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Autore: Nirvana_04    19/03/2018    5 recensioni
Amore vuol dire aspettare mille anni, e ancora mille.
Amore vuol dire non aspettare neanche un attimo.

Questa storia è ambientata al di là dell'Antica Venasta, oltre i Monti a est di Cahar, in un tempo che si perde nelle trame della leggenda e sfocia nel mito che sta all'origine dell'antico legame tra Puèsigath e Agabar; e narra dell'amore senza tempo di Arket e Adelaya, divenuto trastullo di dei e portatore di dolore per mortali ed eterni.
Queste note selvagge lacrimano ancora
Genere: Angst, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Racconti del Veto'
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Le ballate frenetiche intorno al fuoco dei felichi tengono ancora oggi il tempo dei passi che Arket compì lungo il suo viaggio, che di essere lungo fu lungo. Dopo un anno irresoluto a vagare per le steppe del nord, passò altri quattordici anni a inseguire le indicazione di un corvo bianco.
All’inizio la sua pelle era più cianotica che azzurra, con connotati lividi laddove essa era più spessa, mentre intorno alle nocche delle mani o ai gomiti o alle ginocchia sbiancava come gesso. Ma se c’era una cosa che capì molto presto era che lo scorrere del tempo non era illimitato e che presto avrebbe avuto un brusco arresto. Mentre gli anni scorrevano, Arket illividiva, la sua pelle soffocava in sfumature bluastre, fiaccata dalla perdita raddoppiata degli anni nella metà del tempo naturale. Presto il suo corpo dovette sostenere l’invecchiare di due vite, le fatiche di due menti, i dolori di due anime ancorate ancora al mondo e spezzate dall’assenza del reciproco conforto. Il suo respiro divenne rarefatto; i dubbi e le paure, i pesanti macigni di un uomo che aveva il doppio della sua età.
In quattordici anni, Arket si era visto sfuggire la giovinezza e parte del vigore di un uomo robusto.
Gli dei, in tutto questo, non capirono perché andasse avanti. Gli uomini erano fragili, volubili, corpi flaccidi e menti instabili; vivevano troppo poco per imparare abbastanza, e l’ignoranza e il bisogno di conoscenza li rendevano arroganti, superbi, avidi, vanesi. Ricercavano piaceri effimeri, tanto deboli che un nuovo sussulto poteva scacciarli via. A volte, alcuni temerari, che di tutte le virtù che l’uomo diceva di ricevere in dono dagli dei vantavano il coraggio e la prodezza, si lanciavano a caccia di avventure, di prede rare e pericoli mortali; con questi, Not si trastullava, dando ad alcuni sconfitte pesanti e ad altri glorie irrisorie. Osservavano, gli dei, le reazioni di ognuno di essi: chi perdeva tendeva a cambiare strada o a crogiolarsi nella vergogna o a decantare quanta fortificazione aveva tratto da quella prova; i vittoriosi, invece, facevano più o meno la medesima fine, si gonfiano come rospi alla ricerca di nuove avventure, nuove imprese ardimentose. Ma Not non giocava mai allo stesso gioco con la stessa pedina.
Yara era troppo fiera per scendere a patti con le sue creature, non stava lì ad ascoltare le loro preghiere, ma lasciava che le scorressero fino alla mente, simili a gocce di latte che specchiavano la sua fiera beltà; in quel mare bianco ella nuotava, la sua figura risplendeva e da essa traeva forza. Ciò che le importava era la nota di supplica e lusinga che trasudava da ogni preghiera mortale. Yara non era permalosa come Sefta, ma anch’essa si ergeva sopra le creature di fango come una divinità irraggiungibile, troppo in alto per degnarsi dei loro dolori. Ai suoi occhi, i trastulli degli altri dei sembravano giochi noiosi e sconclusionati. Troppo bella e troppo intelligente per accogliere suggerimenti, non si lasciava mai ispirare dalle preghiere di chi stava al disotto di lei come faceva Not: ella indicava e scagliava la sua sentenza, e quella poteva cadere sulle spalle di un postulante o di un fanciullo imberbe e ignaro dell’improvvisa importanza che stava per ricoprire. Ma Yara non era capricciosa come Sefta, questo no; la dea era tremendamente annoiata dalla sua esistenza, il suo senso di superiorità la distaccava persino dagli altri dei. I sentimenti, le emozioni vibranti nei cuori degli uomini, non li capiva.
Puèsigath… lui non era né annoiato né curioso di torturare le sue pedine: lui era stanco. E un dio stanco era un dio inutile, sì, ma pericoloso soprattutto. Quando un dio se ne frega delle sue creature, è il caos che inizia a spartire la giustizia. Persino il suo stesso gioco non riusciva a lenire la sua insofferenza; e così, il gioco era conteso tra gli altri dei. Not torturava, Yara scagliava sassi alla cieca, Sefta si mischiava con troppa facilità con i volubili pensieri degli uomini di fango, salvo poi arrabbiarsi troppo spesso quando persino una lode la offendeva quanto una maledizione. E Zeptum, in tutto questo, si era trovato un gioco tutto per sé: mentre gli dei giocavano con gli uomini, lui giocava con gli dei.
Seduto su un sottile sperone di ghiaccio simile al dito di una vecchia raggrinzita che si aggettava sulle nuvole, Zeptum se ne stava con una gamba ciondoloni e l’altra ripiegata contro il petto asciutto, il corpo racchiuso in un’armatura di ghiaccio tutta artigli e spigolature. Non poteva essere più diverso dalla sua gemella, un po’ come il giorno e la notte, la fiamma e il ghiaccio, la creazione e la distruzione, la luce accecante del giorno e quella flebile della notte. Loro erano l’equilibrio a cui sottostava il mondo: l’uno preservava, l’altra distruggeva. Secondo il modo in cui essi si spartivano i passatempi terrestri, gli uomini vivevano giorni di freddo o calura, subivano piogge o venti aridi, ricevevano malattie o doni dal cielo.
Zeptum preferiva la solitudine, però. Da quando Puésigath lo aveva creato per regolamentare gli equilibri del mondo, egli aveva rifiutato la compagnia dell’eccentrica sorella e aveva vagato tra le falde dell’esistenza alla ricerca di uno scopo tutto suo, in quell’esistenza designata da volere divino, fino a quando il grande dio non aveva creato quel gioco per la sua progenie. E allora Zeptum aveva stretto le bambole che gli erano state donate e le aveva gettate alla rinfusa sul campo di gioco, come un bambino che disprezza il pupazzo di pezza, ignavo ai trastulli e ai divertimenti che da essi sembravano trarre le altre divinità. Piuttosto si era creato quel cantuccio, un po’ più sopra di tutti gli altri, e aveva iniziato a studiare i piaceri provati dagli altri suoi simili.
Un sorriso macabro si dipinse sulle labbra del dio: c’era una certa soddisfazione nel vedere come quel gioco di fango aveva presto finito per perdere il suo fascino. E cosa mai, pensava lui, poteva riuscire a sconfiggere per sempre la noia di un immortale? Sciocco colui che vi aveva riposto le speranze. Piuttosto era divertente, seppure Zeptum non ci facesse troppo affidamento, vedere gli dei affannarsi per ravvivare la fiamma spenta di quel campo di giochi. Alla fine, ogni cosa si sarebbe estinta come la vita di un bucaneve nel cuore dell’inverno, e persino loro sarebbero sprofondati di nuovo nell’apatia della loro eternità.
Eppure quel felica continuava ad andare avanti! Eppure gli dei continuavano a seguire le sue peripezie; Sefta a parlare con la fanciulla, Not e Yara a lanciare occhiate intense al campo di giochi. E Zeptum iniziò ad arrovellarsi per comprendere quale sorta di potere stesse tenendo la fiamma viva in tutti loro, felica e dei.
«Tra noi anche oggi, Zeptum?» lo interrogò placidamente Not, il buio che lo seguiva come uno strascico. C’era la nenia che guidava all’oblio nel tono della sua voce, c’era la promessa dell’abbraccio di acque chete in cui riposare nell’espressione del suo viso. Il dio Not possedeva la vecchiaia della saggezza scolpita su tratti virili e senza tempo. In lui era impossibile capire dove iniziava la forza del fiore degli anni e finisse la curvatura di una schiena che aveva vissuto secoli, se non millenni.
Zeptum decise di rispondere alla domanda con un’altra. «Dov’è la mia gemella?»
«Lì» gli rispose Yara, cosa che sorprese il dio corvo. La dea bianca non si perdeva mai in chiacchiere che non vertessero intorno alla sua grazia. Yara era un lupo solitario che si stagliava contro i veli oscuri della notte, fiera e selvaggia come la madre che incarnava con distacco. Ella era contrasti: i suoi capelli neri spiccavano sopra la cappa bianca, le dita affusolate erano d’ambra scura e accarezzavano i veli della sua veste argentata; i suoi tratti di donna erano il disegno di una matita tratteggiata sopra una superficie d’aria, talmente evanescenti da far credere di non poter essere afferrati neanche dalla vista. «Sorprendente come ancora non abbia deciso di darle fuoco.»
Zeptum guardò, dentro la pozza, sua sorella disquisire con la fanciulla dai capelli fatti di rami intrecciati e dalla pelle di marmo. Sefta non aveva mai ascoltato suppliche, solo lodi; a Sefta piaceva farsi ammirare, e a volte le attenzioni più glorificanti erano capaci di indispettirla se fatte nel modo sbagliato. Bastava un accento, un tono incrinato, una distrazione del postulante, e Sefta si sentiva oltraggiata dall’incapace amante. Quella volta, invece… «Rovinerebbe il gioco» le rispose distrattamente. E poi, curioso: «Sefta sembra divertirsi.»
«E cosa ci sarebbe di divertente nel guardare un pugno di fango piangere e correre?» si mise seduta la dea. Anche lei, notò Zeptum, faceva fatica a distogliere lo sguardo dalla pozza.
«L’ho sentita cantare qualche volta» obiettò il dio di pietra.
«E allora?»
Not diede una scossa alle falde del suo nero manto, come a pulirlo da qualche vecchia briciola. «Il canto è una preghiera affinché trovi la strada di casa.»
«Il felica non può sentirla, e Sefta gliel’ha anche detto.» Le mani della dea tentarono di stringere le nuvole sotto di lei, esasperata dalla stoltezza dell’essere infimo. La sua diafana beltà era una lama a doppio taglio: nessuno poteva toccarla, così come lei non poteva sfiorare neanche le nuvole più soffici.
Not parlò con la voce di un vecchio e rilevò: «Canta per noi.»
Zeptum e Yara seguirono lo sguardo del dio verso la pozza, nei tuguri dei suoi meandri, e ascoltarono la fanciulla lodare la dea con la stessa dolcezza e fiducia con cui la pregava quand’era ancora un fuscello comune in mezzo alla sua gente. «Arket è un guerriero orgoglioso, il suo peccato è amarmi troppo. Questo rende me colpevole della sua rabbia» stava dicendo Adelaya. «Oh dea, se c’è ira nei tuoi sentimenti, ti supplico di rivolgerla verso di me. Arket ama, non fargli una colpa di questo. Punisci me che sono la sua amante e con questo amore gli ho tolto il timore negli eterni.» Sefta ascoltava con sguardo ipnotico la fanciulla, ma pareva trattenere uno sbadiglio a ogni sua parola, gli occhi languidi simili a quelli di un pesce disinteressato.
«È morta una volta e ha ancora voglia di proporsi per il martirio» constatò Not.
«È forse orgoglio quello che sento nella tua voce?» finse di scandalizzarsi la dea.
«Se fossi un padre, ne andrei fiero, sì.» Il dio di pietra si alzò e voltò, come ad aggiungere che egli, però, non lo era, un padre. Con la schiena curva di un vecchio e il passo scattante di un giovane atleta, se ne andò.
«E tu? Anche tu vuoi provare dei... sentimenti?»
Yara era una dea che difficilmente veniva tollerata. I felichi che da lei erano stati lanciati all’interno di Vita si arrovellavano disperatamente le menti alla ricerca di un disegno divino e giusto nelle azioni della loro divinità, cercavano nella loro esistenza e nel modo in cui essa si snodava un senso più grande di loro. Se era stata una dea a mandarli su quella terra, dicevano, allora la strada doveva essere retta e densa di misteriosi e occultati significati. Non sapevano mica quanto poco Yara si curava di loro. A lei bastava sapere di essere nei loro pensieri, nelle loro preghiere, dietro i motivi di ogni loro azione. Era la vana gloria che ella ricercava, chiacchiere e solo chiacchiere. Ed era con quelle chiacchiere, l’unica cosa che ella aveva imparato a conoscere, che voleva adesso abbindolarlo.
Zeptum fece esattamente come suo solito: la ignorò.
Di lì a pochi attimi, anche Sefta fu in mezzo a loro. Si stiracchiò e racchiuse le fiamme dei suoi capelli tra le mani arrossate, le sollevò scoprendo il collo e fece roteare quest’ultimo con la sinuosità di un serpente. Puntò le sue iridi verticali sul gemello. «A che punto è l’altro?»
«Ancora troppo lontano dalla meta, eppure a un soffio dalla pazzia. Oggi ha deciso che seguirmi non è più vantaggioso. Sta errando per le selve di Erreth-Ak, lanciando sassi a qualunque volatile osi passargli a tiro. Ha abbattuto due grossi fagiani.»
Sefta si ammirò le unghie appuntite che scintillavano come affilati diamanti. Con quella sua aria distratta e disinteressata voleva fargli credere che non gli stesse prestando ascolto, cosa che egli sapeva non essere vera, eppure il suo atteggiamento riusciva ugualmente a irritarlo.
«Tutto qui quello che volevi sapere? Perché non te ne torni dalla donna, allora.» Non riuscì a controllare la rabbia, e la sua maschera di fredda impassibilità si incrinò.
Sefta parve prendersela, ma non c’erano fiamme che potessero ferirlo. Tra le nuvole il fuoco non attecchiva neanche per volere divino. «Mi ha tediato a sufficienza questo gioco. Facciamola finita.»
«Non ancora» la voce di Not giunse con il peso di una sentenza da dietro una coltre di nubi. «L’equilibrio è stato messo a dura prova una volta. Il tempo è stato di nuovo fissato, e stavolta verrà rispettato. Nessun potere potrà sovvertirlo.» E come a dare ragione alle sue parole, le corde di lira si udirono tra gli scrosci di pioggia sottostante, tese e sdrucite dall’usura, dallo sforzo di intonare due canti allo stesso tempo. Ascoltando quella musica, però, Zeptum non avrebbe mai detto che fossero due sinfonie diverse a comporla, ma piuttosto un’unica leggiadra nota che si articolava in diverse tonalità, tanta era la sincronia tra i cuori dei due amanti.
«Sarà» soffiò Sefta, come a voler intendere che di lì a poco si sarebbe trovata un nuovo gioco, «ma io mi sono annoiata.» Ma fu Zeptum a lasciare il giaciglio degli dei mentre la sorella si acciambellava ai piedi della pozza a gambe incrociate, i gomiti sulle gambe e due pugni a reggerle il mento: la dea serpente era tornata infantilmente a scrutare la sua pedina. Al dio corvo, l’interesse perverso della sorella non era sfuggito, ma ancora di più a interessargli era l’ombra nera che aveva visto muovere verso di loro, come un cumulo di tempesta che si avvicinava. Puèsigath in persona stava assistendo, seppure a distanza, a quel gioco. Tutti gli dei erano con gli occhi puntati sui due amanti. Il corvo bianco non aveva mai visto gli eterni – la sua famiglia – curarsi tanto delle vicissitudini di Vita. Se movimentare i giochi li avrebbe tenuti tutti protesi verso lo stesso punto, lui li avrebbe accontentati.

 
 
 
 
Il canto era la morte della solitudine, ma anche il veleno della speranza. Cantare le impediva di impazzire, ma la sua voce solcava la distanza che la separava dal suo amato Arket, e questa era talmente grande che il suono produceva un’eco raschiante tra gli alberi rinsecchiti e le nebbie perenni. Suonare le avrebbe forse ridato connotati più umani, poter saggiare le corde della sua arpa avrebbe liberato note conosciute nella foresta, magari avrebbe potuto anche risvegliare un po’ di vita in quel luogo, attirare i fagiani e i corvi che perdevano lì le loro penne senza mai far sentire il loro verso.
Del suo corpo umano, poco ne stava restando. Un giorno, o forse una notte – chi poteva dirlo? – la dea degli equilibri nefasti le apparve talmente vicino e così all’improvviso che Adelaya poté rispecchiarsi nei frammenti di cielo al tramonto che erano i suoi occhi; e in quelle pupille, in quelle iridi verticali, ella vide riflesse due protuberanze, lunghe una spanna e mezza, simili a ossa lavorate per produrre un’Arkra[1], che facevano capolino dalla sua scura chioma leonina. Anche i suoi capelli erano più crespi e ruvidi al tatto, le ciocche non si sbrogliarono neanche quando ella, presa dal panico, tentò di districarne i nodi. Scappò da quell’immagine e si coprì il volto con le sue dita, per scoprire che la carne era diventata tanto diafana da sembrare un velo trasparente, i muscoli aderivano alle ossa, il cui colore era ciò che più di tutto risplendeva in quell’alone nebbioso.
«Mia dea» si disperò, «come potrà il mio amato riconoscermi, o anche solo amarmi, dopo avermi vista in questo stato?»
Al che Sefta ribatté: «E cosa ti fa pensare che egli sia rimasto lo stesso? Pregare priva di molte forze, e lui ha pregato a lungo perché in te scorresse ancora della vita. Ha pregato perché le regole di Vita venissero infrante, e persino gli dei non danno a cuor leggero una simile questua.»
«Mia dea» domandò ancora, «quando arriverà il mio Arket?»
Ma la dea era scomparsa di nuovo.
Adelaya aveva ripreso a cantare allora, perché la voce era l’unica cosa che quella foresta non era riuscita a trasformare in una sua creatura. La sua pelle era morta, e la foresta le aveva dato un aspetto vuoto quanto vuota era la corteccia dei suoi alberi. I suoi capelli si erano spenti, e la foresta le aveva fatto dono di rami senza germogli, perché di germogli i suoi rami non ne possedevano. La sua pelle impallidiva sempre più, perché l’unico colore che la foresta conosceva era quello traslucido della nebbia. Ma la voce non era morta: Adelaya l’aveva usata per guidare Arket nelle sue caccie, nelle sue battaglie, l’aveva adoperata anche quando lui, adirato, si era rivoltato con ostentata smorfia di sfida verso gli dei; l’aveva fatta udire nella tenda in cui lui l’aveva trovata, morente, ad attenderlo. Il suono della sua voce si era dilungato come un’eco anche mentre il suo corpo giaceva immobile tra le sue braccia. E siccome la foresta non conosceva altro suono se non quello del silenzio, nulla poté per alterare il suo canto.
Ma il canto di Adelaya cambiò ugualmente. Dapprima pieno di speranza, poi sempre più disperato, alla fine si tramutò in una nenia funebre degna di quel mortorio, di quel limbo che era diventato la sua casa.
E alla fine anche il canto cessò. Del suo tentativo di perpetrare la vita in quei luoghi, rimase solo il battere del suo cuore. Strano come in tutto quel tempo ella non vi avesse prestato ascolto. Adesso era l’unico suono che riuscisse a sentire. Persino il suo respiro era talmente silenzioso da passare inudito alle sue orecchie.
Adelaya smise di vagare: aveva cessato di cercare una via di fuga molto tempo prima, adesso rinunciò anche alle passeggiate con cui scandiva le sue giornate, con cui contava le ore del giorno e immaginava quelle della notte scorrere via. Il pallore di quel suo mondo aveva cancellato il tempo, forse perché in quella nuova vita il tempo non era concepito. Eppure il tatuaggio sul suo braccio sembrava seguire scadenze molto rigide; ed era esso l’unica fonte a cui ella poteva affidarsi. Dopo tutti quegli anni aveva capito cosa significava la perdita di ogni singola foglia: la prima, la vita; la seconda, la tranquillità; la terza, la certezza; e poi, via via, il coraggio, la forza e la ragione. Quell’ultima foglia, di vivido blu come non mai, sancì la morte della speranza.
Se la dea degli equilibri nefasti fosse tornata a cercare la sua compagnia, avrebbe trovato una bianca corteccia vuota a perpetrare il silenzio di quei luoghi. Ma la dea probabilmente sapeva, e non venne. Nel sottobosco, sul terreno morto però, le piume di fagiano e di corvo continuarono ad ammucchiarsi, silenziose. Adelaya era arrivata a definirle la pioggia di quel luogo, tanto il terreno se ne ritrovò ricoperto. Essa era una pioggia silenziosa, svolazzante, leggera, che cadeva al suolo senza produrre alcun rumore, e per gli occhi della fanciulla era un vero supplizio assistervi. Il fogliame morto scomparve sotto di essa, come un cadavere che veniva inumato sotto un altro cadavere, e così via fino a formare una pira di morti.
Pianse, Adelaya, ma anche allora si rifiutò di far uscire anche solo un mugugno dalle labbra tremanti e dai denti serrati, quasi a mordere a sangue la lingua e a soffocare il fiato in lei.
Fu allora che apparve. Sbucò fuori dalle nebbie, o sarebbe più corretto dire che queste si ritirarono per lasciare che gli occhi di lei la potessero ammirare. Adelaya voltò il capo e la vide: uno scheletro di faggio, privo di decori, a cui l’edera si attorcigliava fittamente; le sue corde erano lacrime essiccate che un dio o una dea aveva tramutato in fili elastici e luccicanti su cui si rifletteva il pallore dei tentacoli di nebbia.
Adelaya attese che mani divine sfiorassero le corde dell’arpa, ma dalla nebbia vide svolazzare fuori solo una piuma di un corvo bianco. Nessun verso, nessun suono, nessuna vibrazione. Eppure la fanciulla liberò un gemito neanche lei sapeva di cosa… dolore, sollievo, riscossa… e allungò una mano verso l’arpa di faggio. Come una claudicante vecchia, avanzò con passo incerto e traballante, quasi le radici degli alberi tentassero di farle lo sgambetto al disotto della bassa foschia. I tratti infantili si aprirono in un’espressione sognante mentre ella s’attardava ad ammirare con stupore i virgulti che stringevano in una morsa d’acciaio la struttura di solido legno. Finalmente le sue dita si protesero a un palmo dalle corde, se si allungava poteva pizzicarle, ma troppo era il dolore e lo sfinimento, e allora riprese a piangere, e dallo sfondo della foschia il volto di Arket si dipinse con crudele precisione, in ogni dettaglio che ella ancora ricordava, infida memoria che non voleva darle pace. Sarebbe stato tanto facile lasciarsi andare ai sussurri silenziosi della foresta, diventare fino in fondo una sua creatura; aveva pensato anche di spezzare quell’ultima catena, quella ciocca di capelli che stava attorcigliata intorno al suo braccio e che reggeva il peso dei pendenti che una volta avevano formato la sua collana, simbolo del suo amore e della promessa che aveva stretto con Arket. E per un attimo, pochi istanti prima, si era lasciata andare ai primi segni di pietrificazione. Un pensiero terribile la colse: quanti di quegli alberi erano fanciulle e donne che si erano arrese? Adelaya si gettò sull’arpa e il primo suono che liberò fu un grido acuto di costernazione. Non voleva far parte di quella conca di vecchie vite incartapecorite, imprigionate nel legno spento.
Adelaya non aveva più voce, il cedimento di poco prima l’aveva privata di quel barlume di umanità, o forse erano state la sofferenza e quella freccia di ramo che si era conficcata nel suo cuore a istillare la sconfitta. Quindi prese ad accarezzare le corde, a invocare il suo amato; e le corde innalzarono suoni potenti, penetranti, che squarciarono le nebbie. Al di là c’erano solo altri alberi, altre fanciulle perdute, cortecce senza volti che ella aveva già visto nel suo pellegrinare ma mai tutte assieme. Da qualche parte, ancora oltre, doveva esserci Arket, lei lo sapeva.
Adelaya non aveva più speranza per sé, ma il nodo stretto poco al disotto della spalla la spinse a continuare a suonare, perché Arket era là fuori, e lui stava ancora sperando per entrambi.
 

[1] È una specie di boomerang a due ramificazioni, una più lunga e una più corta, con un’angolatura minore rispetto allo strumento conosciuto. La sua struttura non gli permette di tornare indietro come il comune strumento, ma i felichi lo usano durante le caccie agli uccelli, soprattutto fagiani. La preda veniva infilzata.
   
 
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