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Autore: Water_wolf    19/03/2018    2 recensioni
{ Space!AU | Percy/Annabeth, Luke/Ethan }
È una verità universalmente riconosciuta, che non avere un copilota è meglio che averne uno incapace. Per questo, quando Percy diventa il suo nuovo compagno di volo, Annabeth è tutt'altro che contenta. Costretti a fare squadra, impareranno a fidarsi l'una dell'altro—e a non uccidersi a vicenda.
Nel frattempo, il Primo Pilota Luke è scomparso durante una missione. Tranne Annabeth, tutti lo danno per morto. E quando riceve un inquietante messaggio, non le rimane altro che partire insieme a Percy alla volta dello spazio.
Annabeth lo afferrò per un braccio, lo tirò vicino a sé e guardandolo negli occhi mormorò in tono di minaccia: «Se per colpa tua—perché sarà sicuramente colpa tua—oggi ci schiantiamo, sappi che non smetterò mai di cercare di liberarmi di te.»
Le labbra di Percy Jackson si arcuarono in un grande, sfrontato e deliberatamente provocatorio sorriso sarcastico. «Ricevuto.»

♣♣♣
Copilota. Si erano affibbiati l’un l’altro quella definizione, con sprezzo o affetto a seconda del caso, come una moneta che al posto di testa e croce oscilla tra maledizione e benedizione.
Genere: Azione, Science-fiction, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Annabeth Chase, Leo Valdez, Luke Castellan, Percy Jackson, Piper McLean
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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due

 
 
«Annabeth! Alla tua destra!»
La ragazza alzò la pistola laser e sparò due colpi prima ancora di aver messo a fuoco il nemico. Il suono squillante che segnalava l’eliminazione di una minaccia riempì la sala di allenamento. Ne seguirono altri due, prima che Annabeth potesse concedersi un secondo per detergersi il sudore dalla fronte con il dorso della mano e riportarsi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Fu allora che realizzò che quelle erano le prime parole che Percy le aveva rivolto in tutta la mattina. I “ciao” mugugnati sulla soglia dell’aula di Termodinamica, la lezione precedente, non contavano, visto che potevano benissimo suonare come versi animali o gargarismi. Annabeth non aveva digerito bene la punizione di Efesto—anzi, per niente. Nemmeno a Percy era andata giù. C’era stato un tentativo di discutere la cosa, ma nulla si era risolto. Probabilmente la situazione si era complicata, rifletté la ragazza, visto il comportamento passivo-aggressivo che si era stabilito tra di loro.
«Grazie» disse in un sospiro, cercando di recuperare fiato. Non aveva senso tenere il broncio, ora che le aveva rivolto la parola.
«Niente» le rispose lui senza voltarsi, alle prese con un drone dalla forma cubica che gli fluttuava attorno.
L’aveva ammaccato con il primo colpo, ma non era riuscito a centrare l’occhio al centro della faccia, l’unico punto debole della macchina. Entrambi furono costretti a spostarsi, quando il robot fece fuoco contro di loro. Ancora accovacciato a terra, Annabeth lo vide strizzare un occhio per individuare meglio il bersaglio e fare fuoco.
Percy si rialzò e scosse il capo, nel vano tentativo di sistemarsi il nido d’aquile che aveva al posto dei capelli. «Quanto…» iniziò, ma fu costretto a interrompersi per mancanza di fiato. Si portò una mano al fianco e fece due grandi respiri. Nonostante questo, gli occhi gli brillavano e aveva un sorriso che gli andava da orecchio a orecchio. Eliminare un drone dopo l’altro aveva spazzato via il suo cattivo umore. «Quanto stiamo durando?»
Annabeth si guardò attorno. C’erano ancora sette coppie di studenti attorno a loro, che significava aver resistito più di metà della classe. Non dovevano aver fatto un cattivo tempo finora, forse quindici minuti. Quando controllò l’orologio elettronico appeso al centro della sala, un rettangolo lampeggiante che ricordava quelli degli incontri di boxe, scoprì che ci era andata vicina.
«Quattorci minuti quarantotto—» Colse un movimento con la coda dell’occhio. Si fermò a metà frase.
«Quarantotto? Buono» commentò Percy in tono tranquillo, prima di trovarsi una pistola puntata contro la testa. Sgranò gli occhi ed esclamò: «Sei impazzita?»
Annabeth lo afferrò per una spalla e lo spinse in basso. «Sta giù!» ordinò. Con l’altra mano, premette il grilletto. Le tremò leggermente il polso per il rinculo, ma non ci badò, gli occhi fissi verso il drone che stava attaccando Percy alle spalle.
Le proteste di quest’ultimo si spensero quando vide il robot fumante. La sua espressione passò da “perché diamine hai tentato di uccidermi” a “aspetta un attimo” a “cavolo” in poche frazioni di secondo. «Oh» fece solo.
Annabeth si sarebbe messa a ridere per quanto era buffo, soprattutto con quella fossetta nel mezzo della fronte corrucciata, invece replicò: «Come si dice?»
«Che siamo pari?» ribatté Percy, ripresosi dalla sorpresa iniziale. «Un salvataggio per un salvataggio. Se non ti avessi avvisato, prima, quel drone ti avrebbe terminato.»
La ragazza sbuffò al modo in cui pronunciò la parola “terminato”, quasi sillabandola. Che bambino. «Hai ragione. Però» e vide l’espressione vittoriosa spegnersi sul viso del compagno «però, la mia mossa è stata decisamente più spettacolare.»
«Veramente, pensavo mi volessi far esplodere il cervello.» Si passò una mano sul mento, facendo finta di considerare l’alternativa. «Okay, in effetti quello sarebbe stato spettacolare. Tranne per me, ovvio.»
Prima che Annabeth potesse pensare a una risposta adeguata, scorse un drone avvicinarsi velocemente verso di loro, mentre caricava il colpo. «Attento. Dietro di te.» Strinse la presa sulla pistola laser e tese le braccia.
«Oh, non ancora. Se hai intenzione di farmi uno scherzo, ti avviso che io sono il re degli scherzi e riconosco quando uno sta mentendo» ribatté il ragazzo, incrociando le braccia.
Il desiderio di dargli una botta in testa e fargli entrare un po’ di buon senso fu molto forte, ma Annabeth riuscì a dominarlo. «Infatti» gli fece notare a denti stretti, «io non sono la regina degli scherzi e non sono brava a farli. Per favore, girati e controlla.
«Vaaa beneee.» Il suo tono trasudava sufficienza.
Si voltò lentamente, la mano che impugnava la pistola lasciata ciondolare lungo il fianco. Alla vista del drone, tutti i muscoli del suo corpo si irrigidirono nello stesso istante. Perlomeno la sua reazione fu pronta. Annabeth non fece in tempo a chiedergli se aveva intenzione di sparare, che lui aveva già mirato il bersaglio e premuto il grilletto. Solo che il cubo non si disattivò come gli altri, nessun segnale di avvenuta eliminazione risuonò per la sala di allenamento.
«Che diamine…» mormorò.
«Ne ho sentito parlare» disse Percy, il respiro corto. «Superati i quindici minuti, il computer passa automaticamente al livello di difficoltà successivo. Credevo fosse una leggenda.»
Il cervello di Annabeth prese a lavorare a pieno ritmo. «Non è una leggenda. E finché non capiamo come distruggerlo, possiamo fare un’unica cosa: correre
Il ragazzo si voltò verso di lei il tempo di scambiarsi uno sguardo d’intensa, dopodiché scattò in avanti. Annabeth aveva sempre pensato che la sala d’addestramento fosse enorme, perfetta per ogni tipo di allenamento. Ma scoprì che nessuna stanza è abbastanza grande, quando si sta scappando da un drone capace di lanciare raggi laser in quattro direzioni contemporaneamente. Correre a zigzag non funzionava. Sparargli contro non funzionava. Gridare non funzionava. Gli studenti rimasti, ognuno alle prese con il personale nemico robotico, stavano tentando una o due di queste opzioni nello stesso momento.
Annabeth era sempre più stanca di correre. Aveva trascorso l’intera lezione saltellando di qua e di là, accovacciandosi e rialzandosi in continuazione. La sua tuta era zuppa di sudore. Conosceva i limiti del suo corpo e sapeva che li avrebbe raggiunti presto. Continuare a scappare non era una soluzione. Allora decise di fermarsi. Piantò i piedi per terra e smise di correre. Al diavolo il resto, aveva bisogno di pensare.
«Annabeth!»
Percy fece due passi di salsa e una mezza piroetta nel tentativo di evitare i raggi che gli lanciava contro il drone e arrivare da lei senza farsi beccare. Le stava così vicino che poteva vedere le goccioline di sudore sulla sua fronte e sentire il suo fiato caldo sulla pelle, mentre il suo petto viaggiava su e giù.
«Che ti prende?» Gesticolò ampiamente con le mani e rimase a braccia spalancate, come se fosse indeciso se spostarla di peso. Poi, osservandola con occhi verdi e mobilissimi: «Hai un piano?»
Annabeth strinse le labbra. Voleva avere un piano. Doveva avere un piano. Ce l’aveva sempre. «Non possiamo nasconderci. Non abbiamo niente da usare come scudo. Se le nostre pistole non sono abbastanza potenti per abbattere i droni, allora ci dev’essere qualcosa che non abbiamo notato. L’istruttore Ares non ci abbandonerebbe qui senza una possibilità di salvarci tra le mani.»
Lo sguardo del ragazzo si accese di una luce ancora più vivida. «Forse non tra le mani» considerò. «Ma sotto gli occhi.»
Annabeth sollevò di poco il mento per vedere meglio. I droni davano la caccia agli studenti rimasti nella sala, angolando raggi laser in quattro direzioni diverse. La mano stretta attorno alla pistola le formicolò. Se le nostre pistole non sono abbastanza potenti per abbattere i droni, allora ci dev’essere qualcosa che non abbiamo notato. Se le nostre pistole non sono abbastanza potenti per abbattere i droni… allora saranno i droni a distruggere se stessi. «Dobbiamo dirlo agli altri» disse velocemente, riprendendo a muoversi. «Abbiamo bisogno del loro aiuto per far funzionare il piano.»
«Non c’è tempo» obiettò Percy. Allungò un braccio a indicare i compagni che lottavano per non essere eliminati. «Sta a noi. Possiamo farcela.»
Annabeth si voltò nuovamente verso il suo copilota, scuotendo la testa e mettendo le mani avanti a sé per bloccare la sua irruenza. «No. Dobbiamo—»
«Fidati di me» la interruppe. L’attimo dopo era già scomparso.
La bionda lo vide sfrecciarle davanti e sentì la faccia diventarle rossa per la rabbia. Non potendo fare altro, sollevò la pistola e sparò più velocemente che poteva per coprirgli le spalle. Osservò Percy Jackson piazzarsi davanti a un drone e agitare le braccia per ottenere la sua completa attenzione. «Ehi, tu!» gridò. «Sì, parlo con te, razza di cubo di Rubik sotto steroidi! Credi di essere abbastanza veloce per me?»
Annabeth avvertì chiaramente la propria mascella abbassarsi di colpo.  Il volto che le scottava ancora per l’arrabbiatura, si domandò se Percy Jackson stesse tentando di ucciderla con la sua avventatezza. Era certa che il suo cuore non avrebbe retto un altro shock del genere.
Se la sua idea era quella di attirare l’attenzione, ci riuscì benissimo: ogni drone all’interno della sala smise di sparare e si concentrò su di lui, mettendolo a fuoco con le telecamere incorporate. Evidentemente non avevano digerito bene le offese del ragazzo.
«Wow, voi intelligenze artificiali non avete senso dell’umorismo» commentò quest’ultimo, con un sorriso forzato stampato in faccia. «Stavo solo scherzando.»
Sei droni caricarono all’unisono i loro colpi più potenti. Ubbidendo all’istinto senza porsi domande, Annabeth si lanciò in avanti e urlò: «Spostati da lì! Corri, corri, corri!»
Percy non fu abbastanza rapido. Il primo raggio lo raggiunse al garretto, spedendolo a terra, mentre il secondo lo colpì al centro della schiena. La ragazza ebbe un secondo per pensare al dolore che dovevano avergli provocato le due scariche, prima che un concerto di luci la accecasse. Sbatté le palpebre più volte, cercando di scacciare i puntini luminosi che le danzavano davanti agli occhi. Un improvviso odore di bruciato le riempì le narici e capì. Il piano aveva funzionato. Il piano aveva funzionato! Alzò un pugno in aria in segno di vittoria.
Peccato che il piano non avesse funzionato poi così bene. Solo due droni su sei si erano sparati a vicenda, mentre gli altri erano rimasti attivi e letali. L’euforia di Annabeth venne stroncata nel momento in cui fu colpita dritto al petto. Cavolo. Menomale che non erano veri raggi laser, ma delle semplici scariche elettriche che ne simulavano l’effetto.
Una botola si aprì sotto i suoi piedi e, dopo un volo di pochi metri, atterrò di sedere sul pavimento della sala dove aspettavano tutti gli eliminati assieme all’istruttore Ares. Impegnata a massaggiarsi il fondoschiena ammaccato e a tossire per l’altro colpo ricevuto, Annabeth impiegò qualche attimo per realizzare che tutti la stavano fissando. Benché seduti su delle panche, l’intera classe si era sporta in avanti per osservarla. Il professore stava in mezzo a due file di allievi a braccia incrociate, gli occhi che lampeggiavano e un sorriso indecifrabile a incurvargli le labbra. Era quasi più spaventoso così che quando sbraitava a destra e a manca e uno vedeva in azione la potenza dei suoi bicipiti e delle sue manone.
Annabeth si alzò lentamente, non sapendo cosa aspettarsi e non avendo idea di come prepararsi. Cercò Percy con lo sguardo e lo trovò poco più avanti, con un braccio appoggiato alla panca. Il ragazzo le rivolse un cenno del capo. Gli occhi del suo vicino continuavano a spostarsi da lui allo schermo in fondo alla parete, dove si potevano vedere le ultime due coppie proseguire l’allenamento. L’orologio segnava ventitré minuti, cinquantanove secondi e sessanta centesimo dall’inizio del gioco. Le erano sembrati molto di più, mentre correva su e giù per la sala sparando ad ogni oggetto in movimento.
L’istruttore Ares batté le mani, riportando l’attenzione su di sé. «Bene. Quei quattro verranno eliminati, prima o poi, non occorre aspettarli» esordì. «Come avete notato, il secondo semestre presenta una novità nelle regole.»
Le sue parole vennero accolte da un coro di proteste generali da parte degli studenti. Imponendo la propria voce al di sopra delle altre, Ares proseguì: «Essere pronti a reagire in ogni situazione è esattamente lo scopo di questo esercizio, oltre che rendervi dei giovani uomini e donne forti, scattanti e attenti. Potete studiare i vostri noiosis… ah corposissimi libri di Astrofisica, ma se vi trovate in pericolo e la vostra mente non è in grado di trovare la soluzione nel minor tempo possibile, siete fuori. Nello spazio non ci sono reti di sicurezza.»
Sullo schermo, una figura che assomigliava a Michael Yew venne colpito alla spalla da un raggio laser. Una tessera del pavimento si aprì sotto i suoi piedi e pochi attimi dopo un tonfo annunciò il suo arrivo a destinazione.
«Oh, benvenuto» fece il professore distrattamente. «Come stavo dicendo, niente reti di sicurezza. E oggi abbiamo visto quanto sono nocive! Siete stati lenti, goffi e pavidi. Una marmaglia disordinata che si è fatta subito prendere dal panico. Ero molto tentato di assegnarvi venticinque giri di pista supplementari.»
Prese un respiro profondo prima di continuare. «Per fortuna, per fortuna c’è stato qualcuno che ha usato la testa. Se non fosse stato per loro la vostra classe si sarebbe dimostrata una totale e completa delusione. Ringraziate Percy Jackson e Annabeth Chase» abbaiò. «Vi saresti meritati quei venticinque giri di corsa.»
Annabeth stentò a credere alle proprie orecchie. L’istruttore Ares—lo stesso istruttore Ares che portava sull’orlo delle lacrime ogni studente, lo stesso istruttore Ares che spezzava loro le ossa e disintegrava ogni parvenza di stima di sé—aveva detto che aveva salvato la classe. Che era stata la migliore. E, fatto ancora più incredibile, aveva raggiunto quel risultato assieme a Percy Jackson, il suo nuovo, imbranato copilota con il record di schianti più alto del Campo Mezzosangue.
«Comunque, voi due non montatevi la testa.» Il richiamo del professore fu una doccia fredda. «Siete stati svegli a capire come distruggere i droni, ma per il resto… diamine! Cos’era tutto quel battibeccare nel mezzo di un’azione? È un miracolo che non siate stati eliminati entrambi mentre eravate impegnati a giocare a marito e moglie. E per quanto riguarda la capacità di prendere decisioni in comune? Sapete almeno cosa significa, in comune
Annabeth e Percy accennarono un segno affermativo.
«Be’, non sembrava, quando eravate là dentro» replicò aspramente Ares, inarcando entrambe le sopracciglia. «Vi coprivate le spalle, ma per tutto il resto del tempo ognuno pensava a se stesso e a dimostrare quanto avesse ragione. Non c’era affiatamento. Non c’era collaborazione. Non c’era fiducia.» Sospirò, esasperato. «Lasciatemelo dire: singolarmente, siete entrambi dei buoni elementi, o perlomeno migliori di altri. Ma insieme siete un completo disastro. Era da anni che non mi capitava una squadra terribile come la vostra.»
Annabeth si dimenticò di ascoltare l’incoraggiamento finale dell’istruttore. Dopo quello che aveva detto, un “dovete lavorare sodo” non le sarebbe andato giù. Aveva già abbastanza da digerire ed era certa che una frase del genere le si sarebbe bloccata in gola.
Ares aveva ragione, ovviamente ne aveva. Non c’era affidamento, non c’era collaborazione, non c’era fiducia. Il problema era che affiatamento, collaborazione e fiducia non si costruiscono in due giorni e due giorni prima, per lei Percy Jackson era un completo sconosciuto. In un certo senso, lo era ancora. Frequentavano le stesse classi, si scambiavano commenti sarcastici ogni tanto, ma non c’era niente di più. Annabeth era cosciente di non conoscere affatto il suo nuovo copilota, eppure la realizzazione la colpì ugualmente, abbastanza forte da arrestarle il respiro.
Ciò che era di peggio, però, era che non era sicura di volerlo fare. Conoscere e conoscersi richiede un grande sforzo e, come ogni grande sforzo, deve avere le sue radici in volontà e determinazione. Quando aveva detto a Piper che avrebbe dato una chance a Percy Jackson, si era illusa che sarebbero diventati una squadra senza compiere quello sforzo. Ma, appunto, si trattava di una mera illusione.
«A cosa stai pensando?»
Percy Jackson si era seduto sulla panca e la studiava. Continuava a torcersi le mani, incapace di rimanere fermo, e si stava involontariamente scavando un solco nel palmo. Prima di rispondere Annabeth si girò e lo guardò, lo guardò davvero. Si era tolto la giacca parte della divisa e l’aveva appoggiata accanto alla sua coscia, senza curarsi di piegarla. Il pegaso simbolo del Campo compariva al centro della maglietta al di sotto, più grande rispetto alla ricamatura circolare sulla spalla del giubbino. Il tessuto arancione era impregnato di sudore, ma Annabeth non ci fece tanto caso, immaginando che anche la sua dovesse avere un aspetto simile.
La pelle della spalla destra si stava arrossando a causa della scarica elettrica, probabilmente il giorno dopo sarebbe comparso un livido. Gli occhi della ragazza indugiarono sui muscoli delle sue braccia, ne studiarono lo spessore e la snellezza, prima di concentrarsi sul suo viso. Una massa di ricci neri gli ricadeva sul volto, coprendogli parzialmente gli occhi che per qualche miracolo erano riusciti a catturare il colore del mare. Senza il classico sorriso da combina guai a renderle un’arma letale, le sue labbra apparivano piene e rosee.
Ammesso che il concetto di normalità esistesse, Annabeth l’avrebbe definito esattamente così: un ragazzo normale. Non un record di schianti. Non un usurpatore. Non una punizione inaspettata. Solo un ragazzo.
Se lasciava andare i suoi pregiudizi, riusciva a vederlo.
«Sto pensando a quello che ha detto Ares» rispose infine.
Percy emise un verso come per dire “ovvio”.
«Credo che si sbagli.»
Questo gli fece sollevare la testa di scatto. «Cosa?»
«Credo che si sbagli» ripeté Annabeth. «Forse non c’era fiducia, è vero, ma c’era affiatamento. Abbiamo avuto un momento di intesa. Dobbiamo solo imparare a credere uno nell’altra e non ritenere la nostra opinione superiore a quella dall’altro. Ma io mi fido più di Chirone che di Ares, e se lui dice che ce la possiamo fare, ce la possiamo fare.»
Percy rimase a fissarla per qualche momento ad occhi sgranati. «Wow. Ok–wow» balbettò. «Pensavo… Insomma, che saresti stata d’accordo con lui. Dopo quello che è successo ieri, ero convinto che non saremmo mai diventati una squadra.»
Annabeth sciolse la coda di cavallo e lasciò che i capelli le ricadessero liberi sulle spalle, accogliendo con piacere la sensazione di sollievo. «Ad essere onesta, ho ancora i miei dubbi» confessò. «È ragionevole, visto che siamo una coppia da un giorno e mezzo, ma non per questo devo abbandonarmi ad essi e lasciare che mi controllino. Non mi piace perdere e, se siamo davvero destinati a non funzionare, almeno potremmo dire di averci provato.»
Il ragazzo annuì. «Nemmeno a me piace perdere» replicò. «Non siamo entrati al Campo Mezzosangue senza fare fatica. Per cui, se dobbiamo lavorare per ottenere dei risultati, be’, mettiamoci sotto.»
«Giusto.» Annabeth sorrise.
Il cronometro segnava ventotto minuti. Ormai solo una coppia, formata da Clarisse Rodriguez e Silena Beauregard, resisteva contro i droni. A seconda di quanto avrebbero impiegato ad essere eliminate, avrebbero stabilito un record. Poteva volerci un po’, per cui Ares dichiarò la lezione terminata e spedì tutti a farsi una doccia.
Nel corridoio illuminato dalle luci al neon gialle che indicavano l’area di allenamento, Annabeth camminava fianco a fianco con Percy. Avevano due ore libere prima della lezione successiva, sufficienti a darsi una ripulita e mettere qualcosa sotto i denti. La ragazza lanciò uno sguardo fugace al compagno, si torse le mani, contò fino a tre e poi pronunciò le parole che avrebbero potuto salvare il suo percorso universitario oppure rovinarlo definitivamente.
«Senti… Ti andrebbe di pranzare insieme, oggi?»
Gli occhi di Percy furono subito su di lei, la sua attenzione catturata completamente. «Dopo la doccia?» chiese, prima di sorridere. «Sì, ci sto. Alla mensa o alla caffetteria?»
«Mensa» rispose lei, incredula che il ragazzo avesse accettato al risposta così alla leggera, senza riflettere su tutto ciò che comportava. Quel pranzo non era un semplice pranzo, eppure lui sembrava ignorare le implicazioni. «La caffetteria è sempre piena a quell’ora.»
Percy alzò un pollice in segno affermativo. «Allora ci vediamo lì» dichiarò, affrettando il passo per distanziarla. «A tra poco.»
Annabeth lo osservò allontanarsi per qualche attimo, prima di tirare fuori il cellulare dalla tasca e aprire la chat con Piper. Sempre continuando a camminare, le scrisse un messaggio breve ma efficace.

ann_chase: Oggi pranziamo insieme. Non puoi rifiutarti. Ti voglio bene.
 
 

Piper non si rifiutò. Non che le avesse dato altra scelta, rifletté Annabeth. Le venne incontro all’ingresso della mensa e la salutò con un bacio sulla guancia, a cui subito fece seguire un sentito grazie.
«Di nulla. Anche se ancora non so perché tutta questa urgenza» replicò l’amica, prima di corrugare la fronte e correggersi: «Aspetta, non è vero. Credo di saperlo.»
Alla bionda sfuggì un mezzo sorriso. «Tira a indovinare.»
«C’entra con Percy Jackson» disse subito Piper. Vedendo l’espressione dell’altra, le fece l’occhiolino e le sue labbra si arcuarono in un sorriso malizioso. «Lo sapevo. Che è successo, huh?»
Annabeth roteò gli occhi. «Nulla. Cioè, credo che siamo giunti a una sorta di intesa. E il primo passo è mangiare insieme.»
«Oggi.»
«Oggi.»
Piper sospirò. «Va bene, sarò il tuo supporto morale. Però mi devi un favore.»
«Andata.»
Il sorriso appena nato sul suo volto rischiò di scomparire alla vista di un ragazzo moro e quello che aveva tutta l’aria di un alieno che si avvicinavano.
«A quanto pare anche lui si è portato dietro il suo supporto morale. Non siete così diversi, in fondo» le sussurrò Piper velocemente, riuscendo a evitare una rispostaccia da parte sua e sorridere ai nuovi arrivati.
Annabeth si passò le mani sui pantaloni della divisa e presentò la sua amica, controllando la reazione di Percy. Doveva essersi asciugato i capelli di corsa—ammesso che l’avesse fatto—perché erano ancora più ricci e gonfi del solito. Non sembrava minimamente a disagio, anzi. Arrivò in fondo ai convenevoli senza battere ciglio.
Annabeth strinse la mano di Grover, quello che Percy aveva definito il suo amico di più lunga data. Gli zoccoli, gli arti inferiori ricoperti di una folta peluria caprina e due piccole corna che spuntavano dai suoi capelli tradivano le sue origini straniere. Cercò di capire da che pianeta venisse, ma non riconosceva la bandiera ricamata sulla spalla della sua divisa. Mentre si mettevano in fila per prendere il cibo, si chiese come si fossero conosciuti e in quali circostanze erano diventati migliori amici.
Piper diede frutto ai suoi studi di Mediazione Intergalattica e intavolò una conversazione che non lasciasse fuori nessuno, senza che questo le impedisse di riempirsi il vassoio di burrito vegetariano e lanciare occhiate nella direzione della bionda. Annabeth preferì non pensare a cosa le avrebbe chiesto in cambio dell’aiuto che le stava dando, concentrandosi sull’immediato. In quel caso, gli occhi le caddero sul vassoio strabordante di Percy.
«L’ultima lezione ti ha messo fame, eh?» lo punzecchiò, con un mezzo sorriso.
Il ragazzo rise. «Se fossi una persona normale ti risponderei di sì» disse, «ma visto che non lo sono… Confesso di avere sempre fame. In qualunque momento della giornata. Anche se sto scoppiando, anche se ho appena finito di mangiare, ho comunque fame.»
«Confermo» commentò Grover, spuntando da dietro la spalla dell’amico. «È un pozzo senza fondo.»
«Grazie, bro.»
Sia lei che Piper ridacchiarono. Terminata la fila, navigarono tra gli altri studenti alla ricerca di un tavolo libero, finché dei ragazzi non si alzarono e loro corsero ad occupare i posti. Si trovavano accanto a una delle grande finestre vista spazio, si vedeva persino uno scorcio di Luna.
«Ora capisco dove ti ho già visto!» esclamò a un certo punto Piper, rivolgendo interamente la sua attenzione a Grover. «Frequenti il corso di Scienze Ambientali con il prof. Pan, giusto?»
L’alieno, intento ad inghiottire una lattina, deglutì e la buttò giù in un sol colpo. Pensare che poco fa ha appena dato a Percy del “pozzo senza fondo”, rifletté Annabeth.
«Sì» rispose lui, eccitato. «Vuoi dirmi che anche tu segui le sue lezioni?»
«Ah-ah, all’inizio per avere crediti extra, adesso perché mi sono completamente innamorata del modo in cui spiega.»
Grover trangugiò un altro pezzo di latta e si lanciò in un’appassionata discussione con Piper sull’argomento. Mentre cercava di stare dietro alla conversazione animata, che faceva avanti indietro tra nuovi metodi di riciclaggio e quanto Pan fosse un oratore straordinario, Annabeth lasciò che il suo sguardo scivolasse su Percy.
Era seduto di fronte a lei e si dava da fare con il secondo cheeseburger, osservando con un mezzo sorriso l’amico e Piper. Pareva fosse fiero di come stessero interagendo e perfettamente soddisfatto di non partecipare, godendosi quello scambio da una posizione privilegiata. Quando il ciuffo gli cadde sugli occhi, il ragazzo fece un gesto con la testa per scostarli e lei smise immediatamente di fissarlo. Perché era quello che stava facendo, fissarlo come una maniaca. Ma non fu abbastanza svelta, e lui la notò.
Sollevò le sopracciglia, si indicò vagamente il volto con una mano e chiese: «Mf pfono pforfato?»
«Eh?»
Percy inghiottì il pezzo di carne che stava masticando e ripeté: «Mi sono sporcato da qualche parte, vero? Mi stavi guardando con una faccia…»
Annabeth ringraziò l’innocenza del suo copilota. «Sì, in effetti sei sporco lì» rispose. «No, non lì, più in giù… ti è colato del grasso sulla maglietta, non lo vedi?»
«Dove?» continuava a domandarle lui, controllandosi l’uniforme ma non trovando la macchia.
Un sorriso andò disegnandosi sul viso della bionda. «Certo che sei proprio cieco» lo prese in giro. «È lì sotto il tuo naso. Leggermente più a destra. Lì. No, lì lì. Eccola. Quella.»
«Io non vedo nulla» si lamentò il ragazzo, spostandosi sulla panca e posizionandosi più sotto una delle lampade a led. «Sarà possibile…» La sua testa si alzò di scatto. «Chase.»
Annabeth dovette trattenersi dallo scoppiare a ridere. Il modo in cui aveva pronunciato il suo cognome, come se fosse davvero indignato, era semplicemente troppo divertente.
«Non ti pensavo capace di commettere una simile bassezza. Per di più ai danni del tuo compagno di volo.»
Non doveva cedere, non doveva cedere.
«Vergognati.»
Ma alla fine, che male c’era ridere a un po’? La sua facciata crollò e una sana risata la scosse tutta. Percy si unì a lei poco dopo.
«Mi dispiace» si scusò Annabeth tra un attacco di risa e l’altro, non riuscendo più a fermarsi, il che rendeva le sue parole poco efficaci. Ma a Percy non sembrava dispiacere essere l’oggetto dello scherno.
Gli addominali avevano iniziato a tirarle, quando infine smise di ridere. Aveva ancora un piccolo sorriso sciocco stampato in faccia e si sentiva la testa più leggera. Intavolare la conversazione le venne incredibilmente facile. Conoscere Percy—conoscerlo per davvero, questa volta—le venne incredibilmente facile. Era vagamente cosciente di Piper, accanto a lei, ma non si ricordava perché avesse tanto insistito affinché fosse la sua spalla.
Lei e Percy si scambiarono le tipiche domande che le persone fanno per gettare le basi di un’amicizia, quelle tipiche domande che ancora non si erano posti l’un l’altra. Dove si trova la tua casa, sulla Terra? Come hai trovato il test di ammissione? I tuoi genitori sono fieri di te? E come si chiamano? Sei l’invidia dei tuoi fratelli, o sono contenti di essersi liberati di te?
Percy era loquace, entusiasta e profondamente ironico. Annabeth non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma parlare con lui le piaceva. Le piaceva perché lo trovava una persona diversa, una persona interessante. Qualcuno da cui imparare qualcosa. Ma non da cui imparare a volare, si ricordò mentalmente.
Fu Piper a riportarla alla realtà, posandole una mano sulla spalla. «Io ho lezione tra poco» disse, mentre si alzava in piedi. «Devo andare.»
«S-sì» fece lei, sbattendo un paio di volte le palpebre. «Non andare da sola, ti accompagno, tanto ho finito di mangiare.»
La sua amica aveva l’aria di voler protestare, ma Annabeth prese il proprio vassoio e si alzò a sua volta. Salutò Grover e rivolse a Percy un sorriso prima di allontanarsi al fianco di Piper.
«Direi che è andata bene, no?» commentò la cheeroke.
«Già» confermò Annabeth. «Non so nemmeno come sia stato possibile.»
«Non farti troppe domande, Sapientona. Goditela e basta» replicò l’altra, scoccandole un’occhiata saputa. «Tu e Percy Jackson diventerete amici, te lo dico io.»
La ragazza sospirò. «Non correre. È simpatico, nulla di più. Diventerà più facile sopportarlo.»
«Ah-ah. Ceeerto» la prese in giro Piper. «Come vuoi tu. Ma ricordati solo che te l’avevo detto.»
Annabeth roteò gli occhi. Accompagnò l’amica davanti alla porta della classe, la salutò e ritornò sui suoi passi. Il cellulare le vibrò all’interno della tasca posteriore dei pantaloni. Si fermò, appoggiando la schiena alla parete e tirò fuori il telefonino. Sullo schermo comparve l’anteprima di due messaggi.
Per un momento, smise di respirare.

thepercyjaxon: tra tutte le domande che ti ho fatto oggi mi sono dimenticato quella che volevo farti all’inizio
thepercyjaxon: se non mi ero sporcato col cibo… perché mi stavi guardando?
  
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