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Autore: Damnatio_memoriae    16/03/2018    2 recensioni
Sul continente i ministri dei cinque rioni si affrontano nel Torneo di Palazzo per assicurarsi il dominio della Cittadella, ma nessuno sospetta che nell'ombra stia già tramando da tempo un oscuro pericolo che minerà profondamente le basi delle loro istituzioni, rompendo quella pace che, a fatica, è stata riconquistata dopo il tradimento di Kalendor. E intanto Theresa affronta le sue paure cercando di ricordare un passato troppo lontano e inafferrabile, mentre Daianara tenterà invano di battersi per impedirglielo.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 15
 
♦ La verità nella menzogna ♦
 
Salirai sempre più in alto per ricordarti la mia voce.
Ascolta la mia ultima canzone e prova ad amarmi.
Domani sarò qui a cantarti queste ultime parole:

per te troverò sempre un’ultima canzone”
 
 
Tutto intorno a lei era freddo e buio. L’umidità le penetrava nelle narici, le scorreva in corpo, le appesantiva gli abiti logori, lerci, impolverati, stracciati in ogni laccio e cucitura.
In mezzo al nulla che la circondava, nel vuoto in cui si era ritrovata, senza sapere né quando né perché, il rumore delle gocce che cadevano dal soffitto, infrangendosi sul pavimento, era assordante. Un fragoroso e insostenibile tic-tic. E quel tic-tic le stava scavando il cervello con il suo rimbombo, ne prevedeva il suono talmente era distinto e regolare.
Si sentiva inerme, amorfa, apatica. Nessuna immagine nella sua mente, nessun pensiero, nessuna domanda. Un limbo senza inizio e senza fine.
Solo tic-tic.
Tic-tic e il pavimento bagnato su cui era inginocchiata, la testa bassa, i capelli lunghi che le coprivano il viso, le braccia strette intorno allo sterno.
Perché si trovava in quella posizione? Perché non riusciva a muoversi? E, soprattutto, perché non sentiva il bisogno di farlo?
Tic-tic e un rumore di passi davanti a lei, un suono di abiti che strusciavano lungo il corridoio, una fiaccola che con la sua luce opaca iniziava a rischiarare l’ambiente in cui si trovava, o in cui qualcuno l’aveva messa.
Ma non importava. Nulla importava a parte quel lento ed estenuante gocciolio e quell’odore di chiuso e di muffa. Una segreta, o una cantina, o una prigione.
Nel suo campo visivo c’erano solo le sue cosce, piegate e scoperte, le mattonelle grigie del pavimento, le fughe bianche, due scarpette placcate di azzurro.
«Papà! Papà guarda!» qualcuno urlava, una voce acuta, eccitata, allegra. Le scarpette si mossero avanti e indietro, come in un cerchio. «Papà, papà, si muove! Guarda, si muove!».
«Sì, Daia, lo vedo». Una voce profonda, baritonale, calda e morbida in quello spazio invece cupo e insulso.
«E’ così bella…».
«Sì, lo è davvero» rispose con fare accondiscendente «E’ una bella bambina».
«Ma non è una bambina, papà!».
«Ah, no?». Un sorriso.
«No! E’ una bambina grande!».
«Hai ragione, è una bambina grande».
«L’abbiamo salvata? Ora sta bene?».
Un lungo silenzio. «Perché non glielo chiedi tu, Daianara?».
«Posso?».
«Certo. È la tua bambola».
«Oh! Tutta mia?».
«Quando le darai il tuo primo ordine, sì. Coraggio, fatti più vicina».
«Mhmh…».
«Avanti. Hai forse paura?».
In un angolo la stessa goccia, o forse era una nuova, cadeva nel vuoto e si consumava a terra. Un ticchettio più pronunciato, le scarpette blu sempre più vicine.
«Alzati!».
Chiaro, fermo, scandito, incontrovertibile.
Fu come se qualcuno le avesse dato un pugno alla bocca dello stomaco. Un profondo senso di gelo la invase completamente, gli arti si mossero tremando senza che lei riuscisse ad impedirlo, la vista si oscurò per un secondo che sembrò infinito e quando i contorni delle cose tornarono a farsi nitidi, non si sentiva più nemmeno sé stessa. Qualcuno tirava i fili del suo corpo, ogni tendine, nervo, muscolo le doleva, la sforzava, la affaticava, ma a nulla serviva fare resistenza. Sarebbe stato più semplice lasciarsi andare, molto più semplice guardarsi da fuori e attendere che il suo corpo facesse quanto le era stato ordinato, molto più salutare non provare quel dolore, quella voglia di aprire la bocca e urlare, quella voglia di trattenersi mentre fletteva le ginocchia per alzarsi. Tutto più semplice se la sua testa e la sua carne fossero tornati ad essere una cosa sola.
Qualcuno battè le mani. «Guarda papà, guarda! Si muove».
Perché essere felici del suo dolore?
«Adesso è tua, bambina».
Stavano parlando di lei? Perché, perché avrebbe dovuto appartenere a qualcun altro, a parte sé stessa?
«Vieni qua!».
Un’altra sofferenza. Altro dolore che la lambiva mentre vedeva il piede sinistro muoversi senza che lei lo desiderasse.
Perché? Perché avrebbe dovuto farlo?
Una voce urlò. Era roca, incompresa, intermittente, vibrante, straziante. Era la sua voce? Era quella la sua voce? Non la riconosceva.
«Ministro…».
«Papà, cosa sta facendo?».
«Zane…» un’altra voce maschile.
«Aspettate. Aspettate, diamole tempo. Daia…».
«Che cosa succede?».
Sorpresa.
«Parlale ancora, piccola. Continua a parlarle».
«Ma io veramente…».
Paura.
«Daia ascoltami, è importante. Dalle un altro ordine».
«Vieni qua!».
Incertezza.
…tutto molto più semplice se si fosse lasciata trasportare da quelle parole.
Semplice, ma non giusto.
«Ho detto vieni qua!».
«Ministro?».
«Papà, perché non mi ascolta? È rotta?».
Silenzio. Un sospiro profondo e quell’inesorabile tic-tic.
«Sì bambina mia. Temo di sì».
Rimpianto.
«Oh…». Come era possibile che una voce così innocente potesse darle tanto dolore? «Allora posso aggiustarla, posso aiutarla a stare meglio».
«No Daia, non puoi. Sbarazzatevi di lei».
Passi pesanti calpestarono le piastrelle. Due, quattro, sei mani le afferrarono la vita, le braccia, i fianchi. Percepiva la loro morbidezza e il loro calore sulla pelle. Perché la sua carne era invece così fredda e dura?
«Papà, cosa vogliono fare?»
«Mi dispiace tanto. Ci abbiamo provato». Una carezza mancata.
«Però…».
«Non guardare Daianara, girati. Donovan, porta via tua nipote».
«Zane, io non credo che questo sia…».
«Fa’ come ti ho detto. Non possiamo permetterci di tenerla con noi».
«L’hai portata tu qui».
«Credevo di poterla salvare».
«Papà, dove la stanno portando?».
«Donovan, prendi Daia».
«No, no!».
«Daia, smettila».
«Papà non lasciare che la portino via, non lasciarglielo fare!».
«Donovan, accidenti, non restartene lì impalato come un ronzino!».
«Mi dispiace Daia, non possiamo fare altrimenti».
«No, zio no!».
«Portate la legna, preparate il fuoco. La fornace deve essere calda».
«No!». Un pianto, una corsa, aria che si muove e nel suo campo visivo di nuovo quelle scarpette blu.
«Daianara, torna immediatamente qui!».
«Lasciatela stare! Non potete farle del male, non potete!».
La presa su di lei si fece più delicata, sempre più delicata, fino ad arrivare ad essere inesistente. Senza nessun sostegno si sentì cadere, ma qualcuno la reggeva ancora. Delle piccole dita, più calde di quelle precedenti, la tennero per le spalle. Una mano le accarezzò il collo, salì sulla guancia, le spostò i capelli rossi dietro l’orecchio. Ora vedeva.
Si sentì abbracciare e milioni di catene d’acciaio le si strinsero intorno al cuore. Ma ce l’aveva davvero un cuore? Non lo sentiva battere. Perché il suo cuore non batteva? Eppure dentro al petto si mosse qualcosa. Odio e amore, gratitudine e disprezzo, soggezione e sicurezza. Era davvero possibile sentirsi così legati ad una sconosciuta e al tempo stesso detestarla? Era possibile desiderare il suo bene e al tempo stesso volerle male?
Perché?
Chi era quella bambina?
…e lei chi era?
«Nessuno ti farà male» un sussurro nel suo orecchio «Ci penso io a proteggerti».
«Daianara spostati».
Si sentì stringere di più.
«No!».
«Spostati!».
«No! Sei cattivo! Vai via, vai via, non la toccare!».
«Zane, aspetta… dalle un momento».
«Quante possibilità c’erano che proprio lei fosse una ricaduta?».
«Non puoi tornare indietro adesso, fratello. Guardala».
«Non può restare».
«Avresti davvero il coraggio di fare una cosa simile? A lei? A Daia?».
«Ma la legge è…».
«La legge può essere riscritta, ma se adesso la uccidi…» lasciò la frase a metà «Pensa bene a quello che hai intenzione di fare: non è facile convivere con una decisione simile».
«Non ho altra scelta, Donovan!».
«C’è sempre una scelta. Un pezzo di carta non può valere davvero l’amore e il rispetto di tua figlia».
«Con quale coraggio posso fare quello che mi chiedi, sapendo che Kasimir mi aveva implorato di fare la stessa cosa per sua moglie ed io non l’ho ascoltato?».
«Forse questa è l’occasione che il destino ti ha fornito per rimediare ai tuoi errori».
Silenzio.
Sulla guancia sentì la morbidezza di un bacio, i piedi fasciati da scarpette blu che si issavano sulle punte per poterla raggiungere. «Rimarrai con me, te lo prometto. Rimarrai con me, anche a costo di nasconderti al resto del mondo».
 
♦♦♦

Era nata in uno dei tanti villaggi rurali che occupavano il rione di Tanaro lungo i confini a nord-ovest, lontano dalle sorgenti e dalle falde, dai laghi e dalle città. Intorno alla sua casa c’erano solo distese e distese di vivaci e colorate spighe di grano e lei si era sempre divertita a rubarle di nascosto insieme a suo fratello, nonostante i rimproveri della madre e la cinghia del padre. Un fiume artificiale irrigava la terra e giungeva sino ad Ennon, fornendo acqua ai contadini e nutrimento alle piante.
«Zelda!» la chiamava sua madre quando arrivava l’ora di ammassare le spighe insieme agli agricoltori, a mezzogiorno e al tramonto. Ma nuotare nel fiume era più divertente, giocare alla guerra lo era ancora di più e riuscire a sconfiggere i ragazzi più grandi non aveva prezzo.
«Diventerò Maestro di Palazzo!» urlava ai quattro venti e a tutti quelli che ancora la ascoltavano «Governerò sui Rioni e su tutti voi. E vi obbligherò a rispettarmi e ad onorarmi e a portarmi tutto il cibo che desidero».
«Guarda che noi non siamo totem» puntualizzava sempre suo fratello.
«Stai zitto, Zachary!».
«E te ne servirà uno per vincere il Torneo. Dove hai intenzione di prenderlo?» le chiedevano i compagni.
«Da qualche parte!».
«E come lo pagherai?».
«Troverò un modo».
«Non sarebbe ora di tornare con i piedi per terra?».
«Siete solo invidiosi perché vi siete fatti battere da una femmina».
«Se sei una femmina allora perché non posi quel bastone e ti metti a fare figli?».
«Ci ha già pensato tua madre e guarda che bel risultato».
«Hey!».
«Che poi, esattamente, perché le bambole sono tanto diverse da noi? Insomma, come ci sono diventate così?».
Zelda sbuffava. «Sono nati così, lo sanno tutti! Quanto siete stupidi…».
Aveva avuto dei progetti, aveva avuto dei sogni. Aveva avuto una famiglia, degli amici, delle infatuazioni, dei desideri, delle paure, delle passioni. Aveva vissuto tutti i suoi anni con vitalità, allegria, spensieratezza, forza, caparbietà.
Eppure non era bastato.
Non avrebbe mai immaginato che qualcosa potesse andare così storto, che qualcuno le potesse rubare quanto aveva costruito, quanto era suo. Ma suo padre si era indebitato al punto che neanche tutto l’argento di Tanaro sarebbe riuscito ad accontentare gli strozzini. Ma una vendetta sì. Una vendetta avrebbe potuto pareggiare i conti.
L’ultima cosa che ricordava era il suo rientro a casa e la corsa attraverso i campi che il sole calante colorava con il rosso e l’arancio. Sua madre l’aspettava davanti alla soglia, le braccia conserte, bonariamente arrabbiata per il suo consueto ritardo. Zachary alla finestra la prendeva in giro per la sua lentezza e lei rispondeva con delle linguacce, le più brutte che sapeva fare.
Poi il sorriso di sua madre era sparito, le braccia le erano scivolate inermi lungo i fianchi, gli occhi si erano riempiti di paura. Aveva mosso dei passi nella sua direzione, la mano alzata, la voce distorta. «Zelda!» le urlava, ma lei non capiva il perché «Zelda, attenta! No! NO!».
Dopo era stato solo buio. Una lama conficcata nella schiena, una sofferenza alle reni, l’incapacità di rimanere in piedi. Arrivò prima la sorpresa, poi il dolore, la vertigine, le spighe che si piegavano sotto il suo peso, la vita che le scivolava dal corpo e nient’altro.
Ora, oltre la porta della cella, quella bambina le parlava, le parlava, le parlava e non la smetteva più.
Che strazio.
«Tutte le bambine di Ennon hanno un cavallo, sai? Anche io avrei potuto avere un cavallo. Una puledra. L’avrei chiamata Altea» una pausa «Però…io ho scelto te. Non ti sei offesa, vero?». Salì sullo sgabello che si era fatta portare, in maniera tale da poterla vedere attraverso la fessura più alta «Hai i capelli rossi. Mi piacciono i capelli rossi. Non se ne vedono molte qui, come te.  O almeno non credo, non lo so, non esco spesso. Io…» deglutì «Io non ho molti amici. Però ora ho te e tu hai me. Ci vogliamo bene. Dovremo trovarti un nome, ora che fai parte della nostra famiglia. Che ne dici di Fiamma? O Hermintouse? Non ti piace Deandra? No?».
Solo silenzio. Non era viva e non era morta. Sarebbe finita così? Immobile fra quelle quattro pareti spoglie? Non poteva percepire il freddo, ma lo sentiva; non poteva percepire la fame, ma la sentiva; non poteva percepire la stanchezza, l’affanno, il prurito, la sete, ma li sentiva.
Non era altro che una donna a metà.
E quella bambina ce l’aveva dentro, la sua voce le scavava nell’animo. Tutti i ricordi iniziavano a confondersi, a sbiadire, a sovrapporsi, sostituiti in blocco dalla sua piccola figura. Qualcuno le aveva legate, unite, assemblate, ma questo, lei, non l’aveva chiesto e ancora meno l’aveva voluto.
«Mhmh…» continuò Daianara, provando ad instaurare qualche tipo di relazione «Tessa ti piace? Theresa? Tess? Potrebbe piacerti? Non importa, secondo me ti sta bene. Tanto decido io».
Lei aveva alzato gli occhi incrociando il suo sguardo. Non avrebbe saputo dire quale fosse la sua espressione in quel momento, dopo quelle parole. Ma evidentemente era stata più che esaustiva, perché Daia quasi non cadde dallo sgabello. «Però se non ti piace lo possiamo cambiare…».
Così andava meglio.
«Io non voglio che tu resti chiusa qui. Vorrei poterti far uscire, ma non ho la chiave. Papà dice che non è sicuro starti vicina, anche se mamma non è d’accordo. Io credo alla mia mamma. È buona, sono sicura ti piacerebbe. Non ce l’hai con me per questo, vero? Non è colpa mia» tamburellò con le dita contro la porta «Io posso tenerti compagnia. Non voglio lasciarti sola, non si sta bene da soli…io lo so» abbassò lo sguardo «Non è divertente. Ma non ti devi preoccupare di questo».
Tirò un sospiro, più per abitudine che per necessità. Non sentiva aria gonfiarle i polmoni, o sangue scorrerle nelle vene. Era un involucro vuoto. Come aveva fatto a ridursi così? Chi si era preso la briga di decidere per lei?
«Puoi rispondermi, per favore?» le chiese Daia, rimanendo però delusa. «Non capisco quello che vuoi, se rimani in silenzio. Posso cantarti una canzone. A me la canta sempre la mia balia prima di addormentarmi. Se vuoi te la posso insegnare e la possiamo cantare insieme. Che ne dici?».
Tic-tic. Ancora quell’estenuante gocciolio che non la voleva lasciare in pace.
La bambina si stropicciò gli occhi rossi e con voce incerta disse: «Allora…allora posso insegnartela un’altra volta» sussurrò prima di andarsene.
 
♦♦♦

«Tess? Tess, guarda!».
Si riscosse.
Oltre la porta Daia agitava un mazzo di pesanti chiavi intarsiate.
«Guarda cosa ho preso! Tu…tu sai come si usano? No? Non importa, lasciami provare. Ecco…forse è questa…mhmh no. Forse è quest’altra. Ah, ecco!».
La serratura si aprì con un suono sinistro che rimbombò fra le pareti della sua cella e lungo il corridoio. Le torce gettavano ombre lunghe su tutte le pietre e le mattonelle.
Daianara aprì la pesante porta, spingendola con entrambe le mani e mettendoci tutta la forza di cui era capace.
Ora che la guardava meglio poteva notare gli occhi grandi e umidi, il naso piccolo, le labbra screpolate, i riccioli castani disordinati.
«Tess, vieni» le tese la mano, continuando a rimanerle a distanza. «Non vuoi uscire? Possiamo giocare. Posso farti conoscere la mia mamma. Non ti va? Fa freddo qua sotto…» si guardò intorno «E mi fa paura. Lo zio dice che ci sono i mostri». Rimase immobile. «Però…» si sforzò di sorridere «Però se preferisci rimanere qui, allora per me va bene. Almeno per un po’». Lasciò il mazzo di chiavi attaccato all’entrata e le diede le spalle per richiuderla, facendo attenzione a non fare troppo rumore.
«…Non dirlo a nessuno che sono qui, va bene? Papà si arrabbierebbe molto e non riuscirei più a venire a trovarti. Sarà il nostro piccolo segreto. Tess…» sospirò «Tess, parlami». Si stropicciò la gonna «Non vuoi essere mia amica? Io ho tanti giochi, posso dartene qualcuno…». Iniziò ad innervosirsi. «Ti sto parlando!».
Nessuna risposta.
«Non te l’hanno insegnata l’educazione?».
Tic-tic.
Perché qualcuno non le forniva le risposte che le servivano, prima che si dimenticasse anche le domande che doveva fare?
La bambina espirò rumorosamente e alzando il mento per guardarla, assumendo un’aria di sfida, disse: «Ti ordino di rispondermi».
Fu un lampo.
I suoi arti si contrassero, la mente si annebbiò. Un macigno le riempì il petto, sconquassandola dall’interno. Avrebbe fatto qualsiasi cosa, qualsiasi cosa, per non sentire più quel dolore, quell’impotenza, quel gelo.
Prima che se ne potesse rendere conto si era allontanata dall’angolo contro cui era rimasta immobile fino a quel momento. Si era avvicinata a Daia, la gola in fiamme. Nel cervello il rimbombo del comando che la spingeva ad obbedire.
Ma non voleva farlo.
Theresa le si inginocchiò di fronte, gli occhi persi, l’espressione laconica. Le posò una mano sulle spalle: anche così, era più alta di lei.
«Tu…non puoi…darmi…ordini» le sussurrò e ogni parola era come un ago nella sua bocca. Prima che Daianara potesse risponderle, la afferrò per il collo, chiudendo le dita intorno alla sua gola e stringendo. Era così esile da riuscire a completare un giro e a sfiorarsi con le unghie delle mani.
«Tess, mi fai male! Mi fai male! Mi fai…».
Era strano come sentisse piacere e dolore nel vedere la sofferenza dipingersi sul suo volto. Riusciva a percepire ogni sua emozione. Per lei voleva solo il bene, senza saperne spiegare il motivo, ma avrebbe anche desiderato vederla morta.
«Tess!».
«Non puoi…darmi ordini» ripetè, anche se tutto quello che stava facendo andava contro ogni sua pulsione. Una parte di lei la spingeva a continuare, a portare a termine quello che aveva iniziato, a liberarsi di quella sconosciuta una volta per tutte; l’altra parte la implorava di fermarsi e abbracciarla per tenerla al caldo e al sicuro, per allontanare tutte le paure e vederla gioire.  
Gli occhi della bambina si spalancarono, lacrime copiose le sfuggirono lungo il viso, cadendo sul suo collo e sulle sue dita.
E se Theresa avesse potuto piangere con lei, l’avrebbe fatto.
Le guardie accorsero tutte insieme, le lance puntate, gli occhi sgranati. Le aprirono le mani a forza, torcendole le dita, quelle stesse dita che avevano lasciato sul collo di Daia i segni evidenti della sua rabbia. Uno dei suoi carcerieri le incatenò polsi e caviglie al gancio della cella, mentre un altro portava lontano il corpo immobile della bambina.
Non la vide per giorni, o forse furono settimane, mesi. Sprofondò nella più atroce delle agonie al pensiero di aver commesso un abominio, all’idea di averle strappato la vita di dosso, e benchè ormai si fosse rassegnata all’idea di averla davvero uccisa, qualcosa le suggeriva che – se davvero così fosse stato – allora non si sarebbe più dovuta sentire legata a Daianara da un sentimento così soffocante.
Passò quella che le sembrò una vita nel più assoluto e rigoroso silenzio, nella più grigia solitudine e nella sporcizia. Non c’era modo di vedere il cielo, di misurare il tempo trascorso se non dal ferro delle cinghie che si arrugginiva. E il fabbro dovette sostituire le catene due volte prima che a Theresa fosse concesso di uscire alla luce.
La mancanza di Daia si trasformò presto in malattia e la malattia in ossessione e l’ossessione in depressione. Più e più volte Tess tentò di porre la parola fine a quella sua schiavitù, ma per quanto si sforzasse di stringersi il ferro intorno al collo, la morte non sembrava intenzionata a farle visita.
Poi la sentì, fuori dalla cella. Una nenia dalle parole non sempre ben scandite, ma che riusciva ugualmente ad alleviarle il dolore, a regalarle pochi minuti di pace, e se di pace non si trattava, quantomeno di tranquillità.
«”Canterò ancora una volta per te, prima di allontanarmi. Salirò sempre più in alto per farti sentire la mia voce. Domani sarò qui a cantarti queste ultime parole: un’ultima canzone è tutto quello che ho da darti”».
Seduta a terra, nascosta alla sua vista, Daia la andava a trovare ogniqualvolta le fosse possibile. Non la salutava, non aveva il coraggio di parlarle, ma cantava, cantava per lei, e la sua voce rimbombava nelle segrete e sembrava in grado di sciogliere il gelo che Theresa sentiva dentro. A volte recitava bisbigliando, altre si concedeva di cantare più forte; ogni tanto riusciva a rimanere con lei abbastanza a lungo da diventare rauca, più spesso suo padre la scopriva e le impediva di tornare.
«Nostra figlia ha rischiato di morire! Apri gli occhi Isolde, usa la ragione!». Sentì discutere una volta e la speranza che fosse arrivata Daia si trasformò presto in delusione.
«Non le avrebbe mai fatto del male».
«Non lo puoi sapere!».
«Invece lo so».
«Lei non è Roan!».
«E per te questo sarebbe un motivo più che sufficiente per mandarla al rogo».
«Metteresti davvero in pericolo una bambina solo per avere la coscienza pulita? Esci dal passato Isolde! Non possiamo fidarci di questa ragazza, è imprevedibile, è pericolosa!».
«É solo spaventata, diamole una possibilità».
«Una possibilità potrebbe costare cara a me, a te, a Daia e ad Ennon».
«Lo fai per tenere al sicuro la tua famiglia o per non comprometterti la carriera?».
«Che cosa ci sarebbe di così sbagliato nel voler difendere entrambe le cose?».
«Nulla. Ma l’uomo che ho sposato non avrebbe barattato nessuna delle due per un giudizio così avventato».
«Se scoprissero chi è sarebbe la nostra fine e di certo anche la sua. Ma non lo capisci? Non c’è nulla che il Consiglio temi più dei Ricaduti. L’esilio di Kalendor è appena scaduto, Morèa minaccia di rendere pubblica la verità, Tanaro è in costante assetto di guerra e tu mi chiedi di dare asilo ad una…una…».
«Ti sto chiedendo di salvare una ragazza, Zane. Lascia che le parli. Mettiti nei suoi panni per l’amor del cielo: è terrorizzata! Non puoi pretendere di addomesticare un animale tenendolo chiuso in una gabbia».
«Fa’ come credi, donna. Te ne assumerei le responsabilità e i meriti, se mai ce ne saranno».
Quando Isolde andò a farle visita per la prima volta, tutte le attenzioni di Theresa erano concentrate sulla bambina che le si nascondeva dietro le pieghe della gonna. La cella lasciata aperta, la possibilità di scappare, un volto nuovo dopo l’isolamento, ogni cosa passava in secondo piano. Daianara la fissava intimorita, i grandi occhi spalancati che si domandavano se quella ragazza le avrebbe fatto ancora del male. Theresa avrebbe voluto liberarsi delle catene e correre ad abbracciarla, o anche solo dirle che aveva imparato la sua canzone e che, se ancora lo desiderava, potevano cantarla insieme.
«Seguimi» le disse senza preamboli la donna, liberandole piedi e mani. Il suo portamento suggeriva risolutezza, ma il viso era addolcito da un accenno di sorriso. Si diresse verso l’uscita senza attendere una risposta, incurante del fatto che la prigioniera potesse scappare. Theresa rimase perplessa a guardarla, strofinandosi la pelle sui polsi.
Come se avesse intuito i suoi pensieri, Isolde continuò: «Non fuggirai. Non riusciresti ad andartene senza di lei» accarezzò la testa della figlia, sistemandole qualche ciocca di capelli fuori posto. «Vieni, Daia».
«E lei?» chiese preoccupata la bambina, spostando lo sguardo da Isolde a Tess.
«Non ti preoccupare» la tranquillizzò, uscendo all’aria aperta.
Theresa le seguì senza proferire parola, rallentando il passo solo quando Daianara si voltava per accertarsi che non rimanesse indietro. L’aria che soffiava da est era calda e secca, un toccasana dopo il freddo che aveva patito.
«Mia figlia e mio marito ti hanno trovata in riva al fiume» le spiegò Isolde, attraversando il campo d’addestramento, la fucina, il cortile, le stalle. «L’acqua ti ha portata ad Ennon, anche se è il fuoco che hai tra i capelli. Sei una ragazza di Tanaro, o almeno lo eri prima di rinascere come una di noi. È una possibilità quella che Daia ti ha offerto» le sussurrò, osservando la figlia rincorrere le galline che beccavano il mangime «Puoi scegliere se considerarla una maledizione o un miracolo, anche se nessuno ti ha domandato quale destino avresti preferito».
Theresa rimase in silenzio. Stentava perfino a ricordarsi come fosse la sua voce.
Isolde incrociò le braccia sul petto. «Non so immaginare quali possano essere le tue domande, anche se sono certa ne avrai molte. Non dev’essere facile trovarsi catapultata in una vita che non ti appartiene, in un corpo che non riconosci e con lei» spiegò, continuando a tenere sott’occhio Daianara.
«Chi è?» trovò infine il coraggio di chiedere Tess, la voce spezzata «Chi è lei per me?».
Isoldes sorrise dolcemente, gli occhi velati di tristezza. Il ricordo di Roan le occupò la mente. «Lei è la tua metà di cielo».
«E se io non la volessi? Se non volessi tutto questo?».
«Ormai non si può tornare indietro. È un legame troppo profondo per poter essere spezzato, trascende qualsiasi logica, qualsiasi volontà. Puoi decidere di combatterlo o di accettarlo, ma non puoi scegliere di ignorarlo».
«Se è già stato tutto stabilito, che senso ha per me vivere?».
La sicurezza di Isolde sembrò vacillare, ma fu solo per pochi attimi e subito ritornò alla sua usuale compostezza. «Ti mostro una cosa» le disse, invitandola ad entrare nelle stalle e facendo segno a Daia di raggiungerle. La bambina scacciò via le galline battendo le mani, corse verso di loro e affiancò Theresa. La guardò dal basso verso l’alto, allegra, stralunata, curiosa e poi dubbiosa, preoccupata. Allungò le dita piccole per sfiorarle i polsi, là dove il ferro l’aveva graffiata, su una carne che non avrebbe mai più sanguinato ma che sarebbe rimasta segnata a vita.
I cavalli nitrirono e Daianara sobbalzò, allontanandosi dal suo totem per raggiungere Isolde. Theresa allungò subito un braccio per trattenerla, ma era già troppo distante.
«Sono tutti senza padrone» spiegò la donna, le scarpe chiare macchiate di terriccio. Passò davanti al primo e al secondo stallone «Se è una scelta ciò di cui hai bisogno, allora scegli. Dimmi un nome. Sappi che nessuno di loro ti seguirà perché obbligato, ma lo farà solo di sua spontanea volontà. Forse così capirai che esiste un po’ di libertà anche nella costrizione. E presto ne avrai bisogno, avrai bisogno di fare affidamento su qualcuno per non impazzire. E se questo può rappresentare per te una via di fuga, allora imboccala senza paura e non guardarti indietro».
Theresa osservò gli animali uno per uno, con poca convinzione. Da che ne avesse memoria, non aveva mai cavalcato. O forse sì? Iniziava a non ricordare più.
«Il suo padrone, Guyven della Strada, è caduto durante l’incendio di Nika» le spiegò Isolde quando vide la ragazza fermarsi davanti ad uno stallone dal mantello nero «Portava acqua ai feriti, ma le fiamme lo hanno raggiunto troppo presto. Non sappiamo come sia riuscito a tornare ad Ennon senza di lui. Non è un cavallo docile» la mise in guardia «Tende a disarcionare gli sconosciuti».
«Come si chiama?» domandò Tess, sbirciando oltre la porta a doppia anta.
«Argo».
«Sembra…» cercò le parole «Triste. E solo.».
«Anche tu sei triste» le disse Daia, allontanandosi dai pony a cui aveva cercato di fare qualche carezza.
«Davvero?» Theresa si accovacciò, le ginocchia poggiate sul pavimento sporco.
La bambina annuì e dopo aver mosso qualche titubante passo nella sua direzione, si arrestò davanti a lei. Le dita piccole si stropicciavano i fiocchi del vestito, i piedi battevano a terra mostrando tutta la sua impazienza. «Però non sei sola» sussurrò piena di vergogna «Ci sono io, se lo vuoi».
Tess sentì una morsa attanagliarla all’altezza del petto. Forse era dolore, forse era sollievo, molto più probabilmente entrambe le cose. Spalancò le braccia, invitando Daia a raggiungerla, perché non sarebbe più stata completa senza di lei e non c’era nulla che le procurava più dolore che sapere di averle fatto del male.
La bambina tremò, indietreggiando di un passo, l’espressione atterrita. Istintivamente cercò il viso della mamma e Isolde le diede un buffetto sulla spalla, incoraggiandola a raggiungerla. «Vai Daianara» la rassicurò «E’ il tuo totem».
La rossa la strinse a sé con gentilezza, sollevandola da terra e lasciando che poggiasse i piedi sulle sue cosce per restare in equilibrio. «Non volevo, non volevo» ripetè instancabile, cullandola e carezzandole la testa. La sentì poco a poco rilassarsi tra le sue braccia, abbandonandosi contro di lei con piccoli sospiri, e per un attimo si trovò a pensare che se fosse riuscita a tenerla al suo fianco per sempre sarebbe riuscita a colmare la disperazione che quegli uomini le avevano infilato in corpo. «Non volevo farti del male, non volevo farti del male. Mi dispiace così tanto…».
La piccola le circondò il collo con le braccia, nascondendo le mani tra i lunghi capelli rossi. Si staccò dalla sua bambola solo per guardarla negli occhi. «Le bambine grandi non piangono» disse semplicemente, inclinando la testa.
«Io non sto piangendo» rispose confusa Tess «Io non posso piangere».
Daianara non sembrò convinta dalla sua rispose e tornando ad abbracciarla bisbigliò: «Però io lo vedo che piangi. Mamma…» continuò poi «Devo ordinarle di dimenticare?».
Isolde scosse appena la testa. «No, piccola mia. I ricordi svaniranno col tempo, lentamente e senza dolore. O almeno questo è quello che ci dobbiamo augurare. Per lei, per il suo bene. E anche per il nostro».
E così avvenne. Lentamente i ricordi iniziarono a sovrapposi, ad annebbiarsi, a sbiadire, fino a quando non rimase altro che un foglio bianco su cui poter scrivere una nuova storia. Theresa era sempre stata così, era nata così, era stata voluta, pensata e creata così. Era questa la verità che tutti conoscevano, la sola confermata, la sola resa pubblica, ed era anche la sola verità che Daianara le avesse detto.

 
   
 
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