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Autore: The Custodian ofthe Doors    23/03/2018    2 recensioni
Sei volte in cui Robert Lightwood è stato un padre esemplare ma solo Alec se n'è accorto ed una in cui tutti lo hanno visto.
♦ First memory.
♦ A little secret for us.
♦ The fourth son.
♦ Have a quality.
♦ Eyes of glass.
♦ Remember.
♦ Father.
Genere: Generale, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Robert Lightwood
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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4- Eyes of glass.
 

Quando fa coming-out non era proprio il momento ideale per farlo, diciamo così.
Quello che legge nel volto di sua madre è sconcerto, in suo padre per un attimo legge nero terrore.
Non è facile, non lo è per nessuno, sia per la situazione in cui si trovano sia per il soggetto: Magnus è un uomo ma soprattutto è uno stregone e questo, questo si che è il problema principale e nessuno in famiglia ha il benché minimo modo, o la voglia, di affrontare il discorso.
Poi gli eventi si susseguono, per giorni non parla con i suoi, poi divengono settimane, la guerra, il lutto, il dolore, le colpe, i litigi, i mesi, il divorzio, l'allontanamento, l'inquisizione.
Lui e suo padre si lasciano così, che non si sono ancora davvero chiariti, che non si sono detti niente, lasciando troppe parole sospese tra di loro nell'aria densa e irrespirabile.
Ma Alec non può continuare a vivere in questo modo. Si è lasciato soffocare per troppi anni per continuare a farlo, i suoi polmoni non reggono più lo sforzo di trattenere il fiato e vuole liberarsene, vuole espirare tutta quell'aria viziata di paure e terrori e respirare aria pulita, profumata, che sa di zucchero bruciato e legno di sandalo. È per questo che decide di parlare con l'uomo il prima possibile, per sé, per Magnus e anche per Robert stesso.
L'imbarazzo è cocente e Alec, in quella biblioteca che lo ha visto crescere e studiare, si sente di nuovo in gabbia come non lo era da tempo.
Poi prende i coraggio a due mani, perché ama Magnus ma anche suo padre, nonostante tutto, e non può non cercare di farlo ragionare, di spiegargli il suo punto di vista, i suoi sentimenti.
Sono chiusi nella sala, in un opprimente silenzio, quando Alec decide di cominciare quel suo discorso così ben progettato e a prova di boma, per venir subito interrotto da un brutale:

<< Pensi che me ne fotta qualcosa che sei gay?>>

Il silenzio torna prepotente tra di loro ed un brivido freddo scivola lungo il collo di Alec.
A primo impatto non lo capisce, non comprende perché lo ha interrotto, non riesce a capire il senso di quella frase. Se la deve ripetere più volte in testa per riuscirci e poi, inevitabilmente, capisce male.
Un senso di nausea opprimente lo schiaccia contro la poltrona su cui è seduto e non vuole guardarlo, non vuole vedere ancora il terrore e il disprezzo negli occhi di qualcuno che ama così tanto e da così tanto tempo. Alec lo sa, sa che non ce la potrebbe fare a perdere anche lui, anche se forse è già successo e lui non se n'è neanche reso conto.
È Robert stesso a strapparlo dalla distruzione dei suoi pensieri, dall'oscurità nefasta in cui stava cadendo, una cripta che avrebbe occupato anche le ceneri di quell'amore paterno che Alec ancora ricercava dopo tutto quel tempo.
L'uomo lo guarda con lo stesso sguardo smarrito e terrorizzato che ha lui, la scorza dura della pietra brulla dei suoi occhi è stata scheggiata così tante volte da finire in frantumi e Alec ora può leggervi dentro tutto quell'animo fragile e solo che è suo padre.
Lo vede come si agita sul posto, come cerca la posizione comoda e lo rivede per un attimo nel tentativo di sistemarsi al meglio Max sulla spalla senza quella solita disinvoltura e sicurezza che contrassegnava ogni sua azione.
Non lo disturba il fatto che ami un uomo, o meglio, lo fa, lo disturba ma non perché è un uomo, non perché non è una coppia “canonica”, lui- Dio, come glielo spiega ora? Non è omofobo. Si, lo sa cosa ha detto, le sue parole ed il tono della sua voce sono impressi a fuoco anche nella sua di mente, ma non è così, è complicato e forse lui non dovrebbe neanche dirglielo, lui… non è omofobo, no, questo no, ecco, partiamo da qui.
Lo ammette, lo disturba o più che altro lo intristisce l'idea che non potrà mai vedere un figlio suo, non vedrà mai il suo… bambino, diventare padre e non c'entra niente il portare avanti il nome di famiglia, tanto ormai quel nome è in cenere come i corpi dei loro antenati, con tutte le scelte sbagliate che lui e Maryse avevano fatto… in parte accetta anche che non ci sarà mai più un Lightwood, che Alec non avrà una famiglia come l'ha sempre conosciuta lui, forse lo accetta proprio perché sa che si può amare un bambino non tuo così tanto da dimenticarsi che non avete lo stesso sangue, come Jace.
Ah, Jace, il suo Jace. Forse lui è quello che lo ha capito di meno, forse ancor meno di Izzy, forse è quello che lo vede più di tutti come un estraneo e Robert se ne rammarica.
Alec sente il tremolio di un vetro incrinato nella sua voce, le parole vibrano filtrando nella crepa che si è creata in quell'uomo di ghiaccio mentre ammette quanto lo ferisca sapere che i suoi figli lo odino e che non potrà mai far nulla per farsi amare come -forse- si illude abbiano fatto un tempo.
Ma non riesce a dirgli altro, tentenna, si guarda le mani, si rigira l'anello con il blasone al dito, la “L” fiammeggiante che ricorda loro quanto, secondo il loro nome, dovrebbero essere un faro nell'oscurità, un'oscurità che invece ha cominciato ad inghiottirli da tempo e ancora non ha smesso.
Robert si schiarisce la gola e prova a guardarlo in volto: è invecchiato in quei mesi come se fossero passati anni. Lo era anche appena ha visto il corpo di Max, quello che un tempo cullava nel tentativo di far addormentare e che invece ha dovuto consegnare per l'ultima volta al sonno eterno.
Il suo problema, inizia a dire a bassa voce, sta tutto nella parte “stregone”.
Si preoccupa perché nonostante tutto, nonostante i patti, la guerra e il reciproco aiuto dato da tutti, i pregiudizi sui nascosti sono ancora radicati nel profondo, perché alcuni lo sono ancora in lui, che non riesce a guardare con completa fiducia quelle creature -quegli uomini dice e Alec trattiene il fiato perché Robert ha appena messo i nascosti sul suo stesso piano, umani- perché gli è stato insegnato per tutta la vita di essere superiore a loro, che il sangue demoniaco che gli scorre nelle vene li rende corrotti e- si, che non lo guardasse in quel modo, lo sa anche lui che pure gli Shadowhunters possono essere corrotti, siamo tutti umani no? Però...insomma, si sta spiegando un po'?
Si mette seduto sul bordo della poltrona e si stringe le mani l'una nell'altra. Il punto è che quando ami qualcuno condividi il peso della sua vita sulle tue spalle e gli stregoni ne hanno fin troppo, centinaia di vite che li attendono dietro ad un angolo o stipati nei cassetti. Perché uno stregone è immortale e no, lui proprio non riesce a pensare che un giorno Bane potrebbe avere un altro compagno e dimenticarsi di Alec, l'amore è unico e-
Si blocca.
Alec lo guarda preoccupato, una sensazione di vischiosa pesantezza che gli si libera dal petto mentre assimila le parole di suo padre e si rende conto che le sue paure, se così può chiamarle, sono le stesse che hanno attanagliato lui per tanto tempo e che spesso lo svegliano ancora la notte.
Suo padre che si da del deficiente ipocrita da solo lo fa saltare sulla poltrona.
Robert scuote la testa con disprezzo verso sé stesso, che è così debole, lo è sempre stato e ha sempre avuto paura che anche loro nascessero con questa sua stessa onta.
Lui ha divorziato, ha tradito sua moglie, non dovrebbe neanche osare parlare d'amore.
Quando lui e Maryse non ci saranno più poi, nessuno lo proteggerà dal mondo ottuso a cui Robert stesso appartiene e poi, con voce bassa, come un segreto, gli sussurra che ha paura anche per Magnus, perché se ami qualcuno profondamente quando muore anche una parte di te lo fa e lui, re degli ipocriti, degli stupidi, lo sa fin troppo bene.
C'è tanto dolore e rimpianto nella sua voce, c'è un segreto che non vuole rivelare, non ancora probabilmente, ma tra tutte le motivazioni per cui non accetta il suo rapporto con Magnus, tra tutte le parole, Alec sente solo la paura, quel cieco e nero terrore che aveva letto nei suoi occhi il giorno della battaglia, di un uomo, un padre, per suo figlio, per ciò che sarà, per come vivrà e tutto il suo rimpianto di non aver fatto abbastanza prima, per ciò che non potrà mai fare, per ciò che si è perso.
Non ha mai fatto abbastanza per nessuno dei suoi figli, “nessuno dei quattro” dice sovrappensiero.
Le sue ultime parole sono probabilmente quelle che abbattono le ultime difese rimase in piedi di Alec.

 

Quando Robert se ne va Magnus entra di carica nella biblioteca, seguito da tutto il plotone che aveva atteso impaziente la fine di quell'incontro.
Alec è ancora sulla poltrona, le mani sul viso, scosso da singhiozzi silenziosi.
La rabbia dilaga in poco tempo tra tutti i presenti, da Jace che vuole rincorre l'uomo e dirgliene quattro ad Izzy che non gli parlerà mai più. Da Maryse che gli giura, glielo giura che non lo farà mai più entrare nell'Istituto e al diavolo che è l'Inquisitore, a Magnus che lo vuole solo uccidere per come ha ridotto il suo Alexander.
Gli dicono tutti di non fare così, che non ne vale la pena, che è un uomo spregevole e che non merita il suo dolore e solo allora Alec percepisce davvero il senso delle loro parole e si riscuote.
Alza il volto tra gli sguardi furenti e preoccupati di tutti per lasciarli scioccati e a bocca aperta.
Gli occhi lucidi ed umidi gli brillano come se fossero frammenti di vetro bagnati, quello stesso vetro che si era rotto negli occhi di suo padre e che lui in un qualche modo gli aveva donato. Le gote rosse ed il labbro inferiore stretto tra i denti, a trattenere gli angoli della bocca atteggiati in un sorriso sincero.
 

<< Ha detto che non gliene fotte nulla se sono gay.>> silenzio.
Alec si gira verso Magnus, allungando la mano per prendere quella del compagno.
<< Ma che non devi azzardarti a scegliere il rosa se mai ci sposeremo Mags, quel colore gli sbatte terribilmente in faccia.>>
 





 
Passiamo la vita a cercare di compiacere i nostri genitori. Non ce ne rendiamo neanche conto, non lo facciamo di proposito, ma è ciò che ci viene naturale.
Cominciamo da piccoli, quando alla riuscita di una buona azione, alla dizione approssimativa e balbettante di “mamma” o “papà” veniamo festeggiati con mille vezzeggiamenti. Così ci prendiamo gusto, vediamo che loro sono felici e ci rendiamo conto che lo sono per merito nostro, di ciò che abbiamo fatto. Cerchiamo di replicare la cosa e quando non ha più effetto troviamo altri modi per renderli orgogliosi di noi, per fargli dire che siamo bravi, che siamo proprio diventati grandi, che siamo la loro gioia.
Per quanto tempo continuiamo a farlo? Inconsciamente per tutta la vita credo.
Arriva il momento in cui però ci pare che nulla vada bene, che le nostre azioni non siano abbastanza, è l'attimo in cui passiamo da “bravo hai preso un buon voto” a “così poco? Non potevi impegnarti di più?”. Non lo capiamo inizialmente, non ci capacitiamo di questo cambiamento e ci sentiamo delusi, da noi e da loro.
Questo è il bivio della nostra storia, da qui possiamo andare avanti, impegnarci per noi e comprendere quando i commenti dei nostri genitori sono volti a spronarci o a sgridarci, il percorso che ci porta a dire “va bene, pensa ciò che vuoi, questa è la mia vita e ne farò ciò che reputo più giusto”. Ma c'è sempre l'altra strada, quella che ci mette sotto pressione, che ci fa sentire inadeguati, che ci fa soffrire di ogni traguardo non raggiunto e che non ci permette di goderci quelli a cui siamo arrivati.
Camminiamo per troppo tempo su entrambi, non facciamo altro che zoppicare per il secondo e poi farci prendere da quelle botte di ribellione adolescenziale, di propositi mandati al diavolo, e correre verso il primo. Continuiamo così finché non ci rendiamo conto che entrambe le strade, prima o poi, si rincontrano, perché tutti abbiamo sempre una seconda possibilità.
Ad essere onesti ogni giorno abbiamo una seconda possibilità, possiamo alzarci la mattina e decidere che questa è la volta buona per cambiare tutta la nostra vita, ma siamo esseri abitudinari e pigri, che vivono nella procrastinazione e nell'ottusa idea che nulla può cambiare a meno che non vi sia un evento spettacolare.
Siamo tutti Zeno Cosini e non smetteremo mai di fumare, neanche quando i pianeti si allineeranno, perché troveremo comunque qualcosa che non va.
Aspettiamo quell'allineamento planetare anche per avere la nostra rivincita, per guardare in faccia i nostri genitori e sentirci dire che siamo arrivati proprio dove loro avrebbero voluto, anzi, ancora più su. E siamo stupidi, siamo estremamente stupidi, così stupidi che spesso mi domando come possiamo essere la specie dominante. Non ci rendiamo conto che loro non voglio altro che la nostra felicità, che sognano per noi le migliori delle ipotesi e che ci spingono verso quello che credono sia il meglio per noi. Dimentichi di quando erano loro ad essere sospinti verso una meta e di quanto questo li mettesse sotto pressione.
Figli e genitori non si capiscono quasi mia sotto questo punto di vista: i primi perché non sono ancora genitori a loro volta, i secondi perché si sono dimenticati com'è essere figli ed aver sulle spalle le aspettative di qualcuno che cerchi di compiacere da una vita.
Ci dividiamo, ci scontriamo, ci urliamo contro o sprofondiamo nel silenzio più totale quando il peso diventa troppo e cediamo sotto di esso e si rompono gli argini e non possiamo più contenere la pressione devastante che ci ha schiacciato a terra. È il momento in cui “tagliamo” definitivamente il cordone e diventiamo persone che si muovono e fanno ciò che è nel loro interesse, che non cercano più di sentirsi dire quanto sono bravi.
Poi un giorno ci si ritrova seduti tutti allo stesso tavolo e tra una chiacchiera futile e l'altra, tra una risata ed una battuta, Pulcinella disse la verità e ti scappa di quella volta che non sei riuscito in qualcosa e di come ci siano rimasti male i tuoi. E tua madre ti guarderà e ti dirà che gli è dispiaciuto tanto, soprattutto che tu ci sia rimasto così male. Sarà il momento in cui tu gli dirai che non te n'è mai fregato nulla del calcio e che giocavi solo perché lei ti aveva iscritto e ti aspettava tutti i giorni fuori dal campo qualunque fossero le condizioni meteorologiche.
È il giorno in cui tu ammetterai che facevi una cosa solo per loro e loro ti diranno che gli importava tanto solo perché credevano impostasse a te.
Quando ammetterai che ti sei sempre vergognato di una tua passione perché pensavi che loro non l'approvassero e tuo padre riderà, dicendoti che lo ha sempre saputo che sei strano e che si, forse non capisce come tu possa restare ore impalato davanti ad uno spettacolo di lirica o ad un balletto, ma che questo non fa di te un disonore, sei sempre suo figlio, qualunque siano i tuoi gusti.
Verranno fuori tanti di quei discorsi, di quelle confessioni, che ne rimarrai sorpreso, sconvolto nel sapere che per tutta la vita te e loro avete condiviso lo stesso obbiettivo: la felicità e l'orgoglio dell'altro.
La stupidità umana non ha mai fine, quando si tratta dell'amore di una persona cara è ancora più disarmante. Ci mettiamo così tanto a capirlo, ci saremmo potuti risparmiare tante pene e dolori eppure, in conclusione, quanto ci scalda il petto sapere che nonostante tutto, loro vogliono solo la nostra gioia?
Incredibilmente tanto, quasi quanto le volte in cui ti darai del cretino per non averlo capito prima.
Ma va bene così, siamo umani e questo comporta anche essere ottusi, specie d'amore.
   
 
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