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Autore: Bellamy    17/04/2018    1 recensioni
La battaglia tra i Cullen e i Volturi termina in maniera inaspettata: i Cullen perdono, Edward e Bella si uniscono alla Guardia di Aro e Renesmee perde la memoria. I pochi mesi di vita vissuta da Nessie vengono spazzati via.
Dopo quasi un secolo, Aro invita Renesmee a Volterra.
Genere: Malinconico, Suspence, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan, Nuovo personaggio, Renesmee Cullen, Volturi | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Breaking Dawn
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Incredibile ma vero: sono riuscita ad aggiornare la fan fiction a distanza di due settimane dall’ultimo aggiornamento! Spero che questo nuovo capitolo vi piaccia, non nego che mi sono un po’ commossa scrivendolo.
Bellamy.
 
 
 
Uno, due, tre, quattro.
Uno, due, tre, quattro.
Carlisle, Esme, Alice, Jasper.
I miei occhi saltavano da un volto all’altro mentre la mia ragione si rifiutava di esprimersi. Il vento freddo che mi colpiva aveva raffreddato le mie corde vocali, incapaci di produrre suoni.
Oltre me, nessuno parlò. Tutti stavano aspettando una mia reazione.
Ero ancora dietro Bella, dietro alle sue spalle, protetta dal suo corpo.
E, questa volta, a darmi le spalle non c’era Andrew che poteva alterare le mie decisioni o le mie azioni.
L’unico gesto che riuscii a fare era quello di spostare i piccoli riccioli caduti davanti ai miei occhi. Semplicemente non riuscivo a muovermi. Non riuscivo a fare un passo verso la mia famiglia, ad abbracciarli, dire loro che mi erano mancati e che mi dispiaceva tanto di quel malinteso che non era farina del mio sacco.
Rimasi accanto a Bella, pose una mano nelle mie spalle e cercò di spingermi verso i Cullen. Io rimasi ferma dove stavo, ferma e immobile come una roccia, come incollata al suolo dal più forte cemento creato al mondo.
Troppe domande stavano affollando la mia testa, rischiando di farla mandare in sovraccarico e spegnerla. Troppo, infinite domande e non riuscivo a formularne neanche una.
Tutto ad un tratto, come se fossi caduta dal ramo di un albero dopo essermi addormentata, mi risvegliai da quello stato di semicoscienza e feci un passo verso i miei familiari.
Ma una parte del mio corpo tendeva sempre verso Bella, come se non la volesse lasciare.
Due poli opposti: i Cullen, la mia famiglia, e una vampira, poco più che sconosciuta alla quale mi ero affezionata. In certi aspetti, Bella era il nemico.
Ed ero tremendamente preoccupata per lei. Ritornai al mio posto e mi accostai di più al suo fianco.
 “C-come… come avete fatto?”, domandai, la voce mi uscì un sospiro profondo come l’oceano. Non mi ero accorta di star trattenendo il respiro. La domanda era rivolta a tutti e nessuno in particolare.
Come fece all’interno della Sala delle Udienze, Esme si avvicinò a me e mi abbracciò rigorosa ma con qualche impiccio perché io non avevo intenzione di staccarmi da Bella “Oh, Nessie!”. Ricambiai l’abbraccio ma con poca convinzione.
“Non ve ne siete andati?”, continuai a domandare, in totale stato di shock, mentre la nonna continuava ad abbracciarmi. Anche Carlisle, Alice e Jasper si avvicinarono a me, stringendomi quando Esme sciolse l’abbraccio.
“Certo che no!”, fece Alice, sorridendomi.
“Non ve ne siete andati”, ribadii, annuendo ma non mi sentivo sicura, ancora.
“Allora non mi odiate?”, domandai.
“Certo che no!”, ripeté Jasper con la stessa intonazione di Alice, dandomi un buffetto nelle guance.
“Ohh!”, riuscii a fare solo questo verso. Le gambe stavano minacciando di non reggermi più.
Nel frattempo Bella si era allontana da quel quadretto e si appoggiò alle mura di pietra. La notte la rendeva ancora più pallida ed incredibilmente lontana.
Le sue mani erano strette in pugni contro il suo ventre. La luce della luna, ormai sorta in cielo, rifletteva tutti i piccoli diamanti incastonati del suo anello ovale, indossato nell’anulare della sua mano sinistra.
Un sorriso malinconico dipingeva il suo volto e i suoi occhi erano scuri, cupi… tristi.
Bella era triste.
Un lunga falcata e mi gettai su di lei, abbracciandola, stritolandola quasi. Le poggiai con forza una mano nella sua guancia destra, lei portò la sua mano verso la mia e la strinse, guardandomi negli occhi.
“Grazie mille”.
“Te l’ho detto che era una promessa”, mi rispose, un sussurro leggero nell’orecchio.
Staccai la mia mano da lei e mi voltai di nuovo verso i Cullen -non fecero nessuna obiezione riguardo la confidenza tra me e Bella però sembrarono molto sorpresi- ma, già, il mio corpo voleva ritornare dalla vampira.
E così feci. “Come hai fatto a rintracciarli?”, le domandai.
“Mentre tu dormivi…”, cantilenò Bella, dondolandosi coi piedi. Sembrava aver riacquistato il buono umore.
“Pensavo ve ne foste andati!”, esclamai non controllando il tono della mia voce, rivolgendomi ai Cullen.
Carlisle fece un passo avanti, lentamente, come se avesse a che fare con un animale selvatico.
“Bella ci ha contattati immediatamente”, mi rispose tranquillo Carlisle.
Bella. “Come? Vi conoscete?”, domandai, una punta di isteria nel mio tono di voce.
Bella si avvicinò a me e iniziò ad accarezzare i miei capelli. Mi sussurrò all’orecchio, con voce calma:  “Renesmee, non ti soffermare su queste domande. Adesso puoi andare con la tua famiglia, come hai sempre voluto”.
“No!”, urlai.
Bella sgranò gli occhi, come li sgranarono i miei familiari.
“Renesmee… non capisco”, sussurrò Bella, evidentemente confusa.  Le poggiai di nuovo una mano sul suo volto.
“Bella, sono preoccupata per te”.
Lei batté le palpebre, sempre più confusa e agitata. Lanciò una occhiata nervosa verso i Cullen.
“Non capisco di cosa tu stia parlando, Renesmee”, mormorò alla fine.
“Ho paura che ti accada qualcosa”, continuai io.
Bella scosse la testa e tolse la mia mano dal suo viso. Mi spinse verso Carlisle che allargò le braccia quando i miei occhi puntarono su di lui.
“Renesmee non mi succederà niente. Non devi preoccuparti di me”, disse alla fine.
Riuscì a farmi spostare tanto da essere in mezzo a Carlisle ed Esme che non perse tempo a stringermi le spalle.
Ai miei occhi sembrava facesse parte di una opposizione, Bella stava dietro una linea che non poteva oltrepassare, una linea che ci divideva. Quella visione, di lei da sola di fronte a me con la mia famiglia, mi terrorizzava. Presa dal panico, il cuore iniziò a battere ancora più forte.
Terrore, panico e preoccupazione. Ero preoccupata. Avevo paura che potesse capitare qualcosa a Bella, mentre io ero assente. Sentivo uno strano senso di responsabilità nei suoi confronti. Una responsabilità che volevo rispettare.
Stavo affrontando la realtà: Bella apparteneva ad Aro, faceva parte di un mondo diverso da quello a cui ero abituata io. La consapevolezza arrivò come uno schiaffo. Arrivò troppo tardi.
Ma dalla consapevolezza stava derivando anche la delusione di quella triste realtà.
Davvero ero tanto affezionata a Bella da rifiutarmi a partire con la mia famiglia e ricominciare la mia vita da dove l’avevo lasciata?
“Jasper”, sentii Carlisle sussurrare il nome di mio zio e una ondata di tranquillità pervase in me.
 “Aspettate”, dissi ansimante. E cinque paia di occhi puntarono su di me.
Ma i miei erano tutti rivolti verso Bella, in piedi davanti a me. Una persona contro cinque. Ma quello non erano uno scontro.
“Bella, vieni con noi”, proposi.
Nessuno fiatò. Bella spalancò la bocca, gli occhi sbarrati, sbalordita da quella mia proposta.
Ritornai accanto a lei e le diedi uno strattone, cercando di riprenderla. “Per favore, vieni con noi. Noi ci nutriamo di sangue animale ma tu puoi continuare a nutrirti di quello umano. Anche io a volte lo faccio, puoi stare tranquilla”, continuai, “Può venire vero?”, domandai a Carlisle, incapace di rispondermi, sbalordito tanto quanto Bella.
Le strinsi la mano e la guardai negli occhi: “Per favore, stai con me. Ho paura.”
I suoi occhi mi risposero con la stessa intensità dei miei e con altrettanto fervore mi rispose: “Renesmee, no”.
“No tu!”, la rimbeccai.
Bella era spazientita, come se fosse delusa dalle mie scenate. Per questo mandò uno sguardo di scuse verso i Cullen ma io non mi interessai di guardare come loro le risposero.
“Renesmee, ti stai comportando in maniera infantile. Non c’è nessun motivo per cui tu ti debba preoccupare per me”.
E invece si sbagliava. Non lo sapevo nemmeno io il perché ma, dentro di me, nelle viscere, stava nascendo una ingiustificata paura nei confronti dell’incolumità di Bella.
Infine, sapevo di starmi comportando come una bambina ma, se questo serviva a qualcosa, stavo utilizzando la giusta carta da giocare.
Simile ad un sesto senso, qualcosa mi faceva presagire che, in futuro, Bella sarebbe stata in pericolo. Ed io dovevo evitarlo. Qualunque cosa fosse stata, Bella non se lo meritava.
Non mi arresi: “Può venire anche Edward”.
Fu colpita da quella proposta, batté le palpebre due volte, ma la sua voce uscì ancora più gelida: “Renesmee, no”, ripeté.
La sua risposta suonò dentro di me come un eco profondo, interminabile, e la realtà si ripresentò di nuovo. Le due opposizioni, le due realtà.
Annuii e lasciai la sua mano.
I miei occhi si focalizzarono sui miei piedi, coperte delle scarpe, piantati sul terreno umido.
Mi resi conto di star respirando aria fresca. Mi resi conto che ero fuori dall’ambiente opprimente del palazzo dei Priori. Ero fuori da un mondo fatto di un tempo immobile, di poteri fenomenali e piani di guerra.
Davanti a me c’era più della metà della mia famiglia e, vedendoli, non reagii come loro si aspettavano.
Si aspettavano me buttarmi a capofitto tra le loro braccia. Invece, avevano visto me incollarmi ad un vampira con le quale, in teoria, non aveva nulla da condividere.
Avevo deciso di preoccuparmi per una vampira alla quale, effettivamente, non dovevo preoccuparmi  invece di dimostrare felicità e sollievo di fronte alla vista della mia famiglia, finalmente ricongiunta.
Cacciai immediatamente un lacrima, scivolata sopra la mia guancia pizzicandola, prima che qualcuno la potesse notare.
Strinsi di nuovo la mano fredda di Bella.
“Sei sicura di non correre nessun rischio?”, le domandai.
“Non devi preoccuparti di me”, rispose. La sua voce si era fatta più calma.
Io non mi ero calmata affatto. “Non posso permettere che tu ti cacci in qualche guaio per colpa mia!”.
Bella sciolse la stretta “Se mi caccio nei guai è per un bellissimo motivo”, disse, la voce leggera come una piuma.
“Adesso vai”, continuò prima che io potessi di nuovo aprire bocca, “Addio”, la voce incrinata, inspirò sommessamente, in maniera pesante.
“Cercherò Vanessa”, le promisi. Vanessa, sua sorella alla quale dovette rinunciare perché sapeva troppo sui vampiri.
Belle fece un sorriso stupendo, limpido, genuino, innocente. “Ci conto”, mi rispose e mi abbracciò.
Mi feci avvolgere dalle sue braccia, strinsi forte i denti cercando di trattenere le lacrime. Quell’abbraccio durò una eternità.
Fu Bella ad allontanarsi da me e a sciogliere la stretta che si era fatta ferrea.
Fece un passo indietro e disse: “Addio Renesmee”.
Lanciò un’altra occhiata verso i Cullen, salutandoli.
Non le staccai gli occhi di dosso. Non le risposi. Non riuscivo a dirle addio. Non volevo dirle addio. Mi rifiutavo. Sarebbe significato che quel volto non l’avrei mai più rivisto, solo una protagonista di un breve episodio della mia vita. Una protagonista che, inconsapevolmente, aveva acquisito una forte importanza per me. E il perché non lo comprendevo.
Carlisle mi strinse a sé e voltai le spalle a Bella. Gli altri lo fecero in una maniera tale, così semplice, che mi fece innervosire ulteriormente, come se non avessero minima  considerazione dei rischi che Bella avrebbe potuto subire se fosse saltato fuori che è stata lei l’artefice della mia scomparsa. Nessuno osò parlare, comunque. Forse si stavano chiedendo perche avessi reagito in quel modo. Forse erano sorpresi per quella mia reazione. Chi, oltre me, era stato sul punto di piangere perché non voleva lasciare uno dei Volturi? Nessuno.
Camminammo per un sentiero sterrato, allontanandoci sempre di più da Volterra e dalla mura del Palazzo dei Priori, intorno a noi solo alberi di frutta. In lontananza le palazzine illuminate dai lampadari, la gente stava ritornando a casa e proseguire la serata con i propri cari. 
Camminammo per una manciata di minuti fino ad arrivare ad un tratto di autostrada buio e desolato.
Accostata si trovava una grande auto nera, con i vetri oscurati. Senza dire una parola, Carlisle ed Esme presero posto nei sedili anteriori, Jasper –lo sguardo tenero e comprensivo che non capii-  mi aprì la portiera posteriore della macchina per farmi entrare mentre Alice entrava dall’altra.
Appena ci sedemmo mi strinse a sé ed io ricambiai. Mi era mancata, mi erano mancati tutti e mi odiavo per non averlo espresso chiaramente quando li avevo visti. Carlisle accese subito il motore dell’auto e partimmo fulminei.
Nessuno si decise ad aprire bocca, ancora. Forse non sapevano che dire, spiazzati o scioccati dal siparietto che avevo appena terminato. Li capii e l’odio verso me stessa aumentava.
Ingrata, mi dissi.
“Dove andiamo?”, domandai spezzando il silenzio, il volto compresso tra il petto di Alice. Jasper mi strinse la mano e mi calmai di nuovo.
“All’aeroporto tesoro”, mi rispose Esme, “Partiamo subito”.
“Dove sono Rosalie ed Emmett?”, domandai.
“Ci stanno aspettando a casa”.
Annuii e non feci più domande. Mi misi a fissare il panorama scuro, dove il cielo e la terra si mescolavano, fuori il finestrino. Alice, intanto, continuava a cullarmi, come se meritassi quel trattamento.
Di quanto fu tempestivo, nemmeno riuscii a percepire il tragitto da Volterra a Firenze così come non percepii il volo Firenze-Roma, dove imbarcammo immediatamente.
Quello per Roma-New York fu un bel paio di maniche: passammo la notte in aeroporto, aspettando il primo volo per l’America che era atteso per le sei del mattino.
Mentre aspettavamo, Esme non poté non stringermi a sé, singhiozzando. Io non avevo neanche il minimo coraggio di rivolgerle la parola a causa della vergogna che provavo.
“Oh Nessie”, piagnucolò, “Sono così stata in pena per te, piccolina mia”.
Le risposi stringendola meglio a me.
Mi scrutò il viso attentamente e poi giudicò, l’ansia nella sua voce: “Sei troppo pallida, tesoro. E molto stanca. Hai sete?”, domandò.
Annuii. In effetti avevo molta fame, lo stomaco era praticamente vuoto però ero così giù di morale che la fame e l’idea di compiere degli omicidi passarono in secondo piano.
“Se vuoi possiamo trovare una soluzione”, mormorò Esme apprensiva. “Carlisle!”, chiamò con un sussurro.
“No, no”, feci io, “Sto bene. Posso farcela”, rassicurai.
“Sei sicura?”, domandò Esme, non era convinta. “Bevevi a Volterra?”
“Certo!”, la rassicurai ancora, le feci un sorriso. Almeno, negli ultimi tempi, qualche litro di sangue l’avevo bevuto, grazie a Bella, e tant’altro l’avevo perso, per colpa di Andrew.
Carlisle mi domandò riguardo lo stato della cicatrice. La mia espressione gli fece capire che andava molto male e che faceva molto male, soprattutto.
Purtroppo non c’era nessun antidolorifico che tenesse: la mia temperatura corporea, superiore a quella umana di circa quattro gradi, bruciava immediatamente qualsiasi medicinale entrato nel mio organismo.
Chiusi in una delle stanze private della lounge della compagnia aerea, nonno poté solamente pulirmi al meglio le ferite e fasciarmi il fusto, irrigidendomi. Cambiare il finissimo -ma resistente- filo d’argento, una operazione molto complicata, lo avrebbe fatto appena ritornati a casa.
In tanto Alice, entusiasta dai tanti negozi presenti dentro l’aeroporto, aveva trovato un modo per far passare il tempo: shopping.
In un primo momento non ero stata molto entusiasta all’idea di entrare ed uscire per negozi ma, travolta dalla vergogna, non volevo risponderle di no e, così, mi feci trascinare fino al primo di una lunga serie di negozi d’alta moda.
“I miei occhi non possono reggere la vista di quel maglione”, borbottò, mentre perlustrava capi d’abbigliamento alla stessa maniera di un critico che guardava per la prima volta una nuova opera d’arte.
In un primo momento mi offesi sentendo le sue parole. Quel maglione me l’aveva dato Bella. Era stato un gesto carino da parte sua e, poi, era l’unica cosa che mi ricordava lei.
Ma non feci obiezione.
Dopo circa due ore Alice, Jasper ed io –fresca di capi nuovi e all’ultima moda- terminammo la nostra sessione di acquisti, richiamati dalla voce annoiata di una signora che avvisava che il gate per il prossimo volo per New York stava aprendo.
In prima classe vi eravamo solamente io, la mia famiglia e altre cinque persone.
I Cullen, per tutte le ore di viaggio, non mi lasciarono gli occhi di dosso, preoccupati che potessi combinare qualche pasticcio e uccidere il resto dei passeggeri, compresi gli assistenti di volo.
Mi chiesi come apparivo ai loro occhi, quali differenze avevano trovato in me, se risultavo una persona totalmente diversa da quella che avevano lasciato. Mi chiesi se erano delusi o se erano felici.
Per tutto il viaggio non parlarono molto: alcune volte mi chiesero se stessi bene con la sete, altre mi dicevano che ero mancata loro infinitamente.
Forse non sapevano che dire oltre a quelle poche parole, forse aspettavano di varcare la soglia di casa e travolgermi tutti i loro pensieri. Ma io non ero pronta a ciò che mi aspettava a casa.
Mi raggomitolai sul sedile, chiesi una coperta, una bibita e delle patatine –per il grande stupore dei miei familiari- presi le cuffie in dotazione e scelsi uno degli artisti che vagamente si avvicinava ai miei gusti musicali.
Per circa nove ore ascoltai musica e guardai fuori l’oblò. A Roma lasciammo le nuvole chiare, sfumate dall’arancione del sorgere del sole. A New York le nuvole erano pozzi scuri, era ancora notte.
Prendemmo un altro aereo per Seattle che fu altrettanto veloce.
Dopo aver convinto i Cullen di essere perfettamente in grado, decidemmo di utilizzare le nostre stesse gambe per ritornare a casa, a Forks, visto che Emmett e Rosalie ci stavano aspettando lì e non avevamo nessuna macchina a disposizione.
La corsa durò circa quindici minuti e mi sentii la persona più libera del mondo: le gambe erano libere di muoversi, libere di fare grandi falcate da un ramo all’altro. Sentivo l’aria che , furiosa, frustava il mio volto e dava maggiore potenza di movimento al mio corpo. Mi sentii, dopo tanto tempo, me stessa.
Come Roma, anche Forks si stava colorando dell’arancione dell’alba. Il sole, sorgendo, seguiva la nostra corsa.
Intravidi la casa, casa mia, illuminata dai raggi del sole riflessi dalle tante finestre. Sorrisi.
Fuori, nel portico, Rosalie ed Emmett ci stavano aspettando, sorridenti. Non puntai verso il terreno come fecero gli altri Cullen, puntai su una roccia, mi diedi una ultima spinta e mi tuffai come un razzo nelle braccia di zio Emmett.
“Ed eccola qui!”, esclamò, ridendo. Lo abbracciai.
Mi dovettero staccare di forza dalla braccia di Rosalie, che non aveva intenzione di lasciarmi andare.
“E’ stanca”, disse Esme a Rosalie, la voce apprensiva, “E’ meglio che la portiamo nel suo letto”.
Le parole di Esme erano le uniche che avevo compreso in quel turbine di voci e alle quali concordavo.
Emmett mi prese in spalla e, sballottandomi per le scale, mi gettò nel mio morbido e mancato letto.
Ma io ero già addormentata. Ero tornata a casa.  
  
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