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Autore: Giovievan    05/04/2018    3 recensioni
«Credi che non si noti?»
Alzo le sopracciglia, dubbioso ma fermo. Non ho intenzione di mostrare a questo ragazzino neanche la minima esitazione.
«Di che stai parlando?»
«Del fatto che non ti importa. Di lei. Del Concilio. Di Nemanan. Non ti interessa di nulla, Zarbon, solo del potere. Non so come facciano tutti a essere cosi ciechi… eppure è palese. Traspare da ogni tuo movimento, dalla superbia con cui parli; te lo si legge persino negli occhi.»

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Sul pianeta Nemanan sono trascorsi ottant'anni da quando il Concilio, formato dai tre saggi regnanti, ha eletto il Gran Sapiente: è tempo di trovare il suo successore tra i tre migliori allievi e studiosi del Palazzo, che si preparano a competere per aggiudicarsi il trono. Zarbon non ha dubbi sul fatto che sarà lui il degno erede: il potere è tutto ciò che desidera, anche più di quei due occhi dorati che deve a tutti i costi dimenticare. Eppure non tutto va come previsto: l'arrivo di un'incredibile minaccia, un tiranno che si fa chiamare Lord Freezer, sconvolge Nemanan... e non solo.
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Questa storia è uno spin-off di Freezer:Origins, e si ambienta tra i capitoli 10 e 11.
Genere: Dark, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Freezer, Nuovo personaggio, Zarbon
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Origins: come tutto ebbe inizio'
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«Non so come tu faccia a sprecare tanto tempo con i tuoi allenamenti. Io riesco a stento a studiare e basta.»
«Ecco perché io diverrò Gran Sapiente e tu no.»
Ride, non sembra prendersela. Forse è convinta di cogliere nelle mie parole una sottile ironia, ma ce n’è meno di quanto crede.
Addenta il suo pezzo di pane, masticandolo con calma, e il mio sguardo è rapito dal suo viso. Seguo il profilo delle labbra carnose risalendo per il naso e finendo nei suoi occhi più dorati che mai. Mi hanno sempre ammaliato, fin da bambino, fin dal momento in cui per la prima volta mi ci immersi fino in fondo fuoriuscendone a stento. Un errore di gioventù che ogni tanto mi ritorna alla mente, come adesso. Chissà se ci ripensa anche lei… ma ora non siamo più i due giovani orfani che lottavano per meritarsi un posto nella immensa società di Nemanan e assieme potevano essere più forti. Adesso siamo avversari, e lei e Toqueda sono l’unica cosa che mi separa dal potere che ho sempre sognato e ora è più vicino che mai. Non possiamo permetterci di andare oltre e lei lo sa, anche se spesso sembra dimenticarlo.
«E se lo diventassi io? Sarebbe un bel colpo, no?»
Chissà se ci crede davvero. Mi viene da sorridere.
«Non accadrà», dico. Non accadrà perché io non sono nato per essere a vita un Consigliere: io sono nato per essere un Grande. E se il prossimo Gran Sapiente non dovessi essere io il suo mandato non durerà ottant’anni, perché in qualche modo la sua vita si concluderà molto prima. Quindi non accadrà, e speraci.
Queste parole non possono essere pronunciate, ma risuonano nella mia mente e mi minacciano di uscire. Le trattengo. Non voglio che sappia che sarei davvero capace di ucciderla, se le circostanze lo richiedessero, così come ucciderei chiunque altro si metta tra me e il potere che mi spetta. Nemmeno il suo sguardo le darebbe il diritto di togliermi ciò che è mio… eppure sono certo che lei stia pensando lo stesso.
Si alza, lisciandosi la toga nera con le mani.
«Allora è stato un piacere parlare con lei, Maestro. Un vero piacere. Spero di rincontrarla quando verrò a portarle la toga rossa dopo averla accuratamente stirata, come ogni buon Consigliere dovrebbe fare. Magari l’aiuterò a indossarla… o a toglierla.»
Una scossa mi attraversa a quelle parole e al tono con cui sono state pronunciate, ricche di una malizia che non posso ignorare. Mi alzo, avvicinandomi a lei tanto da costringerla ad alzare gli occhi per guardare nei miei. Mi godo ogni sua reazione, dal lieve brivido che la coglie quando mi avvicino al mezzo sorriso che le sue labbra disegnano quando parlo. Lei può provarci, ma in questo gioco sono sempre stato più bravo io.
«Dovresti smetterla di lanciarmi certe provocazioni. Potrei coglierle.»
Non risponde. Si allontana, con quel mezzo sorriso che non l’abbandona e mi resta incollato in testa, voltandosi verso la Biblioteca e immergendosi tra i suoi scaffali.
Nemmeno il suo sguardo le darebbe il diritto di togliermi ciò che è mio.
Mi passo una mano tra i capelli, sistemandoli al meglio dietro le orecchie. Oltre la mia spavalderia si nasconde una tempesta. Non so quanto ancora riuscirò a resisterle se decide di provocarmi in questo modo, ma in ogni caso, anche se dovessi cederle, nulla mi smuoverà dal mio scopo. Nulla.
Qualcosa sott’occhio mi disturba. Toqueda, seduto qualche posto più in là, mi sta fissando con uno sguardo pieno di sfida. È l’unico, tra noi tre, a provenire da una famiglia ricca e a non essere cresciuto a Palazzo; è evidente che si senta minacciato e sia convinto di avere molte meno possibilità di noi, che siamo già nelle simpatie del Concilio. Non prova particolare affetto nei miei confronti, ma è comprensibile: fossi in lui anch’io sarei certo di non avere speranze. Se non altro ammiro la sua tenacia.
«Cos’hai da guardare?» gli domando. Lui non smette di sostenere il mio sguardo.
«Credi che non si noti?»
Alzo le sopracciglia, dubbioso ma fermo. Non ho intenzione di mostrare a questo ragazzino neanche la minima esitazione.
«Di che stai parlando?»
«Del fatto che non ti importa. Di lei. Del Concilio. Di Nemanan. Non ti interessa di nulla, Zarbon, solo del potere. Non so come facciano tutti a essere cosi ciechi… eppure è palese. Traspare da ogni tuo movimento, dalla superbia con cui parli; te lo si legge persino negli occhi.»
Stringo i pugni. La verità di quelle parole è così palpabile che non riesco a negarla, anche se lo vorrei; mi colpisce come uno schiaffo, urlandomi a pieni polmoni che è vero, dannazione, ci sono cose che amo e cose che desidero, ma nessuna di queste ha tanta importanza quanto il potere a cui aspiro. Eppure non posso ammetterlo.
«Il Gran Giudice nei miei occhi ha letto determinazione» riesco a dire, tentando di mantenere un tono fermo. «Sarà meglio che t’impegni per conquistarti il posto nel Concilio, perché ti svelo che ha ragione lui.»
Ride, beffardo. Ignora le mie ultime parole.
«Spero solo che una volta che sarai Gran Sapiente utilizzerai 
come si deve il potere che ti sarà dato» dice. Nei suoi occhi leggo solo ostilità: sta dando per scontato che sarò io a vincere. «Invece, qualora il Gran Giudice decidesse di giudicarci per ciò che valiamo davvero e vincessi io, ti mostrerò come fare.»
«Stai insinuando che sarei favorito?» ringhio, scattando in piedi. I palmi delle mani puntellati sul tavolo iniziano a stringere il legno in una morsa che quasi lo deforma. «Come osi? Come osi insinuare che il Gran Giudice sia corrotto?»
«Non ho mai detto che lo sia. Ma sii onesto, Zarbon, credi davvero che sceglierebbe me al tuo posto dopo tutti gli anni in cui sei stato il suo pupillo? Ti basta una buona prova, il resto verrà da sé. Tutto ciò è una farsa!»
Quest’ultima frase è urlata, quasi ringhiata nella frustrazione e nella rabbia. Si alza di scatto, voltandosi e dirigendosi verso la porta. Emana furia, come un'aura che lo avvolge e arriva tangibile fino a me.
Mi dirigo anch’io verso il mio angolo. Mentre torno a studiare mi ritrovo a sperare che, in qualche modo, abbia ragione lui.
  
*  *  *
 
La porta della stanza cigola prima di richiudersi. Ho atteso ben oltre il calare dell'astro prima di rientrare nella speranza che Olei si sia stancata di attendermi e abbia deciso di andarsene. Ho ancora negli occhi quelli di Illerio e il solo pensiero di toccare un'altra mi disgusta.
Purtroppo le mie aspettative vengono deluse. Olei è distesa a letto, con un leggero tomo aperto a metà tra le mani. Appena mi vede lo richiude, poggiandolo sulle coperte con un largo sorriso.
«Mi hai fatta attendere» dice. Intravedo le sue forme al di sotto del sottile strato di tessuto, ma stavolta smuovono in me meno emozione del solito. Non ho voglia di un corpo qualsiasi… ho voglia di Illerio, solo di lei.
«Vattene» le intimo sfilandomi la tunica e poggiandola al suo gancio con delicatezza.
«Non trattarmi così.»
Lasciva, scivola fuori dalle coperte e arriva al mio fianco. La sua mano morbida come velluto mi sfiora il braccio percorrendo il mio tricipite dall’alto al basso, ma quel tocco non ha nulla di sensuale: è invadente, indesiderato. Mi viene voglia di spingerla lontano.
«Ho aspettato tutta la sera che tornassi. Lascia che almeno...»
«Ti ho detto di andartene» ripeto, e stavolta il mio tono duro sembra colpirla. Si irrigidisce, ritraendo la mano e coprendosi i seni nudi con le braccia conserte. 
«Credi di avere il diritto di trattarmi in questo modo?» sussurra. Mi sembra sull’orlo delle lacrime, ma spero non pensi di farmi pena in questo modo.
«Io non ti tratto in nessun modo. Sei tu che insisti a venire da me.»
«Vengo da te perché ti amo, Zarbon, anche se tu continui a trattarmi come un giocattolo!» prorompe, e attraverso lo specchio noto i suoi occhi brillare di lacrime. Lacrime mentitrici. 
«No, tu vieni da me perché sai che presto sarò nel Concilio. Ma puoi star tranquilla: tu non sarai al mio fianco, qualunque cosa accada. Sei stata solo uno svago, come ti avevo detto prima di iniziare questo gioco. O forse credevi di potermi far cambiare idea?»
Sta tremando dalla collera e dalla vergogna. Si riveste in pochi attimi e senza nemmeno una parola esce, sbattendo la porta. Inspiro profondamente, sedendomi alla mia specchiera e sfilandomi il monile dalla fronte.
Afferro il pettine mentre la mia mente vaga. Olei non è stata la prima ad avvicinarsi a me solo per secondi fini, che fossero la bellezza del mio corpo o la mia vicinanza al Gran Giudice. Sono stato fin troppo corretto ad avvisarla di non aspettarsi nulla prima di incontrarci per la prima volta, ma ora me ne pento: non meritava tanta attenzione. Eppure adesso sono certo che non tornerà.
Il pettine scivola assieme al ricordo di quel corpo sotto le coperte i cui contorni sfocati pian piano sfumano. Il senso di sollievo è ben presto sostituito da qualcos'altro, un sentimento che lentamente si concretizza. Lo riconosco: è desiderio. Desiderio per ciò che non posso avere e che l'inconscio mi urla di andarmi a prendere. Ho sempre provato un’insana attrazione per ciò che non possiedo, ma nessun pensiero mi ha mai dato tanti problemi quanto questo. Ho resistito per mesi immergendomi nello studio e nell’allenamento fisico, stremando il mio corpo e la mia mente nel tentativo di dimenticare… ma lei per me è una dipendenza. E non si guarisce mai davvero dalle dipendenze se non lo si desidera.
Potrei consumarmi in questi pensieri per ore come faccio ogni giorno, struggendomi e infine mettendomi a letto pur di impedirmi di fare qualsiasi altra cosa. Questa sera, però, non ne ho la forza. Zittisco tutti i miei pensieri, che iniziano a diventare insostenibili, e lascio che il mio corpo faccia ciò che vuole. Indosso la toga e il cappuccio e in un attimo sono all'esterno, nel corridoio scuro in cui sono già state spente le lanterne. Pochi momenti dopo spingo la sua porta senza bussare, mettendo piede nella stanza nel tentativo di non far rumore nonostante sia lì proprio per farmi sentire.
La vedo intenta a piegare la sua toga prima di appenderla al gancio, in quella stanza che sarebbe perfettamente uguale alla mia se non fosse speculare. Alla luce della fiamma che brucia nella lanterna il suo corpo, coperto dalla veste bianca della notte, sembra delinearsi perfettamente nitido.
Si volta incontrando il mio sguardo appena calo il cappuccio; sgrana gli occhi e mi guarda, incredula. 
«Che ci fai qui?»
Sbaglio, dolcezza. Compio un grave errore, forse il più grave della mia vita.
Non rispondo. Mi richiudo la porta alle spalle senza far rumore. 
«Non dovresti essere qui»
Per mille motivi non dovrei essere qui.
Mi avvicino a lei in poche falcate senza mai distogliere lo sguardo dal suo. Lei mi segue con gli occhi finché non arrivo a pochi centimetri dal suo viso.
«Zarbon...»
Non ha modo di aggiungere altro. Le prendo il volto tra le mani, infilando le dita tra i capelli e intrappolando le sue labbra sulle mie. Lei resiste per qualche attimo ma non ha scampo: si lascia andare, dischiudendo lentamente le sue. Mi bacia con avidità, come se fosse l'ultima volta. Io divoro ogni suo respiro e mi immergo nei suoi occhi, ancora e ancora; proprio nell’unico posto da cui avrei dovuto stare lontano. 
Sei un perfetto idiota.
Mi immergo e so che ritornare a galla sarà impossibile, perché sto annegando.
 
 *  *  *
  
«Ricordi di quella volta, da ragazzini?»
Infila le dita tra i miei capelli. Li ha sistemati in una treccia perfetta che mi ricade sulla spalla come una cascata di smeraldo; ha detto che mi dona, che mi rende principesco, e io le credo anche se non posso vedermi. 
Il suo seno preme contro il mio fianco, caldo e morbido. I suoi occhi si tuffano nei miei. 
«Ci sarebbe un bel po' di roba da ricordare» le sorrido. «A che ti riferisci? A quando ti prendevo a calci nelle palestre? O forse a quando perdevi ogni singola sfida che tu stessa mi proponevi?»
Il tocco delicato si trasforma in un pugno deciso che mi scuote. Mi sfugge un gridolino che sopprimo per evitare che qualcuno degli allievi ci senta dalle stanze attigue.
«Idiota» ride lei. «Mi riferivo a quando mi baciasti dietro al colonnato. Ricordi? Ci beccarono e dovemmo sorbirci la ramanzina del Gran Giudice sul decoro, l'intimità...»
«In fondo ci disse solo di farlo nelle nostre stanze e non in pubblico. Non c’è una regola che ci impedisca di stare insieme.»
«No, non c’è una regola.» nei suoi occhi sfuggenti, che si staccano dai miei correndo lontano, leggo qualcosa che non vorrei vedere. «Ma non siamo più ragazzini e non possiamo permetterci legami.»
Si allontana, mettendosi distesa sul fianco. Non posso che far scorrere lo sguardo su ogni centimetro della sua pelle azzurra, tanto chiara da apparire grigia alla luce della lanterna. 
Quelle parole mi turbano ma so che sono la verità.
«Non voglio che si sappia.» continua. «Siamo avversari. Dobbiamo essere forti, determinati, aggressivi… questo non è nulla di tutto ciò. È volubilità, è debolezza.»
D’istinto vorrei piegarmi su di lei e sfiorarle le labbra dicendole che non mi importa, che è lei la cosa più importante, che possiamo smettere di resistere e lottare contro ciò che vogliamo e essere al contempo avversari... ma non posso farlo. Non sarebbe giusto mentirle come lei non sta mentendo a me. I nostri corpi sono l'unica cosa di noi che potrà mai unirsi; le nostre anime sono troppo distanti e competono per un posto che è unico. Neanche legandoci indissolubilmente potremmo starci in due: saremmo destinati a spezzarci.
Non riesco a far altro che annuire. Lei si distende sulla schiena, osservando il soffitto, e all’improvviso sorride.
«Guarda dove siamo arrivati… eppure ricordo ancora quando ti trovammo. Eri così piccolo e bluastro. Un esserino davvero orribile.»
«Sei fortunata che non abbia potuto vedere te» controbatto.
«Te lo giuro!» ride lei. «Quando il Gran Giudice ti sollevò da quel cesto pensai: quindi sono stata così brutta anch'io?»
«Taci!» la schernisco. «Quanti anni potevi avere? Tre? È impossibile che ricordi una cosa del genere.»
«Che poca fede.»
«E poi non mi pare che tu dica lo stesso adesso, o sbaglio?»
Finge di scrutarmi e riflettere.
«No, in effetti non sei male. Sei meglio di Toqueda, questo è certo.»
Sento una lieve punta di gelosia quando lo nomina, al pensiero che anche lui possa desiderarla quanto lo faccio io. Lei lo nota subito, ovviamente.
«Non andate molto d'accordo.»
Non ti interessa di nulla, Zarbon, solo del potere.
Il ricordo delle sue parole mi travolge senza che io possa impedirlo. Il mio corpo deve essersi irrigidito, perché lei se ne accorge.
«Tutto bene?»
Mi alzo, annuendo. All’improvviso l’incantesimo si spezza e l'entità dell'errore che ho commesso mi si manifesta in tutta la sua imponenza. D'un tratto anche la sola vicinanza a lei mi è insopportabile. 
«Sarà meglio che vada» dico mentre mi chiudo la toga ai fianchi. «Abbiamo solo due mesi per concludere gli studi. Svegliarci ancora stanchi non ci aiuterà.»
Lei annuisce senza provare a fermarmi. Forse ha intuito il mio tormento interiore; forse lei per prima sta sopprimendo quella sensazione da quando mi ha visto entrare. 
Apro la porta di legno, ma mentre sto per scivolare fuori la sua voce mi blocca. 
«Buonanotte, Zarbon.»
Mi volto con un sorriso verso di lei. La mia dannazione. L'unica cosa che non posso e non potrò mai avere. 
Se non posso averti dovrò distruggerti.
«Buonanotte, Illerio.»
La porta si chiude alle mie spalle e io, silenzioso, scivolo tra le ombre. Quando ritorno nella mia stanza mi tolgo la toga, gettandola alla rinfusa sul letto, e dinnanzi allo specchio mi passo una mano sul volto per distendere i muscoli contratti del viso. 
Ho ancora i capelli legati nella treccia che lei mi ha fatto. Mi metto a letto senza toccarla. Mi ripeto che la scioglierò domani o che forse la terrò perché in fondo mi dona... ma sono davvero un ingenuo se credo di poter mentire a me stesso.
   
 
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