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Autore: Josie5    05/03/2018    16 recensioni
Una punizione divina. Per Evelyne Gray, la ragazza del giornalino scolastico o la presidentessa, come ci tiene a dire lei, Max Parker è una punizione divina.
Evelyne è infatti convinta che il karma o Dio, o qualunque cosa sia, stia cercando di punirla con lui.
Punirla perché, a causa di problemi economici, comincia a sfruttare il fatto di essere così ben voluta dai professori per passare le soluzioni dei test ad alcuni suoi compagni di scuola; il tutto in cambio di soldi.
Evelyne non è orgogliosa di se stessa, ma per quasi due anni continua a tradire la fiducia che le è stata concessa.
Quando decide di smettere non tiene conto del fatto che Clark, il suo ultimo "cliente", sia uno dei migliori amici di Parker; non tiene conto del fatto che Parker stia preparando la sua vendetta fredda.
Max ed Evelyne non si sono mai parlati, ma si conoscono molto bene per via del giornalino di lei e di un certo articolo. E Max Parker, il capitano della squadra di basket della scuola, bello e popolare, non può di certo essere umiliato senza conseguenze. Non dopo quello che ha fatto Evelyne.
(Revisione in corso: 3/31)
Genere: Commedia, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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Uhm.

Eh.

Vi starete chiedendo 'ma chi è questa qui? Josie5? Punizione divina? Che cos’è?'

Eccomi di nuovo qua! Una pausa lunghissima, imperdonabile, lo so.

Non saprei bene cosa dire: è mancata l’ispirazione, è mancata la voglia, è mancata Evelyne nella mia testa. Avevo paura del finale che avevo pensato, della vostra opinione. Mi era sfuggito il punto di efp, del mio iniziare a scrivere e di me stessa: non importa se il finale non è degno o se non piace, importa che Evelyne e Max si meritano una fine. Importa che anch'io devo portare a termine qualcosa che mi ha reso immensamente felice e che spero abbia avuto lo stesso effetto su di voi. Se il finale non avrà la stessa efficacia, quel che importerà sarà comunque il percorso che mi ha portata esattamente qui. Non devo più scappare.

Spero solo di farmi perdonare dicendo che Evelyne è di nuovo qua, che la storia sta per concludersi davvero.

Spero di avere ancora qualcuna delle lettrici di prima. Anche solo rivedere un nome non mi farebbe sentire una pessima persona. La fine se la merita anche chi una volta mi leggeva e purtroppo, come me, ha smesso di frequentare questo sito, ma ancora si ricorda di “punizione divina” e di Max ed Evelyne.

L'unico favore che chiedo a te che leggi è di dire ad eventuali altre lettrici di questa fine. Non per pubblicità o altro, ma solo perché vorrei che la fine ce l'abbiano tutti.

Detto questo, spero che basti.

Spero di poter essere all’altezza. Spero di non sembrarvi strana: perché è passato tanto tempo e ho smesso di scrivere nel tempo libero, se non per appunti o esami. Forse sono più “matura” (solo sulla carta) e non credo più in certe cose. Ma ho voglia di scrivere. Di scrivere questa storia. Di finire di creare quell'unica cosa che sono riuscita a creare e portare per così tanto tempo avanti.

Questo è il penultimo capito, manca il finale e l'epilogo. Probabile che divida tutto in 3 capitoli, massimo 4 se il prossimo dovesse diventare troppo lungo. Devo sistemare i prossimi capitoli per bene, ma non sparisco più. Cerco poi di rispondere in questo periodo a tutte le recensioni ricevute.

 

Comunque, vorrei farvi sentire, anche se non è possibile, come se questi anni non fossero davvero passati.

Per chi potesse, vi chiedo di rileggere quanto è già successo, per cercare di capire davvero quanto segue. Per chi non avesse tempo, spero che gli spezzoni che seguono bastino a immergervi di nuovo nella storia che c'è stata finora.

Buona lettura (si spera)

 

 

- Non posso tenere davvero qualcuna per mano … - Aggiunse, piano, riattirando la mia attenzione sul suo viso, dopo quei secondi di silenzio. Mi sembrò di vederlo di nuovo strano.

- Non puoi o non vuoi? - Chiesi e una specie di sorriso tirato mi fece distendere le labbra.

- Non ho mai voluto. - Spiegò, continuando ad avere gli occhi incatenati ai miei.

Sfuggii però, abbassando lo sguardo. - Lo so.

- Ma ora non posso, Evy … - Disse, ancora più a bassa voce, tanto che mi sembrò quasi di essermelo immaginato.

Di nuovo, con quel fare altalenante che stavo avendo, mi ritrovai a guardare il suo viso.

- E perché non potresti? - Domandai, e mi sentii il cuore in gola e probabilmente era lì davvero, pronto ad uscire e scappare a una risposta troppo chiara, che non andasse bene con quello che speravo, illudendomi come una bambina.

Esitò; la sua mano mi strinse le nocche, facendomi piegare le dita e sentire così piccola.

- Si pensa che stringere la mano a qualcuno sia rassicurante, che dia una sensazione di protezione, sollievo, che serva ad evitare del dolore, a tenere qualcuno vicino. - Cominciò e il battito lo sentivo fin nelle tempie. - Ma non è così. - Spiegò, gli occhi fissi nei miei, così tanto che sarei dovuta essere in grado di capirli, ma qualcosa continuava a sfuggirmi. - E' cominciando a stringere una mano, che si inizia a perdere qualcosa. E ci sono cose che non vorrei perdere. Non adesso.

 

 

- La tua bocca non mi tenta minimamente e non vorrei, ogni volta che la vedo, baciarti, senza aspettare altro. - Aprii gli occhi trovando i suoi socchiusi, vicinissimi, e smettendo di respirare. - Non sei bella, pur sforzandoti così tanto di esserlo; non penso decisamente fin troppo spesso a te, fino a livelli normali. Non mi piaci, per niente, e vorrei che questa notte finisse il prima possibile, perché non vedo l'ora di staccarmi da te e che arrivi domani. - Finì, più piano delle altre due volte ed era possibile che non mi avesse mai guardata così?

- Bugia? - Chiesi e in quella domanda si trovava il mio cuore.

 

 

 

- Ma poi pian piano ho cambiato idea … - Confessai.

Ci mise un attimo a rispondere: - Non pensi più che sia qui per rovinarti, in un modo o nell'altro? - Chiese e il tono suonò quasi spento, ancora strano.

- No, perché alla fine non l'hai mai davvero fatto, pur avendone avuto la possibilità. - Sussurrai. - E anzi, mi sono ritrovata a ringraziarti, io; ad avere bisogno, in un qualche modo, di te. - Aggiunsi, con un piccolo sorriso, contro il suo petto.

Mi strinse ancora più forte e trattenni il respiro, mentre le sue labbra si appoggiavano sui miei capelli.

Restammo in attesa, di chissà cosa, poi lui tornò a parlare: - Se non posso rapirti, conosci almeno un qualche modo per governare il tempo? - Mi domandò.

Corrucciai la fronte, perplessa e disorientata dal suo calore e da tutto quello che avevo appena detto. - Ti servirebbe?

- Non sai quanto ...

E ci zittimmo, in muto accordo, continuando a stare lì, contro quell'albero, nella notte; in quel silenzio che non era in realtà un silenzio.

 

 

 

 

- Max … - Feci dopo pochi secondi, e un gemito strozzato si unì al suo nome.

- Dimmi … - Sussurrò, continuando a lasciarmi baci umidi e a farmi fremere.

L'ultima volta.

Ed era sbagliato, ma il mio cuore voleva quello: l'ultima volta, ma anche la prima.

- Fai l'amore con me?

 

 

 

Quella sera mi ero divertita, in qualche modo, pur odiando Parker; mi ero divertita e avevo provato quasi una strana simpatia nei suoi confronti. Almeno finché Clark non mi aveva spiegato la scommessa tra loro due: la ragione per cui ero stata chiamata a restare a cena in palestra, e trattata in quel modo quasi carino, era stata infatti un bacio.
Alzai gli occhi su Max, che tentava di valutare se aprire o no la sua lattina.
L'aveva già detto anche lui che ero sembrata intenzionata a rinfacciargli ogni sua frase, quella sera; quindi, ormai, tanto valeva fare lo stesso anche con le sue azioni, no?
- La scommessa tra te e Clark … - Iniziai.
A Parker però scivolò di colpo la lattina di mano, che cadde per terra, rimbalzando, e finì accanto alla mia; mi bloccai.
Mi guardò e non riuscii a capire la sua espressione. - Eh?

 

 

 

- Non è stato Clark: sono stato io.

 

 

 

 

29. Bugie e verità

 

Le parole, l'avevo sempre saputo, avevano una gran importanza.

Non erano solo un mezzo per riempire il silenzio o il vuoto, per usare in qualche modo l'aria: era un tramite con cui un'anima poteva comunicare con un'altra, rompendo l'isolamento, esistendo, dandosi un senso, facendosi ricordare.

Le avevo sempre considerate al di sopra dei gesti: perché certe lettere, in un determinato ordine, in una certa sequenza e quantità, riuscivano a trasmettere molto più di certi comportamenti e di certe azioni. Anche per quello preferivo i libri ai film.

E anche per quello avevo sempre voluto fare la giornalista: per informare, comunicare, aiutare, salvare; usando parole.

Ma, da quando conoscevo Max Parker, l'importanza dei gesti, nella mia testa, era notevolmente aumentata: perché anche quelli potevano comunicare così tanto; far battere il cuore; anche quelli potevano farti innamorare.

Poi, sempre Max Parker, mi aveva fatto scorgere l'altro lato della medaglia nelle parole: il lato negativo.

Le mie adorate parole, che avevo sempre così tanto voluto imparare a maneggiare, non avevano infatti solo lati positivi.

Le parole, loro, potevano anche uccidere.

Con molta più crudeltà, anche se il sangue non era visibile.

- Eh?

Quello fu l'unico verso in grado di uscirmi di bocca.

All'improvviso non mi dibattevo più tra le braccia di Parker, mirando a Clark e alla sua faccia da schiaffi; all'improvviso ero ferma, con la bocca spalancata.

Gli occhi di Parker lasciarono un secondo i miei, volgendosi in direzione del ragazzo che pochi secondi prima avevo voluto morto, poi furono di nuovo con me. Impassibili.

Non fiatò.

- Tu? - Chiesi, quasi volendomi accertare di aver capito bene.

Non rispose, ancora, ma io scoppiai a ridere, brevemente, in maniera scettica ma nervosa.

- A che gioco stai giocando? Non puoi essere stato tu. - Tagliai corto e cercai di allontanarmi dalla sua presa, che quasi non notavo travolta dalla rabbia, per ritornare a Clark dopo quell'esitazione fin troppo lunga.

Max però non mi lasciò andare. Le sue mani mi strinsero i fianchi con più forza, ma non col tocco che ero solita conoscere, e i suoi occhi così vicini erano diversi, tremendamente diversi dal solito. Continuò: - Posso eccome evidentemente, perché sono stato io.

Sentii crescere all'improvviso una rabbia insana, impregnata di qualcosa di più amaro, simile alla paura. - Non puoi essere stato tu! Non lo faresti mai! - Insistetti e il tono di voce si stava alzando; l'ultima sillaba tremò.

Gli si dipinse uno strano sorriso ironico, freddo, che stonava con tutto e richiamava tanti mesi prima. - Continuerai a ripeterlo per molto? Sono stato io, mettitelo in testa. - Quasi sillabò.

- Lo ripeterò quante volte voglio! - Urlai, sempre più agitata, più di quanto fossi stata entrando nella mensa.

Il sorriso gli si spense e si guardò di nuovo attorno; la sua mano mi spinse di lato, disorientandomi, e mi sentii più instabile di quel che credevo. - Stai urlando! Andiamo a parlare fuori!

Mi scostai bruscamente dalla sua presa, rischiando di cadere. - No! - Ma abbassai la voce, notando all'improvviso il silenzio che ci circondava: creato da orecchie tese; o forse ero io ad immaginarmelo, non riuscendo a sentire altro. - Non c'è bisogno di andare da nessuna parte: perché non sei stato tu e adesso lasciami stare!

Guardai verso Clark che rideva con i suoi amici, notando l’inizio del nostro litigio. Fui sul punto di scattare per essergli subito addosso.

- Sono stato io, Gray! - Fece di nuovo, sempre più fermamente e tornai in modo brusco a lui. - Non cambierai i fatti!

- Non lo faresti mai! E i fatti sono quello che mi hai dato ieri! Dopo quello che mi hai detto ieri, dopo quello che hai fatto ieri, dopo quello che abbiamo… - Mi bloccai. - Tu non avresti mai potuto fare qualcosa del genere! – Misi in chiaro e gli portai come prova, in un modo all'improvviso disperato, più di quanto avessi mai voluto, quell'uscita insieme.

Portai come prova lui stesso: Max che mi diceva che ci teneva a me, che non voleva perdermi, che gli piacevo.

Quella volta esitò un attimo e mi sentii sollevata: avevo capito la bugia? Proprio come mi aveva insegnato il giorno prima? Si stava per complimentare? Saremmo poi andati finalmente da Clark a chiarire tutto?

Ma l'esitazione c'era stata solo per anticipare una risata.

Max infatti scoppiò a ridere.

- Erano bugie. - Spiegò, con così poche parole, appena il riso si spense.

Avvampai, sentendo il sangue ormai alla testa. - Sono bugie quelle che stai dicendo adesso!

- Ne sei sicura? - Mi provocò, sorridendo in quel modo che avevo così tanto odiato in passato e non riuscii a rispondere.

- Sai durante quello stupido gioco? Quelle che hai definito bugie erano la verità. Non ne hai mai indovinata una.

Affondò il coltello nella piaga e fece all’improvviso male, quasi si fosse aperta una vera ferita. Quasi mi sembrò di sentire l’odore del sangue.

- Non ti credo.

Anche se sentivo odore di sangue, la mia reazione non poteva cambiare. Non dovevo credergli: non era possibile in alcun modo credergli. Non era possibile che fosse stato lui.

- Bugie, tutte. – Continuò, con la stessa faccia.

- Non ti credo! - E volevo tapparmi le orecchie, come una bambina, e continuare a insistere, a non ascoltarlo, a non credergli. - Smettila, Parker! Smettila! Non è possibile che tu, per tutto questo tem…

- Perché mi sarei preso la briga di dirne così tante, per così tanto tempo, vorresti ribattere? - Mi anticipò, in una cantilena ironica che feriva le mie orecchie e ulteriormente me. - Non riesci a immaginarlo? E' facile e capibile, sai? A questo punto direi che è l’unica risposta possibile. – Lasciò nell’aria un secondo di silenzio: drammatico come al suo solito; drammatico come quel pomeriggio nel parcheggio, prima di sventolarmi le foto sotto il naso. - Perché era tutta una scommessa.

Il respiro divenne all'improvviso più difficoltoso, come se le gocce di sangue fossero scese davvero da quella ferita immaginaria e come se fossero anche aumentate, cominciando a soffocarmi. Il colpo era di certo stato all'altezza del petto, vicino ai polmoni.

Ricordai tutte le strane esitazioni che aveva avuto nei giorni precedenti.

- Non ti credo. - Insistetti, appena ne trovai il fiato.

E io stavo crollando e lui mi fissava con un sorriso, impassibile.

- Era una scommessa: dovevo farti cedere, come tutte le altre. Sai, sei stata particolarmente difficile, Gray, ne sono serviti tanti di mesi, ma qualche parolina in più alla fine funziona sempre. Anche con te.

Feci un passo indietro, mentre uno strano scroscio mi risuonava nelle orecchie.

- Una scommessa. - Ripeté; gli occhi ricoperti da una patina impenetrabile, non sembravano più nemmeno verdi. - E' la stessa che va avanti da Halloween, Gray. Solo che ti ho mentito, non era questione di baciarti, era altro, molto di più, con la scadenza di un anno. Era farti cedere definitivamente a me.

- Non ti credo! - E quella volta urlai sul serio, cercando di sentirla il più possibile quella frase, anche dentro, anche con quel sangue che agitava tutto.

Il silenzio nella mensa era ormai assoluto, non lo immaginavo solo io.

Mi afferrò ancora un braccio, mi dimenai, ma mi prese anche l'altro, avvicinandomi e mi arresi, di colpo.

- Allora dimmi perché avrei dovuto inviare quell'e-mail, se tutto il resto fosse stato vero? - Sussurrò, sorridendomi a pochi centimetri dal viso. Una distanza che gli avevo concesso così lentamente. - Lo sai che le foto ce le ho solo io. Chi altro potrebbe minacciarti con quelle?

Boccheggiai, poi la risata di qualcuno mi saltò alle orecchie: mi girai, di colpo, vedendo Clark che cercava di dissimularla con rapidi colpi di tosse.

Clark.

- Lo stai coprendo! Non so perché, né niente, ma lo stai coprendo! Stai coprendo lui! Ammettilo, Max! So che stai mentendo adesso! - Continuai, a denti stretti, e ormai suonavo disperata, in ogni singola cellula: pregavo perché mi dicesse che avevo ragione, perché ponesse fine a quel supplizio, perché fermasse finalmente quell'emorragia interna. - Non puoi essere stato tu! Non ti posso credere! Stai mentendo! Sono successe altre mille cose che provano che non si trattava di una scommessa!

Lo guardai dritta negli occhi, ma non vedevo niente, solo verde.

L'ancora di salvezza, la pezza che bloccava il dilagare del sangue, erano solo i ricordi: gli abbracci al parco, i baci, le carezze, la sua mano. Ironicamente avevo in mente solo i suoi gesti, era rimasto solo quello; se i gesti non mentivano, allora Max non aveva mentito a me.

Mi avvicinò di nuovo e quella volta non tentai nemmeno di opporre resistenza. Ritrovai i suoi occhi così vicini e mi sentii salire le lacrime in un attimo di debolezza. Ma dovevano rimanere bloccate lì.

- Allora se fosse stato tutto vero, perché non sono andato a letto con te?

E la stoccata finale, dritta alle mie insicurezze, non si limitò a sfiorare i polmoni, centrò direttamente il cuore, con precisione e con mira infallibile, e il sangue dilagò.

Le parole potevano uccidere.

Non risposi più, non reagii nemmeno.

Tutte le mie paure, tutte le mie domande senza risposta sui suoi comportamenti ebbero all'improvviso una risposta, e vinsero contro la mia volontà di non credergli.

- Che problema avrei avuto al riguardo se mi fossi piaciuta davvero? Mi serviva solo farti arrivare a quello che mi hai chiesto ieri, e basta.

Perché non era voluto venire a letto con me? Dopo tutto aveva sempre fatto così con tutte; se gli fossi piaciuta davvero perché con me no? Perché si era dovuto trattenere? Perché, dopo tutto quello che mi aveva detto e fatto capire? Perché non aveva mai voluto parlare seriamente di noi? E Dawn? E tutte quelle prese in giro?

- Non mi sei mai piaciuta, Gray. A sufficienza per quel che ho fatto, ma per il resto sei stata solo un passatempo divertente. Accettalo.

La risposta ora l'avevo, ed era stata ovvio, fin dall'inizio, avevo solo voluto cercare delle scuse, o non vedere la semplice verità.

Mi sembrò di sentire la presa delle sue mani ammorbidirsi e scivolare un attimo in basso, i suoi occhi meno freddi, con qualcosa di diverso, ma probabilmente tutto era uguale e mi sembrava solo meno duro; perché niente poteva essere orrendo e fare così male quanto quello che aveva appena detto, quanto quello che le sue parole mi avevano fatto capire.

L'ancora di salvezza, le sue parole si trasformarono in quello che propriamente erano: l'ancora non salvava, mi portava solo a fondo. I gesti si trasformarono in menzogne, come tutte le frasi dette.

Ripensai alla sera prima, quando mi aveva parlato di bugie e verità: le bugie che avrei dovuto capire erano state semplicemente tutte le frasi che mi avevano fatto battere il cuore, in qualunque modo.

E se niente era vero, io di cosa mi ero innamorata?

Dove finiva il mio “Ti amo”?

Lo scorgevo, in mezzo a tutto quel dilagare, come se fosse stato vero, palpabile nella sua “T” alta e rigida e nella sua “o” rotonda e finale.

Continuò, forse vedendo tutto quello: - E ormai con quello che mi hai chiesto ieri era diventato chiaro che avessi ceduto: la e-mail era solo per farti capire com'erano andate in realtà le cose; al momento esatto del tuo game over. Per toglierti di mezzo. Non lo capisci? Comunque non ti preoccupare, non manderò le foto sul serio, non mi interessa. Volevo solo vedere la tua faccia, dopo, e dirti che era tutto chiuso e che io avevo semplicemente vinto. - Concluse, senza mollarmi e con sufficienza, come se avesse parlato del tempo. - Solo questo. Di altro non mi importa.

Ma non lo guardavo più in viso, nemmeno più negli occhi.

- Ah…

Rimase in silenzio alla mia prima reazione dopo tanto.

- Quindi… Volevi vedere la mia faccia?

Non rispose subito, le labbra si schiusero pian piano. - Sì, godermela, dopo tutta questa fatica e tempo perso.

Reagii, senza nemmeno pensarci. - Allora ricordatela bene. – Dissi, senza niente nella voce e, da come la sua presa cedette definitivamente, seppi di averlo preso alla sprovvista. – Perché non ho più intenzione… - Continuai e un nodo alla gola mi cresceva sempre più. – Perché io non ho più intenzione di farmi vedere da te. Di incrociare il tuo sguardo o di rivolgerti la parola. Volevi godertela? Goditela adesso. – Sollevai per l’ultima volta lo sguardo, dritto nei suoi occhi. Non volli leggere niente e cercai di ricordarmi in quel modo i suoi occhi. Solo occhi verdi. – Sarò stata un'ingenua, ma io sono sempre stata me stessa.

E il sangue dilagava. Ormai coagulava.

Ma perché nonostante fossi morta quelle mie stesse parole facevano male?

Avevo già distolto lo sguardo con forza, quando lo sentii prendere fiato per ribattere, ma lo interruppi di nuovo, presa da una strana ansia di parlare: - E sai cosa? Tuo padre ha solo ragione.

Ero morta, sanguinavo, soffrivo, ma nonostante tutto avevo la spada dalla parte del manico, all'improvviso.

Non fiatò e per la promessa che mi ero appena fatta mi rifiutai di guardarlo.

- Sei solo un fallito. Io avevo conosciuto qualcuno dietro a Parker, avevo conosciuto il Max con qualcosa di più e di quel Max io mi ero… - Mi bloccai e mi sentii di colpo gli occhi caldi, e la vista, fissa sul pavimento della mensa, sui suoi piedi, mi si offuscò. Dovevo parlare e basta. - Quel Max che conoscevo io valeva tanto, valeva qualcosa, avevo bisogno di lui, più di chiunque altro. Non di Parker. Era tutto una bugia? Bene. Allora tu non sei niente: sei esattamente quello che dice tuo padre, un bel visino che pensa solo alle ragazze e non ha cervello e non ha cuore. Un fallito. Un fallito che non combinerà mai niente di buono in tutta la sua vita. Tuo padre ha solo ragione, l'aveva solo capito meglio di tutti. Mi fai schifo.

Mi girai, avviandomi fuori dalla mensa, ancora prima di aspettare un'improbabile risposta o scorgere un’ancora più impossibile reazione. Iniziai a correre dopo due passi, schivando volti che non riconobbi.

La vendetta non doveva essere dolce?

Perché stavo solo peggio?

 

 

La vendetta sapeva di vomito.

- Tieni ... - Borbottò Francy, allungandomi l'ennesimo fazzoletto.

Lo afferrai senza fiatare, continuando a tenermi i capelli all'indietro, chinata sul lavandino.

Non volli dare nemmeno una vaga occhiata allo specchio, perché sapevo come mi sarei vista e sapevo anche che non avrei retto: senza colore in volto, bianca come non mai, le labbra gonfie e socchiuse, con gli occhi rossi, pur non avendo pianto.

Ero riuscita a non piangere.

Forse perché le lacrime mi avrebbero solo ricordato l'ospedale, zia Lizzy, Parker che veniva a trovarmi; o il suo compleanno, appena due giorni prima, quando avevano rischiato di uscirmi sul serio. O forse no, perché, dopo tutto, tutte quelle cose erano marchiate a fuoco e non riuscivo a non sentirle, pur con gli occhi non umidi di lacrime.

Ero riuscita a non piangere, ma la rabbia, la tristezza, e, chissà, forse anche quell'amore che non poteva essere vero, mi erano ribolliti così tanto dentro che ero dovuta correre in bagno, a rimettere. Il corpo si era ribellato a quel rifiuto di sfogarsi, di far uscire tutto, nel più schifoso dei modi.

Mi asciugai il viso che avevo appena finito di rinfrescare, provando a recuperarmi.

Le labbra mi tremarono un attimo, mentre ci passavo sopra il fazzoletto, risentendo le cose che avevo detto a Parker, prima di uscire dalla mensa.

La vendetta sapeva di vomito: amara, rivoltante e il suo sapore durava in bocca e temevo non sarei riuscita più a togliermelo di dosso, così come quelle parole.

Si poteva essere più stupide?

La vendetta non sarebbe potuta essere più dolce, in una qualsiasi altra situazione al mondo, eppure stavo male io, in quel bagno, con Francy, chiuse a chiave.

- Va meglio? - Mi chiese, con una dolcezza nella voce che non sentivo realmente, ma percepivo per riflesso.

- No. - Risposi, secca. - Non va meglio: non va bene.

Rimase un attimo in silenzio. - Non farà vedere le foto, Eve, è finita, non devi più preoccuparti.

Questa volta non aprii bocca, mi limitai a continuare a pulirmi.

Sospirò. - Massimo c'è il problema di tutti quei professori a mensa: ti stavano tenendo spudoratamente d'occhio, e, nonostante quello là parlasse piano, tu all'inizio hai urlato e la tua reazione, se riferita alla preside, potrebbe essere sospetta.

La guardai, trovandola pallida, con lo sguardo piantato per terra.

- Francy, io sinceramente non ci stavo più pensando a quelle dannate foto, o a questa scuola o a quella borsa di studio o... - Mi bloccai e la guardai con fare scongiurante, ma non sapendo veramente cosa le stessi chiedendo. - Anche se so che dovrei. Non riesco ad essere Evelyne Gray in questo momento.

Alzò gli occhi, trovando i miei, e in qualche modo mi sentii un poco meglio. - Lo sei, non devi riuscirci.

Scossi la testa, lanciando il fazzoletto umido davanti a me. – Mi capisci se ti dico che ormai mi ero abituata ad essere Evy? Non la Gray del giornalino! Quella fredda ed insensibile a cui importa solo della sua borsa di studio! Che fa copiare e non ha cuore! Ma Evy! Solo Evy. Ed Evy è un sacco più stupida e credeva nell’amore, ma mi piaceva di più Evy, davvero! E adesso è morta e io…

- Evelyne. – Mi chiamò, sfiorandomi il braccio e fermandomi la mano che passava nervosamente tra i capelli. – Evelyne… Tu non sei mai stata la Gray. Sei Evelyne e basta... E sei una ragazza normale, con i suoi difetti e i suoi pregi, come tutte... Non eri fredda e insensibile prima di Parker. Non sei diventata migliore e non sei diventata Evy grazie a lui. Tu eri Evelyne e rimani Evelyne, la mia Evelyne, la mia migliore amica, che combatteva per la propria vita e per un futuro. Sei l’Evelyne che aveva già dimostrato di credere nell’amore, anche se non verso un ragazzo. Parker non ti ha fatto diventare niente e quindi non può aver ucciso nessuna parte di te. Tu sei tu, sei Evelyne, e un ragazzo non può ucciderti, perché non può nemmeno cambiarti. Non dargli questo potere, perché non ce l’ha. E tu sei molto più forte, la ragazza più coraggiosa che conosca. Sei Evelyne.

Crollò di nuovo il silenzio, riempito solo dalle gocce d'acqua che colavano dal rubinetto chiuso male.

Poi crollai io, a terra.
Mi lasciai scivolare, come se le gambe non avessero potuto reggermi più, sul pavimento sicuramente lurido di quel bagno.

Francy mi seguì, come mi aveva seguita fuori dalla mensa, correndo e affiancandomi subito, prima che riuscissi a raggiungere qualunque altra cosa. Quella volta mi raggiunse, rannicchiandosi a terra: una di fronte all'altra.

Sentii le sue braccia circondarmi i fianchi e il suo viso affondarmi tra i capelli, senza quasi rendermene conto. Con quell'ultimo gesto sembrava darmi il permesso di piangere, facendomi capire che non mi avrebbe guardata; si sarebbe limitata ad ascoltarmi e a parlarmi, lì, così vicina al mio orecchio, per sussurrarmi in risposta, se avessi voluto.

Qualcuno cominciò a bussare fuori dalla porta del bagno, reclamandolo e avendo capito che non era stato di certo chiuso per pulizie, come Joe non faceva mai.

- Ma era ovvio alla fine, sai? - Sussurrai, così piano da essere coperta da tutto quel baccano che mi circondava.

La tizia fuori continuava a bussare, ignara di tutto, urlando.

- Cosa? - Chiese, scostandosi lievemente.

- Che le sue erano bugie. Tutto. – Ripetei, cercando di essere incolore. - E' tutto più normale e logico, così.

Esitò e ci sarebbe stato un lungo silenzio, se non fosse stato per quel caos, la porta che ormai stava per venir sfondata.

- Ma è davvero possibile?

Risi, brevemente, in risposta. La stretta di Francy non sembrò diminuire e capii che se l'amore per Parker non poteva essere stato autentico, quello doveva esserlo, a tutti gli effetti.

All’amore avrei potuto continuare a crederci.

E lì, in quel momento, tradii definitivamente le parole di Francy.

Non ero evidentemente la ragazza più coraggiosa che potesse conoscere. Di coraggio in realtà non ne avevo.

Se lo avessi avuto, non ci sarebbe stata quella paura i giorni prima, con Parker, e forse non mi sarei fatta poi così tanto male. Se fossi stata coraggiosa non avrei provato a fare del male a Parker, parlando di suo padre prima.

Non ero evidentemente coraggiosa, né la persona buona che pensavo di essere.

Ma forse dovevo in ogni caso smetterla di darmi etichette: ero Evelyne, punto.

Cosa importava poi?

Importava forse che mi fossi sempre detta che Evelyne Gray non piangeva?

No.

Soprattutto perché Evelyne, lì, in quel momento, era appena scoppiata a piangere.

 

 

Mi scostai i capelli all'indietro, inumidendomi le labbra e chiudendo per qualche breve secondo gli occhi.

Mi bruciavano.

- Gray, ti senti bene? - Chiese il professor Hoppus, giratosi in quel momento dalla sua postazione alla lavagna, con il gessetto sollevato e indeciso. Aveva lasciato a metà una "x".

Tentai di sorridere e mi ritrovai a riuscirci discretamente. - Certo.

Mi sembrò di sentire una qualche specie di risata, in classe, ma non volli identificarla.

Era strano come le cose cambiassero col tempo.

L'ora di Trigonometria era sempre stata particolare: c'era uno strano miscuglio di fauna, tra quei banchi, di cheerleader, membri del coro, Francy ed io, poi i popolari: Clark, Billy e Parker, nei loro ultimi banchi; quattro file precise dietro la mia testa.

Quella varietà a inizio anno mi aveva lasciata indifferente, per poi essere odiata a causa della presenza di Parker, ma pian piano sopportata e alla fine passata quasi piacevolmente; quel giorno però l'ora di Trigonometria non era umanamente possibile che riuscissi ad affrontarla.

Ma non avevo potuto perdere nemmeno un secondo delle lezioni successive alla pausa pranzo, successive al tentativo di recupero in bagno, prima che suonasse la campanella: Francy mi aveva fatto capire, pur con tutto l'affetto del mondo, che mi stavano controllando, i prof e la preside, e la scenata a mensa era già stata di troppo oltre gli schemi. Se l'e-mail fosse stata veritiera io l'avevo dimostrato definitivamente con quelle urla e quella rabbia; non erano prove, ma di sicuro indizi. E non potevo fornirne altri assentandomi dalle lezioni quando non succedeva mai.

Nemmeno Trigonometria era evitabile.

E nemmeno Parker.

Mi passai ancora la mano tra i capelli, che sentivo sempre più sporchi, quasi risentissero di tutte le bugie che mi avevano circondato, per poi cadermi addosso, come una patina unta.

Non era evitabile, ma avevo mantenuto la promessa e non l'avevo guardato.

Avevo sentito, mentre entrava in classe, non la sua presenza, come in un fantascientifico film rosa, ma le occhiate di scherno dell'intera classe.

Perché, seppur nessuno fosse venuto a conoscenza dei particolari, tutti si erano resi conto del tono della conversazione: ed era sembrato molto simile a un rifiuto. A un'umiliazione pubblica. La Gray che veniva respinta da Parker.

Le occhiate erano poi di sicuro rivolte unicamente a me: e come sempre era la prova che le parole pesassero solo su di me; su di lui mai.

Risi da sola, piano, amaramente: perché lui ne usciva sempre vincitore. Sempre. Lui era la mia punizione, senza il divina, solo una punizione, e io ero la vittima, eternamente la vittima destinata a soccombere: non c'era via d'uscita. Niente di più ingiusto. Niente che avrei voluto cambiare di più, pur non riuscendo a farlo.

- Vengo a casa tua oggi? Ci guardiamo "L'esorcista" con tua zia e mangiamo una pizza. - Propose Francy, scarabocchiandomi leggermente su una mano.

Scossi la testa, sentendomela quasi rimbalzare all'interno del cranio. - Ho detenzione. - Ricordai a entrambe e cercai invece di eliminare dalla memoria il motivo per cui ci ero finita.

A Francy sfuggì un verso di fastidio. - Vero. Non puoi semplicemente evaderne?

E' curioso come si cerchi di comportarsi normalmente, quando le cose non vanno.

In realtà risultava tutto anche più facile di quanto avessi creduto. Il merito era del pianto in bagno, ma a quello cercavo di pensarci il meno possibile.

- Carino il riferimento al carcere, ma no, non voglio subirmi qualche settimana in più di punizione per averla saltata, a poche dagli esami finali. - Risposi e prendendo un bel respiro mi misi a copiare gli appunti nuovi sul quaderno. Fui in parte grata al professor Hoppus che ci stava evidentemente sentendo chiacchierare, ma fingeva di non accorgersene. - Poi, in ogni caso, tu dovevi uscire con Kutcher ...

Esitò e capii il suo stupido disagio: lei che aveva praticamente il ragazzo, amico di Parker; io che stavo male per il secondo.

- Non ci pensare nemmeno. – Misi in chiaro, senza guardarla. - Non dargli buca. Ci esci, te lo baci e ti diverti.

- Ma... - Provò ad opporsi, in fretta.

- Sto bene. - Proclamai, continuando a non incrociare i suoi occhi. - Il peggio è passato: in bagno mi sono sfogata. Adesso finiscono le lezioni, subisco detenzione studiando un po' per domani, poi vado a casa e dormo. Tutto va bene, sul serio.

- Non posso uscire tranquillamente se...

La bloccai ancora e finalmente mi voltai verso di lei. - Sto meglio a sapere che non ti tormenti inutilmente per me e che sei fuori a divertirti! E' meglio così, Francy; grazie per tutto il resto, ma non preoccuparti. Sto bene, sul serio. - E sorrisi: il gesto suonò finalmente naturale. Abbastanza da ricevere un'occhiataccia da Hoppus.

Il rumore stridulo di una sedia che si spostava interruppe però il silenzioso ammonimento del professore.

Francy si girò lievemente, per guardare chi fosse stato; io mantenni lo sguardo saldo sul quaderno, per non correre il minimo rischio di incrociare un paio di occhi verdi. Ma che li visualizzassi così nitidamente in testa, al solo pensiero, non era già una trasgressione alla mia promessa?

Passarono solo un paio di secondi e vidi sfrecciarmi di fianco Billy che, serio, si lasciò cadere su uno dei banchi in prima fila, vuoto, sistemando le sue cose come se niente fosse.

In classe partì un lieve brusio e anch'io ne sentii uno simile in testa: anche senza girarmi infatti sapevo che Max era rimasto da solo.

Clark si era messo, appena entrato in classe, come il giorno prima, in un banco il più lontano possibile da quello di Parker, e ora anche Billy, che era sempre stato alla sua sinistra, come una presenza fissa, aveva cambiato postazione.

Le motivazioni di Clark erano evidenti, ma quelle di Billy...?
Mi persi un attimo a guardare i corti ciuffi biondi, mentre lui, impassibile, apriva il libro a casaccio, non badando alla lezione che continuava nonostante quell'interruzione.

Francy non commentò e fece finta di niente, per non dare peso a quel ragazzo che poteva facilmente essere collegato a Parker.

Anch'io provavo a non pensarci e a guardare la lavagna, ma gli occhi mi tornavano sempre sui capelli chiari a poca distanza; la testa alle quattro file dietro di me. Guardavo i ciuffi biondi e intanto pensavo, ancora, a tutte le bugie che Parker mi aveva raccontato: al fatto di avergli dimostrato, come una perfetta stupida, idiota e debole, quanto tenessi a lui, quanto mi piacesse.

Mi ritrovai col respiro accelerato, come se stessi correndo insieme a tutte quelle immagini e a tutte quelle parole che mi risuonavano nell'orecchio.

Parker aveva parlato di "cedere", nella sua scommessa, ma non si era limitato a quello: sarebbe bastato interrompere tutto dopo il bacio a casa sua, sul ripiano della cucina, lì avevo già ceduto a lui, fisicamente; ma no, lui era dovuto andare avanti, fino a farmi innamorare di quello che avevo creduto fosse lui. Era stato crudele; era stato orrendo; era stata la mia rovina, più di tutte. E l'aveva voluto: aveva voluto che mi innamorassi di lui e sapeva di avercela fatta, nonostante si fosse limitato a parlare di "cedere".

Poi ebbi un'altra specie di rivelazione, in quel momento: le parole di Parker avevano funzionato infatti come un passe-partout e tanti lucchetti si erano aperti; lucchetti che mi avevano reso incomprensibili certi suoi comportamenti, certe parole.

E capii, in quel momento, che lui invece aveva solo voluto farmi cedere fisicamente all'inizio: non aveva forse smesso di parlarmi, subito dopo quel bacio a casa sua? Poi mia zia era stata male e lui era tornato da me, ma, se non fosse stato per quello, tutto si sarebbe chiuso lì.

Fissai il quaderno e la punta della mina appoggiata al foglio.

Se non fosse stato per quella visita all'ospedale, mi sarei salvata? Lui aveva vinto la sua scommessa, con quel bacio, e io non mi sarei mai accorta di quello che provavo per Parker, né di altro.

Avrei continuato ad essere arrabbiata, furiosa con lui e con quei comportamenti che non avevo capito – ma in quel momento ci riuscivo, - per qualche giorno, settimana, forse un mese. Poi basta. Mi sarei salvata.

Invece aveva dovuto continuare. E adesso quando mi sarebbe passata davvero?

Perché era venuto a trovarmi?

La mina oscillò avanti e indietro e continuò a farlo, come se non fossi stata io a tenere in mano la matita.

Mi aveva voluto così tanto male, per continuare quella presa in giro?

E che senso aveva avuto quel regalo di compleanno? Solo per farmi innamorare?

E la storia delle mani? Che me le avesse strette, seppur per così poco, baciandomi? Aveva trascurato la sua regola di non farlo con nessuna solo perché io mi ero dimostrata un osso più duro delle altre?

E quando mi aveva dato le spalle, prima di dirmi di essere andato con Dawn solo perché pensava troppo a me, in quel momento, non guardandomi negli occhi, aveva elaborato l'ennesima bugia?

Di sicuro doveva avergli fatto un gran schifo baciarmi, sfiorarmi, togliermi i vestiti, così tanto che era ovvio che non fosse riuscito a fare di più.

Ma così aveva avuto la prova che io ero innamorata di lui: io, una povera verginella, acida, che gli avevo chiesto per due volte, prima senza parole, poi con quelle, di fare l'amore.

E avevo detto amore.

L'avevo detto ad alta voce.

Mi ero chiesta dove sarebbe finito il mio "Ti amo", che non gli avevo mai detto e che in quel momento si rivelava inutile, falso, perché mi ero innamorata di qualcosa che non esisteva, ma quelle due parole le avevo già dette, la sera prima, con quella richiesta.

E poi c'era stata l'e-mail, dove mi accusava: aveva avuto ragione, non poteva esserci modo migliore di farmi capire la verità e tutte le sue bugie, che quello.

Non capivo solo perché non avesse inviato anche le foto, già che c'era. Gliene poteva importare qualcosa, alla fine?

No, ovviamente no.

La matita si muoveva sempre più e appoggiai con forza la mano sul banco, per fermarmi.

Cercai di nuovo con gli occhi, con uno strano nodo in gola, i capelli di Billy, ma finii per sbaglio sul profilo di Clark, vicino alla finestra, impegnato a guardare fuori.

E il pugno a Clark? Anche quello era stato parte del piano?

Probabile. Stupido, però praticamente certo.

E mi sentii in colpa, tremendamente: per essermi accanita così tanto su di lui, per colpa di un ragazzo che alla fine mi aveva mentito, che era stato peggiore di quanto immaginavo fosse Seth.

E ricordai le parole di Luke: io a Clark non avevo davvero chiesto scusa.

Non ancora.

Provai a cancellare ogni traccia di Parker dalla mia testa, concentrandomi su quel che rimaneva della lezione e sull'idea di chiedere scusa a Seth.

Non sollevai più la mano dal banco, per controllare se avessi smesso o no di tremare, ma mi sentii meglio.

Mentre realizzavo tutto quello, la campanella suonò.

- Quindi, sicura? - Chiese Francy, scattando in piedi come il resto della classe, non aspettando nemmeno che il professore finisse di parlare.

- Io a detenzione, tu con Kutcher: così dev'essere e così sarà. - Provai a scherzare, ma la voce mi uscì così roca che temetti, impallidendo di colpo, di aver appena pianto.

Francy fece una smorfia, cominciando a sistemare le sue cose nello zaino. Io mi passai velocemente una mano sulla guancia, ma non sentii traccia di lacrime e ripresi a respirare.

- Va bene... - Si arrese, alla fine. - Ma se cambi idea ceniamo insieme stasera. - Propose, abbozzando un sorriso.

- Vuoi davvero mangiare quello che cucina mia zia? - Feci, e con tutto quel sollievo di non essermi trovata lacrime, mi arrischiai anche a fare una risata.

- Ovviamente prenderemmo pizza d'asporto. - Precisò.

- Ah, ecco! - Infilai il libro nella tracolla e finalmente mi alzai anch'io. - Ti dirò, comunque.

Francy annuì, ma guardò alle mie spalle, incupendosi di colpo.

Capii dalla sua occhiata che Parker fosse a pochi passi, probabilmente vicino a Billy. Non mi girai: non l'avrei più guardato, mi ripetei.

- Allora a dopo o a domani. - Tentò in fretta di recuperarsi e mi schioccò un bacio sulla guancia, provando a fare come al solito; mi strinse però un po' troppo il braccio per sembrare davvero normale.

Annuii, fingendo di non essermi accorta di nulla, e in quello stesso momento, con la coda dell’occhio, vidi una testa bionda passarmi di fianco.

Mi ritrovai ancora a concentrarmi su Billy.

Poi, il pensiero di chi avessi alle spalle mi scosse e uscii, seguendo a ruota Francy.

Oltrepassata la porta una parte di me si congratulò, l’altra, quella ferita, continuava a sanguinare.

 

 

 

La professoressa Gardiner, quella di Storia, si occupava quel giorno di vigilare i giovani teppisti della nostra scuola.

Tra cui mi trovavo io.

Un po' spaesata, mi trovavo in un angolo della classe, vicino alle finestre, con il libro di Biologia davanti, lontana dalla maggior parte degli studenti che preferivano stare attaccati alla porta, pronti a fuggire, io ero invece pronta ad evitare contatto umano. Il ragazzo a due banchi di distanza guardava prima accigliato le mie pagine evidenziate e annotate e poi con fare ironico me.

- Conoscete le regole, direi. - Iniziò la prof, camminando avanti e indietro, osservandoci. I suoi occhi si fermavano spesso su di me, in uno strano modo esitante. Ero sempre stata la sua cocca, ma chissà se sapeva perché ero finita lì: in quel caso dubitavo che avrei ricevuto altri sorrisi pieni e amichevoli.

In risposta ci fu un coro stonato d'assenso.

La Gardiner continuò comunque: - Per un'ora dovrete stare in questa classe, per meditare sulle motivazioni che vi hanno portati qui, e possibilmente pentirvene e capire che non dovreste tornare a farlo mai più!

Seguì un silenzio ben poco interessato: vedevo già due ragazzi in ultima fila appoggiati con stanchezza sul banco; una tirare fuori la limetta dallo zaino.

Io invece annuii, muovendo il capo di pochi millimetri e rendendo il gesto quasi impercettibile: me n'ero già pentita di ciò che mi aveva portata lì.

- E' vietato uscire, messaggiare, a proposito, passatevi questa scatole di banco in banco, voglio tutti i cellulari! E poi mangiare, bere e soprattutto chiacchierare. Un'ora di silenzio. - E finì così, sedendosi alla cattedra, dopo aver allungato la scatola fino al primo banco.

Tutti obbedirono, visibilmente scocciati, e la scatola si riempì di un bel e ricco carico, per poi ritornare fino alla professoressa.

La Gardiner abbandonò in parte la divisa da dura e ci sorrise.

A quel punto la porta dell'aula si aprì.

Ci voltammo tutti, chi più o chi meno interessato per l'interruzione.

Io in particolare rimasi di sasso nel vedere Luke. Il Luke del mio giornalino.

Gli occhi scuri guardarono con fare di scuse la professoressa: - Ho fatto tardi!

La prof abbozzò un'occhiata di rimprovero, per poi agitare lo scatolone con i cellulari: Luke fece rapidamente i pochi passi che lo distanziavano dalla cattedra e poi, con noncuranza, come non pensandoci, tornò verso gli ultimi banchi e si sedette nell'unico vuoto al mio fianco.

- E ora silenzio! - Ricordò la prof Gardiner, ma sorrise tirando fuori il giornale.

Luke finì di sistemarsi, appoggiando lo zaino a terra, sfilandosi la giacca; continuavo a guardarlo, sconcertata per la sua presenza.

- Cosa ci fai qui? - Bisbigliai velocemente. La professoressa o non sentì, nonostante l'assoluto silenzio, o l'articolo che stava leggendo era più interessante del normale.

- Sono qui per te. - Rispose, con un tono altrettanto basso. Mi guardò dopo un principio d'esitazione, ma mi evitò un'ulteriore domanda. – Non dovrei davvero essere qui. Non sono in un punizione. – Mi informò.

- E perché allora? – In realtà avevo anche paura di sapere la risposta. Mi agitai sul posto toccando il libro di Biologia che in quel momento sembrava così didatticamente rassicurante.

- Sai di mia zia?

La risposta mi lasciò sconcertata. – Tua zia?

- Sì, mia zia! Quella che lavora in segreteria e che ogni tanto bazzica per i nostri laboratori. Miss Powell. Ieri mattina ha scoperto di essere incinta. – Mi informò.

Lo guardai, continuando a non capire come io potessi essere coinvolta in tutto quello. – Forse me l'avevi accennato in passato, ma quindi? Cioè, okay, congratulazioni, ma…

– Ho saputo della tua punizione da lei! Sai è stata anche colpa sua se la preside ti ha beccata. Diciamo che ha avuto una leggera nausea proprio nel suo ufficio e la preside, schifata, ha accompagnato Joe verso lo sgabuzzino.

Non seppi bene se arrabbiarmi con quella parente di Luke o se incupirmi del tutto per il riferimento allo sgabuzzino e a quello che era accaduto al suo interno. A togliermi il dubbio intervenne la professoressa Gardiner che, girando con forza una pagina del giornale, ci fece capire che il nostro tono iniziava a essere troppo alto.

Cominciai a capire di essere ancora nelle sue grazie, e che la mancanza di intervento era dovuta solo al suo amore incondizionato.

Luke guardò circospetto la prof di storia prima di proseguire, con più cautela. – Ma non è veramente questo il motivo per cui sto sprecando del tempo per te.

Sgranai leggermente gli occhi, sorpresa da quella sua improvvisa serietà, che lo faceva sembrare più grande, e dalla frase.

Deglutii, persi un attimo tempo lanciando un’occhiata verso la cattedra e verso il ragazzo lì vicino che stava chiaramente origliando.

- Cosa? – Mi decisi finalmente a chiedere.

Luke si sporse ancora di più verso di me, distogliendo però lo sguardo e puntandolo verso la lavagna. Con quel modo di fare mi ricordò comicamente qualche telefilm poliziesco e, probabilmente, se fossi stata dell’umore giusto, ne avrei riso.

- Ti ho detto che mia zia è una delle segretarie, no?

Annuii, un po’ frustrata da quel suo continuo tentennare. – Vai avanti, Luke.

- Beh, anche se in teoria non potremmo, stamattina, io e mia zia…

Mi passarono davanti agli occhi disgustose scene di incesto.

- Eravamo nel suo ufficio, prima che iniziassero le lezioni, e la stavo aiutando perché ha dei problemi al computer e con certe cose me la cavo abbastanza bene – spiegò e in qualche modo mi sentii sollevata, mentre eliminavo le immagini precedenti. – E beh, ha poi guardato sulla posta elettronica della scuola. Devi sapere che tutte le segretarie e la preside hanno libero accesso all'unico indirizzo e-mail scolastico. E’ fatto apposta perché la Generalessa, essendo negata anche lei col computer, si perdeva spesso molte e-mail e…

- Hai visto l’e-mail su di me… - Conclusi quello sproloquio, incupendomi.

Luke rimase un attimo zitto, poi annuì. – E’ stata proprio mia zia a farla poi notare alla preside… Perché non mi hai mai detto niente di tutto questo? – Chiese, realmente ferito, dal tono di voce e dallo sguardo.

Boccheggiai, sentendomi arrossire, ma di una vergogna sporca, colpevole. Alla fine parlai: - E cosa potevo dirti? Luke, di quei soldi, dei compiti… Lo sapeva solo Francy e… - Feci, ammettendo chiaramente le mie colpe, non avendo la forza di trovare altre scuse, di dire altre bugie.

Mi guardava, ma non riuscivo a capirne lo sguardo. – E quelli a cui passavi i compiti… Quanti sono stati? – Chiese, prammatico, senza nessun giudizio, indicatore ciò della sua preoccupazione: Luke di solito commentava e giudicava tutto. E portava sfiga.

- Non tanti… Ho iniziato l’anno scorso, avevo… Avevo davvero bisogno di soldi, mi ci sono ritrovata in mezzo senza nemmeno sapere come.

La Gardiner tossicchiò e Luke mi fece un cenno nervoso, invitandomi a tagliare e a dire il minimo indispensabile.

- Quattro ragazzi, l’anno scorso, erano dei Senior, se ne sono tutti andati da questa scuola. L’unico ancora presente è Seth Clark. – Spiegai, sentendomi a disagio a pronunciare il nome, proprio davanti a Luke.

Sgranò gli occhi, collegando quel fatto ai problemi in cui mi ero messa con Clark, due giorni prima. – E’ stato lui! – Concluse, con la stessa logica semplice che avevo usato anch’io, all’inizio, prima di scoprire…

Mi sentii di nuovo male, e desiderai di nuovo il mio oblio, quella specie di atarassia a cui mi avevano portato le lacrime, in bagno con Francy, e l’assenza fisica di Parker.

Mi sentii peggio, sapendo che avrei anche dovuto spiegare tutto. Dovevo, lo dovevo a Luke e a quella premura che non mi sarei mai spiegata.

- No. – Scossi la testa, per poi inumidirmi le labbra. – Clark… Le foto le aveva fatte Parker, a me insieme a Clark. Parker mi ha poi minacciata, da ottobre, con quelle foto, è per quello che abbiamo iniziato a farci vedere insieme e…

Mi interruppe, sollevando bruscamente la mano. – Mi spieghi allora cosa cazzo ci facevi in uno sgabuzzino con Parker?! Che ricatto era?! Dio mio, Evelyne! – Alzò il tono, arrabbiatissimo, e la prof Gardiner ci guardò a disagio, senza però dire niente. - Lo sapevo dall'inizio che con Parker c'era qualcosa ben al di là della norma. Ma questo? Avresti dovuto parlarne per lo meno con noi! Come hai potuto pensare di cedere a ricatti del genere?!

Lo pregai con lo sguardo di calmarsi e si morse le labbra, tacendo e invitandomi a proseguire. Aspettai che la prof tornasse al suo giornale, poi continuai, più cauta di prima. – No, non è come pensi. Dovevo semplicemente fare della roba che a lui rompeva fare, tipo fare il bucato, pulirgli camera, portargli lo zaino… - Avvampai, sentendo come quel ricatto fosse in parte ridicolo. – Poi pian piano ha smesso, credevo fossimo diventati amici e poi… - Esitai, sempre più triste. – Poi siamo finiti in quello sgabuzzino. – Conclusi.

Lui tacque per un minuto che sembrò eterno, cercando di ragionare su quello che gli avevo, per la prima volta, spiegato.

- Fammi capire. Passi che non hai detto nulla a nessuno e ti sei fidata di questo patto con lui. Passi il potersi affezionare a una persona, nonostante l'inizio più che burrascoso. Passi che siate diventati amici o di più. Ma allora, se è come dici, perché avrebbe mandato quell'e-mail?

- Perché in realtà io sono arrivata da sola a questo punto. C’era una scommessa in gioco parallelamente. Volevano solo occupare il tempo con me. Parker non è mai diventato mio amico. – Spiegai, con poche parole. – Voleva farmi “cedere”, farmi … - Non riuscii a pronunciare la parola “innamorare”, e quella rimase sospesa in aria.

Luke, sempre più sorpreso, sembrò capire.

- Ha inviato quell’e-mail solo per farmi capire come mi avesse mentito e... basta. Ha promesso che non manderà le foto, quello non gli interessa.

Palesemente stanco, si sfregò gli occhi, come faceva sempre quando pensava. – Che cazzate.

Lo guardai non capendo, un po’ scioccata da quel ripetuto uso di parolacce che non gli sentivo mai dire. – Non sono…

- Okay, non lo sono, ma lo sembrano! – Fece, agitandosi e controllandosi le mani in un gesto nervoso. – Non ha senso. E’ complicato da morire e ci sono… Bah. – Scosse la testa, chinandosi verso la borsa, mentre guardava la Gardiner che ormai aveva perso le speranze di imporre un qualche tipo di autorità sulla classe, che chiacchierava tutta, avendo seguito il nostro esempio. – Visto che sai allora che è stato Parker rimane tutto un po’ inutile – si lamentò.

Lo guardai senza capire.

Colse il mio sguardo, porgendomi un foglio: c’era scritto sopra un indirizzo e-mail e un altro paio di appunti.

- Ho avuto poco tempo e sono riuscito solo a ricopiarti l’indirizzo del tizio, insomma, di Parker, ero riuscito a scoprire che è stato creato in un luogo pubblico, probabilmente la biblioteca in centro, o uno dei computer della scuola e avevo intenzione di lavorarci ancora sopra, ma visto che sai che è stato Parker rimane tutto un po’ inutile…

Guardai il foglio e poi Luke, leggermente incredula. – Come hai fatto?

- Ragazzi? – Pregò la Gardiner, piagnucolando a indirizzo dell’intera classe. Tutti noi, anche se me ne dispiacque, la ignorammo.

Fece spallucce. – L’indirizzo mi è bastato copiarlo. Ti ho detto che mia zia è la segretaria, la aiuto di continuo. Quindi niente, poi ho provato a risalire all… - Si bloccò, vedendomi spaesata. – Vabbè, ti evito i dettagli, ma si tratta di un luogo pubblico appunto, al 90% la biblioteca in centro. Parker non voleva farsi beccare ovviamente. Ma in ogni caso avrei potuto provare a risalire alla password e ad entrarci, ma a questo punto non serve più… - Sembrò deluso da se stesso.

Elaborai quello che mi aveva appena detto e finii per sorridere. – Grazie comunque, Luke.

Lui sembrò tornare il solito, perdendo la veste dell’hacker improvvisato che aveva momentaneamente assunto. – E’ da un anno che ci tieni nascosto delle cose, si notava e, dopo aver visto quell’e-mail… Insomma, volevo aiutare… - Borbottò. - D'ora in poi, per favore, ricordati che non sei sola a combattere contro queste cose.

- Grazie – ripetei e guardai l’indirizzo che Parker aveva scelto. Cercai di trovare un senso alle lettere e ai numeri, ma non collegai niente a niente: mi resi solo conto di come tutte le cose che pensavo di aver capito su di lui fossero solo frottole, non avevo niente di veramente suo. Non avevo capito niente. Non avevo conosciuto nessuno.

- Anche perché, se davvero Parker è riuscito ad arrivare a tanto, non vorrei che anche questa nuova promessa di non inviare più nulla si riveli essere fasulla.

Impallidii, accasciandomi leggermente sul banco. - Luke, ti prego. Non hai mai portato fortuna.

In risposta sollevò le mani in segno di resa, ma decisamente innervosito. Esitò un attimo: - Comunque come stai?

Incrociai ancora le lenti di Luke, ma non risposi.

- Insomma, se l’e-mail è per la fine della scommessa, allora tu hai… - Blaterò, bloccandosi di colpo, probabilmente capendo tardi, forse anche dai miei occhi, di aver sbagliato ad aggiungere quelle cose.

- Sì. – Confermai, sapendo solo come sarebbe continuata quella frase. – Ma erano tutte bugie, quindi …

Non sembrò capire il mio “quindi”, ma non mi chiese ulteriori spiegazioni.

Distolsi lo sguardo e infilai il foglio tra le pagine del libro di Biologia.

Poi, con fare stanco, dopo aver dato un’ultima occhiata all’indirizzo e-mail, mi misi a studiare.

In qualche modo, mi sentii un po’ meglio.

 

 

L'ora di detenzione sembrò eterna.

I minuti sembravano non trascorrere, come quando si aspetta qualcosa con tanta ansia. Non pensavo di star aspettando qualcosa di preciso però.

- Potete ritirare i vostri cellulari. - Ci annunciò la professoressa Gardiner che si era calmata da quando era riuscita, alla fine, con non poco impegno, a imporre il silenzio al resto della classe.
Io, seppur dispiaciuta, non ero riuscita a spiaccicare più parola con Luke.

Mi alzai insieme a lui, dirigendomi muta verso il mio cellulare.

Trovai subito in anteprima un messaggio di mia zia che mi chiedeva quando sarei riuscita a tornare a casa.

- Eve. - Mi chiamò di nuovo Luke, distogliendomi dai nuovi pensieri. Ora temevo più che mai l'incontro con mia zia, ma non per le motivazioni del giorno precedente.

Lo guardai, ma aspettò che ci incamminassimo fuori dall'aula prima di continuare a parlare. - Io nei prossimi giorni cercherò di tenermi buona la zia e di risolverà i problemi che ha sul pc il più lentamente possibile, così magari riuscirò sempre a dare un'occhiata a cosa succede sull'indirizzo di posta, non si sa mai.

Rabbrividii di nuovo. - Luke, le tue profezie mi hanno sempre portato male, ripeto, smettila. - Il tono mi uscì così sinceramente alterato, da farmi sorridere leggermente.

Lui sospirò. - Appunto per questo dovresti ascoltarmi. Comunque la generalessa è tendenzialmente sempre la prima ad arrivare, quindi teniamo conto anche di quello.

Continuai a camminare, pensando seriamente alla questione. Anche con l'aiuto di Luke, come avremmo fatto a monitorare la situazione?

Ero inoltre sinceramente disgustata all'idea di dover proseguire per giorni con questa ulteriore ansia che mi teneva sempre legata a Parker.

Avrei voluto credergli e chiuderla lì. Dimenticare il prima possibile.

Però quel che diceva Luke restava vero.

Non avrei mai creduto che Parker potesse andare oltre, come gli avevo confidato il giorno prima, ma non avrei mai nemmeno pensato di ritrovarmi in quell'esatta situazione.

- Senti, Luke... - Iniziai, mentre ci avviavamo ormai verso l'uscita dell'edificio. - Hai detto di essere a conoscenza delle credenziali per accedere alla posta scolastica. Non potremmo controllarlo da casa anche? Prima che magari lo vedano nell'ufficio stesso la mattina presto.

Lui scosse la testa. - L'accesso è consentito solo da quei specifici computer.

Ammutolii, non sapendo nemmeno che qualcosa del genere fosse possibile. - Ah...

Lui abbozzò un sorriso. - Eve, però è una buona cosa, considera che loro possono così controllare le notizie soltanto quando sono a scuola e, così, almeno teoricamente, non dovremmo preoccuparci di tutti gli orari extra scolastici.

Storsi un po' la bocca, non capendo come potessero aver ideato un sistema del genere, che andava contro la stessa efficienza scolastica. - In effetti hai ragione... Anche se non capisco bene come funzioni il tutto.

- Per quello lascia fare a me...

- Grazie. - Sorrisi, sempre un po' mestamente e stringendomi alla giacca primaverile che avevo addosso.

Fuori dal cancello scolastico ci salutammo e io mi diressi verso la mia solita postazione auto.

Cercavo di pensare il meno possibile, intenta così a fissarmi i piedi che per lo meno avanzavano.

Notai quasi all'ultimo la presenza di un'altra persona e, alzando lo sguardo, sobbalzai alla vista dei capelli chiari del ragazzo che mi fronteggiava.

Persi un battito, ma lo recuperai subito focalizzando meglio chi mi si parava di fronte.

- Hans, cosa vuoi? - Chiesi, molto freddamente.

Era appoggiato alla mia macchina, esattamente dalla portiera, senza alcuna intenzione di spostarsi per permettermi l'accesso. Non rispose.

- Togliti, non ho proprio voglio di vedere te né nessuno della tua combriccola.

- Io non c'entro nulla. - Fu la prima cosa che ribatté.

Sentii montarmi la rabbia e cercai contemporaneamente di sedarla il più possibile.

- Credi che mi importi? E, soprattutto, pensi che ti creda? Sei il suo migliore amico, lo sapevi e come minimo l'avrai anche sostenuto. Non ho mai pensato né preteso che fossimo amici, ma mi disgusti anche tu per aver sempre finto di essere in rapporti amichevoli con me e di sostenermi in quella baggianata con Parker. - Sputai tutto d'un colpo, andando dal retro della macchina per aprire il baule e sistemare la mia borsa. - Hai collaborato anche tu perché cadessi completamente nella sua trappola.

Quando feci per chiudere il baule, il suo braccio bloccò il gesto, parandosi di fronte a me, in una presa di posizione fisica, quasi minacciosa.

Lo guardai bene in volto.

- Non ho finto nulla e non ne sapevo nulla. - Rispose a tono, serio più che mai. Non ero abituata a vederlo così.

- Perché dovrei crederti? - Rincarai la dose, parandomi dietro a un tono ironico, dissimulando il disagio e la strana soggezione. - E' il continuo del vostro scherzetto?

Palesemente irritato, mi fulminò. - No e sei una stupida, Evelyne. Ti sto dicendo che non ne sapevo niente e proprio per questo non credo a una singola parola di quello che Max ti ha detto oggi. - Come a ribadire il concetto, fu lui a chiudermi con un colpo secco il baule ancora aperto.

Finsi di guardarmi intorno con apprensione. - Oh, dov'è Parker? Sta continuando lo scherzone? Pensate che sia così fessa da ricascarci?

Lo superai, volevo sicuramente fare la dura, ma il mio cuore aveva sobbalzato ad ogni singola parola. Cercai di tenerlo a bada, iniziando a soffrirne fisicamente.

- Evelyne, sono serio! - Il tono era sempre più alterato. - Non so perché è successo questo oggi e non me l'ha voluto spiegare. Mi ha semplicemente ripetuto la storiella che ha detto anche a te. E che la scommessa con Clark di Halloween era ben diversa da quel che mi aveva raccontato, non era un semplice bacio quello richiesto. Ha anche detto che non me l'aveva spiegato per bene solo perché sapeva che l'avrei considerata una vera e propria cazzata. Ma non è vero, Evelyne. Ti sto dicendo di non credergli.

Nonostante la mia volontà di proseguire dritta verso casa e di iniziare il prima possibile il mio processo di guarigione da Max Parker, non potei fare a meno di starmene impalata lì, ad ascoltare, con la mano ferma e quasi tremante sulla maniglia della portiera.

- Non so cosa abbia combinato davvero, ma c'è qualcosa sotto. Mi sono anche incazzato con Max perché continuava a insistere e a non dirmi la veri...

Lo interruppi bruscamente: - Non sarai troppo innocente anche tu, Hans, a sto punto?

Mi guardò incredulo, non capendo.

- Magari non hai semplicemente capito le persone intorno a te. Hai questa mania di cercare di essere sempre due passi avanti alle mosse e decisioni degli altri. Se stavolta non ci sei riuscito, non significa per forza che siano gli altri a mentire. - Aprii la portiera, in realtà rossa in viso per come mi stavo comportando con Billy.

Infatti, inconsciamente ormai, dopo quelle poche frasi, gli credevo: Billy non c'entrava con quello che era successo.

Mi bloccò per un braccio, strattonandomi e avvicinandomi. A fatica, nel silenzio, sollevai lo sguardo verso lui.

- Evelyne, so che stai male.

Un ormai familiare calore cominciò a irrorarmi gli occhi. Mi morsi le labbra per trattenermi.

Lui chiaramente lo notò e alleggerì la serietà dei lineamenti, accennando un sorriso. - Mi dispiace per star infierendo ora. Lo so che non avresti voluto più sentir parlare di Parker.

Mi sfuggì un piccolo singhiozzo dalle labbra e sentii le braccia di Billy che mi avvolgevano.

La sorpresa interruppe l'inizio di pianto e, dopo un attimo di esitazione, mi lascia avvolgere dal calore, appoggiando il viso contro la sua giacca.

- Non volevo farti del male anch'io. Però volevo dirti davvero che è successo qualcosa. Tu non devi credere a quello che Max ha detto oggi.

Risi senza allegria. - Mi ha sempre presa in giro. Ieri mi prendeva per il culo, dicendomi appunto che non sono mai riuscita a capire quando mi mente o meno. Infatti non l'ho mai capito in questi mesi, altrimenti non sarei a questo punto.

Si interruppe. - E se appunto avesse voluto dirti qualcosa, per prepararti a oggi invece?

Mi tolse il fiato il palese desiderio che fosse come diceva Billy.

Le sue braccia continuavano a stringermi. Il ricordo di altri abbracci, con un ben altro ragazzo, mi diede un altro colpo al cuore. Billy mi teneva tra le braccia e non provavo nulla, sentivo le sue mani sulla schiena in una stretta protettiva ma fraterna. Un'altra volta mi ritrovai a paragonare i gesti di Parker a quelli dei suoi amici, capendo sempre più come fossero stati diversi quelli del primo. O meglio, come li avessi sentiti diversi. Li avevo solo sentiti diversi, me l'ero inventato io. Tutto. Da stupida.

Sentì la mia esitazione, pur non capendola a pieno. - Secondo me è successo qualcosa. Non sarebbe logico tutto quel che è successo, tutto quel che ha fatto. Vorrei provartelo, ma non ne ho la minima idea, in queste circostanze, su come risalire a chi sia stato.

Mi allontanai leggermente, per guardarlo in volto. - Luke ha l'indirizzo da cui proviene l'e-mail di oggi. E' stata inviata da un luogo pubblico, probabilmente una biblioteca, non si capisce nulla. - Detto quello, mi staccai anche dal suo petto.

Non fece caso ai miei gesti e continuò a guardarmi, come pensando a qualcosa. - Eve, so che sei sconvolta da quel che è successo oggi, ma ragioniamo un attimo.

Il suo tono mi irritò e invece di ascoltarlo, salii in macchina. - Grazie, Billy, per ora, ma io sinceramente non so più a cosa credere o di chi fidarmi. Ho bisogno di tornare a casa e non di cedere a congetture o di cadere in altre trappole.

Mi bloccò la portiera per evitare che scappassi come avrei voluto.

- Ragioniamo un attimo! Per favore. Ieri Parker è stato in detenzione e poi doveva uscire con te, no? Quando avrebbe avuto il tempo di andarsene nella biblioteca e prendere tutte le precauzioni per inviare una e-mail di cui non fosse facile trovare il mittente alla prima?

Lo fissai, cogliendo il punto, ma non convinta. Anzi, ormai sentivo un'irritazione prudermi ovunque. - Billy, ho detto che non riesco a crederti. Poi come ho avuto tempo di tornare a casa e prepararmi io, così sarebbe riuscito lui a fare quel che voleva.

Lessi una quasi sincera esasperazione nei suoi occhi. - Ma se non fosse stato lui?! Eve, deve esserci qualcosa sotto. Io lo so che prova davvero qualcosa per te, non l'ho mai visto co...

- Vattene! - Urlai, esasperata e ferita, quasi bruciata, da quelle parole che non potevo sentire in quel momento. - Vattene, lasciami stare. - Ripetei, con un tono di voce più basso.

Restò a fissarmi. Non so cosa vide, ma lasciò la presa e mi permise di chiudere la portiera.

Nessuno disse più nulla e misi in moto la macchina.

Billy restò, lo vidi dallo specchietto, fermo a guardarmi mentre me ne andavo.

Mi lasciai uscire un verso d'esasperazione. Perché mi aveva detto quelle cose?

Per il resto del viaggio pensai a Parker. Cercando di cogliere note di certezza nei suoi gesti, nelle sue parole. Ormai però i miei pensieri portavano sempre alla sera prima.

Non potevo più credere a Parker.

Nemmeno a Billy.

Era stato Parker.

Tutto riportava sempre alla sera prima.

Potevo solo credere che avesse avuto qualche lieve senso di colpa, dovuto chissà a cosa. Ma era stato lui.

Parcheggiai nel mio cortile, ricordando con chiarezza Parker e il suo desiderio di avere una macchina del tempo, espresso mentre mi abbracciava nel parco.

Sbuffai amara, restandomene seduta. Piegai leggermente il viso verso il volante, appoggiandomici.

Aveva detto qualcosa di simile anche il giorno dopo essere andato a letto con Dawn. Entrambe le volte mi aveva ferita, per poi continuare col suo piano, ma aveva avuto quei piccoli pentimenti. In ogni caso, quello provava che mi avesse effettivamente fatto qualcosa prima di vederci.

Cioè inviare l'e-mail.

Esitai un attimo coi pensieri, ricordandomi di Billy. Quel ragazzo e le sue frasi mi ronzavano in testa e mi impedivano, in qualche modo, di cadere di nuovo nel buio, completamente, come mi era successo ore prima.

Mi morsi le labbra, cercando di ignorare quella luce, quella piccola speranza.

“Non sarebbe logico tutto quel che ha fatto”, risentii la voce di Billy.

In effetti, c'era qualcosa che stonava. Pur non considerando l'incoerenza dei comportamenti, i regali, Lizzy, le confidenze.

Perché mi aveva chiesto di uscire la sera prima?

Aveva già inviato l'e-mail. Infatti nella notte, dopo l'appuntamento, non avrebbe chiaramente avuto l'occasione di andare in biblioteca. Ma dunque perché aveva voluto vedermi, dopo avermi già fregata? I baci della mattina potevo spiegarmeli, con quelli mi aveva mandata in detenzione e fatto traballare la borsa di studio. Ma la sera? Gli era bastato quel che era successo dopo il suo compleanno? Avrei logicamente pensato di sì, ma...

Ma Parker quella mattina aveva parlato della notte precedente, riferendosi al vincere la scommessa, al mio “cedere”.

Avevo capito che faceva riferimento alla mia richiesta di “fare l'amore”. Quella aveva il significato di “cedere”.

Però, c'era qualcosa che non andava.

Scacciai via quei pensieri, prima che andassero troppo oltre con la fantasia e mi portassero solo a soffrire ulteriormente.

Capivo, terribilmente, di dover starmene con i piedi per terra e riprendere prima di tutto il controllo di me stessa.

 

 

Lizzy intanto doveva aver intuito qualcosa.

Mi aveva accolta col suo sorriso sarcastico, avevo evitato le solite domande insinuatrici, ma, invece di insistere come al solito, la sua foga si era presta calmata.

Ero sul divano insieme a lei a guardarmi un film. I capelli mi venivano accarezzati piano, a mo' di coccola.

Si guardava qualche programma a caso, mentre banalmente mi cullavo nel suo calore.

Maxyne tra le nostre gambe dormiva. Incredibilmente anche quella volta si era salvata dal diventare un gatto randagio. Tra le altre cose ormai anche Elizabeth la amava.

In quella bolla rassicurante intanto cercavo di non pensare a tutto quel che era successo, a Parker, Billy, Luke, Clark... Ma era chiaramente una impresa impossibile.

Ero sempre più confusa, ma di qualcosa ero certa.

Parker mi aveva ferita. Mi aveva direttamente uccisa. Aveva dimostrato di non tenerci a me, di avermi mentito.

All'ennesima brutta sensazione che mi pesava sul petto, mi alzai di scatto, facendomi quasi girare la testa. Lizzy, che si era evidentemente assopita, sobbalzò, facendo quasi volare Maxyne.

- Che fai? - Biascicò.

- Vado a fare un po' di spesa per stasera. Vuoi qualcosa? - Mi girai a malapena per lanciarle un breve e calcolato sorriso.

Mi osservò un attimo. - Vedi te, Eve.

Annuii, avviandomi verso il corridoio per prendere velocemente giacca e borsa.

Mi bloccai al suono della sua voce e ritrovandomela sorprendentemente alle spalle.

- Va tutto bene, tesoro?

Normalmente avrei riso di quel “tesoro” che tra noi stonava. Ma le vedevo in faccia che anche per lei non era un giorno qualsiasi.

Abbassai la testa, non essendo più convinta di scappare come prima.

- Niente, solo che non vedrai più Parker intorno a me. - Mi convinsi a dire.

Esitò. - E' per quello che è successo ieri? Eppure mi è sembrato che ieri sera fossi uscita tranquilla con lui e anche stamattina ti ho vista bene.

Scossi la testa, continuando a non guardarla. - Mi ha presa in giro.

Non rispose e il silenzio mi portò a guardarla in faccia. Trovai la perplessità in persona.

- In che senso?

- Lizzy, lascia stare. Mi ha mentito e mi sono fatta prendere in giro. - Cominciai a infilarmi la giacca.

- Ma a me non sembrava per nulla!

Le sorrisi aprendo la porta. - Nemmeno a me, ma è così.

 

Circa un'oretta dopo, mi infilai nell'ascensore, con una busta per mano.

Chiusi gli occhi insieme alle porte automatiche. Sospirai.

Ero contenta di essere uscita, riuscendo a svagarmi periodicamente di quei pochi secondi ogni volta prima che le immagini dei giorni passati e di quella stessa mattina ripiombassero su di me con violenza.

Però era da un po' che stavo vivendo quella permanenza fuori casa con una leggera angoscia. Il peso sul petto continuava ad aumentare, insieme alla sensazione di dover buttare qualcosa fuori.

Mi sentivo l'ansia addosso. Non il bisogno di piangere, ma di muovermi e fare qualcosa e non bastava fare la spesa e riempire buste.

Proprio mentre iniziavo a sentirmi mancare il respiro e una vera e propria ansia allo stato puro mi arrivava fino al viso, le porte si riaprirono e così i miei occhi.

Chi mi trovai di fronte mi scombussolò più dei miei pensieri.

Lui mi notò con ritardo, ma sorprendentemente ebbe la mia stessa reazione. Nonostante questo, non mi salutò nemmeno ed entrò, io gli passai di fianco, uscendo.

Me ne restai impalata mentre le porte si chiudevano alle mie spalle, mettendosi tra me e Seth Clark.

Non seppi bene cosa fare o pensare.

Nel dubbio, pur contenta di quella brutta sensazione che mi aveva cancellato l'ansia, andai verso la macchina.

Lasciai le buste, aprii la portiera ed esitai al momento di entrare nell'abitacolo. Ci volle poco prima che tornassi sui miei passi, chiudendomi alle spalle la macchina.

Riconobbi in poco tempo quella appartenente a Clark, grazie alle troppe forzate convivenze, e mi lascia cadere lì di fianco, abbracciandomi le ginocchia, senza però sedermi al suolo.

Appoggiai la fronte tra le braccia incrociate e respirai a fondo, cercando di recuperare un certo tipo di autocontrollo.

Mi ci volle un minuto, o forse più, per calmarmi; restai decisa sul posto, pronta ad aspettarlo e quando le gambe mi ressero mi sollevai.

Non so esattamente quanto passò prima di vedere uscire da quell'esatto ascensore la persona che aspettavo.

In un altro momento avrei riso della coincidenza, non aspettandomi che anche uno di quei ricconi potesse frequentare un supermercato da plebei, in quei secondi però riuscivo davvero a pensare a poco.

Nemmeno a ciò che esattamente avessi intenzione di dirgli.

Mi vide a metà strada, ma ovviamente continuò a ostinarsi nel far finta di nulla.

Quando ormai aveva aperto la macchina a distanza, per infilare le poche buste nel baule, mi decisi ad avvicinarmi.

- Seth, posso parlarti?

Mi guardò con sufficienza, con una smorfia che capii poco, ma che si abbinava al livido in volto, e senza nemmeno rispondere restò lì in attesa.

Respirai a fondo, cercando il coraggio per... non sapevo nemmeno cosa

- In privato? - Avanzai la richiesta, perché ci trovavamo pur sempre in un parcheggio sotterraneo e ogni parola rimbalzava tra pareti e colonne, con il rumore delle gomme che stridevano.

- Perché dovrei? Mi sembra già tanto che stia qui ad ascoltarti. - Sbuffò, spavaldo come nelle sue giornate migliori e chiudendo il baule.

Cercai di bloccarlo mentre si dirigeva verso la portiera del guidatore. Con un guizzo, mi parai di fronte a lui, bloccandogli l'accesso.

Mi guardò seccato, ma con una nota ironica impressa ai lati della bocca.

- Penso che tu ti sia già umiliata abbastanza, Gray. Sicuramente oggi non puoi avere le palle di sostenere un confronto alla pari con me.

Cercai di respingere la repulsione che avevo nei suoi confronti e mi limitai a dire quel che sentivo: - E' vero.

Sembrò sorpreso dalla mia docilità, in realtà nemmeno io la capivo, e mi guardò più curioso di prima, praticamente divertito. Il suo sguardo ispirava ben poca fiducia, però sostenni lo sguardo.

Sembrò soppesare qualcosa mentalmente. - Sali in macchina, parliamo qui cinque minuti e poi te ne vai. - E l'ordine aveva un non so che di sadico.

Ubbidii, ignorando il fatto che normalmente non avrei più voluto starmene da sola da qualche parte con Clark, però l'immagine di Luke in testa e la conversazione che avevamo avuto continuavano a rimbalzarmi in testa.

Lui non incentivò più la conversazione e si limitò a mettere su della musica di sottofondo. Non per creare atmosfera, ma per distrarsi e mostrare la noia nei miei confronti.

Ci badai poco perché avevo altro a cui pensare. Mi guardai le mani strette forte sopra i jeans.

- Volevo dirti...

- Che sono uno stronzo e blabla... - Mi fece il verso candidamente, sembrando minimamente toccato e continuando a ridersela. - Non hai visto ancora nu...

- Volevo chiederti scusa. - Lo bloccai invece, alzando lo sguardo.

Il suo ghigno traballò, preso alla sprovvista.

- Mi dispiace, davvero e sinceramente per tutto quel che è successo, fin dall'inizio, tra noi.

Aspettai una risposta che non venne, continuò a fissarmi e non capii l'espressione.

Continuai cercando di andare a ruota libera: - Mi dispiace per averti incolpato dal primo giorno delle mie scelte. Sono stata io a mettermi nei casini passando i compiti a te e ad altri, ho sbagliato io e totalmente. Tu hai detto le cose a Parker, ma non hai mai approfittato personalmente della situazione, non mi hai mai fatto direttamente del male come avresti invece potuto fare. Non sei mai andato a dirlo a professori o alla preside. - Mi sentii tremare le labbra a quelle parole, ma cercai di mantenere un contatto fermo con i suoi occhi azzurri. Stavo sicuramente degenerando, Clark non si meritava davvero delle scuse per quello, ma dopo quel che era successo con Parker, mi sembrava di aver fatto del male all'unica persona che fosse stata sicuramente coerente con se stessa fin dall'inizio. Sicuramente più di me.

- Evelyne... - Cercò di interrompermi e lessi una gran dose di disagio nel suo volto.

Sollevai la mano interrompendolo io. - Ti sono sempre stata antipatica, lo so, ma tu, al contrario di Parker, non mi hai mai mentito. Non mi hai mai fatto credere nulla che non fosse vero e avrai giocato comunque con lui, ma non hai mai influenzato il mio percorso. Mi ci sono spedita da sola nella fossa e ho incolpato anche te. Anzi, per un bel po' ho incolpato soltanto te.

Mi scappò un singhiozzo e lui iniziò a guardarsi attorno palesemente nel panico.

- Mi dispiace terribilmente anche di essere venuta a cercare te alla festa di Parker. Mi sono comportata da idiota e vi volevo far litigare e non mi importava nulla delle conseguenze che avrebbero avuto i miei gesti su di te. Non mi importava di dividere degli amici. Sono stata terribile, stupida e cattiva. Non mi sono comportata diversamente da Parker che ha giocato con i miei sentimenti. Io ho giocato con i vostri ed ero anche convinta che fosse la cosa giusta da fare.

Non credendoci nemmeno io, iniziai a piangere all'ennesima nomina del ragazzo che aveva stregato il mio cuore. Ritornavo sempre e ovviamente lì. Mi sentivo male, credendo di assomigliargli per aver sfruttato in qualche modo le persone intorno a me.

Ormai quasi delirando, per le lacrime e i pensieri, continuai: - Scusa, Seth. Scusa per il pugno che ti ha dato Parker. - Intervallavo ogni tre parole a un singhiozzo. - Scusa per essere corsa subito da te stamattina. Ero convinta che fossi stato tu dopo le litigate a mensa e ti avrei voluto davvero uccidere. Quello che non capivo è che anche fossi stato davvero tu, stavo di nuovo scaricando ogni mia colpa su un'altra persona. Ma poi...

Lui, con le due mani sul viso, nemmeno mi guardava più. Alla mia interruzione all'ennesima mancanza di fiato, sospirò e aprì il cruscotto di fronte a me: prese fuori un pacchetto di fazzoletti e me lo passò senza dire nulla.

- Grazie. - Blaterai, estraendone uno. - Dicevo... E poi, non sei nemmeno stato tu! - Piagnucolai, soffiandomi finalmente il naso e cercando di acquistare, inutilmente un po' di controllo.

Non mi riconoscevo nemmeno più: per star piangendo e per starlo facendo davanti a lui. Intanto la faccia di Clark era incomprensibile.

- E' stato Parker! Tu almeno è da sempre che mi fai capire di odiarmi! Parker invece... Io mi sono innamorata di lui! E' sempre stata una causa persa, ma io ci credevo e lui me l'ha voluto far credere che potesse cambiare! - Ormai deliravo, parlando di cose che nemmeno a Francy ero riuscita a raccontare così a cuor leggero. - Ci credevo che provasse qualcosa nei miei confronti, che fosse buono. E mi ha solo presa in giro. Per una scommessa! E rovinandomi così davanti alla preside! A me serve la borsa di studio per avere un qualche minimo di futuro! Non so però nemmeno se me lo merito a questo punto! Mi dispiace per quel che ho fatto, mi dispiace per te, Clark, mi dispiace da morire. Se potessi tornerei indietro, ma non posso e non potevo andare avanti senza fare tabula rasa di tutto, senza chiedere perdono a te. Non voglio più creare capri espiatori. Voglio assumermi ogni responsabilità e migliorare e crescere.

La smisi con quel monologo, cercando di calmare i nervi a pezzi.

Vidi Clark allungare leggermente la mano. Esitò, proprio mentre mi giravo per capire i suoi movimenti, ma si bloccò a pochi centimetri dalla mia testa e la ritrasse.

- Porca puttana! - Quasi urlò e, nell'impeto della frase, sbatté i pugni contro il volante, facendo anche risuonare per il parcheggio un breve colpo di clacson.

Lo guardai, lacrimante e ormai avendo perso ogni lato del carattere di cui ero sempre stata certa. - Almeno accetta le mie scusa. - Blaterai, partita del tutto per la tangente, immaginando solo che fosse arrabbiato con me

- Evelyne... - Sospirò, guardandomi finalmente dopo una lunga pausa, pronto a rispondere.

   
 
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