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Autore: Damnatio_memoriae    27/02/2018    1 recensioni
Sul continente i ministri dei cinque rioni si affrontano nel Torneo di Palazzo per assicurarsi il dominio della Cittadella, ma nessuno sospetta che nell'ombra stia già tramando da tempo un oscuro pericolo che minerà profondamente le basi delle loro istituzioni, rompendo quella pace che, a fatica, è stata riconquistata dopo il tradimento di Kalendor. E intanto Theresa affronta le sue paure cercando di ricordare un passato troppo lontano e inafferrabile, mentre Daianara tenterà invano di battersi per impedirglielo.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 13
 
♦ Chimera ♦
 
“Lo storpio scaccia ogni dubbio per fingersi audace,
e intanto canta la chimera per placare il suo dolore.
Solo al matto è concesso gridare quanto gli dispiace

dover riempire il vuoto che gli scava dentro al cuore”
 
 
Zane non avrebbe mai potuto dimenticarsi il giorno in cui lo aveva incontrato per la prima volta, anche se avrebbe preferito non doverlo ricordare così spesso.
Era solo un giovane ragazzo di Ennon quando Howel, il più giovane Ministro che Morèa avesse mai avuto, lo aveva portato con sé nella Sacra Cittadella per prepararlo all’arte del comando e istruirlo in fatto di diplomazia. E Roan era stato il suo primo vero amico, in quel luogo pieno di persone dall’accento strano e dai soldi semplici – e dagli intrighi ancora più facili. Lo aveva visto una prima volta accanto alla nipote del suo mentore, una giovane dalla pelle olivastra, tipica del Borgo della ceramica, dal portamento alquanto altezzoso e dall’aria saccente, e una seconda volta da solo, intento a leggere un libro nel giardino di cedri. Era un ragazzo alto ma non troppo robusto, dall’aspetto un po’ emaciato e gracile, ma con uno sguardo vispo e una mente strabiliante. Sembrava sempre in grado di trovare la frase giusta al momento giusto, che fosse seria, sarcastica o leggera.
«Tu devi essere uno degli apprendisti di Howel» gli aveva detto, rivolgendogli la parola per primo quando lo aveva visto avvicinarsi, forse con troppa titubanza «Zane».
«Esatto» gli aveva risposto lui, stupendosi che qualcuno potesse ricordarsi di un semplice allievo «Ma tutti mi chiamano Botte di Ferro».
Aveva riso. «Lo so. E’ un nome che ti si addice. A Morèa nessuno ha un soprannome».
«Da noi è quasi un obbligo. Un modo per far sentire chiunque parte di una grande famiglia».
«Già… suppongo sia una bella tradizione, la vostra».
Zane aveva aperto le braccia «Non sembra che qui ci considerino più di semplici addestra-ronzini».
L’altro aveva agitato la mano con noncuranza davanti a sé, come a voler scacciare un moscerino. «Lasciali perdere. Troverebbero qualcosa di scortese da dire anche su di un angelo, se solo fossero in grado di riconoscerne uno. Non ci dare troppo peso» per un attimo il suo viso si era adombrato, ma subito un grande sorriso bianco era tornato a scaldargli il volto «A voler dare troppa importanza alle cattiverie degli uomini si rischia di annegare con loro. Quello è il tuo totem?» gli aveva chiesto poi con aria entusiasta, avvicinandosi a Dedalo e allungando il palmo della mano per accarezzargli il manto grigiastro. E con grande sorpresa di Zane il suo stallone, solitamente così schivo con gli sconosciuti, non si tirò indietro – e per un uomo di Ennon non poteva esserci garanzia migliore della fiducia che il proprio cavallo riponeva in un estraneo.
«E’ magnifico» aveva continuato Roan, toccandogli il muso e guardando il quadrupede nei grandi occhi chiari «Il vostro rapporto è speciale».
«Tu credi?».
«Lo so con certezza. Riesco a sentirlo».
Solo molto tempo dopo, e per una fortuita coincidenza, Botte di Ferro aveva capito che il corpo di quel giovane non era fatto di carne e sangue come il suo e se ne era stupido, anche se questo non aveva mutato la simpatia che istintivamente aveva nutrito per lui.
«Lei è la tua padrona?» gli aveva domandato, indicando Isolde.
Il totem si era portato le braccia dietro la testa e con espressione tranquilla aveva risposto: «No. Lei è la mia parte di cielo, come io sono la sua. Ma sì, credo che se mi ordinasse qualcosa io dovrei ubbidirle. Ma è tutto molto più colorato di quanto sembri».
«Non volevo essere invadente».
«Non lo sei stato affatto. Un uomo che ama la propria bambola come fai tu sarà sempre in grado di riconoscere l’amore anche negli altri».
«Non dev’essere facile».
«Non lo è per nessuno. Ma è bello avere la certezza di non essere mai soli».
Era stato più difficile, invece, destreggiarsi con Isolde, che aveva ormai preso l’abitudine di osservare Zane con espressione truce, nonostante le risate di Roan, come se lo volesse accusare di starle rubando qualcosa di suo.
Ma, come spesso avviene, il tempo si dimostrò essere la miglior cura ed il miglior collante e alla fine di quell’anno i tre erano già diventati inseparabili: la ragazza, sempre in prima linea, a ringhiare contro chiunque avesse manifestato l’intenzione di far del male ai suoi compagni; Roan sempre attento a tenerli lontano dai guai; e Zane pronto a proteggere l’amore dei due amici, insidiato dalle accuse di molti.
Eppure, nulla di tutto questo era stato sufficiente.
«Dobbiamo dirglielo, Zane» gli aveva detto Isolde una sera d’inverno, la più piovosa degli ultimi anni.
Lui, diventato ormai un uomo, aveva negato fino all’ultimo respiro. «Lo ucciderai».
«Lo sto già uccidendo, giorno dopo giorno, eludendo ogni sua domanda!».
«Ti prego, cambia idea».
«Lo amo troppo per mentirgli».
«Non sarà la verità a fargli trovare la pace che cerca».
«Ma dobbiamo provarci! Siamo tutto quello che ha. Gli dobbiamo delle spiegazioni».
«E’ proibito e lo sai».
«Non lo dirà a nessuno».
«Non lo puoi sapere».
«Invece sì! Io lo amo».
Zane l’aveva afferrata per un braccio, facendole male pur di trattenerla. «E credi che io non lo ami?!».
«No» aveva scosso la testa la donna «Altrimenti verresti con me».
«Ci odierà entrambi per avergli tenuto nascosto il suo passato, odierà te per avergli mentito tutto questo tempo, facendogli credere di essere stato sempre come è adesso!».
Ma i sensi di colpa che Isolde provava erano stati più forti delle spiegazioni di Zane. E la notte successiva una fiamma troppo alta si era accesa nel giardino e Roan ci si era buttato dentro, lasciandosi consumare il corpo dal fuoco, l’unica vera arma in grado di distruggerlo. Ed Isolde gli era corsa incontro piangendo, ma era già troppo tardi, e Zane l’aveva stretta prima che la pira avvolgesse anche lei. E da quell’istante nessuno dei due era stato più lo stesso.
Botte di Ferro bussò alla porta della camera da letto con le grandi nocche ruvide ed entrò come era solito fare, senza attendere il consenso e senza preoccuparsi di riceverlo.
Un baldacchino possente dominava lo spazio luminoso e ai piedi del letto, seduta compostamente su uno scranno imbottito e leggermente scricchiolante, il mento dritto, la postura rigida, se ne stava Isolde.
La moglie del Ministro di Ennon era avvolta da una pesante mantella di lana per proteggersi dalla frescura di quell’ora e nel piccolo camino di fronte a lei le braci si erano già tutte consumate, rilasciando nella stanza un piacevole tepore che non era sufficiente ad allontanarle il freddo dalle ossa. Sul davanzale della finestra il cibo che era stato portato per lei all’ora di pranzo era ancora intatto.
In grembo portava una pezza di tessuto da ricamare, ma il lavoro, anche se molto ben curato, non era che all’inizio, nonostante vi lavorasse ormai da settimane.
Quando Isolde alzò gli occhi su suo marito, Zane li sentì severi e distanti, come distanti erano diventati ormai loro due, incapaci di trovare un accordo su una faccenda tanto complessa.
L’uomo si corrucciò ricordando la donna che aveva sposato, sorridente dopo tante lacrime, forte come la roccia dopo essere stata per troppo tempo debole. La amava come aveva amato Roan, forse di più, perché tra loro non c’erano mai stati segreti e, per ironia della sorte, adesso era proprio la loro schiettezza a lacerarli. Eppure Zane sapeva che da qualche parte, in quegli occhi imperscrutabili, c’era ancora una donna dal cuore grande, troppo grande per un mondo come il loro, che non voleva nient’altro che giustizia fosse fatta, per riparare all’errore che aveva commesso anni addietro e che ancora le infastidiva l’anima.
Botte di Ferro le si avvicinò, scambiando degli impacciati convenevoli a cui Isolde non prestò attenzione. Poi si inginocchiò ai suoi piedi, le strinse le gonne e nascose il viso barbuto contro il suo ventre.
Tutta la misura e l’ordine che la donna ostentava così teatralmente lasciarono il posto ad un’autentica sorpresa ed il ricamo le scivolò di dosso, finendo a terra. Quel gesto così inaspettato l’aveva stupita a tal punto da farle dimenticare persino il suo orgoglio. Alzò una mano e sfiorò la testa del marito, tirandogli leggermente i capelli neri, come era stata sua abitudine fare un tempo.
Il Ministro di Ennon sollevò gli occhi, incrociando le iridi scure della moglie. Non sapeva se farlo per lei, o per sé stesso; magari tutto era nato da sua figlia, dal frutto del loro amore che tanto avrebbe voluto proteggere e che invece – Howel aveva ragione – rischiava di commettere lo stesso errore della madre. O forse era solo la necessità di proteggere i più deboli, di onorare la morte di un amico, di levarsi quel peso dalla coscienza, di impedire che qualcun altro soffrisse come avevano sofferto Kasimir ed Aron, di impedire che i Rioni si spaccassero per un’altra guerra civile. E se tutte queste ragioni si fossero dimostrare sufficienti per non vedere più il rammarico in Isolde, tanto meglio.
Prese un profondo respiro.
Gli si era chiesto di ragionare da Ministro, ma lui non poteva essere solo quello. Era anche un padre, un marito, un uomo, un amico, un soldato, un diplomatico. Vestiva molti ruoli e quei ruoli dovevano essere conciliati. La sua decisione, ormai, era presa.
«Morèa avrà il mio appoggio» disse infine, la voce forte e vibrante, il tono deciso, anche se pure la più profonda sicurezza nasconde dei dubbi.
Gli occhi della donna si fecero grandi e rotondi, le iridi luminose, il viso acceso. Socchiuse la bocca, mostrando un sincero sorriso. Il mento tremò. Si nascose il volto tra le mani e pianse e quei singhiozzi furono il balsamo di cui aveva bisogno.
«Grazie agli Dei, grazie agli Dei!» lo abbracciò, stringendoselo al petto, colma di un conforto che da molto tempo non provava più.
Zane le strinse le piccole guance fra le grandi mani e le baciò la fronte.
«Sono fiera di te» si sentì dire «Mio zio e mio cugino saranno fieri di te. E anche Roan…anche Roan sarebbe orgoglioso dell’uomo che sei diventato».
La seduta del Consiglio dei Ministri, dopo il tramonto, si concluse con tre voti a favore, uno nullo e uno contrario.
Kasimir urlò il suo dissenso più forte che mai.
 
♦♦♦

Il mondo di Theresa sembrava si stesse sgretolando sotto i suoi occhi. Letteralmente.
Gli uomini e le donne che la circondavano parevano senza volto, come delle bambole che si muovevano sul palcoscenico per far sembrare la loro recita convincente. Più aguzzava la vista, più il paesaggio si faceva indistinto, una tela maldipinta di colori appena abbozzati; più tendeva le orecchie, più i suoni si facevano tutti uguali e prevedibili, ripetuti a cadenza regolare: il cinguettio degli uccelli, il vento fra le foglie, le urla del mercato giù in paese, il cinguettio degli uccelli, il vento tra le foglie, le urla del mercato giù in paese, il cinguettio degli uccelli, il vento fra le foglie, le urla del mercato giù in paese…Più ci pensava, più si sentiva come catapultata in una commedia e lei desiderava solamente scendere dal palcoscenico.
Eppure, quando si soffermava su quei dettagli, quando sembrava essere vicina ad una verità primordiale – quasi una parola ferma sulla punta della lingua, pronta ad essere carpita -, Theresa la dimenticava. Qualcosa le sfuggiva, scivolandole di dosso come l’olio. Ma nell’esatto momento in cui riusciva ad avvicinarsi a incastrare gli ingranaggi pezzo dopo pezzo, sentendosi viva di una nuova consapevolezza, tutto si bloccava. E allora ogni essere che aveva vicino si arrestava e sembrava davvero senza volto, un corpo vuoto mosso solo dalla sua immaginazione, che percepiva chiaramente quanto lei fosse fuori luogo.
Era un vitello nascosto da predatore in un branco di lupi e adesso quei lupi si stavano accorgendo della sua presenza.
Era diventata folle?
Forse sì.
Paranoica?
Probabile.
La squalifica dal Torneo arrivò e lei a malapena se ne preoccupò.
Zane la convocò e lei a stento si ricordò le sue parole (qualcosa sul non rendergli la vita più difficile di quanto già non fosse).
Savannah la convinse che era tutto nella sua testa e lei non la ascoltò.
Anche Caleb provò a parlarle, ma Theresa faticò a ricordarsi chi fosse.
L’unica certezza che aveva era la stalla vuota nella quale si trovava in quel momento. Paglia pulita, finimenti lucidati e del suo totem neanche l’ombra. Ma invece un’ombra accanto a lei c’era, zoppicante e vestita di nero. Raven era chiuso nel suo silenzio e così sarebbe rimasto fino a quando non fosse stato interpellato, fino a quando Theresa non gli avesse ordinato cosa fare, come farlo e perché farlo. A trovare le risposte, poi, ci avrebbe pensato lui.
Daianara, oltre la soglia delle scuderie, si strinse le mani nelle mani, indecisa sul da farsi.
Aveva guardato Theresa da lontano, come una mamma il suo bambino, senza avvicinarsi a lei fino a quando non era stato più possibile fare diversamente. L’aveva vista, oltre la staccionata, strattonare quel garzone per farsi portare un cavallo che si trovava proprio di fianco a lei; l’aveva vista urlare contro il cielo a squarciagola, fino a non avere più voce, pur di essere creduta; aveva udito i suoi incubi nella notte, ma aveva avuto paura a raggiungerla temendo che diventassero anche i suoi.
Non era poi nemmeno così certa che, dopo tutto quel tempo passato senza spendere nemmeno una parola, Theresa volesse ora condividere i suoi pensieri proprio con lei.
Avanzò lentamente lungo il corridoio di legno.
La rossa alzò gli occhi scuri su di lei, incrociandone lo sguardo. L’espressione era apatica, una maschera privata di qualsiasi emozione.
«Tess…» la chiamò.
«Vai via» rispose in un sussurro, tornando a fissare il nulla di fronte a sè, quasi si aspettasse di vedere Argo materializzarsi proprio in quel box.
«Theresa».
«Via» ripetè, poi aggiunse «Anche tu pensi che io sia una spostata, una deviata». La guardò per un lungo, lungo istante, sondandone l’espressione, cercando di catturare tutto quello che i suoi occhi volevano trasmetterle. «Non vedi quello che vedo io, non senti quello che sento io. E nemmeno credi che il mio cavallo mi sia stato rubato. Sei come tutti gli altri, solo come tutti gli altri».
«Non è così». Daianara si morse le labbra e abbassò lo sguardo. «Io ti credo…Saprei riconoscere Altea fra centinaia» sussurrò, annuendo lentamente, e la sua voce pareva colpevole. Avrebbe voluto essere più rigida, avere più polso, come se il fatto di provare ancora del rancore nei suoi confronti dovesse impedirle di appoggiarla. Ma per quanto Daianara fosse ancora risentita della poca delicatezza che la ragazza le aveva dimostrato, non sarebbe mai arrivata al punto di negarle tutto l’aiuto di cui necessitava.
Credeva che il loro rapporto dovesse andare oltre questo, anche se non si era dimostrato abbastanza intimo da superare ciò che era accaduto.
«Almeno tu…» scosse la testa Theresa, una punta di sollievo nella voce. Allungò una mano e la posò sopra quella della mora che all’istante si irrigidì. «Devi aiutarmi a ritrovare Argo, Daia. Non mi interessa nulla di questo stupido Torneo, non è importante, ma lui lo è. Mi stanno strappando una parte di me».
«Perché qualcuno avrebbe dovuto farti una cosa simile?».
Curvò la bocca in una smorfia sinistra «Non lo vedi il modo in cui mi guardano tutti? Come se fossi una matta da rinchiudere in qualche scantinato, o alla meglio una paranoica che si diverte ad aggredire le persone» su quelle parole la voce si fece un po’ meno sicura e Theresa non riuscì a sostenere lo sguardo di Daianara «Una folle che parla da sola e non distingue più i sogni dalla realtà. Ma su questo non mi sbaglio. Quello non è il mio cavallo, non l’ho mai visto in vita mia. Tu puoi capirmi». Una lacrima impertinente le sfuggì dalle ciglia nonostante tutti i suoi propositi di autocontrollo. Rapidamente la scacciò con un colpo di mano, voltando il viso per non farsi vedere dalla ragazza che aveva di fronte e solo Daia sapeva più di lei quanto odiasse mostrarsi debole agli occhi di qualcun altro.
La mora finse di non essersi accorta di nulla. Le venne naturale alzare la mano e avvicinarla alla sua guancia. Tess la vide con la coda dell’occhio e rimase immobile. Forse era davvero quella l’unica cosa di cui aveva bisogno in quel momento: che Daia la toccasse, facendola sentire meno spersa. Chiuse le palpebre e attese.
Le dita della ragazza tremarono, ma non arrivarono a sfiorarle la pelle. Daianara desistette dal suo intento con un’espressione affranta, lasciandosi cadere la mano aperta in grembo. Avvicinarsi a tal punto, ritrovare un contatto, un abbraccio, una carezza, avrebbe fatto crollare il muro che aveva alzato tra loro due, un muro che non sarebbe dovuto cadere prima che Theresa avesse compreso perché il suo comportamento le aveva fatto male al punto da spingerla ad allontanarsi. In testa poteva ancora sentire rimbombare le parole che le aveva detto quella notte con così tanta leggerezza: “E’ stato un errore”, “Non volevo”, “Non prendiamola sul serio”. Senza rendersi minimamente conto dell’effetto che avevano avuto su di lei e di quanta fatica le stesse costando adesso guardarla da lontano anziché stringerla e chiederle che cosa la turbasse tanto.
«Allora dimostriamo che non sei quella che credono tu sia» le disse quando la rossa la guardò con aria interrogativa «Ritroviamo Argo e andiamocene da questo posto senza guardarci indietro. Ma Tess…» aggiunse, scandendo ogni sillaba «Questo non cambia quello che è successo tra di noi».
L’altra deglutì a fatica. Non tutto poteva essere aggiustato. Annuì con pesanti cenni del capo, in un tacito accordo. Poi si rivolse al curioso, ancora dietro di loro, e Daianara sobbalzò quando si accorse della sua presenza.
Theresa aggrottò le sopracciglia. Possibile che non lo avesse visto? Era sempre stato lì.
«Rivoglio il mio cavallo» esordì poi, senza mezzi termini «E voglio che tu scopra chi me l’ha portato via».
Raven la guardò profondamente. «Certamente» sussurrò e anche se la sua voce era maliziosa e tagliente come sempre, l’espressione si era fatta tremendamente greve. Theresa venne scossa da un fremito. Fu solo una sfuggente sensazione, ma le sembrò che in quell’uomo vi fosse rinchiuso qualcosa di sé stessa. Un’impressione che aveva avuto solo con Ophelia, quando la guardava con i suoi occhi trasparenti snocciolando frasi che solo lei sembrava comprendere.
«Chiunque sia stato» continuò la spia «E’ molto più vicino di quanto non immaginiate. Sono sempre le persone più fidate ad avere i segreti più ingombranti» alzò uno sguardo su Daia, ma la ragazza si era già voltata e con passo spedito si incamminava verso l’uscita.
Il curioso continuò: «Si celano negli inganni, si nascondono in un ricordo dimenticato. Ma anche un labirinto è di facile soluzione, quando lo si guarda dall’alto. O forse sbaglio?» le domandò ancora, alzando la voce per farsi sentire, poggiandosi al piede sano per non cadere. Quella leggera zoppia non minava in alcun modo la sua sicurezza.
La mora si voltò appena a guardarlo, gli angoli della bocca piegati all’insù. «Pensavo che le spie di Palazzo non sbagliassero mai».
«Infatti».
Lei e Raven si scambiarono un’occhiata che avrebbe potuto mettere a ferro e fuoco l’intera Cittadella e per un momento Tess stentò a riconoscere entrambi.
 
♦♦♦

Sotto il portico che si affacciava su uno dei giardini interni il Palazzo, nell’ala lasciata agli abitanti di Ennon, Theresa procedeva più mesta e mogia del solito. Le luci erano state tutte spente, nemmeno una fiaccola gettava le sue ombre sui muri, ma la luna era alta e piena e tutto il cielo era puntinato di piccole stelle che brillavano una più dell’altra. Con il naso all’insù, la schiena appoggiata ad uno dei pilastri marmorei e le braccia conserte, strette intorno allo sterno, Theresa si godeva quello spettacolo - quasi un calmante per la sua anima agitata - pensando però che dalla finestra della sua camera, ad Ennon, la vista sarebbe stata migliore.
Proprio lei, che negli ultimi tre anni non aveva fatto altro che desiderare di essere a Palazzo per mostrare a tutti di che pasta fosse fatta, ora non vedeva l’ora di tornare a casa.
Storse il naso e rabbrividì quando una folata di vento freddo si alzò, passando fra le foglie degli alberi e investendola con il suo alito. Quanto poteva essere sadico il destino che ti permetteva di raggiungere i tuoi sogni quando questi ormai erano mutati?
La ragazza fece leva sulla superficie del muretto basso e saltò, mettendosi a cavalcioni su di esso. Inutile dirlo, anche quella notte non si sarebbe addormentata, un po’ per i pensieri che le ingombravano la mente, un po’ per la paura di vivere gli incubi dai quali preferiva tenersi ben più che lontana.
Reclinò la testa e tirò un profondo sospiro. Il suo petto si sollevò sotto la camicia e si riabbassò.
Un’altra folata di vento le accarezzò la pelle, questa volta con maggior impeto, staccando le foglie e facendole danzare. Ma queste non si posarono a terra, o almeno Tess continuò a vederle volteggiare, sospese nel nulla, fino a quando non sparirono dalla sua vista. Si erano mosse al ritmo di una lenta nenia, una ninna-nanna dolce che riempiva l’aria col suo motivetto e che forse l’aria aveva portato da lontano, da oltre le mura del Palazzo, giù in strada, o anche oltre la cinta della Cittadella Sacra. Tess non lo sapeva e non le importava. Quel lento movimento riuscì ad attirare la sua attenzione, ad ipnotizzarla e fra tutte quelle giravolte e quelle capriole, fra i colori caldi delle foglie scricchiolanti, lei si perse.
E ogni angolo del suo cervello si riempì di quella melodia.
Ascolta la mia ultima canzone e deponi le tue armi. Domani sarò qui a cantarti queste ultime parole: un’ultima canzone è tutto quello che ho da darti…
Scavalcò il muretto e tornò a posare i piedi per terra. Alzò le braccia, sgranchendosi la schiena, e si portò le mani dietro la testa, muovendo un piede davanti all’altro, in direzione della porta istoriata che l’avrebbe ricondotta al corridoio e da lì alla sua camera. Unì le labbra e le socchiuse, fischiando quelle note che le ronzavano nelle orecchie.
Ascolta la mia ultima canzone, perché già lo sai: mi troverai qui a cantare le mie ultime parole. Per noi ci sarà sempre un’ultima occasione…
Delle gonne si mossero nell’oscurità davanti a lei. Un’ombra camminò sulle mattonelle di pietra senza fare alcun rumore.
Theresa si arrestò.
Delle piccole mani emersero dall’ultimo pilastro, come fuoriuscite dal marmo, e si mossero lungo la colonna.
Il suo fischio si smorzò, ma il motivetto che aveva intonato sembrò aumentare di volume.
Canterò ancora una volta per te, prima di allontanarmi. Sono salita troppo in alto per sentire la tua voce…
Theresa aprì la bocca, ma le sue corde vocali erano come paralizzate e dalla gola non uscì nulla se non un basso gemito. Istintivamente indietreggiò, ma non riuscì a distogliere gli occhi dalla figura che stava affiorando dal nulla, composta di polvere e molecole, e che le si stava parando davanti.
Decise di voltarsi e correre, ma tutto improvvisamente si arrestò. Anche lei.
Il vento si abbassò, il freddo si fece poco a poco meno pungente, sostituito presto da un piacevole tepore. Il canto si fece sussurrato, le parole lasciarono il posto a delle note pulite e rincuoranti, note che Theresa sentiva di conoscere, ma non ricordava di aver udito mai. Intorno a lei tutto si fece più nitido, il chiarore della luna illuminò il passaggio e, come in un incubo che si fa sogno, Theresa non sentì più paura, ma solo sollievo.
Davanti a lei, isolate dal buio della notte ormai inoltrata, delle piccole scarpette laccate di blu batterono la pietra.
«Sei tu…» sospirò Theresa, passandosi il dorso della mano sulla fronte.
La bambina non disse nulla, limitandosi ad annuire. Semicoperta dal pilastro dietro il quale voleva nascondersi, la piccola si stropicciò la gonna chiara con le dita, tirando i lembi prima a destra, poi a sinistra, indecisa sul da farsi. Le ginocchia erano ancora sbucciate e i lividi sul suo collo ancora presenti.
La rossa provò ad avvicinarla, ma dovette desistere quando l’altra diede segni di spavento. «Non volevo impaurirti» disse a mo’ di scusa.
«Neanche io» sussurrò la bambina, gli occhi sempre velati da una profonda tristezza che non sembrava avere fine. «Canti con me la mia canzone?».
«Non la conosco».
Rimase in silenzio, la bocca tremante sul punto di scoppiare in un pianto.
«Andrai via di nuovo?» le domandò Tess, dondolandosi leggermente «Come le altre volte?».
La bambina tirò su col naso. «Tu sai chi sono?».
«Non si risponde ad una domanda con un’altra domanda».
«Non dovresti pretendere delle risposte che non posso darti» ribattè, chiudendosi in un broncio.
«Sono io che sbaglio le domande?».
«Non ho detto questo…».
«Chi sei?».
«Dimmelo tu».
«Io non lo so» iniziò a spazientirsi.
La piccola si strinse nelle esili spalle e si accasciò contro il pilastro. Il corpicino tremò e il silenzio che si venne a creare tra loro due, pesante come un macigno, si ruppe solo con i suoi gemiti.
Il cuore di Tess saltò un battito ma ancora una volta non riuscì a spiegare razionalmente perché il pianto di quella creatura intristisse anche lei a tal punto.
Si passò una mano tra i capelli rossi. «Perché è così importante per te?» le chiese.
«Perché voglio tornare a casa…».
«Mi dispiace. Ma io davvero, davvero non mi ricordo di te».
«Non ci hai neanche provato» la accusò.
Scosse la testa. «Non so chi tu sia» bisbigliò colpevole.
Le sue parole sembravano avessero colpito la bambina più di uno schiaffo.
«Ti prego…» riuscì solo a dire, gli occhi rossi di lacrime, le guance pallide e bagnate.
«Mi dispiace» ripetè.
«Dì il mio nome».
«Vorrei, giuro che vorrei».
«Dì il mio nome, Tess!» le urlò come se ne dovesse dipendere la sua vita.
Un guizzo, un ricordo, una certa familiarità nel suo modo di fare la investirono, ma non furono sufficienti.
La ragazza abbassò lo sguardo, non riuscendo a sostenere il suo, ma quando lo rialzò la bambina stava già scappando via.
«Aspetta!» la rincorse. Nessuno le rispose. «Aspetta! Resta qua!» la inseguì e anche se le sue gambe erano più lunghe e nettamente più veloci, non riuscì a raggiungerla. Allungò le dita nella speranza di afferrarla, ma fu tutto inutile. I contorni delle cose tornarono a farsi indefinite, il colore acceso delle sue scarpette, ormai così riconoscibile, iniziò a perdersi fra le mattonelle; il cuore di Theresa cominciò a galoppare come se avesse corso per chilometri, il fiato le venne meno, la vista si annebbiò, le gambe cedettero, costringendola ad inginocchiarsi sul pavimento freddo.
«Aspettami…» sussurrò ancora, non desiderando altro che trattenerla per capire, per ricordare, per sapere. Un senso di vuoto e di disperazione la inghiottì.
Alzò una mano all’aria, chiudendola a pugno e battendola a terra così forte da farsi sanguinare le nocche. «Fermati!».
La figura della bambina si allontanò sempre di più, assorbita dalle ombre.
Poi un’idea le balenò nella mente, così limpida e logica da pensare che qualcuno gliel’avesse suggerita nelle orecchie, e i suoi polmoni gridarono più forte che poterono: «Maledizione Daia, fermati!».
I piedi della bambina si arrestarono, immobili come in un dipinto.
L’aria smise di essere così pesante e l’atmosfera così opprimente.
Le vertigini che avevano assalito Theresa cessarono e ogni cosa tornò ad essere solida e concreta.
Le spalle della bambina si incurvarono e il suo corpo venne scosso da un ultimo, lungo singhiozzo. Voltò appena il capo per guardare nella sua direzione e quando gli occhi scuri, tondi, umidi, incrociarono quelli di Tess, ancora una lacrima le rigò silenziosa lo zigomo. Ma non vi era più sofferenza sul suo viso, solo stupore.
«Daia…» la chiamò ancora la rossa, prendendo fiato, e quando ripetè il suo nome, come se fosse la cosa più naturale del mondo, la piccola le corse incontro, le pieghe della gonna che svolazzavano, le mani aperte pronte ad abbracciarla. Le si lanciò addosso, gettandole le braccia al collo e stringendola quanto più forte riuscì, nascondendo la faccia nell’incavo della sua spalla, bagnandole la camicia.
Theresa, dapprima interdetta, si avvinghiò a lei e le braccia le cinsero completamente il corpo. La cullò, tenendola stretta a sé, pronta a tutto pur di rimanere così ancora per un poco. Le accarezzò i capelli, le baciò la fronte, le asciugò le palpebre, ma quello che aveva fra le mani non era più il corpo di una bambina. Daianara, accovacciata davanti a lei, le facce alla stessa altezza, le cercò gli occhi con i propri ed erano talmente profondi da catturare la luce.
«Temevo non ti saresti mai ricordata di me» mormorò tesa, sfiorandole il viso con le dita fredde.
Tess aggrottò la fronte. «Io non posso dimenticarti» spiegò semplicemente.
«No, infatti» scosse la testa «Non puoi. Siamo una cosa sola».
«E allora perché adesso siamo così divise?».
La mora le posò una mano sul petto, insinuandosi sotto il cotone e premendo sul cuore. Era davvero possibile che due battiti riuscissero a fondersi in un unico suono? Le baciò la fronte. «Devi farmi entrare qui. Non c’è altra soluzione. Non puoi continuare a farmi soffrire in questo modo» la voce si ruppe.
«Io non voglio farti del male».
«Neanche io». Si morse le labbra e Theresa non riuscì a non abbassare gli occhi sulla sua bocca.
«Ammettilo» sussurrò Daia, facendosi più vicina «Sii più sincera di così, più sincera con te stessa».
«Cosa dovrei ammettere?».
«Che sono il tuo punto debole».
«No» negò subito l’altra, forse con troppa foga, posandole le mani sulle spalle e allontanandola, senza staccarsene davvero del tutto. 
«Puoi fingere se vuoi, ma non con me» la voce era dolce e al tempo stesso ferma. Si guardò intorno «Qui non puoi mentirmi. Io ti ho salvata e tu hai salvato me».
La rossa deglutì prima di sentenziare: «Non ci si può permettere alcuna debolezza».
«Sono le debolezze a renderci forti».
«Questo è un controsenso».
«No, non lo è. Devi avere qualcosa per cui lottare, devi avere qualcuno il cui pensiero ti spinge ad andare avanti, qualcuno per cui rialzarti quando tutto sembra perso. Non si può sempre vincere da soli, Tess. Un egoista non sarà mai più forte di qualcuno che lotta per amore. E fino a quando non amerai qualcuno così tanto da farlo diventare la tua debolezza, allora non potrà essere la tua forza. Hai mai amato fino a questo punto?».
Silenzio.
«Io sì. Io sì. Ed è per questo che sono più forte di te. Lo sarò sempre. È il regalo più grande che tu potessi farmi».
«Ma…» iniziò a domandare, prima di essere interrotta.
«Ti prego» Daia le posò un dito sulle labbra, prevenendo qualsiasi obiezione «Ti prego, fallo ancora».
«Cosa?».
«Guardami».
«Ti sto guardando».
«Non così».
«E allora come?».
Lei socchiuse gli occhi. Avvicinò la bocca al suo viso, baciandole le labbra come se non avesse desiderato fare altro per tutto il tempo che le era rimasta tra le braccia. Seguì ogni suo contorno, quasi a volerglielo ricreare, e ne gustò il sapore, catturandole la lingua. Tess si lasciò toccare, trasportare, mangiare, percependo il suo calore attraverso lo sterno, nello stomaco ormai in subbuglio. Ogni muscolo si tese. Inspirò il suo profumo di erba tagliata e fieno – semplicemente il suo profumo - fino in fondo e quando le mancò il respiro ansimò sulla sua pelle. Le morse il collo e l’odore di quel corpo la invase completamente. Daia le passò le dita fra i capelli, tirandole la coda per costringerla ad alzare il viso. Le stuzzicò ancora le labbra prima di sussurrare: «Così. Guardami così. Come hai sempre desiderato e come non hai mai osato. Non c’è niente di sbagliato in noi. Se quello che proviamo quando siamo vicine è così bello, come può non essere giusto? E se è sbagliato per gli altri, perché dovrebbe esserlo anche per te? Pensi forse che io sia cattiva?».
Theresa scosse la testa «Non potrei pensarlo mai».
«Tu credi di esserlo?».
Titubò e Daia scacciò ogni suo dubbio sfiorandole la tempia con la bocca. «Il tuo cuore è così grande, Tess. Se solo ti lasciassi amare lo vedresti chiaramente, come lo vedo io. Torna da me. Mi manchi troppo. Non hai più tempo, noi non abbiamo più tempo».
«Cosa stai cercando di dirmi?».
«Non devi crederle» le sussurrò all’orecchio e la sua voce si fece improvvisamente roca e affranta «Se davvero mi vuoi, se davvero mi conosci, allora saprai distinguermi. E vedrai le maschere cadere, le finzioni sfumare e capirai perché non ti è più concesso di restare. Raggiungimi. Lo so che sai dove andare, hai già percorso questa strada, devi solo ricordarla. Segui la mia voce e torna. Non posso più aiutarti».

 

 
   
 
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