì chiamare da quella che le sembrò una distanza infinita. Volse appena il capo per vedere oltre il giardino, sulle scale dell’edificio, Daianara che le faceva cenno di rientrare.
«Che cosa stai facendo?» continuò ad urlare la ragazza quando Theresa non diede segno di volersi avvicinare «Piove, ti stai bagnando tutta!».
Solo quando Tess la vide scendere i gradini per venirle incontro trovò la forza di muoversi. Mosse un piede davanti all’altro con poca sicurezza, ma non riusciva davvero a vedere dove stesse andando. Sentiva soltanto la voce che la chiamava e il rumore della pioggia e la musica dei liuti che aleggiava nell’aria e il profumo di Daia. Soprattutto il profumo di Daia, talmente familiare. E il ricordo del suo sapore nella bocca.
Daianara, messasi al riparo sotto la stretta arcata che si apriva al di sotto della scalinata - illuminata da una fiaccola troppo timida – vide avvicinarsi l’amica con un andamento incerto, un po’ goffo e vacillante, quasi non fosse certa di avere la terra sotto i piedi a sostenerla. Quando le fu vicina, Daia lesse lo spaesamento nei suoi occhi. Le parlò, le chiese, ma Tess rimase in silenzio a fissarla come se la stesse guardando davvero per la prima volta.
«Tremi» disse Daia un po’ corrucciata, posandole le mani sulle spalle. Con un gesto rapido si sfilò il mantello senza neanche sbottonarlo e lo usò per asciugarle il viso. Theresa rimase inerme sotto il suo tocco per qualche minuto e poi, all’improvviso, parve riscuotersi. Spinse Daia contro la parete e posò le mani ai lati del suo viso, imprigionandola.
«Tess?» chiese la ragazza, confusa.
«Sei reale?» domandò la rossa, guardandola negli occhi, sondando la sua espressione.
«Cosa vuoi dire?».
«Io…» iniziò, ma non terminò quella frase. Scosse con forza la testa a destra e a sinistra, cercando di togliersi un pensiero troppo ben radicato dalla mente. La fissò ancora «No» biascicò, prendendole il volto tra le mani «No, non mi interessa più». Si chinò su di lei e famelica le cercò le labbra, costringendola ad aprirle alle sue.
Daia rimase pietrificata sotto il suo tocco. Provò, con poca convinzione, a divincolarsi dalla sua stretta, senza capacitarsi veramente di quello che stava accadendo. Sentì Theresa staccarsi appena dalla sua bocca, ne percepiva chiaramente il respiro affannoso sulle labbra. La rossa incatenò gli occhi ai suoi e Daia ci sprofondò dentro per un secondo che le parve eterno. In quel momento temette che potesse essere già tutto finito, ma Tess la strinse più forte a sé e attraverso il vestito Daia riuscì a sentire le dita fredde delle sue mani cercarla con impazienza. Senza essere in grado di aspettare oltre, Theresa la baciò con foga e l’altra non oppose resistenza. Aprì le labbra e quando sentì sulla lingua il sapore dell’altra, si sentì avvampare. Le gettò le braccia al collo e ricambiò con più intenzione il suo bacio. Le morse le labbra e, quando Tess fece lo stesso con le sue, divenne euforica. Le toccò il collo, il busto, il seno. Si strusciò sui suoi fianchi.
«Oh, Tess» bisbigliò, mentre la ragazza si staccava da lei per baciarle il collo «Ti ho voluta così tanto…».
A quelle parole, la rossa si irrigidì. Daia le cercò ancora la bocca, ma lei si ritrasse. Indietreggiò di qualche passo, scuotendo la testa, sentendola annebbiata. Si passò una mano sugli occhi. «No, no, no, no» ripeté velocemente.
«Tess…?» la chiamò l’altra, confusa.
«Che cosa sto facendo?» si chiese tra sé e poi, senza avere il coraggio di guardarla, disse «Daia…non so davvero cosa mi sia preso. Non volevo, scusami».
Davanti a lei, la mora sobbalzò. Con le guance ancora arrossate e il cuore scalpitante, emise solo un breve verso strozzato e rimase in silenzio.
«E’ una cosa davvero molto imbarazzante…» continuò a dire Theresa, senza sapere come barcamenarsi.
«Tu…tu non volevi?» chiese Daia.
«No, certo che no! E’ stato un errore» rispose subito lei con veemenza e dalla gola le salì una risatina impacciata che sperò potesse sdrammatizzare la situazione «Per favore, facciamo finta che non sia mai successo, non è davvero il caso di ricordare una cosa come questa». Le si avvicinò e le battè una mano sulla spalla, ma quando la toccò la sentì tremare. Temendo di non averla convinta, continuò: «Non prendiamola sul serio, è una cosa che rimarrà fra te e me. Dopotutto siamo ad una festa, le persone non si controllano mai alle feste. Insomma, lo credi anche tu, no?».
Daianara non rispose subito. Gli occhi bassi, si strinse nelle spalle, circondandosi il busto in un abbraccio mancato, proteggendosi il petto con le braccia. «Riesci sempre a rovinare tutto…» sussurrò, non perché temesse che qualcuno potesse sentirle, ma perché aveva paura che se non si fosse controllata il cuore le sarebbe esploso. «A quale gioco stai giocando?».
«Daia, io non…» iniziò Theresa, ma quando notò le lacrime uscirle dagli occhi si ammutolì.
«Non capisci davvero nulla».
La rossa, titubante, allungò le dita verso di lei, ma Daia con uno schiaffo le allontanò la mano.
«Non mi toccare» sibilò «Non voglio che mi tocchi. Devi starmi lontana!».
«Ma che diavolo ti prende?».
«Vai via!» la spintonò «Tess, vai via!».
«Me ne vado, stai calma! Me ne vado con piacere, puoi starne certa!».
«Bene!» sbraitò.
«Bene!».
«Bene!» ribattè un’ultima volta Daia e quando Theresa, a lunghe falcate, la lasciò sola, ne fu atterrita. Si accasciò contro la parete, piegata in due, una mano appoggiata alle fredde mattonelle del pertugio, l’altra appoggiata sul ventre.
«Quanto sei stupida, quanto sei stupida!» urlò, ma non sapeva se si stesse rivolgendo a sé stessa o a Theresa. E intanto la pioggia continuava a cadere dal cielo e il cuore di Daia piangeva con lui.
   
 
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