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Autore: Damnatio_memoriae    07/03/2018    1 recensioni
Sul continente i ministri dei cinque rioni si affrontano nel Torneo di Palazzo per assicurarsi il dominio della Cittadella, ma nessuno sospetta che nell'ombra stia già tramando da tempo un oscuro pericolo che minerà profondamente le basi delle loro istituzioni, rompendo quella pace che, a fatica, è stata riconquistata dopo il tradimento di Kalendor. E intanto Theresa affronta le sue paure cercando di ricordare un passato troppo lontano e inafferrabile, mentre Daianara tenterà invano di battersi per impedirglielo.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 14
 
♦ Campi Elisi  
 
“Dall’abbraccio più sincero può nascere un amore,
come da una fiamma la sua luce e il suo calore.
Chiedi a te stessa il perdono di cosa ha il sapore
perché a volte può accadere di ferirsi per errore”
 

«Tess» la chiamò una voce preoccupata. «Tess, rispondimi».
Aprì gli occhi ed improvvisamente la sua visione si trasformò in nulla, fumo e cenere nell’aria fredda e umida, gonfia di pioggia. Il buio aveva inghiottito e spento ogni fiaccola e la luna non era più sufficientemente brillante da illuminare i contorni degli edifici, le mattonelle e i pilastri compositi.
Inginocchiata sulle pietre del portico, Theresa si sentiva al contempo riempita e svuotata. Fra le sue braccia non c’era più nessuno, nelle orecchie nemmeno un sussurro accennato, svanito sulla sua bocca il calore delle labbra di quella ragazza. Eppure la pelle fremeva, la fronte era accaldata e sudata, il cuore le galoppava nel petto così velocemente da pensare volesse essere udito da tutti. La rossa si portò un dito sulle labbra e le sentì screpolate e turgide.
«Tess, per favore!» si sentì chiamare più forte e quando, voltandosi, incontrò gli occhi di Daianara uno strano sollievo la pervase.
Vide la sua espressione turbata, la fronte aggrottata e una piccola ruga che faceva capolino fra le sopracciglia; le pupille erano dilatate, le iridi velate di preoccupazione e paura. I piedi erano scalzi su quel pavimento scivoloso e la vestaglia da notte la avvolgeva completamente, coprendole le gambe fino al polpaccio. Tess la guardò per un lungo istante e l’altra rimase paralizzata sotto il suo sguardo.
Il vento si alzò e la mora rabbrividì, scostandosi i capelli dal viso. L’aria portò a Theresa il suo profumo, ma di una fragranza più tenue, più dolce, più effimera di quella che l’aveva travolta solo qualche istante prima. E finalmente riuscì a vederla in un modo che le era stato sconosciuto fino a quel momento.
Era la sua colomba. Semplice di una bellezza genuina e al tempo stesso disarmante, semplice nelle parole, nelle espressioni, nei gesti; semplice nelle pretese, nei desideri, nelle promesse; semplice il modo in cui l’aveva conosciuta e scoperta, in cui l’aveva accettata e protetta, difesa dal mondo e da sé stessa. Solo semplice, come il biancospino e i suoi rovi, le spine mai troppo vistose e mai da sottovalutare. Unicamente Daia, unicamente lei.
La bocca della rossa si incurvò leggermente in un sorriso, il suo corpo si rilassò, i polmoni buttarono fuori tutta l’aria che avevano inspirato – e che non si era resa conto di star trattenendo - e con quella anche gli ultimi dubbi.  
«Con chi stavi parlando?» domandò la ragazza in un sussurro, guardandosi intorno.
«Con nessuno» rispose semplicemente, rimettendosi in piedi e pulendosi le dita sulle maniche.
«Mi spaventi quando fai così…» istintivamente si strinse le braccia intorno al corpo, forse nel tentativo di proteggersi dal freddo, o forse nel tentativo di proteggersi da lei.
Vedendo quel gesto, un nodo serrò la gola di Theresa. Si grattò la testa, imbarazzata. «Non ho mai voluto farti del male» deglutì «Anche se le mie parole non cancellano quello che ho fatto».
Daia si prese qualche secondo prima di rispondere. «E’ stato solo un incidente, ne sono completamente guarita. Non pensarci più. Io ti ho perdonata e lo hanno fatto anche i miei genitori. Non caricarti di colpe inutili».
«Io non stavo parlando di quello».
«Allora non riesco a seguirti».
«Io mi riferivo» continuò in un sussurro «A quello che è successo tra di noi l’ultima volta». Le lanciò uno sguardo allusivo.
Daianara spalancò gli occhi. Le guance e il collo le si colorarono di porpora in uno dei suoi soliti sfoghi. «Lascia perdere» tagliò corto, voltandole le spalle.
«No, non lascio perdere» ribattè duramente «Non questa volta».
«E’ tardi Theresa. Torniamo a dormire. Inizia a fare troppo freddo qui fuori».
«Non m’importa. Daia…» allungò un braccio per posarle la mano sulla spalla, ma l’altra si sottrasse di malagrazia a quel tocco.
«No» ribadì con risolutezza la mora, indietreggiando per aumentare la distanza tra di loro. Sollevò una mano facendole segno di rimanerle lontana. «Per favore. Dimentichiamo quello che è accaduto e andiamo avanti».
«Tu credi davvero di poterlo dimenticare?».
«Ma che cosa vuoi da me?» sospirò esasperata, allargando le braccia.
«Voglio che mi ascolti».
«Oh, ma io ti ho ascoltata eccome. Ricordo ogni parola di quello che mi hai detto quella notte. Non potrei sopportarne delle altre, davvero».
Theresa serrò la mascella. «Ho sbagliato».
«Credi davvero che io voglia sentirmi dire questo? Che hai sbagliato a baciarmi?».
«No» le si fece più vicina «Ti sto dicendo che ho sbagliato a fermarmi».
Daianara aprì la bocca per ribattere senza aver lasciato al suo cervello il tempo di rielaborare quell’affermazione. «Bhe, io…!». Si bloccò. Gli occhi si fecero se possibile ancora più grandi e tondi. Al primo stupore seguì il dubbio. «Mi stai prendendo in giro? Lo trovi divertente?».
«Io non sto ridendo».
«Pensi sia uno scherzo per me? Una curiosità che puoi soddisfare? Tu non hai la più pallida idea di quello che ho provato io quando…» sentì la voce incrinarsi, nonostante tutti i suoi forzi, e lasciò la frase a metà.
«Mi dispiace. Non posso dirti nient’altro che questo».
«Non sembravi dispiaciuta quando mi hai guardata come se il solo sfiorarmi ti facesse venire il voltastomaco, o quando mi hai detto che si era trattato solo di uno stupido errore. Ci tenevi così tanto a dimenticarti di quel bacio che sei arrivata anche a dimenticarti di me».
«Sei ferita. Lo capisco».
«Io sono delusa e amareggiata e disillusa, ma no, non sono ferita. Non lo sono più. Eri riuscita a farmi credere che ti piacesse avermi vicina, che ti piacesse stringermi, che ti piacesse baciarmi» incrociò le braccia al petto «Davvero Tess, c’eri quasi riuscita a farmi sperare di avere una possibilità. C’era mancato tanto così» avvicinò l’indice e il pollice «tanto così per pensare che tu mi desiderassi quanto ti desideravo io. E poi ho visto lo schifo nei tuoi occhi quando ti sei tirata indietro e la risata che hai fatto mentre il mio amore ti scivolava dalle mani. Tutte le parole che hai cercato di tirare fuori per giustificarti mi hanno solo fatto desiderare di sprofondare ancora. Perché non sai quante volte ho immaginato di baciarti mentre tu pensavi a qualsiasi altra cosa tranne che a me. E mi sono dovuta ricredere. Aveva ragione Savannah» sibilò e ogni fibra del suo corpo si contrasse al pensiero di avergliela data vinta «È inutile aspettarti».
«A me non interessa quello che dice Savannah» ribattè duramente, afferrandola.
«Non mi toccare» si divincolò e quando l’altra non accennò a mollare la presa continuò: «Tess, lasciami!».
«Scordatelo».
«Giuro che mi metto ad urlare».
«No, non lo farai. Guardami».
«No!» digrignò i denti in risposta al suo ordine.
Theresa le afferrò il mento, stringendoglielo tra le dita, costringendola a girare il viso nella sua direzione. «Invece lo farai».
«Ti ho già detto che ti aiuterò a ritrovare Argo, ma non sei nella condizione di potermi chiedere più di questo».
«Non ci serve a nulla una tregua, Daia. Voglio che torni da me. Mi manchi» confessò e la sua voce si addolcì.
Per un attimo l’arrabbiatura della ragazza sembrò lasciar posto alla resa, ma la sua perplessità non durò più di qualche secondo. «Già…» sbuffò «Peccato tu non sia credibile».
Theresa si scurì in volto e la sua presa si fece più ferrea. «Ti manco anche io».
«No, affatto».
«Smettila di comportarti così. Sto cercando di dirti la verità».
«La tua verità cambia ogni giorno. Non riesci nemmeno a rimanere coerente con te stessa» si interruppe quando l’altra la spinse contro il muretto che si affacciava sul giardino e per non cadere dovette appoggiare le mani sulla sua superficie gelida. «Che cosa vuoi fare?» domandò, guardandosi indietro.
«Baciarti» disse piena di intenzione.
«Tu sei pazza!».
«Ai pazzi è concessa ogni cosa».
«Non questa. Non sarò di nuovo il tuo diversivo».
«Non lo sei mai stata».
Daia le premette i palmi sulle spalle per spingerla via, ma Theresa sembrava inamovibile.
«Spostati!» sbraitò e si fece ancora più insistente quando gli occhi iniziarono a pungerle.
«No».
«Perché? Perché vuoi giocare a questo gioco proprio con me? Devi smetterla di illudermi!».
«Non è un gioco».
«Io non ti credo più» abbassò gli occhi e due lacrime le caddero sul vestito.
Tess si avvicinò ancora. Posò le labbra sulla sua fronte e la sentì bollente. «Lo so» le sussurrò a malincuore contro la pelle «Lo so».
«Ti prego, lasciami andare, non voglio rimanere qui».
«Io ti sogno Daia…» chiuse gli occhi «Sei dentro la mia testa e non c’è modo di farti uscire. Non so neanche come tu ci sia entrata. Ti ho baciata perché era quello che volevo fare e me ne sono andata perché ho avuto paura. Non pensavo potesse esserci qualcosa tra di noi e non avevo capito che tu provassi…questo» le cercò la guancia con la mano.
«Allora sei davvero cieca».
«Si! Si, lo sono. Quando si tratta di te lo sono. E dovresti averlo imparato, ormai. Tu mi conosci ed io conosco te. E lo so di aver rotto qualcosa e so che non torneremo ad essere le stesse di prima, ma non possiamo andare avanti in questo modo. Non fingerò che va tutto bene». Theresa aspettò di ricevere una risposta, ma Daianara si limitò a scuotere la testa e a fuggire i suoi occhi. «Tu mi vedi» le disse allora «Nello specchio di Ophelia, tu vedi me».
L’altra arcuò le sopracciglia e un sorriso amaro le piegò le labbra in una smorfia piena di risentimento. «E tu non vedi nessuno, quindi non credo ci sia altro da aggiungere».
«So quello che vedo adesso». Piegò leggermente le ginocchia per mettersi alla sua altezza. «Non era ribrezzo quello che provavo quando ti baciavo, non lo era affatto. Voglio sentire ancora quella sensazione».
«È troppo tardi».
«Non lo è. Non lo è fino a quando non lo decido io». Senza pensarci oltre si protese verso di lei e in un secondo la sua bocca fu contro quella della ragazza. Aprì le labbra per sentirla più a fondo e non si arrestò nemmeno quando l’altra rimase rigida sotto il suo tocco. Resistette ai tentativi di Daia di allontanarla e le bloccò le mani, stringendole i polsi e facendo forza per tenerla accanto a sé. Le passò la lingua sulle labbra, inclinando il viso per baciarla completamente e contro di lei sentì il corpo della mora farsi meno rigido, il respiro più affannoso, la pelle più calda. Allentò la stretta su di lei, ma Daia non ne approfittò per scappare via. Si aprì per lei, lasciandola entrare, e quel gesto segnò la sua resa. Lasciò cadere le mani lungo i fianchi e Theresa la tenne per la vita, le dita strette alla sua carne.
Si staccò per riprendere fiato, gli occhi di Daia incatenati ai suoi, la bocca umida, il viso rosso. La cercò di nuovo, questa volta con più urgenza, ma l’altra girò la testa per impedirglielo.
«Non ho finito con te» le bisbigliò Theresa contro lo zigomo.
Daianara sussultò. «Ma io sì» decretò, il respiro corto che lasciava la sua scia nell’aria fredda di quella sera. Si scrollò di dosso le sue mani, ma non riuscì a respingerla completamente.
Le dita della rossa si incrociarono ancora con le sue e quando le tastò la schiena le trascinò con sé. «Anche tu stai diventando poco credibile» le disse sulla bocca.
«E tu reagisci bene per considerarmi “solo un errore”» ribattè fieramente, ma la sua voce tradiva un’emozione che avrebbe preferito nasconderle.
«Oh, taci!» la zittì definitivamente, baciandole la fronte, il naso, imprigionandole le labbra senza più alcuna intenzione di staccarsene. Il profumo di Daia adesso era anche sul suo corpo ed il suo sapore anche sulla sua lingua.
Daianara si lasciò scappare un basso gemito quando Theresa la morse e si liberò le mani per poterla stringere, le dita tra i suoi capelli e sul suo collo.
«Vieni» le disse la rossa, trascinandola per il portico, facendole segno di rientrare, ma quando l’altra non si mosse aggiunse: «Fidati di me. Fidati di me ancora una volta. E se non sarà sufficiente allora faremo a modo tuo».
Richiuse la porta della camera da letto alle loro spalle, le tende tirate per coprire la luce, e vennero entrambe inghiottite dall’oscurità. Daia le si avvicinò, premendo il seno contro il suo, cuore contro cuore; quando Theresa le bisbigliò quanto la volesse, si avventò di nuovo sulle labbra. La bocca si schiuse come una rosa sotto la sua e ne percepì il gusto sul palato e allora ogni barlume di resistenza sarebbe stato superfluo e borioso. Si lasciò accarezzare il collo e Tess scese con le dita fino alla vita e giù per i fianchi. Insinuò una mano sotto il suo vestito e sentì la pelle bollente sui polpastrelli. Daia a quel tocco si lasciò travolgere da un brivido che la scosse tutta, obbligandola a stringersi a lei con ancora più necessità. Gemette sulla sua bocca sentendo che le toccava la carne con forza, ma la voce si perse e Theresa pensò di poter scomparire dentro di lei, nel suo corpo, nelle sue intenzioni, in qualunque modo.
«Aspetta…piano…» la implorò poi, mentre cercava di recuperare un goccio di lucidità in mezzo a tutto quel contatto. Il cuore le stava esplodendo nel petto e se non si fosse fermata in tempo non sarebbe più riuscita a controllarsi. Non con Daia, non con lo sguardo che aveva, non dopo tutto quel tempo.
La mora accennò un debole diniego, gli occhi infuocati ma ancora bagnati. «Non ti fermare, non ti fermare» ansimò, il respiro spezzato. Le portò una mano fra le ciocche, tenendole ferma la testa per baciarla più a fondo. Tess sentì che le divorava con i suoi baci famelici e per quanto la sua mente gridasse di rimanere obiettiva, il desiderio del suo corpo era troppo assordante per riuscire ad ignorarlo. Si abbandonò a lei con un sospiro sofferto e vibrante, quasi un ringhio, e intanto le dita le correvano sulla pelle come se temessero di vederla sparire da un momento all’altro.
Daianara le sbottonò la camicia con impazienza, scoprendole il seno. Ne assaporò con la lingua ogni centimetro e quando l’altra percepì sulla propria schiena le unghie che la graffiavano uno strano piacere la colse. Disperatamente ricambiò il suo bacio, stringendole il labbro inferiore fra i denti, mordendola fino a temere di averle fatto male, ma solo un debole assenso le arrivò alle orecchie.
Sprofondò con lei sul letto, strette in un abbraccio impossibile da spezzare. Daia si posizionò a cavalcioni sui suoi fianchi. Le toccò la pancia, il costato, il petto, le spalle. Intrecciò le dita alle sue, guidando le mani di Theresa sul suo corpo, lungo i seni, lo sterno, le cosce, fra le gambe. Trasalì e in un soffio disse: «Questo è l’effetto che mi fai».
A Theresa occorse tutta la risolutezza che possedeva per ritirarsi. «Dobbiamo fermarci».
«No, ti prego no…ti desidero».
«Oh, anche io, anche io! Ma non ora, non così».
«Non mi lasciare proprio adesso» affondò il viso nel suo seno «Fammi tua. So che lo vuoi».
«È così!» rispose decisa e con un colpo di reni la rovesciò dall’altra parte del materasso «Ma mi serve più tempo, più tempo per abituarmi all’idea di averti in questo modo».
Daia le circondò la vita con le cosce, risoluta. Le toccò il viso, la fronte, il naso, la bocca, il mento. Le morse le labbra fino a quando non sentì il sapore del sangue sulla lingua.
Theresa ritirò la testa di scatto, frastornata. «Ahia…» corrugò la fronte, confusa.
La mora inarcò la schiena sotto il suo peso e i loro petti tornarono a sfiorarsi. «Ti ho fatto male?» le chiese con noncuranza «Lo rifarei. Lo rifarei altre mille volte».
«No. No, c’è qualcosa che non va» biascicò, sgusciando fuori dal letto, inciampando sui suoi stessi piedi.
«E’ tutto come dovrebbe essere».
«Ho la testa che mi scoppia. Cos’è questo rimbombo?».
«Non ci pensare. Torna vicino a me».
«Non posso».
Gli occhi di Daia si fecero gelidi «Sì che puoi. Prendimi. Prendimi come hai fatto la prima volta».
«La prima volta?».
«Te lo ricordi, Tess? Quello che hai provato quando mi hai stretta?».
«Non so di cosa tu stia parlando. Devo uscire da qui, mi manca l’aria».
«Non puoi andare via».
«Non posso rimanere con te».
«Vieni qui».
«No!».
«Tu mi vuoi, mi hai sempre voluta».
«È sbagliato, è proibito, io non…».
«Non ti lascerò andare via questa volta».
«Non puoi obbligarmi a restare».
Una risata macabra rimbombò fra le pareti. «Oh, sì che posso! Sei come un uccellino in gabbia, Tess. E io ti tratterò bene. Sei il mio piccolo amore. Devi fidarti di me, non hai scelta».
«C’è sempre una scelta».
«Non per te».
Non crederle, non crederle!
Theresa si lanciò verso la porta, coprendo la distanza che la separava dall’uscita con quattro balzi appena. A tentoni cercò la maniglia di ottone e la abbassò con trepidazione, sgusciando fuori dalla camera e richiudendola subito dietro di sè. Il corridoio era vuoto e freddo.
Tremante, si accasciò fino a toccare terra, dietro di lei la risata di Daia che l’inseguiva, trafiggendole il cervello e riempiendola di paura. Attraverso le vetrate la luna sembrava più pallida ed eterea.
Da quell’incubo Theresa non sarebbe più riuscita a svegliarsi.
Ascolta la mia voce…
Tre colpi alla porta la fecero sobbalzare. Si alzò di scatto, premendo con tutta la forza che aveva per impedire a qualunque cosa fosse albergato in quella stanza di uscire e raggiungerla.
«Non puoi scappare da me, Tess» le venne detto da una voce che ricordava solo lontanamente quella della sua amica. Sotto le sue dita il marmo iniziò a tremare e si crepò come costretto dalla forza di un terremoto, ma tutto era fermo e pesante.
Canterai ancora una volta per me prima di allontanarti. Salirai sempre più in alto per ricordarti la mia voce.
Contò fino a tre e si catapultò lungo il corridoio senza guardarsi indietro. Ma non aveva bisogno di controllare per essere certa che Daia la stesse inseguendo, perché riusciva a percepire il suo sguardo sulla schiena e sembrava che dietro di lei un grande freddo la stesse per raggiungere.
Svoltò l’angolo, sbattè contro il corrimano.
Incespicò sugli scalini troppo piccoli e alla sua destra una voce calda le indicò la via. Non era certa che seguendola si sarebbe salvata, ma se non le avesse dato retta l’oscurità l’avrebbe inghiottita, imprigionandola in quel Palazzo improvvisamente deserto.
Non dovrà sapere nulla, mai. Lascia che dimentichi, lascia che viva.
Dovremo trovarti un nome, ora che fai parte della nostra famiglia.
Perché vuoi lasciarmi da sola? È davvero questa la libertà che stai cercando?
Spalancò il portone del Salone degli Stemmi, ne attraversò la navata sforzandosi di correre in linea retta. Dietro l’arazzo di Tanaro una voce rise. «Non puoi scappare da te stessa, amore mio».
Non crederle, non crederle…
Theresa spiccò un salto, il più lungo che le riuscì, e continuò a correre, il gelo ormai alle caviglie.
Potrai anche piangere con lei, ma la legge non cambierà solo perché tu l’hai trasgredita!
Papà non lasciare che la portino via, non lasciarglielo fare!
Devi proteggerci dai ricaduti, non si possono controllare!
«Non puoi cercare una verità che non esiste».
Un alito freddo le soffiò sul collo e costrinse le gambe a muoversi più velocemente. Inciampò sulla scalinata maggiore e rovinò a terra, la spalla dolorante. Davanti a lei un fruscio di gonne e una mano tesa. «Smettila di scappare…».
Se davvero mi conosci, saprai distinguermi…
«No!» urlò ad un’ombra senza volto, rimettendosi in piedi sulle ginocchia paralizzate dalla paura.
«Se davvero avessi voluto fuggire, l’avresti fatto molto tempo fa. È questa la tua casa ormai, Tess. È la gabbia in cui ti sei rinchiusa, la prigione in cui ti sei rifugiata. Tu vuoi rimanere. Rimanere farà meno male».
Domani sarò qui a cantarti queste ultime parole: per te troverò sempre un’ultima canzone.
È pericolosa! Nostra figlia non è al sicuro!
E’ soltanto spaventata, diamole una possibilità.
Le gambe di Theresa la portarono lontano, le voci la trasportarono nella giusta direzione. Acqua, alberi, una fontana, delle donne. Statue, statue in circolo, le stelle oscurate e nessuna lucciola.
Davanti a lei si aprì la radura delle fate, ma nessun sbarramento ne impediva l’entrata questa volta. Le driadi erano ora piegate in pose raccapriccianti, gli occhi del fauno erano malevoli e l’edera rampicante oscurava la vista degli edifici.
Solo nell’istante in cui si arrestò Tess si accorse della pelle lucida di sudore, del respiro irregolare e pesante, della quantità di saliva nella bocca e del sapore metallico sulla lingua. Ad Ennon era quello il sapore della paura.
Una driade davanti a lei si mosse, ma non era più una statua e Daianara si portò una mano alla bocca, provando a trattenere un riso. Il corpo era più slanciato, i capelli più lunghi e selvaggi, gli occhi taglienti e il viso scavato.
La rossa indietreggiò, ma nessun sussurro le rimbombò nelle orecchie, nessuna voce le venne in soccorso.
«Oh, Tess…» la chiamò con voce subdola e l’acqua nella fontana tornò a scorrere, riempiendo la vasca e traboccando «Non troverai nulla fuori di qua. Dove vorresti andare?» spalancò le braccia «Hai tutto quello che hai sempre desiderato. Fermati».
«No».
«Perché vuoi rovinarci in questa maniera, senza alcuno scrupolo? Sono qui per te».
«Non so chi tu sia».
Sorrise e delle fossette le bucarono le guance magre «Sono io» disse semplicemente «Quando chiudi gli occhi le somiglio davvero, dico bene? Stessa voce, stesso sguardo, stesso tocco…forse troppo accondiscendente, ma mi hai ricordata così» divenne improvvisamente seria «Non te ne saresti mai accorta, se ti fossi semplicemente accontentata della felicità che avevi. Un sogno è tale solo per chi è sveglio, ma per quelli che dormono? Per loro è la realtà. Che differenza vuoi che faccia, Tess?».
«Io non mi accontento delle mezze verità» digrignò i denti come un cane messo alle strette. Le diede le spalle ma, quando si voltò, Daia era ancora davanti a lei, e anche dietro, in basso, a destra, a sinistra.
Le sopracciglia della mora si corrugarono. «Credi ti saresti ritrovata qui se questo non fosse stato il tuo desiderio più grande? Degli amici, una famiglia, un futuro. Me. E una libertà che non ti spetta. Nessuno ti ha obbligata, amore mio».
«Smettila di chiamarmi così!».
«Detesto quando fai resistenza, non riesco a capire quello che vuoi».
«Voglio che esci dalla mia testa!».
«In verità sei tu che dovresti uscire dalla mia…» le bloccò le braccia e sotto la sua presa Tess si inarcò, perché la stringeva così forte da conficcarle le unghie nella carne.
«Lasciami!».
«Sei soltanto una stupida. Era la nostra unica occasione e tu l’hai gettata via. Ma possiamo ancora rimediare, possiamo ancora rimanere insieme. Torniamo dentro. Andiamo a dormire, lasciamoci tutto alle spalle e…».
La rossa le sputò in faccia.
Negli occhi della donna le iridi sparirono, inghiottite da pupille nere, prive di vita. Daianara la afferrò per i capelli, tirandole la coda, trascinandola fino alla fontana, costringendola ad inginocchiarsi. L’acqua fredda e lucida le bagnò le gambe, le ginocchia, il ventre.
«E’ questo quello che vuoi?!» le urlò nell’orecchio prima di immergerle la testa nell’acqua e continuò a gridare, ma Tess non era più in grado di sentirla. Udiva solo un lento scorrere di parole attutite, vedeva il fondo della vasca marmorea e il muschio nero lungo le pareti.
Daianara le strattonò ancora i capelli rossi, permettendole di respirare. «Perché vuoi soffrire in questo modo? Non ti rendi conto, non sai quello che ti aspetta. Non potrai più tornare!». Le schiacciò la nuca dentro la fontana un’altra volta, con così tanta foga che la ragazza battè la fronte sul fondo. Boccheggiò e le bolle raggiunsero la superficie.
Si dimenò come un’ossessa, cercando ossigeno, costringendosi a tenere chiusa la bocca per non annegare. L’aria nel petto si esaurì, il cuore esplose e Theresa schiuse le labbra quando il suo corpo annaspò per respirare.
Credette di essere spacciata, di aver perso la sua battaglia. Il suo cuore si fermò per un lungo istante.
E poi tornò a pulsare sotto la sua pelle.
L’aria le riempì il petto, ogni singola goccia d’acqua si ritirò nel vuoto, risucchiata nel vortice in cui stava precipitando. Spalancò gli occhi e si tirò su di scatto, sopra di lei un soffitto bianco e tutto intorno la luce del mezzogiorno che filtrava dalle vetrate. Si portò istintivamente una mano alla bocca e tossì, tossì, fino a espellere l’acqua che era convinta di aver ingurgitato, ma sputò solo saliva.
La pelle, i vestiti, i capelli erano asciutti. Delle calde coperte trapuntate la coprivano fino alla vita; le lenzuola erano candide e profumate e così reali da disturbarle il tocco. In grembo, a pesarle sul ventre come una roccia, lo specchio di Kalendor. Opaco, tetro, laido e impolverato, con le sue volute e i suoi inserti in ottone sbiadito. E tutte le conseguenze di un cimelio che sarebbe dovuto rimanere nascosto.
Theresa si rese conto di star balbettando qualcosa, ma le sue parole erano sconnesse e le orecchie si rifiutavano di udirle. Con dita tremanti sollevò il massiccio manufatto e si specchiò. Il riflesso le restituì l’immagine di una ragazza perfetta: la pelle liscia, gli occhi lucidi, i capelli curati. Nulla di quello che si sarebbe aspettata di vedere, anche se già il fatto che riuscisse a vedervi qualcosa la sconvolse. Si sentiva i capelli sporchi e appiccicosi, la pelle accaldata, le occhiaie, le orbite scavate, la bocca rovinata. Si sentiva devastata, rotta, provata. Eppure, non era quello che vedeva.
Tutti i ricordi tornarono a galla come un cadavere rigonfio.
«Tess…». Quella voce fu sufficiente a riscuoterla.
Sollevò lo sguardo e al suo capezzale, seduta al fondo del letto che dominava la stanza, Daianara la osservava. L’espressione era preoccupata, la fronte corrugata, ogni tratto del suo corpo in tensione.
Ma Theresa di lei non ebbe più timore, nonostante le fosse così vicina. E d’altronde come avrebbe potuto? Ora era tutto così lucidamente, schifosamente e maledettamente chiaro.
La ragazza cercò con gli occhi il sostegno di Ophelia, seduta stancamente su uno scranno all’angolo della camera, e vicino a lei, in un atteggiamento indecifrabile, il suo totem e Raven.
Tutti qui, pensò Theresa, a godersi lo spettacolo. Si coprì il viso con entrambe le mani e una risata le uscì dalla bocca senza che lei riuscisse – o volesse – trattenerla.
«Tess…» la chiamò nuovamente Daia e allungò le dita verso di lei, ma qualcosa la trattenne dal sfiorarla.
La rossa rise più forte. «Io mi fidavo di te» sussurrò poi «Io mi fidavo di voi. Di ognuno di voi».
«Theresa, ti prego, io non…».
«Ti sei presa qualsiasi cosa» continuò mordendosi le labbra «Dovevi essere tu. Fra tutti quelli che avrebbero potuto farmi una cosa simile…proprio tu». Si strinse le mani nelle mani, abbassò lo sguardo, ne scrutò i palmi, il dorso, le nocche, le vene. Vene vuote, fredde, dure, finte. Tutto una tremenda finzione. Ma erano forti, così forti da non poter essere scalfite. Chiuse le dita e le riaprì, due, tre volte. Rise di nuovo, le spalle si scossero, la mente si svuotò, lo stomaco si contorse, la bocca si piegò in una smorfia. Quando parlò stentò a riconoscere la sua stessa voce. «Fatti più vicina».
Daia rabbrividì.
L’altra le tese la mano e lei la afferrò, anche se titubante. Tess la tirò a sé con violenza e quasi Daianara non cadde sul materasso, accanto a lei. Con la coda dell’occhio vide il totem del Ministro di Kalendor, Levi, farsi più teso e guardingo, pronto a scattare.
Rimase immobile mentre la rossa le sondava duramente il viso, senza delicatezza, una mano fra i suoi capelli, gli occhi tetri, la mascella serrata.
Theresa respirò pesantemente e il suo seno si alzò e si abbassò lentamente. Avvicinò le labbra al viso della ragazza, ripercorrendo il profilo della sua guancia.
«Daianara…» le sussurrò piano all’orecchio, in modo che solo lei potesse sentirla e il suo tono si era fatto euforico, folle «Giuro che ti uccido. Giuro che ti uccido e questa volta nessuno, nessuno, verrà a salvarti».
Fu un secondo e in un attimo Theresa le si scaraventò addosso, premendola contro le spesse coperte del letto. Le dita le si chiusero intorno al collo, serrandole la gola, stringendo e stringendo. Gli occhi spalancati, Daia si affannava per liberarsi.
«Non lo dovevi fare!» ringhiò ancora, a pochi centimetri dal suo viso «Me l’avevi promesso!».
Ophelia lanciò un ordine e Levi strinse le lunghe braccia intorno al corpo di Theresa, imprigionandola, ma fino a quando le fu possibile la ragazza non lasciò la presa su Daia.
La rossa scalciò e si dimenò. «Ti uccido!» continuò, sbraitando e sputando come un mastino «Mi hai tradita, mi hai tradita!».
 
   
 
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