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Autore: Nadja_Villain    12/02/2018    0 recensioni
Prima che il mondo intero iniziasse ad appassire, Trish era solo un'adolescente turbolenta, cresciuta nei bassifondi della stessa città dei Dixon, tra piccola criminalità e svaghi al limite del legale.
Nel presente ha perso anche sé stessa. Quando Negan l'ha trovata era ridotta ad uno straccio, sia a livello fisico che mentale.
Era convinta che sarebbe riuscita a smettere di soffrire se avesse chiuso le porte alle emozioni. Era convinta che fosse rimasta sola, che tutti coloro che conosceva fossero morti, ma non è così...
Riuscirà il ritrovo con Daryl ad aiutarla a ritrovare qualcosa per cui lottare?
Genere: Azione, Drammatico, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Qualcosa per cui lottare | The Walking Dead

6.4 # Perchè sei qui?


I prigionieri non facevano quasi mai una bella fine. Quasi nessuno resisteva alle pene che venivano loro inflitte. Chi si occupava di loro doveva assicurarsi di mantenerli in vita, ma qualche volta la situazione sfuggiva inevitabilmente di mano. Molti cercavano di togliersi la vita dopo qualche giorno di reclusione. Si doveva fare attenzione a non avvicinarli ad oggetti contundenti, poiché, se non per prevalere e tentare una fuga disperata, se ne sarebbero appropriati per dare una fine definitiva alle sofferenze.

Tuttavia, le accortezze non erano sempre sufficienti. Una volta, ne avevamo trovato uno galleggiante in una pozza di sangue. Sulla parete della cella erano rimasti appesi i resti della fronte. Si era sbattuto la testa fino a perdere i sensi. Il trauma era stato tanto grave da non rendersi più conto della realtà che gli girava attorno. La sua mente aveva ceduto molto prima del ritrovamento. Adesso era legato nel cortile di fuori, la mascella in preda alla fame incosciente, intratteneva quelli che, a differenza di lui, avevano trovato ancora un motivo per ribellarsi.

Tutti quelli che passavano da quelle celle erano nemici incalliti o sudditi rivoltati. Si dividevano tutti in due grandi categorie: chi lottava per semplice animale sopravvivenza e chi per un dignitoso senso di distinzione, per una testarda rivalsa vendicativa. I primi si inginocchiavano in fretta, si pentivano e diventavano utili. I secondi... Erano quelli che più stuzzicavano la mente sadica di Negan. Estremamente rari.

Il fetore di fogna era rivoltante, le suole si appiccicavano al pavimento per il lordume. Pareva un pisciatoio. Mi chiesi come mai qualcuno non lo avesse già segnalato al Capo. C'era sempre qualcuno che puliva i pavimenti, ma lì non passava nessuno da giorni.

Al disagio olfattivo si aggiungeva quello uditivo: in lontananza rimbombava della musica molesta. Aveva un ritmo cadenzato e ben scandito. Dal luogo in cui cominciò a rimbalzare l'eco, compresi che il volume doveva essere assordante alla fonte. Dopo due minuti che andava, non la sopportavo già più. Nata come canzonetta allegra, la forzatura nel contesto le toglieva tutto ciò che di allegro potesse avere rendendola la melodia più raccapricciante che potesse essere partorita.

La porta che mi interessava era anonima, uguale a tutte le altre. Alta, grigia, compatta e ben serrata.
Dwight aveva detto che per le prime ore, il prigioniero aveva continuato a batterci contro come un forsennato, come una mosca che si schianta ripetutamente contro un vetro, sperando probabilmente che bastasse la forza bruta per aprirla. 
Adesso dietro la porta di quel ripostiglio non sembrava abitarci nessuno. Forse si era già stancato di combattere. Speravo si sarebbe arreso presto. Sarebbe stato meglio per lui e ci saremmo risparmiati tutti inutili scene patetiche.

La musica non si era fermata un momento, sparata da uno stereo su una sedia spinta al muro. Premetti il pulsante di stop, trattenendo il raptus che mi gridava di prendere lo stereo e spaccarlo a terra, di saltarci sopra finchè non fossi stata sicura che anche il più minuscolo tassello, il più minuscolo pezzo di circuito si fosse sgretolato.

Presi un respiro talmente profondo che pensai di aver assorbito tutto l’ossigeno nel corridoio.
Dovetti tenere le chiavi con due mani per centrare la serratura, perché i miei nervi avevano deciso di non contribuire.

Quando aprii la porta, l'ombra si spaccò in due come un sipario, mostrando l'aspetto del prigioniero al suo interno.

Era annichilito in un angolo, ma sembrava preparato al mio arrivo. Doveva averlo capito dalla musica arrestata.

Daryl alzò gli occhi verso i miei. Erano lucidi e rossi. Un fremito dischiuse per un secondo le sue labbra spiegazzate, facendole tremare. Due fessure ombrose si schiacciarono per mettermi a fuoco, l'espressione docile e sottomessa, di un cane intimorito dal bastone, mi destabilizzarono ulteriormente, rendendomi difficile mantenere la parte.

Sfilai la pistola dal fodero. Lo vidi irrigidirsi. Pensava che gli avrei sparato? Forse sarebbe stata la scelta migliore per togliermi il problema, ma la mossa mi sarebbe costata molto. Negan teneva troppo al suo animaletto.

La posai a terra, mentre mi sedevo a gambe incrociate. Mi guardai le spalle per assicurarmi che non arrivasse nessuno. Estrassi dalla tasca anteriore della felpa il tramezzino che avevo arrotolato in un fazzoletto prima di decidermi davvero di andare da lui. Lo scoprii e allungai una mano verso l’ombra. L’occhio illuminato dal riflesso della luce esterna che batteva sulle pareti e sul pavimento del corridoio, passò dalla mia mano al mio volto.

Che hai da guardarmi così? È buono, non come quella merda che ti porta Dwight.

Mi stava analizzando. Mi accorsi che non avevo considerato la possibilità in cui non mi avesse riconosciuta. 
Non mi imposi. Volevo solo che si fidasse di me. Tagliai un angolo di tramezzino e lo masticai.

Vedi?

Il sapore del pane un poco stantio e della frittata si mischiarono l’uno con l’altro con la saliva, agglomerandosi in un boccone eterogeneo che dovetti ingoiare a forza.

Ti prego, fa che non debba farlo di nuovo.

Daryl titubò ancora un istante. Poi si avvicinò cauto, come un cane malfidente. Prese il tramezzino in modo indelicato, lo annusò. Mi lanciò un’ultima occhiata per vedere che reazione facessi e quando fu sicuro che non volessi avvelenarlo, lo sbranò.

Forse avrei dovuto pensare di portarne almeno un altro. Aveva così fame? Non lo avrei mai detto dalla stazza, come se per qualche strano motivo potessero avere fame solo gli scheletrici. 
Ora che lo osservavo meglio, notavo che la sua corporatura si era trasformata, nel corso del tempo. Si era irrobustita, lo si poteva intuire anche da sotto la tuta lercia. Avrei quasi detto che la cella fosse troppo piccola per lui. D’istinto tirai la felpa sulle ginocchia che premevo al petto. Non volevo che notasse come mi ero conciata, nemmeno se lo avesse collegato al digiuno trascorso all’esterno.

Non ero veramente sicura di ciò che avrei dovuto dirgli o se ci fosse qualcosa che avrei dovuto sapere o se avesse dovuto iniziare lui la conversazione. Rimasi a osservarlo, mentre mangiava come se le sue mascelle fossero state ferme da giorni. Ad un certo punto, alzò lo sguardo severo e si fermò anche lui a studiarmi.

-Perché sei qui?

La sua voce mi vibrò nel petto. Era più profonda e impastata di come me la ricordavo. Ascoltarla di nuovo mi sembrò come se la mia vita si fosse bloccata di colpo, per poi riaccendersi anni dopo, come se i miei polmoni si fossero disseccati… Era difficile riprendere a respirare di nuovo. Faceva male, ma non mi avrebbe ucciso.

Sapevo a che cosa si riferisse. Mi stava chiedendo se stessi eseguendo un ordine.

-Per te.

Per me.
Perché mi sento in colpa.

Sembrò accettarlo.

-Cosa ci fai qui? Lavori per lui?

Non risposi. Era evidente. Potevo capire il suo odio. Stava cercando di inquadrarmi, di capire fin quanto potesse fidarsi di me.

-Mi dispiace per i tuoi amici.

Ho pulito il loro sangue come fosse piscio di ratto.

Trattenni il respiro.

Daryl annuì, abbassò gli occhi.

Tasto dolente. Discorso fuori luogo. Parole sbagliate.

Mordicchiai il piercing per trarne un argomento più stimolante. Ma non mi veniva in mente niente. Eravamo lontani, come se ci fosse un muro tra di noi, nonostante potessimo vederci. Eravamo due sconosciuti. Non avrei dovuto biasimarlo per essere così ostile. Non era colpa sua se ci trovavamo dalle parti opposte di un attrito violento, ma nemmeno io l’avevo chiesto. Avrei voluto dirgli che quando l’avevo visto libero nel corridoio avrei voluto farlo scappare, che non sapevo che gli avessero teso una trappola, ma non mi uscì la voce. Era una situazione talmente strana… Sembrava quasi che non fossimo mai stati amici – o qualsiasi cosa fossimo prima di quest'incomunicabilità desolante – sembrava che non fosse mai successo nulla di quello che avevamo passato insieme, che lo avessi solo immaginato, costruendoci sopra un mucchio di fantasie. Era davvero cambiato tutto?

-Maia… è così che ti fai chiamare ora?

Affondai il mento tra le ginocchia. Non era di me che volevo parlare. In realtà non volevo parlare di nessuna cosa che avrebbe potuto minare il nostro rapporto, che ora temevo di scoprire pressoché inesistente. Forse avrei fatto meglio ad andarmene in quel momento. Non c’era niente lì per me. Mi ero illusa che tutto fosse rimasto come lo avevo lasciato. Allora decisi di giocarmi subito l’asso.

-Merle?

Gli occhi di Daryl scattarono di nuovo verso di me, ma lui non parlò.

-Ce l’ha ancora con me? - Cercai di metterla sul malinconico, spiegando un sorriso debole, mentre cacciavo una macchia di terra dalla punta delle scarpe. Non seppi perché stessi dando per scontato che stessero ancora insieme. Anche ad Alexandria non avevo più pensato che l’ultima volta chi mancava del trio era proprio chi avevo di fronte. La mia mente continuava a ricucire le loro strade come avevano fatto le nostre, come se esistesse davvero una fine predestinata. Ma si sa che l’unico destino evidente è quello della morte. Almeno per quanto riguarda la persona in quanto essere umano, in quanto essere pensante.

Mi rassegnai al fatto che non avrei ricevuto risposta. Daryl non aveva voglia di maliconia, ovviamente. E io non me la sentivo ancora di raccontagli cosa fosse successo dopo che ci eravamo separati. Non avevo la forza nemmeno di ricordarlo. Così rimasi sul vago.

-Non l’ho visto ad Alexandria. – osai continuare - Sta… bene?

Sapevo già la risposta. Ero preparata. Se fosse stato onesto, mi avrebbe detto che lo avevano abbandonato sul tetto di un palazzo perché aveva fatto il coglione come al solito e che lui non era tornato a riprenderlo. Quando Merle me lo aveva raccontato, ero scoppiata a ridere e lui se l'era presa.
Non lo avrei giudicato per questo. Lo avrei abbandonato anch’io da qualche parte se fosse stato necessario.
Al contrario, se Daryl fosse stato bugiardo – il che non mi avrebbe preso alla sprovvista, sapendo che non era capace di dare brutte notizie – mi avrebbe detto che si erano separati e che non sapeva dove fosse.

Invece… mi spiazzò completamente.
 

Annuì.

Un movimento muto e quasi impercettibile fu la sua risposta.

Cosa voleva dire?

Mi sedetti meglio, incrociando di nuovo le gambe. Lo scrutai nel buio. Sembrò arretrare contro il muro, nascondendosi meglio alla mia vista.
Che cosa diavolo voleva dire quel cenno? Era nel suo gruppo? Si erano ritrovati? Quindi la mia sensazione era stata una sorta di premonizione?

Sorrisi… anche più del dovuto.
Merle era ad Alexandria e aspettava solo di venire al Santuario a spaccare il culo a qualche Salvatore. Me lo immaginai mentre dava di matto perché suo fratello era stato fatto prigioniero e veniva trattato come uno sguattero, gettato in una cella e imboccato di cibo per cani e cazzotti.
La piccola Trish che si era assopita di nuovo, chiusa nel suo ripostiglio, diede un calcio all’anta sgolandosi.
Fai qualcosa!

Mi alzai solo per ritrovarmi in ginocchio. Daryl si ritrasse ulteriormente, forse pensando che volessi fargli del male. Premetti la sua testa sulla mia spalla, una mano contro la nuca capelluta, l’altra sulla sua schiena, lungo la colonna vertebrale che si spingeva in fuori molto meno della mia. Puzzava di sudore, di fogna, di vomito, di cane morto e di sangue, ma era lui. Era vero. Era concreto. Mi stupii come se per tutto il tempo avessi parlato con una proiezione mentale.

Daryl non ricambiò l’abbraccio, né ci provò, ma mi accontentai che non mi avesse respinto o infilato il mio stesso coltello nel fegato.

-Uscirai di qui. – sussurrai. Lo decisi in quel momento. Non sapevo ancora come, ma avrei fatto qualcosa per farlo evadere. Non se lo meritava. E io dovevo farmi perdonare.

Mi staccai per guardarlo bene negli occhi, che seppur stanchi e gonfi, intagliati tra i capelli sudici, i graffi, gli ematomi e lo sporco, segnati dai dispiaceri e dalle disavventure che aveva dovuto affrontare da solo o con compagni fortuiti, avevano la stessa sfumatura maledetta in cui mi ero rispecchiata anni prima.

Mi rialzai velocemente e mi allontanai prima che potesse afferrarmi una gamba, per farmi inciampare e scappare. Recuperai la pistola e lo straccio senza dire un'altra parola. Sentivo la sua confusione colarmi sulle spalle. Tra non molto sarebbe stato tutto più chiaro.

Non mi fu facile richiuderlo dentro di nuovo, soprattutto dovendo assistere all’espressione delusa e sofferente che seguiva il nastro di luce mangiato dalla porta nel chiudersi. Mi dilaniava il cuore doverlo lasciare lì e fare finta di niente il giorno dopo, ma di certo non potevo farlo scappare quella notte. Dwight non mi avrebbe mai coperto le spalle per un simile tradimento, nemmeno sotto minaccia.

Girai la chiave tre volte e poggiai la schiena contro la porta.
Sudavo e tremavo, ma la vocina interna non stava borbottando niente. Mi stavo per togliere un peso enorme. Ero sulla strada giusta. Presto sarebbe tornato tutto alla normalità.

Credetti di vedere una sagoma muoversi nell’ombra, prima di pensare che qualcuno potesse avermi spiato. Di nuovo.

Mi misi a correre, affacciandomi agli angoli all’improvviso, ma non trovai nessuno. Il corridoio era completamente vuoto.

Mi era scappato.

O forse mi stavo facendo prendere dalla paranoia? A quell’ora nessuno poteva accedere alle celle, tranne chi aveva le chiavi.

Mi augurai che fosse la mia mania di persecuzione a farmi sospettare di pericoli che non c'erano. Ma comunque ero stata troppo imprudente. Se c’era un motivo valido per cui avevo imbavagliato la lingua ingenua di quella ragazzina combattiva, era proprio perché non sapeva stare al suo posto.
Trish sapeva far fronte ai sentimenti, ma non era capace di sopravvivere all'apocalisse, Maia sapeva cavarsela, ma era disarmata davanti alle questioni emotive. Mi servivano entrambe, avrei dovuto ascoltare entrambe, equilibratamente, poichè se avessi seguito del tutto la prima, mi avrebbe fatta ammazzare, mentre la seconda mi avrebbe prosciugata dall'interno. E non c'era tempo per pensieri suicidi. Avevo un compito importante da portare a termine. Dovevo rimanere in vita. Dovevo farlo per lui.

   
 
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