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Autore: Nadja_Villain    30/04/2018    0 recensioni
Prima che il mondo intero iniziasse ad appassire, Trish era solo un'adolescente turbolenta, cresciuta nei bassifondi della stessa città dei Dixon, tra piccola criminalità e svaghi al limite del legale.
Nel presente ha perso anche sé stessa. Quando Negan l'ha trovata era ridotta ad uno straccio, sia a livello fisico che mentale.
Era convinta che sarebbe riuscita a smettere di soffrire se avesse chiuso le porte alle emozioni. Era convinta che fosse rimasta sola, che tutti coloro che conosceva fossero morti, ma non è così...
Riuscirà il ritrovo con Daryl ad aiutarla a ritrovare qualcosa per cui lottare?
Genere: Azione, Drammatico, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Qualcosa per cui lottare | The Walking Dead

7.1 # Hai una scelta

Passato

-Raga, mi fumo un'altra sigaretta e torno.

Il telefono in mano, gli occhi puntati sul display, percorsi il corridoio che portava al retro del locale. Controllai la rubrica di chiamate. Mia madre mi aveva già chiamato quattro volte in due giorni e avevo deciso di ignorarla anche la quinta. Erano passati due mesi dall'ultima volta che ci eravamo sentite al telefono. La mia partenza per il college non era stata molto tragica, eppure ogni volta che sentivo il tono della sua voce mi sembrava sempre che mi facesse pesare di averla abbandonata. Anche adesso che il college l'avevo finito da un pezzo ed ero riuscita persino a farmi degli amici, avevo imparato a suonare su una chitarra scassata le cover delle mie canzoni preferite esibendomi con una band di pazzi una sera a settimana in un sudicio buco di pub, ancora mi sentivo in colpa per non essere rimasta in quella triste e piccola città che mi faceva sentire sprecata e abusata e priva chances.

Avevamo iniziato ad evitarci. Mi chiamava spesso e io spesso non le rispondevo e lei faceva lo stesso. Perchè quando le rispondevo era tutto un urlare con la sua nuova fiamma oppure un silenzio imbarazzante, perchè lei non approvava le mie scelte di vita, ma me lo aveva già fatto capire troppe volte e io non apprezzavo le sue e non avevo il coraggio di disfare le sue speranze di potersi redimere. Le avevo mandato una cartolina una volta, con la foto dei ragazzi. Non l'aveva mai guardata. Ero certa che avesse buttato la busta prima ancora di leggere il nome dell'intestatario. Ero certa che se ne fosse disfatta quasi subito. L'ultima volta che ero tornata a casa gliel'avevo chiesta per rivederla e lei mi aveva risposto che non sapeva dove l'avesse messa, tutta vaga e distratta. Per non parlare del muso che mi aveva allungato per tutto il giorno e le occhiate a pranzo, per colpa dell'inchiostro che occupava gli antichi spazi pallidi delle mie braccia e i miei capelli che avevano assunto sfumature non convenzionali.

Erano due anni che non osavo pensare di tornare a fare un salto a casa. Due anni in cui la mia vita si era allontanata drasticamente da quella che era da quando i soldi per il futuro di Greg erano ancora destinati a lui e non alla cugina più vicina. Adesso avevo persino una cerchia, sebbene piuttosto ristretta, di fan e un mezzo ragazzo il quale casualmente era la mente grazie alla quale potevo accedere ad un incasso fisso, che tuttavia vedevo prosciugarsi fin troppo velocemente. Per questo condividevo un appartamento con altri quattro ragazzi: per risparmiare le spese. Non ci vedevo nulla di male, anche perchè tutto sommato era gente a posto, era gente come me. Ma anche questa cosa, ovviamente, a mia madre faceva storcere il naso. Non che fosse mai stata una donna molto rigorosa rispetto a me, notando i trascorsi con quel rifiuto umano di mio padre, ma alla mia età non aveva mai vissuto niente di ciò che avevo vissuto io. Per giunta, non avevamo nemmeno gli stessi interessi musicali o le stesse opinioni politiche o gli stessi gusti per gli uomini. Sembravamo madre e figlia solo per i cattivi vizi. Il fumo, l'alcol, le pastiglie per il mal di testa, le dosi esagerate di caffè, la pigrizia in qualsiasi ora del giorno, le notti insonni passate davanti ad uno schermo, il masochismo verso l'illusione di un cambiamento in meglio senza motivo di avverarsi. Sembrava che mi avesse insegnato solo a farmi del male.

A volte mi fermavo a pensarla, la notte, mentre non riuscivo a dormire. Mi chiedevo se stesse guardando ancora uno di quei reality in cui filmavano la vita di sfigati più sfigati di lei, o si fosse addormentata. Ogni tanto mi saltava al cuore l'idea che si fosse dimenticata la sigaretta accesa e che non avesse spento il gas o che avesse lasciato la pila di piatti da lavare ancora nel lavello o che non avesse ancora steso i panni annodati nella lavatrice da due giorni perchè era troppo stanca per alzare anche un dito. Aveva forza a sufficienza solo per trascinarsi per casa in vestaglia con un bicchiere di vino rosso in mano, le fosse delle occhiaie pendenti sul viso, gli sformati riccioli neri scappati dalla molletta sbeccata, le pantofole piene di pelucchi e nessuno ad abbracciarla o a condividere con lei anche solo una conversazione sulla spesa da fare. La pensavo in quel momento, distesa scompostamente sul divano, con la testa sepolta nel plaid, mentre leggevo il display e mi tremava la mano a cinque minuti da un concerto in cui la mia mano sarebbe dovuta rimanere ferma e precisa senza titubare.

Ero brava a mentire, ma se avevo scelta, decidevo di evitare direttamente di parlare. Mi avrebbe chiesto di passare da casa e mi avrebbe fatto male dirle che avevo da fare, anche se avrei passato la settimana a cazzeggiare sulla mia chitarra o in giro, assieme ai ragazzi. Mi avrebbe fatto male dirle che stavo bene lontana dal passato, lontana da lei, anche se sentivo costantemente il peso del senso di colpa gravare sulle mie spalle, da figlia unica responsabile, quale non ero. Avevo deciso di fuggire e il risultato qual era stato? Un intenso piacere iniziale, ribelle, potente, liberatorio nel quale lentamente si era scavato un vuoto sempre più difficile da ignorare.

Nella mia testa, le promisi di chiamarla quella sera. Glielo promisi come avevo fatto la sera prima, sebbene alla fine me ne fossi dimenticata. E come quella prima ancora, nonostante avessi trovato un'altra ignobile scusa. Non trovavo mai tempo per lei. Mi vergognavo di me stessa.

Uscii dalla porta antincendio, superai la transenna che divideva il cortile dalla strada. Non c'era molta gente nel retro, un po' perché non avevamo ancora abbastanza pubblico per invadere le strade, un po' perchè non era un posto molto frequentato. C'era giusto un gruppo di ragazzi che fumavano sotto un porticato, con Eminem che farneticava a palla da una cassa portatile.

Uno di loro, vestito un po' sfattone, una fascia sulla fronte e la cresta ingellata, mi cacciò una lunga occhiata. Per tre volte finsi di voltarmi casualmente verso il suo gruppo e per tre volte mi ritrovai un paio di iridi curiose a scrutarmi senza pudore da capo a piedi. Cominciai a sentirli borbottare tra di loro, quindi mi avvicinai.

La sigaretta ancora spenta in bocca, i capelli completamente alla rinfusa di cui avevo tinto le punte qualche sera prima di un fucsia caldo e tutto il trucco che avevo applicato attorno agli occhi da far spavento, effetto che non mi dispiaceva. Il chiodo borchiato su una maglia scollata a righe orizzontali bianche e nere con cui avevo dormito la notte prima, il bordo dei jeans strappati al ginocchio che sbattevano sotto il tallone delle scarpe da ginnastica a ritmo delle catene appese alla vita, che avrei presto sostituito con un paio di pantaloncini attillati, calze a rete e dei meravigliosi stivali con la suola carrarmato pieni di lacci e di metallo, che avevo comprato a poco prezzo da una vetrina di svendite. Ero tutt'altro che sexy in quel momento, ma a quelli non era necessario sbattergliela in faccia.

-Ciao, ragazzi. Avete da accendere?

Si guardarono e uno di loro si fece spazio e allungò il braccio davanti a quello che mi fissava, per prestarmi l'accendino. Ne avevo uno in tasca, ma avevo bisogno di un pretesto per attaccare bottone.

-Sei quella Trish? Sei quella vera? - fece la voce di una ragazza tutta ossa, la felpa di una band punk rock troppo larga per lei.

-Sì. Sono io. - Risposi confusa.

-Fico. – sorrise annuendo con la testa. Si voltò verso la sua amica grassoccia con la faccia piena di piercing e una rasatura su un lato della testa.

-Perchè, ci sono anche quelle false?

-Credo di no... - rispose abbassando il capo, impacciata. - Vi ho sentiti suonare l'altra sera. Al Paprika Club. Non siete male. Il cantante... come si chiama?

-Zach.

-Zach. – ripetè, soffiando via il fumo, una strana luce negli occhi che non mi piacque affatto - È bravo. Ha una bella voce.

-E anche un bel culo. – aggiunse la sua amica a voce bassa e ridacchiando.

-Dovreste sbrigarvi se volete assistere. - consigliai, più che altro per cambiare argomento. - Non ci sarà ancora molto posto. – mentii. C'era sicuramente ancora posto.

-Anche tu, non dovresti prepararti? – mi chiese quello che non aveva smesso di osservarmi. Scrollai le spalle. Cominciai a pensare che non gli andassi a genio.

-Sono in pausa. Dammi tregua. – scherzai, ma il sorriso che stirai era palesemente di nervosismo.

-Dove hai preso la chitarra? – tornò a interrogarmi la ragazza.

-In realtà... l'ho trovata in un vecchio magazzino. Sono riuscita a farmela vendere per uno sputo. L'ho migliorata, le ho cambiato la meccanica, ma conto di comprarmene una seria appena racimolo abbastanza soldi.

-Da quanto suoni?

-Sei anni? Sette forse.

-Cavolo... Sei una tosta.

-Grazie. - risposi compostamente, per trattenermi dallo sfociare nel narcisismo.

-Hai capito la chitarrista! – esclamò un ragazzotto corpulento con un sorriso ebete. Diede una pacca al ragazzo che non mi aveva in simpatia. - Non è mica come te, che fai il figo modificando i motorini, eh, Lerry?

-Ha parlato quello che non sa nemmeno allacciarsi le scarpe. – mormorò l'altro.

D'istinto il mio sguardo atterrò sui piedi del ragazzo, sotto i pantaloni di tuta che non gli coprivano il fondoschiena, con il cavallo praticamente alle ginocchia e il bordo dei pantaloni, sotto cui penzolavano i lacci troppo lunghi per essere annodati. Risi e risero anche tutti gli altri assieme a me, mentre quello si accovacciava goffamente con le sue mani grosse e infilava le stringe sotto la lingua delle scarpe da ginnastica. Lerry non provò ad avvicinarsi nemmeno per un istante, mi studiava da lontano. Non mi piaceva il suo sguardo. Forse cercava di mettermi in soggezione. Così decisi di resistergli. E lui contrattaccò.

-Senti, ma... È vero quello che si dice su di te?

-Cosa si dice su di me?

-Che lo succhi bene quanto suoni.

Tutti si misero a ridere come se fosse stato tutto premeditato. Tranne la mia reazione. La mia reazione non sarebbe rientrata nei loro piani.

-Non suono così bene. – risposi senza battere ciglio, aspirando dal filtro. Mi rigirai il piercing tra i denti, godendomi le ovazioni scimmiesche dei ragazzi, mentre Lerry faceva una smorfia come una checca frustrata.

-Secondo me te la tiri troppo.

-Se non ti interesso, quando salirò su un palco più grande, potrai evitare di sbavarmi dietro come se non avessi mai visto una fica in vita tua. Perchè direi che per fare il figo davanti ai tuoi amici, te la stai tirando troppo anche tu.

Un coro di ululati in visibilio per la mia risposta. E la sua faccia. La sua faccia era la cosa più goduriosa. Non sapeva più che dire e sorrideva solo per riempire il suo ego, che avevo disintegrato in una battuta.

-Trish?! - Sentire il mio nome prorompere alle mie spalle, accompagnato da una porta spalancata all'improvviso non aveva mai smesso di farmi trasalire. - Che cazzo stai facendo?! Ci stiamo per esibire! Datti una svegliata! – vibrò la voce di Zach. La luce negli occhi della ragazza scintillò come un fuoco d'artificio. Giurai di sentire un urletto uterino strozzato da quelle parti.

Lanciai la cicca e mi fiondai dietro la porta.

-Che volevano?

-Un autografo.

-Gliel'hai fatto?

Non mi aspettavo che mi credesse davvero e lui nemmeno si impegnò ad indagare sulla più che probabile bugia. Annuii.

-Devo fare una telefonata. – Disse, con il telefono già appeso all'orecchio.

-Mi dai un bacio prima di salire?

Mi accontentò. Me ne stampò uno veloce, tiepido, sbrigativo.

-Vai a prepararti. – Fece, prima di sparire nel corridoio. Troppo serio. Troppo teso. In altre occasioni il suo modo di fare rigido e sistematico mi avrebbe tranquillizzata. C'era un motivo se tutto ciò che riguardava l'amministrazione e la gestione burocratica ed ogni scocciatura, fosse nelle sue mani. Aveva alle spalle studi di economia, anni di divise scolastiche e sui muscoli torniti, invece, i segni della ribellione: teschi, dragoni, pistole, frasi poetiche e solo tre cifre: il giorno di nascita di suo padre morto in guerra, timbrato sul pettorale sinistro. Avrei saputo disegnare la forma di quella sequenza in ogni momento, ma non avrei mai saputo catturare un solo sorriso da quelle labbra perfette da cui ogni canzone si trasformava in poesia. Mi metteva ansia, più ansia di quella che fingevo di non avere, più ansia delle mie mani tremanti e sudate. Mi scapicolllai nel camerino che ci avevano assegnato, in cui i ragazzi avevano già iniziato a fare baldoria per smaltire la tensione. Era poco più grande di una camera da letto singola, che per gli strumenti e quattro ragazzoni ben sviluppati non era visibilmente abbastanza, ma ce lo facevamo bastare. A me, poi, serviva poco spazio. Al massimo ne avrei tolto un po' a Zach che non si sarebbe lamentato, dato che non era quasi mai a festeggiare con noi.

-Voglio sentire gli orgasmi di quelle ragazzine arrapate! – sentii nell'entrare. Skyler era già fuori prima di iniziare.

Inquadrai un bicchierino pieno sul tavolino, tra la bottiglia di sambuca e le bottiglie di birra mezze vuote.

-È per me questo? – lo deglutii prima di attendere la risposta. Ovvio che era era per me. Altrimenti non sarebbe stato lì ad attendermi.

-Vacci piano... - borbottò Jaxon che accordava il basso sul divano, la chioma linfa che gli nascondeva gli occhi. - Contiamo su di te per il pubblico maschile. Quei cani non vedono l'ora di vederti maneggiare su e giù quella tastiera.

E non solo la tastiera, pensai, mentre buttavo giù un altro shottino. Quella bottiglia doveva sparire dalla mia vista.

-Vado a cambiarmi. – annunciai, afferrando i pantaloncini e le calze dalla borsa.

-Non metterci due ore a metterti il mascara.

-Non rompere. Sembri Zach.

-Sai che prendo le sue veci quando lui non c'è. – quando stavo per chiudere la porta del bagno, alzò la voce. - E copriti, che nessuno vuole vedere le tue chiappe da gallina!

-Io però non ti dico di coprirti la tua faccia da culo! Eppure nessuno sembra volerci un poster in camera! – non mi sentì o non la capì o fece finta di niente. Fatto stava che nella stanza cominciarono ad echeggiare dei versi di gallina. Spalancai la porta e gli lanciai una scarpa. Jaxon la prese al volo come una palla da football. Se la portò al naso e fece una smorfia esagerata.

-Oh, buon dio, puzza di morto!

-Profuma più della tua ascella, sicuramente! – sottolineai, nascondendomi dietro la parete, mentre mi sfilavo i jeans.

-To', senti. – quando mi riaffacciai, aveva lasciato il basso sul divano e stava cercando di avvicinare la mia scarpa alla faccia di David, il ragazzo in prova che mi appoggiava come secondo chitarrista, e quello si ritirò, agitò le mani disperatamente, cercando di evitare la tortura. Jaxon insisteva. Lo afferrò da un braccio, mentre David supplicava e rideva contemporaneamente. Non smise nemmeno quando il poveretto cadde dalla sedia. Che imbecilli.

-Se non ti piace, dalla a me. Ci infilerei volentieri il cazzo, là dentro...

-Ti ho sentito, Skyler! Sei un pervertito! – sbraitai. Lo sentii ridere sommessamente.

-Davvero, eh. Fai schifo. – fece Jaxon fingendo serietà. Lui e David si guardarono. Poi scoppiarono a ridere. - Meno male che Zach è uscito, altrimenti ti faceva il culo.

Infilai la maglia nei pantaloncini lucidi e uscii camminando in punta di piedi verso gli stivali. Scossi i capelli all'ingiù. Pazzi. Dovevano essere pazzi, come me. Mi resi conto che le risate si erano acquetate.

-A volte penso sul serio che i nostri fan esistano solo grazie a lei. - fece Jaxon in un brontolio lieve. Forse non volle farsi sentire, ma io avevo le orecchie acute.

-Diventerete ciechi a furia di fare i guardoni. – recitai, mentre legavo i capelli per ripassarmi il fondotinta sul viso. Meditavo di farmi tutta la chioma rossa fuoco, un giorno.

La pesante colluttazione di un pugno sul tavolino mi fece spaventare. Le bacchette di Skyler volarono per terra. Mi voltai e capii subito. Skyler scosse la testa, mentre aspirava forte col naso, strusciandosi contro il dorso della mano.

-Aaah! Spacchiamo quei figli di puttana! – strepitò alzandosi in piedi, ringhiando e battendo le mani.

Gli altri due lo presero in giro. Poi, quando abbassai gli occhi sui miei piedi, Jaxon si rivolse di nuovo a me.

-Ehi Trish. Ce n'è ancora un po' per te. Qua.

Lo guardai. Guardai il tavolo imbandito e mi chiesi perchè non avessi notato prima tutto l'ambaradam assieme all'erba, dietro le birre.

-No.

-Sicura? Ti farebbe stare solo più a tuo agio.

-Io sono a mio agio!

-Non farti problemi. Ci siamo fatti tutti un tiro prima.

Tutti. Anche Zach?

-Prima quando?

-Quando eri fuori.

Anche Zach.

-Che c'è?

-Niente. Per me potete fare quello che vi pare. – dissi scocciata.

-Dai, non fare la guastafeste. È solo per partire carichi.

-Non mi va, ok? – invece mi andava: le mie mani ne avevano bisogno. Ma era una questione di principio. Non ero difficile alle dipendenze, mi conoscevo bene. E ogni volta che mi avvicinavo a tutto ciò che era droga, l'immagine di Greg diventava all'improvviso più vivida e al contempo sempre più evanescente mentre cercavo di afferrarlo dal burrone dell'inferno e tenerlo stretto a me, perchè ogni volta mi scivolava via come un sogno infranto. Jaxon alzò in alto le mani, ma prima di dire qualcosa la porta d'entrata si aprì e si richiuse.

-Forse dovresti seguire il suo consiglio. – fece Zach, irrompendo come se nulla fosse. Si tolse la maglia e ne infilò un'altra uscita dal borsone, che per un attimo mi parve uguale alla prima. Mi guardò, stupito che fossi contrariata.

-Siamo tutti pronti per dare il massimo. Non possiamo sbagliare.

-Dimmi solo una volta in cui ho floppato. Una. Avanti. – lo sfidai, incrociando le braccia.

-Mai. Per ora. Ma... capita a tutti un attimo di defaillance.

-Wow, che repertorio lessicale! Con cosa l'avete tagliata? Con i trucioli di un dizionario triturato? – Zach stirò un sorriso che durò pochissimo e mi irritò da morire. - Spero che non ti faccia sentire il dolore come si dice perchè sai, mi sta salendo un'irresistibile voglia di tirarti un calcio con questi stivali tra i denti. Proprio ora. – Quelle dannate corde erano un mio prolungamento, gli spartiti li avevo scritti nel sangue. I calli e le croste alle mie dita parlavano da soli.

-Senti. – Alzò lo sguardo verso di me mentre infilava le scarpe nuove. - Non è per te. Tu sei bravissima, sei il nostro miglior guadagno, non ho nulla da dire. Stiamo decollando, capisci? Un errore adesso e siamo fottuti. Ascolta me, fatti una striscia e vedrai che andrà tutto bene. Saremo grandi anche stasera. Devo solo essere sicuro che nessuno si faccia prendere dal panico. E credimi, può capitare. Soprattutto a te che sei molto nervosa. Non hai idea di quanta gente ci sia là fuori. Quindi per piacere, evitiamo cazzate.

Mi sentii tradita. Scoperta. Ero troppo tentata e nessuno mi avrebbe fermata. Ero pericolosamente libera di decidere, se solo l'idea di un'imprecisione non minacciasse la scalata della band e di conseguenza la mia relazione con Zach.

Jaxon aprì la mano che carezzava il pizzetto nodoso sul mento.

-È leggera. Giuro. Ti sembrerà di voler spaccare il mondo, ma non ti farà andare in botta.

Guardai Skyler che si era messo a rullare le bacchette sulle ginocchia e sul divano ad occhi chiusi, canticchiando a labbra serrate. Nella sua testa era già sul palco. Le mie mani invece non volevano salirci.

-D'accordo. Basta che non rompete più i coglioni. – Sputai amareggiata. Mi sedetti il tavolino e presi la prima paletta che mi trovai davanti e la caricai di una discreta dose di polvere. Un dito sulla narice vuota e la duna bianca sparì lasciandomi un getto ghiacciato in tutto il setto nasale penetrandomi nel cervello. Mi tolse il fiato. Strizzai gli occhi ed ogni muscolo del viso. Leggera un cazzo.

-Okay. Andiamo. – decise Zach, mi battè una mano sulla spalla. - Come ti senti?

Vaffanculo, volevo rispondergli.

-Mi pizzica il naso. – risposi ridendo.

-A me pizzica qualcos'altro. – fece Skyler, sistemandosi il cavallo dei pantaloni, sulla porta.

-Smettila di fare il coglione.

Chitarre in spalle, bacchette in mano, uscimmo tutti insieme verso le luci del palco dove ci stava aspettando una folla più urlante del solito.
Dissero di noi che eravamo stati acclamati anche quella sera, che i nostri brani inediti erano piaciuti e che presto avremmo inciso un disco tutto nostro. Dissero di me che ero la nuova divinità femminile tra i metallari e i punk rokers. Era stato Zach ad averlo detto, credo, mentre tornavamo a casa in furgone, mentre sbavavo sulla sua maglietta sudata, mentre mi parve quasi di vederlo sorridere davvero, con quel suo piercing al sopracciglio che scattava ogni tanto come il mio, con quei suoi occhi cristallini, quasi cinerei, quasi come i miei, quasi come quello di Greg. Sicuramente aveva detto un sacco di fesserie, ma era così bello sentire complimenti dai sussurri di quella sua voce che era solo mia, solo mia.

Mi ero lasciata prendere un po' la mano tra una pausa e l'altra e nel post serata, convinta da Skyler che spariva dietro le quinte per prendere "da bere". Ero certa che un giorno lo avremmo trovato stroncato dall'overdose nel vomitoso bagno di un hotel, pateticamente disteso sul pavimento, ricoperto dalla sua stessa bava, solo e solitario, contorto in un ultimo spasmo di intimo piacere artificiale, come solo alcuni dei più grandi batteristi della storia. Era fuori di testa. Più di me. Ma anche lui mi ricordava qualcuno. Qualcuno che non volevo ricordare. Qualcuno che era lontano come mia madre. Un'altra persona da cui ero scappata. E ora mi chiedevo se non fossi scappata dalla paura che quel mondo potesse piacermi, dato che ci ero precipitata dentro senza preavviso. Era meglio che fossimo distanti. Dove stavo ero al sicuro.

Zach era diverso dallo scompiglio che risiedeva nella mia testa. Zach era la calma, la serietà, la precisione. Sapeva dare ordine alla mia vita, ma mi faceva impazzire quando abbandonava gli orari e le regole e si lasciava andare quelle poche volte che si ubriacava. Io, ero completamente ubriacata dalla sua voce e dai suoi bicipiti, come ogni ragazza che veniva ad ascoltarci. Per quella potevo perdonargli qualsiasi cosa. Persino quando fare l'amore diventava un atto determinato in un tempo preciso. Gli perdonavo anche l'abitudine di svegliarsi prima di me, uscire di casa senza di me e senza dirmi nulla, tornando a volte la mattina seguente. Gli perdonavo anche il fatto che rispondeva ai miei messaggi dopo ore o non rispondeva affatto. Non pretendevo nulla da lui. Mi piaceva il nostro rapporto. Non eravamo come le coppie convenzionali. Non era geloso. E quando mi capitava di andare con altri ragazzi non faceva domande. Sapeva com'ero fatta. Eravamo artisti, spiriti liberi. Ci andava bene così. Non aveva mai alzato una mano su di me se non per offrirmi piacere e questo a me bastava. Era buono. Un po' lunatico e riservato, ma buono.

Nel sonno di sbornia, tornai indietro di otto anni. Sognai qualcosa che avevo cercato di dimenticarmi, seppellendolo assieme al senso di colpa per mia madre. Era insano tornare a ripescare quei momenti, ma l'alcol fa brutti scherzi. Tornai indietro di otto anni, davanti a due serie di denti storti che stridevano, ad una mano che mi stritolava su un letto che non era mio, in una casa i cui muri tremavano per la musica della festa comprendo le mie urla.

-Stai ferma. Ferma!

-Mollami!

-Non urlare. O ti spacco le gambe con cui fai eccitare tutti quanti.

-Stuprami pure, domani ti denuncio.

-Come hai fatto con tuo padre?! Lo so, sai, non sono stupido. Le conosco certe cicatrici. Ma tranquilla, non saresti ancora vestita se volessi stuprarti, credimi.

-Che diavolo vuoi da me?

-Devi stare lontano da Daryl. Non provare mai più ad avvicinarti a lui. Hai capito? Non cercare di rovinarmelo.

-Rovinartelo? Sei tu che lo stai rovinando, sei un essere schifoso!

Uno schiaffo. Dritto sulla guancia.

-Ho detto... che non devi urlare.

-Sei pazzo.

-Oh, non sai quanto.

-Lasciami andare.

-Lo farò quando sarò sicuro che farai la brava.

Digrignai i denti, sollevando la schiena. Un centimetro dal suo brutto muso.

-Io. Faccio. Quello. Che mi pare!

Mi spinse di nuovo giù.

-Spiegami una cosa. Perchè ci ronzi sempre intorno? Cosa cerchi da noi? Cosa cerchi in mio fratello, eh? Ti fa simpatia? Tenerezza? Ti sembra uno di quelli che puoi manipolare come ti pare? Sei riuscita a farlo disubbidire a me, ma brava! Adesso vorrai mettermelo contro, suppongo!

-Sei malato. Hai manie di persecuzione.

-State insieme, non è vero? Vi incontrate segretamente. Ma vi ho beccati. Da quanto tempo va avanti?

-Non è successo niente, se ti fa stare meglio. Stavamo solo parlando.

-Come no. Parlando. In un bagno. Con la porta chiusa a chiave! Non dire stronzate! Sei solo una puttana!

Mi dimenai alla sua presa, gli diedi un calcio tra le gambe, ma lui mi afferrò da una caviglia e mi fece cadere per terra. Crollò su di me, mi placcò sul pavimento. Mi divincolai ancora, finchè non mi rassegnai, senza più forze. Non potevo muovermi il busto sotto il suo peso.

-Te ne devi andare da qui. - sibilò tra i denti. Era troppo vicino. Dovetti trattenere il fiato. Non riuscivo a sopportare il suo alito pesante. - Te ne devi andare.

-Io faccio quello che mi pare!

-Allora finirai come il povero Greg volato giù da un tetto. - ridacchiò.

-Non ti devi nemmeno permettere di nominarlo.

-Sai che è così. È solo questione di tempo.

-Mio padre se n'è andato.

-Potrebbe non essere tuo padre il problema. Potrebbe essere qualcun altro.

-Come te?

-Come me. - aveva risposto non prima di averci pensato. Col naso sfiorava l'orlo della maglietta sul mio petto. Mi stava venendo da vomitare. - Non c'è nulla qui per te. È tutto marcio.

-Tu lo sei.

-Soprattutto io. E questa città. E questo mondo.

Potevo percepire il suo respiro affannato sulla mia pelle, contro i miei tremori rabbiosi. Avevo letto che il modo migliore per sfuggire a uno stupro è assecondare l'attentatore per poi agire quando meno se lo aspetta. La morsa alle braccia non era più pressante come un attimo prima. Aveva allentato la presa. Ancora un po', ancora un po'...

-Daryl no. Daryl non è come te.

-No. Non lo è. Ma lui non ha scelta. Tu ne hai. - disse serio, tornando a guardarmi negli occhi. - Vattene. - Mi mollò le braccia di colpo. Si alzò in piedi facendomi alzare a mia volta. Mi fermai a guardarlo. Cosa diamine gli era preso? - Capisci quando ti parlo o sei stupida?

Mi spinse fuori.

Daryl si alzò in piedi, sudato. Si scollò il braccio di uno degli scagnozzi di Merle dalla spalla e alzò un dito verso il fratello. Le iridi elettriche, le labbra strette per l'ira.

-Tu. Sei... - Si fermò lì. Non poteva dire "figlio di puttana".

-Un po' per uno, fratellino. Devi imparare a condividere.

Sentii Merle sogghignare e rabbrividii come se fosse successo davvero. Mi feci da parte, mentre si aggiustava la cerniera dei pantaloni. Allungai un passo, e quando capii che ero davvero stata liberata, presi le scale per non tornare mai più. Mai più.

   
 
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