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Autore: elerim    12/03/2018    11 recensioni
Rin doveva ammettere di aver investito una quantità di pazienza considerevole per conseguire quell'obiettivo. Quanti saluti ignorati, sospiri infastiditi, porte sbattute davanti al naso, occhiate arroganti aveva dovuto sopportare in risposta ai suoi tentativi – sempre allegri e garbati – di approccio? A palate.
Ma perché, poi? Eh. Qui si arriva al punto. Perché se lo fosse posto, l'obiettivo di andare d'accordo con Sesshomaru, era tanto semplice quanto sconcertante: Sesshomaru non era ignorabile.
Quando si chiude una porta si può aprire di nuovo
perché di solito è così che funzionano le porte.
Albert Einstein

PUBBLICATO EPILOGO A PARTE, RATING ROSSO!
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Rin, Sesshoumaru | Coppie: Rin/Sesshoumaru
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Slamming Doors'
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Capitolo tre ovvero La profezia che si autoadempie (*).





Rin spalancò la porta del suo appartamento, cacciò dentro le valigie e si chiuse velocemente il battente alle spalle, nel timore di sentire qualche movimento provenire dalla sua, di porta. No, non era pronta a rivederlo, non nello stato di febbrile agitazione in cui versava. Era stata distratta e nervosa per tutto il viaggio di ritorno e quando era giunta al portoncino di ingresso il cuore aveva preso a martellarle nel petto; aveva fatto le scale alla massima velocità concessa dal borsone e dai pacchetti di cui sua madre l'aveva caricata e si era rifugiata in casa come una ladra.
Non era da lei, accidenti. Nulla di tutto ciò che era successo nell'ultima settimana era da lei, a ben vedere.
Non aveva mai desiderato che le festività natalizie passassero in fretta, invece già il giorno dopo Natale fremeva dalla voglia di tornare a casa.
Era stato piacevole rivedere i vecchi amici: con Sango si era da subito ripristinata l'antica confidenza e Kohaku era sempre più affascinante – le era anche sembrato che mostrasse qualche interesse nei suoi confronti – ma lei aveva la testa altrove.
Non aveva mai mentito ai propri genitori – e ad essere precisi non l'aveva fatto nemmeno questa volta – ma quando il proprietario della pizzeria, a corto di personale, l'aveva contattata per chiederle se per caso sarebbe stata disponibile a tornare a lavorare già il primo dell'anno... beh, aveva calcato un po' la mano con i suoi, non smentendo una inesistente minaccia di licenziamento, e aveva fatto i bagagli due giorni prima del previsto.
Quando era da i suoi, il suo cellulare di norma restava abbandonato sul comodino per intere mezze giornate: con Ayame aveva appuntamento fisso dopo cena, non doveva tener sotto controllo variazioni dell'ultim'ora sui turni di lavoro né scambiare informazioni con i compagni di corso su lezioni o esami, quindi il suo utilizzo era ridotto al minimo. Invece, ultimo ma fondamentale indizio del suo stato alterato, in in quei giorni l'aveva tenuto in tasca, sempre. Perchè il giorno di Natale gli aveva scritto un messaggio e lui aveva risposto. E poi le aveva scritto e risposto ancora, tutti i giorni. Poche parole: una battuta sarcastica, un 'buonanotte', un breve commento sulle rispettive giornate, niente di che. Salvo il fatto che avevano rappresentato una quotidiana opera di demolizione delle catene di razionalità con le quali la povera Ayame aveva tentato di mantenere il suo sentimento ancorato alla realtà. “Stai facendo svolazzare il tuo cuore troppo in alto” le aveva detto. “Se ti sfracelli al suolo poi tocca a me raccogliere i pezzi.”
Su quest'ultima cosa aveva dannatamente ragione, ma come poteva mettere un argine ai propri sentimenti quando lui, da ormai diversi mesi, le dedicava tempo ed attenzioni in modo gentile, discreto, per nulla invadente? E i suoi guanti erano la fine del mondo: la avvolgevano perfettamente, caldi e morbidi. Una notte si era addormentata con i guanti indossati, a circondarle il viso. Scema, scemissima! Si scoprì con il volto in fiamme al solo ricordo, mentre si preparava ad entrare in doccia.
Quella mattina, alla partenza, Sango e Kohaku erano parsi dispiaciuti, il ragazzo in particolare l'aveva abbracciata calorosamente e aveva espresso il desiderio di rivederla presto, poiché con probabilità sarebbe tornato a studiare in Giappone, forse proprio nella sua stessa città. Lei aveva sorriso ed annuito gentile ma poi era volata via, con il cuore leggero.
Forse stava fraintendendo, quasi sicuramente se ne sarebbe pentita, ma proprio non ci voleva pensare.
Ed ora sì, che era pronta a vederlo.


Mentre infilava in una borsa la divisa pulita per la pizzeria e si preparava ad uscire, tentò di affrontare con ragionevolezza la propria delusione. Sapeva che sarebbe tornata e sapeva che sarebbe andata al lavoro la sera stessa; non l'avrebbe mai ammesso ma sperava che l'avrebbe trovato a casa, quel pomeriggio. Quindi, dopo aver disfatto i bagagli e fatto una doccia veloce, era andata a bussare alla sua porta. Aveva anche suonato il campanello, ma non aveva ricevuto risposta.
Gli sbalzi d'umore degli innamorati fino ad oggi erano stati solo letteratura, ma adesso, mentre inforcava mestamente la sua bicicletta, non potè non chiedersi cosa ne fosse stato dell'euforia che le aveva infiammato il petto fino ad un'ora prima e perché fosse stata sostituita da una tristezza che colorava di grigio ogni cosa intorno.




L'aveva sentita arrivare nel pomeriggio. Aveva accolto con inspiegato sollievo i rumori provenienti dal suo appartamento: lo scalpiccìo leggero, le ante degli armadi che si aprivano e chiudevano, lo scroscio della doccia. L'aveva sentita bussare e suonare e il suo sospiro di delusione l'aveva quasi – quasi – mosso a compassione, ma non aveva aperto. Conosceva i suoi orari e sapeva che se ne sarebbe dovuta andare dopo mezz'ora, non aveva nessuna intenzione di fare le cose di fretta. Difatti la sentì uscire poco dopo, dalla finestra la osservò pedalare decisa nella consueta direzione – con le mani avvolte nei guanti che le aveva regalato, notò compiaciuto.
Finì di scrivere la mail che aveva iniziato e chiuse il laptop di scatto.
Si fece una doccia veloce, si vestì solo con una maglia leggera di cotone e i pantaloni di una tuta e compose il numero della pizzeria da asporto di Rin.
“Pizza Speed, buonaseraaa!” rispose una fastidiosa voce di donna dall'altra parte.
“Volevo ordinare due pizze.”
“Nomeee?”. Più che fastidiosa.
“No Taisho.”
“Indirizzooo?”
Quella mania di strascicare l'ultima vocale era detestabile. Glielo fornì a denti stretti.
“Gustiiii?”
“I preferiti della signorina Izumi. E vorrei che le consegnasse la signorina stessa, come ultima consegna.”
“Cosa?” si indignò la voce. “Come si permette? Non siamo mica un locale di appunt...”
“Sono il suo vicino di casa, mi conosce.” la interruppe bruscamente per frenare lo sproloquio. “Chieda conferma alla signorina Izumi.”
“E se lei non fosse d'accordo?” la voce della donna si era fatta dura e sospettosa.
“Faccia come creda” rispose secco e chiuse la chiamata.


Erano le undici e mezza passate quando sentì battere in modo scomposto alla porta.
Aprì e se la trovò davanti con le braccia ingombre.
“Ciao scusa, avevo le mani occupate e ho dovuto bussare col piede. Ho preso anche qualcosa da bere” disse accennando al sacchetto che le pendeva dal braccio.
Sesshomaru rimase zitto ed immobile così da costringerla a sollevare lo sguardo, che fino ad allora aveva rivolto ovunque tranne che verso di lui. Quando ottenne quel che voleva le liberò le mani dai cartoni della pizza e si diresse verso la cucina.
“Potevi suonare, sarei venuto sotto.”
“Ma no, figurati!” Dalla voce dedusse che era rimasta sulla porta.
“Che fai, stai lì?”
“Oh, no, non so... scusa” balbettò ed entrò.
“Stai bene?” le chiese voltandosi a guardarla. Si stava togliendo le scarpe e le stava riponendo accanto alla porta, fingendo di essere indaffarata per non rispondere.


Era in tensione, si era aspettato che lei sarebbe stata felice di cenare con lui. Non era una vera cena, non era un vero appuntamento ma era comunque il genere di cose che supponeva piacessero alle femmine, invece lei pareva titubante. Forse il tono di voce che aveva usato non era incoraggiante, le situazioni ambigue d'istinto lo rendevano guardingo e sospettoso.
“Stai bene, Rin?” modulò con maggior dolcezza.
La sentì sospirare piano e quando sollevò di nuovo lo sguardo, con la testa inclinata leggermente di lato, il volto era illuminato da un sorriso. Centro perfetto: l'ennesima conferma del fatto che stava diventando bravo ad esercitare carisma anche con l'intonazione della voce.
Sul fatto che l'ottenimento di quel sorriso gli provocasse tanto orgoglio quanto sollievo, preferì non indugiare.
“Sì, sto bene, Sesshomaru, grazie.” continuando a sorridere gli si avvicinò, con le mani affondate nelle tasche del cappotto, “Sono solo molto stanca e a dirla tutta non sapevo cosa aspettarmi, temevo di aver capito male!”
Aggrottò la fronte per spingerla a spiegarsi.
“Sì, avevo paura che Yumi avesse frainteso e che in realtà le pizze fossero per te e un amico”, o un'amica, non lo disse ma era evidente, “e che avrei fatto la figura dell'idiota!”
Ecco, è quando la vedeva così spontanea, aperta, esposta, che gli si formava un grumo fastidioso a livello dello stomaco, qualcosa di simile ad un rigurgito di coscienza, la sensazione che giocare con lei a quel modo non fosse un gesto onorevole.
“E il peggio è che sono affamatissima e sarei andata a letto senza cena, perché non avrei avuto la forza di prepararmi niente!”
Lo stomaco di lei confermò l'esigenza con un gorgoglìo e Sesshomaru sentì le labbra tirare in un mezzo sorriso.
“Levati quel cappotto e siediti allora.”
Non se lo fece dire due volte e in un attimo erano al tavolo con i cartoni aperti davanti. Aveva già una fetta praticamente in bocca quando si fermò con la mano a mezz'aria e gli sorrise ancora, un incanto di sorriso. “Grazie infinite dell'invito, Sesshomaru.”




Ricordava che si fossero seduti sul divano, dopo una cena in cui si era mantenuta un'atmosfera di serena complicità – aveva riso tanto e Sesshomaru aveva sorriso ben tre volte – ma come fossero finiti l'uno addosso all'altra e come si fosse lasciata travolgere in una situazione che ora li vedeva avvinghiati, ansimanti, a consumarsi le labbra di baci, di questo non aveva memoria.
La schiena adagiata sulla morbida pelle grigia dell'ampia chaise longue, Sesshomaru sdraiato accanto a lei, anzi, sempre più su di lei, le bocche che, pur a corto di ossigeno, non resistevano separate per più di qualche istante. Maledetta, maledetta Ayame, altro che campane a festa. La lingua di Sesshomaru era una carezza intensa e soave, dalla quale si era lasciata condurre, guidare e alla quale infine si era abbandonata, lasciando che labbra e lingua gli rispondessero, che le mani cercassero il suo volto. Lui l'aveva conquistata con pazienza e lentezza, memore forse delle sue passate insicurezze, ed ora si trovava ad inseguire le sue labbra, ebbra, appassionata, desiderosa di non interrompere quel fluire di sensazioni che le incendiava le guance, il petto, le pieghe segrete fra le gambe.
Sentì la sua mano risalirle con cautela il fianco ed infilarsi appena sotto il maglione, mentre la sua bocca le avvolse le labbra in un bacio morbido, rassicurante. Rispose carezzandogli il viso e aprendo le labbra a lui – da dove le provenisse, poi, una tale audacia – e percepì l'incendio divamparle sul fianco, dove le sue dita le massaggiavano piano la pelle coperta da una canottiera sottile e si addentravano a sfiorarle il seno. I movimenti, sempre lenti, divennero più ampi e giunsero ad insidiarle l'orlo dei pantaloni, fino a percorrerlo con studiata noncuranza e a raggiungere il punto, sulla schiena, dove la canottiera si era sollevata, lasciando esposta una sottilissima striscia di pelle. Quando un suo polpastrello la percorse in lunghezza, sentì un gemito fuggire dalle labbra, fino all'attimo prima impegnate in un bacio travolgente e proprio in quel momento invece libere di tradirla.
Un moto di sgomento e vergogna la pervase, presto esiliato da una scarica di brividi, provocati dalle labbra di lui che si avventarono sul suo collo e dalla sua mano che le afferrò il fianco e la trascinò contro di sé. Erano aderenti, intimi, lui intrecciò una gamba alle sue e i suoi baci sul collo da dolci divennero umidi, arditi, intensi.
Un piccolo morso sulla clavicola, un altro piccolo urlo strozzato. Cielo, ma era lei a gemere così?
L'imbarazzo e il timore di non saper gestire una situazione più intima presero il sopravvento e si trovò a nascondere il proprio viso tra il collo e il petto di lui, sfuggendo ai suoi baci. Ansimante, vergognosa, preoccupata.
Di nuovo, l'aveva fermato di nuovo.
Tutto l'ardore si spense e fu sopraffatta da sensazioni più banali e concrete: il caldo, il sudore, l'essere vicini, troppo vicini. E, al di sopra di tutto, un martellante “Cosa devo fare?”.
La mano di Sesshomaru abbandonò la sua schiena e riportò il maglione al suo posto; lo sentì scostarsi da lei e adagiarsi su un fianco e attese, con il volto nascosto dai capelli, che si alzasse e la lasciasse lì, sola, come meritava di stare.
“Rin”. La sua voce aveva una sfumatura di rimprovero ma non pareva arrabbiata, né delusa. Una mano si fece strada fra i suoi capelli e le scoprì il volto.
“Io...” non riuscì ad andare avanti. 'Mi dispiace', voleva dirgli, 'mi dispiace tantissimo, sono un'imbranata, una patetica imbranata'. Gli lanciò un'occhiata di sfuggita e la sua espressione la fece sentire ancora più a disagio: era rilassato, il volto appoggiato sulla mano raccolta, le labbra atteggiate in un sorriso appena accennato. Strafottente, enigmatico, sicuro di sé, come un angelo caduto.
Tacquero entrambi e per una interminabile manciata di secondi sentì il peso del silenzio premerle addosso, e poi sollevarsi quando lui cominciò a giocherellare con una ciocca dei suoi capelli, sfiorandole il viso con le dita. Dita affusolate, con le unghie più lunghe e curate di quanto ci si sarebbe aspettati da un uomo, che contrastavano con il palmo grande in cui vene e muscoli erano ben distinguibili sotto una pelle liscia e tesa, a suggerire una potenza trattenuta. Le mani di Sesshomaru erano un'alchimia di potenza ed eleganza ed osservarle le aveva concesso una fuga mentale provvisoria quanto vana.
“Cosa stai facendo?” gli chiese, solo per spezzare il silenzio.
“Attendo che tu recuperi l'uso della parola”, rispose pronto, “O, perché no, della lingua...”
A quell'allusione insinuante si indignò – non quanto avrebbe dovuto, in verità – e sollevò la testa, guardandolo con un cipiglio... mezzo cipiglio.
Lui, beffardo, con un dito premette sulla sua fronte, facendole perdere l'equilibrio e spingendola a coricarsi di schiena, sul divano.
“Che personaggio sei, Sesshomaru!” disse, sospirando.
Puntò gli occhi sul soffitto e con un coraggio che stupì lei stessa si accinse ad affrontare il grumo della questione. Per quanto imbarazzante, andava risolta, o perlomeno spiegata. Non voleva che lui pensasse che lei si ritraesse perché non interessata, o che avesse problemi con il sesso – beh, sì, era imbranata e impacciata, ma perché non sapeva farlo, non perché non volesse farlo!
Il fatto era che... “Il fatto è che tu mi piaci davvero, tantissimo.” buttò fuori tutto d'un fiato, con gli occhi fissi al soffitto.
“Non... non mi accadeva da tanto tempo di sentirmi così coinvolta”, dirgli 'mai' sarebbe stato decisamente troppo, “e non riesco a credere che tu, che uno come te, così...”
Sentì le guance ardere ma doveva dirlo, era la pura verità, “ … così bello, affascinante, benestante, lanciato verso una luminosa carriera, possa essere interessato ad una come me, alla vicina di casa impacciata che consegna pizze per sbarcare il lunario e pagarti l'affitto.”
“Ne abbiamo già parlato, mi sembra.” La voce di Sesshomaru suonò dura e distante, stridente con la sua dichiarazione balbettata.
“Di quanto tu sia bello, ricco ed intelligente? Non mi pare.” disse con una risatina forzata, per nascondere l'imbarazzo.
“Di quanto ti sminuisci e ti preoccupi dell'inutile giudizio altrui.”
“Oh” incassò, “Sì, no... ma in questo caso è diverso!”
Lo spettro di quel 'patetica' con cui era stata appellata tempo prima era giunto a risucchiarle tutto l'ardimento, tuttavia era vero, non era il giudizio altrui che la preoccupava, né il sentirsi inadeguata. Forse – ed era difficile esprimerlo senza risultare offensiva – il vero problema era che queste differenze così marcate fra loro e il suo carattere scostante e distaccato non la rendevano sicura delle sue intenzioni.
“Spiegati allora.” la incalzò lui quasi imperioso.
“Te l'ho detto. Non mi spiego come tu possa essere interessato a me. Tempo fa, hai detto che non sei interessato ad avere una ragazza e poi, con tutte quelle con cui potresti stare, dovresti voler stare proprio con me?”
Silenzio. Troppo silenzio.
“Forse stai correndo troppo, Rin.”
Eh?
“Eh?!”
Aveva sparato un colpo secco ed era scivolato – fuggito – via dal divano, lasciandola con il cuore martellante e, nella testa, un rincorrersi di pensieri ovattati e rimbombanti, come i suoni in quelle palestre troppo vuote.
Lo osservò sparecchiare con calma, svuotare le briciole nella spazzatura, piegare i cartoni come fossero carta velina e introdurli in uno dei cinque contenitori grigi perfettamente affiancati sotto il lavandino, ciascuno provvisto di una candida etichetta indicante il materiale di conferimento. Le bottiglie nel vetro, i tappi nel metallo. Metodico, preciso, efficiente.
Si alzò meccanicamente sistemandosi i vestiti, mentre lui con una spugna umida liberava il tavolo dagli ultimi residui di cibo.
Recuperò il cappotto e la borsa e si piegò per infilarsi le scarpe. Quando si rialzò se lo trovò accanto, non l'aveva sentito avvicinarsi e trasalì. Cercò qualcosa da dire ma nella sua testa qualsiasi pensiero era sfocato e triste.
“Buonanotte, Sesshomaru”, le uscì solamente, “grazie per la serata.”
Nonostante la situazione, nonostante lui mantenesse una compostezza impietosa, senza curarsi di sollevarla dal suo stato, lei non riuscì ad essere scortese o indisponente. Si dimostrava sempre accomodante, con chiunque, in qualsiasi situazione. Si detestò per questo e la rabbia le spinse lacrime brucianti ai margini degli occhi.
Si voltò per guadagnare l'uscita e con sorpresa lo vide aprirle la porta con cortesia e sfiorarle la schiena con la mano mentre lo superava.
Era già a metà pianerottolo quando udì un tenue: “Buonanotte, Rin. A domani.”
Stupita, si voltò a guardarlo. Un tono sommesso, un volto tormentato da... beh, cosa non avrebbe saputo dirlo, ma perlomeno era qualcosa.
Carica di quell'ennesimo frammento di confusione ed incertezza, si affrettò a barricarsi nella serena, confortante mediocrità del proprio appartamento.




Si era addormentata sul divano, stremata e ancora vestita. Se ne accorse rotolandovi giù per raggiungere il telefono che squillava con insistenza.
“Mmh?” rispose, allontanando per istinto l'altoparlante dalle orecchie, quando lesse il nome del chiamante.
“RiiiiiiiNN, bellaaaaaaaa!!! Sei tornata e non mi dici niente?!?” Ecco, appunto.
“Ayame, abbassa la voce, mi sono appena svegliata.”
“Uh-oh. Strano, non è da te. Fatto nottata?”
“Sì, più o meno,” si trascinò in camera da letto e lasciò il telefono su una sedia vicino all'armadio, attivando il vivavoce. “Sono tornata prima perché il capo aveva bisogno, così ieri sera ho lavorato.”
“Oddio, e ti ha dato un turno doppio, quel disgraziato? Non dovevi accettare, Rin, sei una ragazza, non può mandarti in giro fino alle due di notte, ci parlo io e vedi...” la filippica di Ayame partì mentre era impegnata a levarsi la maglia.
“No, ehi, frena!” la stoppò, appena libera di parlare. “Ho fatto il turno solito. Solo che dopooo...” lasciò la frase in sospeso appositamente, pregustandosi la reazione dell'amica.
“Beh?!? Dopo cosa? VUOTA IL SACCO!”
Rise e si affrettò ad eseguire. “Sesshomaru mi ha invitata a mangiare una pizza da lui. Cioè, si è fatto recapitare due pizze ed erano per noi, insomma.”
“Uhu, gagliardo l'amico. E poi?”
“E poi niente, abbiamo mangiato e chiacchierato, siamo stati proprio bene...”
“Avanti, Rin.”
“Uffa! E va bene, siamo finiti sul divano, uno di quei divani lunghi senza schienale, hai pres...” “Chaise longue, si chiama. E poi?”
“E poi mi ha baciata facendomi dimenticare perfino il mio nome, e accarezzata, e poi...”
“L'avete fatto?”
“No!” esclamò esasperata, poi sospirò rumorosamente e abbassò il tono, “No, Ayame. Credo che... ecco, l'avremmo fatto, se io non l'avessi fermato.”
“Di nuovo?!?”
“Di nuovo”, pigolò. “Non me la sono sentita.”
Ayame tacque per qualche secondo e Rin la adorò per questo. Ayame sapeva capire quando smettere di scherzare. Si era svestita di maglietta e pantaloni intanto, aveva recuperato il telefono e si era lasciata cadere sul letto dietro di sé.
“Tesoro,” la voce squillante era diventata affettuosa e comprensiva, “guarda che non è un problema. Non devi per forza andare fino in fondo con un ragazzo; io non lo faccio perché sono malata, lo sai, voglio solo Koga. Ma tu sei liberissima di fermarti, anche se lui ti piace tanto. È legittimo non sentirsi pronte.”
“Sì, Ayame. Ma il problema è che che lui mi piace davvero tanto, da impazzire. Lo... lo desidero.”
E dirlo semi-nuda, sdraiata su un letto, la turbò non poco. Ayame sospirò lievemente ed aspettò che continuasse, spronandola con un semplice “Ma..?”
“Non so, Ayame, è sempre lo stesso problema. È come se non ci credessi davvero, che lui vuole me, che vuole stare con me. Stiamo benissimo insieme, ma mi sembra irreale!”
“In che senso, dici?”
“Ecco... lui è stranissimo. È l'opposto di me. Non parla mai di sé stesso e quando esprime un'opinione si percepisce il disprezzo verso tutto e tutti, poi è un maniaco della precisione e dell'ordine: a casa sua tutte le superfici sono libere e pulite, non ci sono oggetti in giro, neanche le chiavi o il telecomando! E il divano ad angolo in pelle grigia chiara, morbidissima, con quella chaise-cosa su cui dormirebbero comode tre me stesse... ed io mi chiedo cosa ci faccio lì, cosa ci fa una ragazza chiacchierona, imbranata ed insicura nella sua vita.”
“Rin, diamine, forse gli piaci proprio per questo, perché sei diversa, perché sei riuscita a penetrare la sua corazza e a portare un po' di colore nella sua vita asettica e monotona!”
“Io... non so se gli piaccio. Non me l'ha mai detto, anzi, mi critica sempre.” disse imbronciata, mentre si alzava per recuperare dal cassetto la biancheria pulita e una t-shirt.
“Però ti cerca, gli piace la tua compagnia. E, beh, si sdraia con te sulla chaise-cosa!” risero entrambe. “Di sicuro, almeno da quel punto di vista, non gli sei indifferente!”
“Sì, è vero,” ammise. “Non so, Ayame. Io ne sono innamorata, ormai lo ammetto. Ma proprio per questo non mi accontento. Non mi basta essere una che vuole portarsi a letto. Vorrei... vorrei che fosse il mio ragazzo, ecco, non un tromba-vicino, come dici tu!”
L'altra sogghignò e aggiunse speranzosa: “Magari lo vuole anche lui, essere il tuo ragazzo, dico.” “Mmmhhh... no, non credo. Tempo fa mi ha detto che non gli interessa avere una ragazza.”
“Beh, può aver cambiato idea, conoscendoti.”
“No, Ayame,” Rin si accinse ad affrontare il ricordo più bruciante della serata precedente; l'aveva cacciato indietro fino a quel momento, perché il modo in cui infine l'aveva salutata aveva rafforzato il fasullo convincimento 'magari ho interpretato male'. Tuttavia c'era poco da fare: forse si era pentito di averlo detto, ma il messaggio di Sesshomaru era stato chiarissimo. “Ieri sera mi ha detto che 'corro troppo'”, sputò fuori. “A me sembra che sia lui a correre troppo, allora! Non sono una frivola bambolina!” aggiunse a sua discolpa.
“Eeeeeh? Spiegami bene 'sta cosa del 'correre troppo'...”
“Sì, aspetta un attimo che mi sposto e poso la roba che ho in mano,” disse raccattando il telefono dalla sedia e avviandosi verso il bagno.




Sesshomaru non poteva credere a quel che aveva sentito.
Sedeva sul bordo del letto con le braccia tese e i pugni contratti sulle ginocchia, nel tentativo di arginare la collera che le sue parole gli avevano suscitato.
La propria camera da letto e quella di Rin avevano una porta di comunicazione, cosa che lei non poteva sapere poiché nell'altro appartamento era stato posto, davanti all'apertura, un pesante guardaroba. Più volte aveva pensato di dirglielo, ma non v'era mai stata occasione e soprattutto la cosa non aveva mai portato conseguenze. Almeno fino a dieci minuti prima quando, entrando in camera per cambiarsi, aveva sentito la voce di Rin e della sua amica, chiare e squillanti come se fossero nella stessa stanza.
Si era fermato, incuriosito dall'argomento della conversazione, ma anche ora che le voci erano scemate perché la ragazza si era spostata in un'altra stanza, era rimasto inchiodato nella stessa posizione. Avrebbe potuto intensificare il proprio udito per carpire il resto della conversazione ma era una pratica che gli recava ampio disturbo – i rumori della città gli sarebbero piombati addosso con fragore assordante – e in fin dei conti pensò che non ci fosse altro da sentire.
Lei non si accontenta. A lei non basta.
Non le basta cosa? Non le basta il tempo che le ha dedicato e le attenzioni che le ha rivolto? Non si è comportato così con nessuna, mai. L'interesse nei suoi confronti è stato sincero. Dedicarle attenzioni ed affascinarla è stato gratificante, perché il tempo trascorso in sua compagnia è sempre stato piacevole. Anche mantenere il rapporto vivo in quei dieci giorni solo tramite messaggi era stata un'esperienza nuova e lui stesso si era scoperto inspiegabilmente eccitato dall'attesa di una risposta.
Con nessuna, mai, con nessuno invero, è stato così vicino ad un rapporto di... amicizia? Affetto? Non sa come definirlo, ma era qualcosa di... nuovo, e gradevole.
E certo che vorrebbe portarsela a letto, è un maschio, mica una dama di compagnia! Fremette al ricordo dei suoi gemiti trattenuti e di quella deliziosa vergogna nell'abbandonarsi. Si diede dell'idiota, a ripensarci, perché quella che lui aveva interpretato come ritrosia e come tale aveva rispettato, con una pazienza per lui del tutto inusuale, in realtà era un volgare rifiuto.
Lei non lo vuole.
È lui che non è abbastanza per lei, non il contrario, dannata ipocrita. È lei che vuole una storia normale, con un ragazzo normale, mica uno così strano, diverso.
Probabilmente si aspettava una proposta in ginocchio o un anello di diamanti o una dichiarazione in carta pergamena. Le cercasse altrove.
Mai avrebbe creduto che Rin fosse così.
Mai avrebbe creduto che il suo essere diverso gli venisse rinfacciato da lei, proprio da lei. Strinse i pugni e si alzò, conscio e orgoglioso della propria imponenza. In fondo era solo l'ennesima riprova dell'inaffidabilità e volubilità dell'animo umano. Nulla per loro aveva valore duraturo, tutto era mutevole e sfuggente, come le loro inutili vite.
Era stato distratto dal volo di una farfalla troppo colorata e insistente, ma nulla di più. C'erano in giro farfalle ben più facili da agguantare e, soprattutto, lui aveva un obiettivo da portare avanti.
Si alzò, si vestì in fretta ma con cura e uscì con furia trattenuta, colmo delle peggiori intenzioni.




Sorrise ancora mentre si asciugava i capelli, ripensando alla frase di chiusura della telefonata con Ayame. “Siamo romantiche a livelli schifosi, Rin! Finiremo zitelle a implorare le attenzioni del primo che passa!!”
Già, che sciocca. Parlare con Ayame l'aveva tranquillizzata e le aveva permesso di ritrovare un equilibrio seppur precario. Era innamorata e lui con lei si era aperto moltissimo, era premuroso e attento. Poteva fidarsi, poteva dargli – darsi – una possibilità? Poteva.
Preparò un pacchetto con alcuni dolci di riso della sua mamma e andò a bussare alla sua porta.
Stranamente non rispose, la sera prima le aveva detto che sarebbe stato a casa a studiare ma forse era sopraggiunto un impegno improvviso. Era un po' delusa perché avrebbe voluto risolvere la situazione e perché su quel 'a domani' che lui le aveva rivolto ci aveva fatto affidamento, ma avrebbe aspettato. Gli lasciò il pacchetto sullo zerbino: il trovarlo l'avrebbe bendisposto, aveva scoperto che era goloso di dolci tradizionali.


Si svegliò di soprassalto e si tirò su, intontita. Era già buio, doveva essersi addormentata sul divano. Ma cos'erano quegli schiamazzi? C'era una voce di donna che rideva sguaiata nel corridoio.
Si alzò barcollando e si diresse verso la porta, ma contemporaneamente alla sua apertura la porta dirimpetto sbattè, ingoiando all'interno la voce sguaiata.
Rin chiuse l'uscio scatto, ancora semicosciente, confusa. Incredula. Un'angoscia le risalì dal petto verso la gola, soffocandola. 'Non...non è possibile...' mormorò fre sé e sé.
Incespicò verso il bagno e fu attirata verso la propria camera da voci. No, la stessa voce, quella di una baccante ubriaca, che mugugnava, diceva cose orribili, emetteva urletti.
“Stai zitta.” Una voce maschile, la sua voce, imperiosa, ottenne immediatamente il cessare di quegli schiamazzi.
Ma non potè impedire a quella di ansimare e sospirare con indecenza. Un gemito più forte la fece rabbrividire e una scossa finalmente le percorse la spina dorsale risvegliandola dall'ibernazione che l'aveva inchiodata allo stipite della porta. Se ne andò, si chiuse in bagno, aprì tutti i rubinetti e si rannicchiò con le mani serrate sulle orecchie.
Nulla, non voleva sentire nulla, più nulla di quello schifo, di quella cosa disgustosa che si stava consumando di là. Voleva sentire solo i suoi, di gemiti, e il battito forsennato del cuore – ma c'era ancora? Non si è frantumato, non era esploso? Artigliò la felpa sul petto per fermarlo, per non sentirlo più, perché faceva solo male e non serviva niente e lei voleva solo sparire e non sentire più nulla, mai più nulla.
E invece sentì ancora. Urla, urla nel corridoio. La voce di quella che urlava e insultava.
“Sei un porco! Sei un bastardo!” Tonfi di oggetti sbattuti per terra.
“Neanche il tempo di rivestirmi! Non sono una puttana!”
“Ti ho chiamato un taxi. Sparisci.”
Una porta che sbatte. Urla ed insulti che si allontanano, rimbombando nella tromba delle scale. Uscì dal bagno. Una forma di masochismo la trascinò alla finestra, dove osservò la donna – lunghi capelli scuri, malferma sui tacchi alti, il cappotto buttato sulle spalle – aprire la portiera del taxi e rifugiarsi dentro, dopo aver urlato un ultimo, sdegnato “Bastardo!” all'indirizzo del palazzo.
E come darle torto. Fino a pochi minuti prima lui era – oh, che schifo!con lei e un attimo dopo l'aveva buttata fuori. Usata e gettata via, come uno strofinaccio.
Si appoggiò con la fronte al vetro, poi voltò la faccia e vi appoggiò la guancia in fiamme. Il freddo le diede sollievo, chiuse gli occhi e sentì il suo cuore vibrare di delusione, poi rallentare la sua corsa e infine spegnersi, ammutolirsi.


Fu un destino crudele e beffardo che fece loro aprire le porte nello stesso momento, la mattina dopo. Se lo trovò davanti, vestito di tutto punto e quasi le venne da vomitare per il disgusto.
Si guardarono per qualche istante in silenzio e poi gli occhi di entrambi si posarono sul pacchetto che giaceva calpestato a lato dello zerbino. Si intravedeva un dolce di riso, nudo e disfatto.
Pensò che non c'era metafora migliore per descrivere sé stessa: si era gettata ai suoi piedi e ne era uscita calpestata e accantonata.
Per rispetto verso l'affetto e la dedizione di una madre, andò a recuperare quei miseri resti, piegandosi sulle ginocchia ma mantenendo dritta la schiena.
Lui non aveva mosso un muscolo e ora stazionavano a poco più di un metro di distanza, lei a ingombrargli il passaggio verso le scale, come capì intercettando una sua occhiata di traverso. Aveva anche osato pensare ad una fuga, che vigliacco. Come mai prima d'allora si sentiva una bomba pronta ad esplodere ma, cosa assai strana, riuscì a contenere la sua ira ribollente e a mantenere contegno e silenzio. Che fosse lui per primo a parlare, oggi di certo non l'avrebbe tolto dall'impasse.
“Spostati Rin. Devo andare.”
“Oh, certo. Hai delle occupazioni così nobili, in questi giorni.”
“Cosa intendi, Rin?” aveva un che di intimidatorio l'utilizzo del suo nome.
“Non fare il finto tonto, Sesshomaru. Mi riferisco alla vostra esibizione, ieri notte. Si dà il caso che dalla mia camera da letto si senta tutto, ma proprio tutto.”
“Non credo di dover rendere conto a te di quello che faccio nel mio appartamento,” la sua voce era dura e appena percettibile, “E si dà il caso che anche dalla mia camera da letto si senta tutto.”
“Ma come ti permetti? E cosa si sarebbe sentito, di grazia? Io non ho mai portato... gente a casa!”
“La cosa non mi stupisce affatto! Sei tu quella che non si accontenta.”
“Cosa?” sussurrò, boccheggiando.
“Ti è così facile esprimere sentimenti e dichiarare amore con leggerezza, ma poi è evidente che per te non sono abbastanza. Non vedo perché dovrei sprecare ancora tempo dietro una che non mi ritiene alla sua altezza.” Pronunciò l'ultima frase muovendo due passi verso di lei e fermandosi a sovrastarla.
“Sesshomaru”, tenne a freno le lacrime e parlò con voce tremante di veemenza, “non ho mai provato odio per nessuno, ma sappi che ti disprezzo dal più profondo del cuore. Sono io che ho sprecato tempo con te, perché tu di me non hai capito niente.”
“Ma cosa credi, Rin, chi ti credi di essere?”, anche la sua voce era vibrante di collera, ma restava bassa e controllata. “Tu credi di aver capito qualcosa di me? Tu di me non sai niente. Hai visto quel che volevi vedere e lì ti sei fermata.”
“Ah sì? E fammi capire, se fossimo andati più... uhm... in profondità, cosa ne avrei ricavato?”
Il suo volto si indurì e lei continuò, imperterrita, animata dall'ira del giusto. “Forse un trattamento come quello riservato a quella poveretta”, schifosa, ma poveretta, ma in definitiva schifosa, “ieri sera? Beh con me avresti perfino risparmiato sul taxi!” Lo guardò fisso negli occhi mentre gli vomitava addosso il suo disgusto, poi infilò le scale senza voltarsi indietro.
Non le interessava la sua risposta, non le interessava la sua reazione. Tanto, con tutta probabilità, avrebbe atteso invano entrambe.
Non le interessava più lui, non le interessava più niente.
Uscì nell'aria gelida delle mattine di gennaio e gettò l'intero pacchetto – i dolci, il cuore, le lacrime, le illusioni – nel primo cestino che trovò.



***


Ayame era stata irremovibile. Non appena le aveva confessato il senso di oppressione che provava nel rientrare nel suo appartamento, aveva cominciato a martellarla affinché si trasferisse.
Mentre sigillava gli ultimi scatoloni si ripetè che era stata una scelta giusta. Aveva ragione Ayame, non aveva senso vivere accanto a quel porco (Ayame era stata più dettagliata negli insulti) e pagargli perfino l'affitto. Dagli avvenimenti di due settimane prima non dormiva più nella sua camera da letto, per il terrore di essere svegliata da rumori che non tollerava neppure ricordare, figuriamoci risentire; per paura di incrociarlo attendeva che vi fosse silenzio assoluto per uscire, percorreva le scale in fretta e furia in salita ed in discesa, faceva la spesa ad ore impossibili ed in un altro supermercato. Non andava bene.
Ogni angolo del quartiere le ricordava qualcosa di quel che c'era stato – cosa c'era stato? Niente, un'illusione, un sogno, il volo pindarico di una sciocca, eppure ogni ricordo le provocava fitte dolorose a quel muscolo che, nonostante tutto, non aveva cessato di battere.
Restare lì non l'avrebbe aiutata a superare, a dimenticare, tutt'altro.
Non avendo potuto dare un sufficiente preavviso – e non avendo alcuna voglia di fornire spiegazioni – le sarebbe toccato lasciare due mensilità di penale, come da contratto. Le avrebbe versate direttamente sul conto fornitole per telefono dalla madre del suo vicino, la quale era parsa dispiaciuta ed interdetta per la sua richiesta, ma per fortuna non le aveva fatto domande.
Ayame si era offerta di ospitarla finché non avesse trovato un'altra soluzione, da divano a divano la differenza non era poi molta. Avrebbe cercato qualcosa di più economico, magari una stanza in un alloggio in condivisione. Qualcosa di ammobiliato, non aveva voglia di arredare una casa né soldi per farlo.
Fece un ennesimo “ultimo giro” nell'appartamento, alla ricerca di oggetti dimenticati. Aprì e richiuse di nuovo gli sportelli della cucina, era tutto vuoto. Per aiutarla a trasportare scatoloni e valigie, Ayame aveva mobilitato Koga e un suo amico, uno con un buffo codino e un atteggiamento esageratamente premuroso ed affabile, un po' insistente nell'offrirle comprensione e conforto, ma simpatico. Lo guardò caricarsi dell'ultima valigia ammiccando al suo indirizzo e gli concesse un sorriso stentato.
Lasciò la scatola bianca ben al centro del tavolo, toccandola con la sola punta delle dita, come se scottasse. Infine, si mise la borsetta a tracolla, raccolse da terra l'ultimo sacchetto di spazzatura e si chiuse la porta dell'appartamento alle spalle.


Il furgone di Koga aveva tre posti davanti e lei si era seduta dal lato finestrino. Per lasciare Ayame più vicina al suo amato e per potersi isolare meglio, volgendo lo sguardo all'esterno e godendo del freddo del vetro sulla tempia. Il gelo la aiutava a non piangere.
La mano calda di Ayame raggiunse la sua sulla coscia e la strinse piano, ma lei non ricambiò.
“Cosa ti ha detto?” le sussurrò.
“Lascia stare, Ay.”
Si morse le labbra con forza. Cosa le aveva detto.
Uscendo, era andata a gettare la spazzatura e poi era tornata sui suoi passi perché il furgone era parcheggiato dall'altra parte. E lì l'aveva visto, fermo davanti al portone d'ingresso. Il cuore le era balzato in gola, perché aveva la guardia abbassata, perché era sicura di averla scampata, di essere riuscita ad evitarlo. Invece eccolo lì, ritto, serio, imperscrutabile. E magnifico, come sempre, nel suo cappotto nero lungo fin sotto il ginocchio, i pantaloni grigi e gli stivaletti neri.
Aveva fatto per superarlo, pavida lei, stavolta.
“Non sapevo andassi via.”
“L'ho detto a tua madre, è tutto a posto.” gli aveva risposto in fretta, guardando altrove. Aveva ancora sperato di poter fuggire e invece...

Strinse i denti e la mano di Ayame, e le lacrime ruppero gli argini. Si rifugiò sulla spalla dell'amica singhiozzando “È l'ultima volta, Ayame, è l'ultima volta che piango per lui, te lo giuro!” e Ayame la cullò, comprensiva.
Cosa le aveva detto. “È stato così facile fartelo credere. Devi crescere, Rin.”
Questo le aveva detto.




Sesshomaru era rimasto a lungo immobile sul marciapiede, dopo averla seguita con lo sguardo mentre correva via e si infilava in un furgone color bianco sporco.
“Non sai niente di me!” le aveva detto poco prima, a voce alterata, irritato dal suo apparire distaccata e già altrove, dal fatto che nessuno l'avesse avvisato del suo trasferimento, dal fatto che nelle ultime settimane tutto era sembrato sfuggire al suo controllo.
“Ma io ci ho provato, io avrei voluto sapere! ” aveva urlato lei di rimando, guardandolo dal basso con quegli occhi grandi, spalancati, occhi di chi non si capacita, di chi è deluso nel profondo. “Io non ti ho chiesto niente,” aveva mormorato lei a voce più bassa, “avremmo potuto rimanere dei buoni vicini, essere amici, io non ti ho chiesto niente.”
Ed era vero, dannazione se era vero. Lui l'aveva sedotta, lui l'aveva illusa. Per diletto, perché ci aveva provato gusto, perché era stato terribilmente piacevole.
“Non ti è mai importato niente di me in verità. Io lo sapevo, ma è stato così facile crederti.”
Avrebbe potuto smentirla, avrebbe dovuto. Perché se mai gli era importato di qualcuno, questo qualcuno era lei. Ma a che pro? Se ne stava andando, lo disprezzava. Ne aveva il diritto e lui non aveva nulla da offrirle in rimedio.
Quand'era così, aveva sempre creduto che la pietà fosse nel recidere.
“È stato così facile fartelo credere, perché sei una ragazzina. Devi crescere, Rin.”
L'aveva vista impallidire, appassire nel volto e nelle spalle e nelle braccia che erano crollate lungo il corpo. E si era reso conto che il fendente gli si era ritorto contro, perché a lui, lo sguardo di Rin ferita senza ritorno, aveva trapassato il torace.
Lei si era riscossa con un tremito e gli aveva dato le spalle.
“Sesshomaru ti chiedo solo una cosa. Sparisci per sempre dalla mia vita.”


Il furgone era scomparso alla vista.
Si avviò lentamente a piedi dalla parte opposta e l'occhio venne catturato da un cestino dell'immondizia. C'era un sacchetto dal quale sporgevano fiori di carta multicolore, accartocciati e spiegazzati da una mano furiosa. Erano i fiori di Rin.
Con due dita lacerò ulteriormente il sacchetto, ne vide uno rosa pallido che sembrava essersi salvato dallo scempio. Lo afferrò con sottile speranza ma dal lato opposto alla sua vista si rivelò sporco, macchiato di scuro. Lo gettò via con ribrezzo e si trattenne a stento dallo sferrare un pugno contro il cesino stesso.
I fiori di Rin, la sua stessa essenza spensierata, colorata, allegra e fiduciosa, ora era sporca, rifiutata, gettata via.
Era stato lui a volere tutto questo e come mai, mai era accaduto nella sua lunghissima vita, si giudicò colpevole.






(*) “In sociologia, la profezia che si autoadempie, o che si autoavvera, o che si autorealizza, è una previsione che si realizza per il solo fatto di essere stata espressa. Predizione ed evento sono in un rapporto circolare, secondo il quale la predizione genera l'evento e l'evento verifica la predizione.[...]

In psicologia, una profezia che si autoadempie si ha quando un individuo, convinto o timoroso del verificarsi di eventi futuri, altera il suo comportamento in un modo tale da finire per causare tali eventi.”

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera, alla voce “Profezia che si autoadempie”




***


La fangirl che è in me avrebbe voluto intitolare il capitolo “Sulla chiase longue con Sesshomaru”, perché le scene che mi sono figurata, cari miei, ve le risparmio (o forse no, ma ogni cosa a suo tempo).
Ecco, non ho molto da dire su questo capitolo, se non che non è l'ultimo. Forse questo mi risparmierà il linciaggio... o forse no.
Non erano pronti, erano troppo diversi, non hanno avuto il coraggio di fidarsi l'uno dell'altra, di parlare invece di arroccarsi in difesa. Non so, spero che il mio punto di vista vi convinca. Insomma, si può essere innamorati ma non essere convinti che lui sia la persona giusta e fare, di conseguenza scelte sbagliate? A me è successo. Spero che non consideriate la posizione di Rin una forzatura, ma se così è sentitevi liberissimi/e di farmelo sapere.
Per quanto riguarda Sesshomaru... non è una bella persona in questa ff, ve l'ho già detto. È una società frustrante per i demoni, nel prossimo capitolo dovrebbe essere un po' più chiaro perché. E lui ha bisogno di affermare il proprio potere e di sentirlo consolidato, in questa AU più che mai. Ma si cresce e si cambia, questa vuole raccontare questa storiella. Il resto è spoiler.

Un'ultima cosa, che con la storia non c'entra nulla. Ho attivato una pagina feisbuc a nome Elerim. Oltre a pubblicarci gli avvisi dei miei sporadici aggiornamenti, inserirò settimanalmente le recensioni di storie complete che ho trovato su Efp e che mi sono piaciute tanto. Frega zero, lo so, ma non si sa mai, per arginare le cinquanta sfumature della noia.

Alla prossima, ringrazio tanto chi legge, segue, preferisce, ricorda, recensisce. Vi abbraccio!
elerim


 
   
 
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