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Autore: yonoi    17/04/2018    9 recensioni
Un antico camposanto posto sulla sommità di uno sperone roccioso: è il cimitero monumentale della Rupe, detto anche l'Isola dei Morti. Un luogo che appartiene all'eternità, che un lago silenzioso separa definitivamente dal mondo dei vivi. Tra austere cappelle familiari, sepolture vegliate dagli angeli, un sacrario dedicato ai caduti di guerra, gli abitanti della Rupe vivono il quotidiano della morte rievocando il passato, attendendo una visita o cercando di riconciliarsi con se stessi, come il Suicida per la vergogna e il soldato semplice Ruhe. Soprattutto, lasciandosi risanare dalla musica di Aldo Gorini, virtuoso del violoncello, che ha scelto di dimorare alla Rupe per rimanere accanto alla moglie defunta. La storia di un amore che vince la morte, dell'amicizia tra due giovani, della loro rinascita e del lento cammino verso l'Eternità.Prima classificata al contest True Colors (of Your Life) indetto da Laodamia94 sul Forum di EFP, a pari merito con "Like a bridge over troubled water" di Setsy
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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“Il presagio è quell’ombra che si allunga sul prato,
Indice di tramonti,
ad avvertire l’erba sbigottita
che su lei presto scenderà la notte”
(Emily Dickinson, Presentiment is that long Shadow)
 

            3. Aver cura di te è amare me stesso
           

            L’Isola era ormai avvolta dalla bruma notturna, interrotta qua e là dagli ultimi stralci di luce del crepuscolo. Con i loro bagliori gelidi e inconsistenti, dal nulla s’accendevano le fiamme dei fuochi fatui, e iniziavano a vagabondare per i campi. La notte cominciava a riempirsi del trapestio dei piccoli animali che dimorano abitualmente tra i rami di noi cipressi: coi loro voli sghembi, come lanciati da invisibili giocolieri, uscivano i pipistrelli; gli allocchi si affacciavano dalle cavità dei tronchi, simili a ciuffi di bambagia col becco, gli occhi ancora appesantiti dal sonno. 
            Sui muri del mausoleo, che iniziavano a cedere la calura del giorno, tremavano evanescenti fiammelle di candele. Le note del violoncello, dopo aver smesso un poco - il tempo di un rapido spuntino del concertista - riprendevano se possibile ancora più intime, delicate e ardenti.
            Aldo Gorini, evidentemente, aveva ottenuto dal custode il permesso di trattenersi dopo l’ora di chiusura. Era solito farlo specialmente d’estate, quando il fresco alla Rupe era più confortante dell’afa della città.
            Suonare, per Aldo Gorini, significava parlare a Emily nella lingua della loro intimità più segreta. Il loro dialogo di musica e di silenzi iniziò da quella prima sera, quando lui riuscì a rintracciarla nel labirinto dei camerini del teatro. Di colpo lei se l’era trovato di fronte, alto e con l’uniforme, i capelli biondi e ordinati con la riga da un lato, un volto classico ma inebriato: la pelle rovente per la timidezza e le note che lei aveva suonato solamente per lui, come se nella sala non vi fosse nessun altro. Entrambi dovettero raccogliere tutto il possibile coraggio per iniziare a parlarsi: erano già innamorati, e a partire da quel momento lo furono per sempre.
            Il giorno del matrimonio, al momento del sì la sposa aveva levato dall’astuccio il violino, l’aveva posato sulla nuvola di veli della sua spalla, e aveva suonato un brano di struggente bellezza. Lui le aveva risposto sedendo al violoncello, e persino le statue dei santi si erano sporte verso il centro della navata per ascoltare meglio.
            Dopo le nozze e gli studi al conservatorio, la fatica, i concorsi, era iniziato il loro sodalizio musicale: erano riusciti entrambi a entrare nell’orchestra del teatro cittadino, lei come primo violino, lui come violoncellista. Insieme a un’altra coppia avevano dato vita ad un quartetto d’archi che aveva acquisito, nel tempo, una certa notorietà: registravano brani di musica da camera, partecipavano a spettacoli di beneficenza, arrivarono a suonare in televisione e alla radio.
            In questa consuetudine fatta di quotidiano esercizio, di concerti e di prove, di sipari calati su un’immensa stanchezza, di lunghi minuti di applausi, Aldo Gorini ed Emily Olsen vissero il loro amore con una gioia che a pochi è dato sperimentare: sia che si esibissero nel teatro gremito, cercandosi con lo sguardo e rimanendo uniti attraverso le note scritte sul pentagramma, o su un palco all’aperto, illuminato da torce e trapunto di stelle, suonavano sempre e solo l’uno per l’altra.
            Quando non potevano sedere vicini, per esigenze di orchestra o di scena, il loro naturale istinto per l’armonia sapeva perfettamente ciò che l’altro stava vivendo. La loro intimità li aiutava a riparare i danni dovuti alla fatica eccessiva, allo scoraggiamento per una nota sbagliata, per un pubblico freddo.
            Vederli suonare insieme era semplicemente gustare l’armonia che esisteva tra loro.
            Fu così per lungo tempo: trent’anni di matrimonio, vissuti intensamente come fossero un giorno. I loro capelli già cominciavano a contare innumerevoli fili bianchi. Sui loro volti il tempo tracciava la storia di una vita di studio, delle grandi emozioni donate dalla musica, della tensione continua verso la perfezione. Ma la schiena di Emily era ancora diritta, e il portamento di Gorini era quello di un ufficiale appena uscito dall’Accademia. Ogni tanto il cuore di lei faceva una capriola, e sopra al comodino iniziarono a comparire fogli di prescrizioni mediche, l’apparecchio per il controllo della pressione, scatole di compresse di tutte le forme e i colori.
            Una sera, durante un’esibizione in teatro, Emily alzò a un tratto il volto dallo strumento: si guardò intorno attonita, sbiancando e poi assumendo un colorito terreo. Un fiume di sudore la bagnò da capo a piedi, impregnandole gli abiti come se il suo corpo fosse fatto di ghiaccio, e si stesse sciogliendo.   
            Gli ultimi rumori che Aldo Gorini udì furono il violino che le sfuggiva di mano, la caduta e il rimbombo di quella cassa armonica perfetta in ogni sua parte, costruita con cura; il fruscio del corpo di Emily che si accasciava silenzioso, piegato da un dolore indicibile e senza ritorno.
            L’orchestra si arrestò a un tratto, ruzzolando sulle ultime note con un rumore disordinato di vetri rotti. Mentre gli orchestrali si affannavano intorno a Emily, e altri addetti giungevano da dietro le quinte, un brusio sempre più alto iniziava a levarsi dal pubblico in sala. Lo spettacolo di balletto in corso sul palcoscenico rimase congelato, i danzatori immobili come le statuine di un carillon senza carica. A spinte Aldo Gorini si fece strada fino a Emily, inciampando negli strumenti e nelle seggiole, nella paura e nello stupore dei musicisti, e facendo volare gli spartiti per ogni dove.
            Quando arrivò a stringerla tra le sue braccia, ne avvertì il peso immobile: d’un tratto fu consapevole che qualcosa stava scivolando via da lei, irrimediabilmente, senza che fosse possibile trattenerlo. Levò lo sguardo, turbato, verso il direttore d’orchestra, verso le facce attonite degli altri musicisti. Gli sembrò d’essere, a un tratto, così lontano.
            Gli uomini del soccorso erano già arrivati: rapidi lo scostarono dal corpo di Emily, dando avvio a quelle manovre che molti anni dopo avrebbero ripetuto sopra di lui, dopo il ritrovamento mattutino nel mausoleo.
            Mentre cercavano di rianimarla e praticare i primi interventi in emergenza, Aldo Gorini percepì una strana sensazione, simile a una folata che gli passava accanto: mentre se ne restava là impalato, incapace di reagire, sentì una mano posarsi sulla sua spalla. In quel preciso istante si accese una scintilla sulla schermata del defibrillatore automatico, e ripartì una traccia dapprima irregolare, poi pian piano più ritmica. Aldo Gorini pensò che la sua vita stessa, insieme a quella di Emily, era appesa a quella sequenza disordinata, ma che pareva acquistare pian piano stabilità.
            Emily fu caricata sulla lettiga dell’ambulanza, condotta via a sirene spiegate nel buio.
            Di nuovo l’impressione di una mano compassionevole sulla sua spalla. Stavolta si trattava di uno dei musicisti:   
            “Aldo, ti accompagno.” Non disse nient’altro.
            Nella sala d’attesa dell’unità di terapia intensiva coronarica, Aldo Gorini perse la nozione del tempo. L’atmosfera era quella di un acquario illuminato da potenti luci al neon. Il pavimento incerato assorbiva il rumore dei passi, le pareti riflettevano un identico candore, sopra a un tavolo erano ammucchiate delle riviste. In un angolo della sala, una pianta da interni seccava senza rimedio, per mancanza di acqua, di sole e di attenzioni. Aldo Gorini attendeva, seduto su una delle sedie allineate contro il muro come si usa nei luoghi che non appartengono a nessuno. Il suo accompagnatore misurava a passi cadenzati la stanza, avanti fino alla macchinetta del caffè, poi indietro fino alla porta che rimaneva ostinatamente chiusa.
            A una cert’ora entrò il medico di guardia: un gigante di un metro e novanta che malgrado le dimensioni era ripiegato su se stesso come un pallone sgonfio, ingobbito dalla fatica e dal peso di quel che aveva da dire. Aldo Gorini cercò di spiare alle sue spalle l’interno della corsia, ma in quel corridoio così bianco da sembrare di pura luce, di Emily non c’era traccia.
            Il medico strisciava lo sguardo per terra come se le parole gli fossero sfuggite, per andare a nascondersi chissà dove. Finalmente si era deciso, e tirando un sospiro per sollevarsi dritto aveva detto Infarto. Poi, a mo’ di spiegazione: qualcosa che trapassa il cuore da parte a parte.
            Aldo Gorini aveva pensato: di qualsiasi cosa si tratti, ha trafitto anche me.
            “Le spiego, l’infarto è dovuto all’occlusione totale di una coronaria, una di quelle arterie che portano il sangue al cuore. Noi stiamo tentando di rimuovere la causa di questa occlusione. Non le nascondo che la situazione è grave.”
            Il medico di guardia camminava in punta di piedi sulle parole. Sudava per l’imbarazzo, il caldo e chissà che altro. Al collo, la cravatta era ridotta a una povera cosa attorcigliata. Non poté sottrarsi all’angoscia di Aldo Gorini, che lo aspettava al varco:
            “Mi dica se riesce a farcela.”
            “Vorrei poterglielo dire.”
            “Mi dica che ce la farà. Anche se non è vero.”
            “Non posso garantirlo.”
            “Anche se non è vero. Ho soltanto bisogno di sentirmelo dire.”
            Più tardi, marito e moglie si incontrarono per l’ultima volta. Il volto di lei spiccava a malapena sopra al cuscino. Il corpo cancellato dalle lenzuola bianche, Emily gli parlava attraverso le pulsazioni sullo schermo del monitor. Accanto al tracciato, altre cifre indicavano gli atti respiratori e il numero dei battiti cardiaci al minuto. Aldo Gorini osservava i numeri sul display, il piccolo cuore stilizzato che pulsava ritmicamente: sapeva che quel palpito inafferrabile e spontaneo era la vita di Emily, e con quello ora lei continuava a parlargli.   
            Lui le rispondeva carezzandole il volto, sistemandole attorno i drappeggi del lenzuolo, stando attento a non toccare, a non muovere niente. E le diceva ti amo Emily, mia Emmy, l’ho detto tante volte eppure ora mi sembra di non avertelo detto mai.
            Di seguito s’era assopito, cullato dall’atmosfera di quel luogo fuori dal tempo, illuminato giorno e notte da un’identica luce e immerso nell’odore amaro dei medicinali. 
            Aldo Gorini dormiva con il capo appoggiato alla sponda del letto quando il ritmo sul display si era ingarbugliato, scatenando una tempesta di allarmi e facendo accorrere il medico e gli infermieri: di nuovo l’avevano ricacciato lontano mentre si affannavano per riprendere Emily, e ora sullo schermo compariva una linea retta, persistente e irreversibile. In quel momento, Aldo Gorini aveva avuto la netta sensazione che Emily lo stesse osservando dall’alto, sopra di lui e già distaccata dal corpo: dove sei, amore mio, non mi lasciare solo, le aveva detto, così disperato da non avere lacrime.
            Nello sguardo di lei c’era la stessa tenerezza del loro primo incontro: come sei bello, amore, anche visto da qui, noi resteremo insieme, sì, resteremo insieme anche nella silenziosa memoria di Dio. Noi saliremo al Cielo come fiamme di luce, questa non è una fine, amore mio, è un inizio, il nostro viaggio insieme è appena cominciato.
            In quel momento, Aldo Gorini ripensò a Emily nella sua giovinezza, come l’aveva vista la sera del primo incontro: una rosa di panno puntata tra i capelli, il volto di lei era un bocciolo che sorgeva dall’acqua, e l’acqua trasparente era tutta la sua pelle, che evocava i ghiacci e le foreste impenetrabili del suo Paese.
            Io ti prometto, gli aveva detto Emily nel giorno delle nozze, di amarti e onorarti per tutti i giorni della mia vita. E anch’io te lo prometto di nuovo e per sempre, le aveva risposto suo marito quel giorno, e in quell’ultimo istante glielo aveva detto di nuovo.
            “Noi ora saliremo verso l’Eterno, ci basta raggiungere il cielo e sfiorarlo”: così recitavano i versi di una poesia che Aldo Gorini aveva letto ai tempi della scuola, di cui non ricordava né l’autore né il seguito. Chissà chi l’aveva scritta. Chissà chi aveva parlato così profondamente e con tanta verità del loro amore, senza saperne niente.  
            “Tu sei me e io sono te, e aver cura di te è amare me stesso.”
            Mentre il corpo di Emily veniva trasportato in camera mortuaria, Aldo Gorini passò insieme a lei da questo mondo. Ancor prima di morire a sua volta, il volto di lui già possedeva quella serenità che nasce dal compimento, e non conosce rimpianto.
 
******
 
            Il soldato Ruhe amava tutto ciò che era dolce, e sopra a ogni cosa trovava una dolcezza senza pari nel violoncello di Aldo Gorini. Ascoltando quel connubio perfetto di tecnica e sentimento che erano le sonate dell’anziano musicista, il piccolo soldato aveva trovato la forza per continuare a vivere nella morte: alla stessa maniera, aveva trovato il coraggio necessario per andare a conoscere il Suicida per la vergogna, ossia l’anima in pena con cui spartiva ogni sera i mozziconi di sigaretta.
            Da quando il nuovo arrivato aveva preso dimora nell’Isola dei morti, Ruhe aveva desiderato avvicinarlo, perché gli ricordava un poco se stesso e gli faceva pena, sempre solo com’era. Anche se sapeva che era lo stesso Suicida a voltare le spalle non appena qualcuno tentava di avvicinarsi, continuava a provare nei suoi confronti una sorta di tenerezza mista a curiosità.
            Una sera in particolare, mentre i morti della Rupe ascoltavano la musica portata dal vento, il Suicida per la vergogna gli era sembrato ancora più solo: e quella solitudine gli aveva fatto venir meno la soggezione che lui provava sempre nei confronti degli adulti.
            Si era avvicinato e gli aveva sorriso:
            “Posso offrirti una sigaretta?” La voce del piccolo Ruhe era un poco sbilenca, a tratti grave e a tratti ancora infantile. L’altro era così assorto nella propria tristezza che ebbe un sussulto. Alzò gli occhi su quell’adolescente dal volto incerto che indossava un’uniforme dell’altro secolo, per giunta di due misure più grande.
            Lo degnò appena di uno sguardo:
            “Molto divertente. State girando un film? A te però, hanno dato una taglia sbagliata. Così non sembri affatto un nazista cattivo, non fai paura a nessuno.”
            “Come dice, signore?” sotto lo sguardo obliquo del Suicida per la vergogna, l’altro perse di colpo tutta la sua disinvoltura, e si trovò improvvisamente accaldato dall’imbarazzo.
            Eppure, quando il Suicida prese di nuovo a guardare dritto davanti a sé, segno che riteneva già chiusa la conversazione, il soldato Ruhe gli si sedette vicino. Strinse le braccia attorno alle ginocchia, posò il visetto magro accanto a quello di lui, per catturarne lo sguardo:
            “Caspita” rise entusiasta. “Tu ci assomigli davvero, a un attore del cinematografo.”
            Il Suicida per la vergogna rise a sua volta: “Cinematografo? Ho sentito mio nonno usare questa parola, più di trent’anni fa. A parte i vecchi, ormai nessuno la adopera più.”
            “Infatti io sono più vecchio di te, almeno nella morte. Prendi una sigaretta.”
            Gli allungò un mozzicone, di quelli che i militari del sacrario ai caduti riesumavano ogni notte per dare un tiro. Dal momento che se li fumavano i defunti, quei mozziconi rimanevano sempre uguali: sull’Isola dei morti, ogni gesto era solo un’imitazione del vivere, che avveniva ormai fuori dal tempo. A girare erano sempre le ultime sigarette rimaste in tasca a Ruhe il giorno in cui s’era ammazzato. Il Suicida girava il mozzicone tra le mani:
            “Persino le sigarette d’epoca… ma di che film si tratta?”
            Il piccolo Ruhe sorrise. “Nessun film” sussurrò “io sono un soldato vero.”
            Il buio ormai li circondava completamente. Restavano nell’aria le note del violoncello, a comporre una danza assieme ai fuochi fatui che s’accendevano azzurri, salendo dal terreno. Quei bagliori fuggevoli e senza calore, adatti al dominio dei morti, tracciavano sui loro volti giochi di luci e ombre.
            Le parole di Ruhe, nella loro misurata tristezza, avevano colpito profondamente il Suicida per la vergogna, che finalmente s’era voltato a guardarlo meglio. Nel tenue chiarore dei fuochi, il volto del ragazzo pareva ancora più tenero:
            “Ma tu non sei un po’ giovane per essere un militare? Quanti anni hai, tredici?”
            Il soldato Ruhe s’era stretto nelle spalle:
            “Sedici anni compiuti. Ma sono morto da tanto, ormai non ha più importanza.”   
            “Ti hanno costretto ad arruolarti a sedici anni?”
            Il sussurro di Ruhe divenne ancora più mesto. “Ti sbagli”, disse. “Nessuno mi ha costretto. Alla fine della guerra, il Fuhrer ha disposto la chiamata alle armi per i giovani e le riserve. Non potevo tirarmi indietro. Io sono un volontario.”
            “Beh certo, un volontario.” Il Suicida per la vergogna scrutava di sottecchi l’uniforme del ragazzo. Lacera in più punti, sporca di sangue e della terra di lunghi anni, era tuttavia ancora riconoscibile. “Ti hanno fatto proprio un bel lavaggio del cervello.”  
            Ruhe abbassò gli occhi. Aveva lunghe ciglia, delicate e chiarissime:
            “Non ha più molta importanza. Immagino che a quest’ora sarei morto comunque.”          
            Di nuovo gli sorrise, poi arrivò dritto al punto:
            “E tu, perché sei qui?”
            Era l’ultima cosa di cui il Suicida per la vergogna avesse voglia di parlare, con un completo sconosciuto che per giunta era un ragazzetto. Non sapendo se il soldato fosse al corrente di qualcosa - le voci giravano in fretta, anche nel mondo dei morti - e poiché non voleva esser brusco con lui, per timore che se ne andasse, preferì cambiare argomento. Si rivolse a Ruhe sorridendo come ai suoi tempi migliori:
            “Lo sai? Non so come hai fatto, ma hai proprio indovinato. Io ho fatto del cinema, o meglio del cinematografo.
            Il soldato Ruhe era entusiasta:
            “Hai visto? Tu mi prendevi in giro, e invece… e dopo, cos’è successo? Ti sei stancato e hai smesso?”
            Riportato di nuovo al punto di partenza dalla grazia innocente del piccolo tedesco, il Suicida per la vergogna non sapeva che pesci pigliare. Decise che una mezza verità era la bugia migliore: 
            “Non mi sono stancato. Per farla breve, non ho potuto più continuare.”
            “Perché?”
            “Perché?” gli fece il verso il Suicida per la vergogna, rendendosi conto che malgrado tutti i tentativi di depistaggio si tornava sempre lì, e cominciando a irritarsi. “Il perché sono affari miei.”
            Gettò via il mozzicone, da qualche parte nel buio. Lo tirò come un sasso. La brace si spense non appena l’ebbe allontanata dalle sue labbra. Il piccolo tedesco ebbe un sussulto nel vedergli compiere quel gesto repentino: non appena vide il braccio del Suicida levarsi, scattò in piedi e si allontanò da lui istintivamente.
            Il Suicida per la vergogna si dispiacque da un lato per averlo turbato, dall’altro si chiedeva come fosse possibile spaventare con un solo gesto della mano un soldato, che per quanto giovane doveva essere abituato a ben altro. Poco più in là, impalato, le braccia strette al torace come per ripararsi da un gelo improvviso, Ruhe pareva un uccellino su un ramo d’inverno. L’altro avvertì una fitta, da qualche parte nell’anima: cercò di ricordare l’ultima volta in cui aveva provato un sentimento per qualcuno, anche soltanto un semplice dispiacere. Non gli tornò in mente niente.
            Guardò Ruhe, che dal suo angolo gli rivolgeva un sorriso incerto. Il Suicida gli fece cenno:
            “Ma torna qua, dai… che non ti faccio niente.”
            Quando il ragazzo ebbe ripreso il suo posto, e furono accesi altri due mozziconi di sigaretta, il Suicida riprese il filo del discorso. Chissà perché, adesso gli andava di parlare:
            “In realtà, a un certo punto mi hanno chiuso le porte in faccia. Ho avuto dei problemi e mi hanno piantato in asso. D’altra parte, nel cinema funziona così, è tutto usa e getta.”
            Ruhe annuì comprensivo. Un paio di fuochi fatui scaturirono accanto a lui, agitando le loro fiamme senza calore nel buio. Di quelle, il giovane soldato non aveva paura. Allungò addirittura la mano come per catturarle, e il fuoco si tirò indietro, come aveva fatto lui poco prima. Nell’oscurità rischiarata da quell’effimera luce, gli occhi di Ruhe splendevano di un celeste chiarissimo:
            “Ti va di parlarne?”
            Malgrado le sue buone intenzioni, l’altro ebbe un nuovo scatto, seppur più controllato:
            “Non sono cose di cui parlare a un ragazzino. Non capiresti niente.”
            In realtà, il Suicida voleva dire: queste son cose che non si possono raccontare a nessuno.
            La vergogna che l’aveva portato a suicidarsi, adesso la provava di nuovo e tutta intera.
            Davanti a quel ragazzo e forse di fronte a tutti i bambini del mondo.
 
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