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Autore: Nina Ninetta    23/04/2018    6 recensioni
Primo Classificato al contest "Amor, ch'a nullo amato amar perdona" indetto da Little_Rock_Angel5 sul forum di EFP
Maria Caterina Di Vece è una delle donne magistrato più conosciute della Campania, ma un male incurabile la costringerà a fare i conti con la propria coscienza. Sarà la sola e unica figlia Chiara a scoprire i segreti più intimi di sua madre (grazie a dei vecchi diari), tra cui l’identità mai conosciuta del padre.
Seconda classificata al contest "Sette colori per sette peccati" indetto da missredlights sul forum di EFP.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 2
 
    Salerno
Lunedì, 26 settembre 1988
Ore 2,35
 
 
Caro diario,
oggi Guido mi ha baciata.
Allora perché mi sento così triste?
Siamo riusciti a passare entrambi l’esame di Diritto Civile, da non credere! La collana dalla pietra a forma di mela ha fatto ancora una volta il suo lavoro. Eravamo così felici e soddisfatti che ci siamo abbracciati appena fuori dall’aula 3, saltellando come due bambini al luna park. Poi siamo saliti in cima alla torre a brindare con una lattina di Sprite ed è accaduto. Tutto d’un tratto. Mi ha messo la catenella con la pietra magica al collo, mi ha preso il viso fra le mani e ha schiacciato le labbra sulle mie. Solo questo, niente lingua, niente movimenti strani. Solo bocca contro bocca.
«Esci con me, Cate» mi ha detto a fior di labbra, chiamandomi come solo lui fa: “Cate”. «Esci con me stasera a festeggiare veramente la nostra fortuna sfacciata, perché noi siamo fortunati solo se stiamo insieme. E lo sai.»
Era così felice. Gli occhi azzurri brillavano, sempre più simili a diamanti, e io potevo riflettermi al loro interno. Avevo un’espressione spaventata.
Se dicessi che non ho mai pensato a lui in quel senso mentirei, ma reputo la nostra amicizia qualcosa di raro e di unico, quasi sacro, che non voglio rovinare, perciò ho scosso la testa e l’ho allontanato con garbo, cominciando a parlare senza sapere bene cosa dire:
«Guido…».
«Ok, ho capito» mi ha subito interrotto, scuro in volto come non lo avevo mai visto. Ora che ci penso meglio, sembrava ferito, deluso, frustrato. «Scusami se io… se noi…» e si è allontanato da me di qualche passo.
Ho cercato di fermarlo, di rassicurarlo, di fargli capire che andava tutto bene, che non era successo niente, che nulla sarebbe cambiato, eppure sentivo che stavo mentendo anche a me stessa oltre che al mio migliore amico.
Caro diario, l’ho visto andare via tutto ingobbito, mentre d’istinto stringevo la pietra viola nel mio palmo destro.
Credi che abbia sbagliato a rifiutarlo? Credi che avrei almeno potuto tentare di uscire con lui una sera? Com’è che si dice? Lo scopriremo solo vivendo…
Ciao diario, a presto.
Tua M. Caterina.
 
 

Chiudo l’agenda/diario e resto a fissare il vuoto per diversi secondi.
Guido era innamorato di mia madre? Cielo, questo si che è uno shock!
Adesso inizio a capire diverse cose, come il fatto che quasi svenne quando la mamma confidò a lui e a sua moglie Annarita di avere appena un anno di vita.
«A quanto pare ho una bomba a orologeria nella testa programmata per durare meno di dodici mesi» disse il grande magistrato ridendo a squarciagola, lasciando completamente di stucco i suoi invitati. Fu una serata strana, tra risate fuori luogo e incazzature esagerate.
Non appena mia mamma si allontanò per andare in bagno, spiegai ad Annarita e Guido che gli sbalzi d’umore dipendevano dal tumore, proprio come mi aveva spiegato il dottor D’Antonio e come aveva confermato il web.
«Non sembra lei» ricordo perfettamente le parole incredule di Annarita.
«Si, il glioblastoma si trova nel lobo frontale, quello dove custodiamo “chi siamo”» usai le stesse parole usate dall’oncologo perché mi aveva spiegato la situazione come si farebbe con una bambina delle scuole elementari.
Quando mia madre tornò dal bagno si versò un bicchiere di vodka e lo ingollò in un colpo solo, proprio lei che non aveva mai toccato neanche un dito di crema al limoncello nella sua sobria vita.
«Mi bombarderanno con radiazioni ad alta energia per distruggere le cellule tumorali che mi renderanno calva. Io, la più grande magistrato donna della regione Campania con una parrucca da 400 € da portare nella tomba.» Mamma sorrideva mentre lo diceva, poi si fece seria per mimare l’espressione del dottore. «”Ovviamente salvaguardando le cellule buone”. Ma se la ficchi su per il culo la radioterapia dottore!»
Annarita e Guido erano atterriti, lei cercò la mano di lui e quando la trovò le dita s’intrecciarono forte e non si lasciarono più.
 
 
Salerno,
Lunedì, 17 Luglio 1989
Ore 23,25
 
 
Caro diario,
Annarita mi ha appena riferito una notizia e credo di non averla ancora somatizzata.
Lei e Guido si sono messi insieme!
Come sia accaduto di preciso non lo so, però so che è stata tutta colpa mia! Se solo non li avessi mai presentati, se non avessi mai permesso al mondo di conoscere Guido.
Lei, la mia migliore amica da che ho memoria in pratica, a quanto pare si era presa una bella cotta per il mio compagno universitario dal momento in cui eravamo usciti tutti e tre insieme, circa tre o quattro mesi fa. Avevo appuntamento con Guido quella sera al Bar Concordia, proprio di fronte al molo sul lungomare Colombo, gli avevo promesso di aiutarlo con l’esame di Diritto Penale passandogli i miei appunti – ultimamente Guido è rimasto un po’ indietro con lo studio, non siamo riusciti a mantenere la promessa che ci scambiammo il primo giorno del primo anno di esami. Soprattutto volevo che tenesse con sé la collana dalla mela viola che ormai sembrava essere diventata solo mia. Annarita si presentò a casa senza preavviso, dieci minuti prima che uscissi. Era sconvolta: Carlo (la sua ultima fiamma) l’aveva appena lasciata senza un valido motivo. Secondo il mio parere Carlo aveva più di un valido motivo per mandarla a cagare, Annarita quando vuole sa essere davvero una palla al piede, ma lo tenni per me. A volte è troppo sensibile e questo lato del suo carattere la trasforma in una bambina capricciosa.
Tu capisci, caro diario, che non potevo lasciarla lì su due piedi, a disperarsi in un mare di lacrime isteriche, perciò la invitai a venire con me a prendere un caffè, magari si sarebbe distratta. Evidentemente si è distratta e anche troppo poiché Guido sembra essere stato un vero colpo di fulmine.
Questa sera ci siamo incontrate e mi ha raccontato di aver notato Guido alla libreria sul corso Vittorio Emanuele e di averci scambiato quattro chiacchiere. A quanto pare però le chiacchiere si sono quintuplicate e alla fine sono finiti a cena insieme.
«Niente di che,» mi ha detto tutta rossa in viso «nulla di romantico, solo un trancio di pizza al furgone all’angolo di via Mercanti. Però poi…» e qui si è fermata, facendomi salire il nervoso alle stelle. «Però poi mi ha accompagnata fino a casa e d’istinto mi sono alzata sulle punte dei piedi e l’ho baciato.»
Adesso, che la mia amica faccia una cosa simile davvero non riesco a figurarmela. Dov’è finita l’Annarita tutta timida e imbarazzata? Dov’è finita l’Annarita timorosa anche di sé stessa e insicura della propria firma? La rivoglio indietro. Subito!
«E lui?» Ho chiesto con il fiato sospeso, mentre dentro di me supplicavo affinché Guido l’avesse respinta. Ti prego Signore, pregavo, ti prego.
«Lui ha risposto al bacio e mi ha detto che vuole rivedermi.» Gli occhi castani le luccicavano di emozione. «Già domani.»
Caro diario, sono davvero triste. Non avrei il diritto di parlare, lo so. Sono stata io a rifiutare Guido l’anno scorso, eppure non so perché mi sento così giù. Che sia solo gelosa del loro nuovo rapporto?Che mi senta sola? Che abbia paura di perdere due persone in un colpo solo?
In cuor mio spero davvero che questo amore non sbocci mai!
 

Il dottor D’Antonio ci spiegò che i bordi del glioblastoma erano così irregolari che sarebbe stato inutile operare, non ci sarebbero mai riusciti a toglierlo tutto, perlomeno non senza rischiare di tagliuzzare anche i nervi che avrebbero reso mia madre una specie di vegetale o una persona che non ricordava neanche più il nome degli oggetti quotidiani.
Sedute entrambe davanti ad un’equipe di mostri sacri della medicina, – neurologo, neurochirurgo, radiologo, radioterapista e anatomopatologo – specialisti di cui neanche immaginavo l’esistenza, non potemmo fare altro che annuire alla decisione di sottoporsi ad un primo ciclo di radioterapia, al quale ne sarebbero seguiti degli altri. I risultati ovviamente non potevano vedersi ad occhio nudo, ma la prima TAC dopo le cure risultò piuttosto positiva (secondo il punto di vista dei medici): il tumore non era cresciuto. In altre parole era sempre uguale, cioè una grossa macchia scura ingarbugliata ai nervi del lobo frontale. Il cancro poteva anche non essersi espanso, ma la mamma cominciava a mostrare sempre più i segni degenerativi. A volte faceva fatica a ricordare i nomi degli oggetti, quando le serviva qualcosa fissava un punto della stanza e da quello che stava guardando capivo che era ciò di cui aveva bisogno.
Smise di alternare momenti di ilarità isterica a quelli di rabbia; quest’ultimi divennero sempre più frequenti fino alla fine dei suoi giorni. Il grande magistrato Di Vece smise di ridere o semplicemente di sorridere. Sembrava che nulla le interessasse più, né quello che accadeva nel mondo né tantomeno ciò che succedeva intorno a sé. Non si preoccupava neanche più di me, e se lo faceva è di certo stata abile a nasconderlo per bene.
Il glioblastoma non è mai regredito. Ci sono stati giorni così brutti che mia madre somigliava più a una fiera imbestialita che a un essere umano; la malattia era capace di sfigurarle anche l’espressione facciale, rendendola davvero spaventosa. Si trasformava in una persona senza cuore, capace di dire tutto ciò che le passava per la testa, senza filtri. Il pomeriggio, dopo la prima seduta di chemioterapia, mi disse che le ricordavo sempre più sua sorella: una donna inetta senza uno scopo nella vita, ma almeno zia Lucia da giovane aveva avuto la furbizia di mettersi in ghingheri per trovare un uomo che la mantenesse a vita, io invece neanche quello.
«Chi mai vorrebbe scoparti scialba come sei?!»
«Ho lasciato ingegneria per starti vicina» risposi, lei sembrò non sentirmi neanche.
«Non avrai mai il mio fascino. Hai il culo troppo grosso.»
E su questo non potevo darle torto.
Nonostante sapessi che era il tumore a parlare per lei, le sue affermazioni mi ferivano ogni giorno come frecce avvelenate: in fondo ho sempre ritenuto che fossero tutti pensieri reali, cose che il grande magistrato pensava davvero.
 
 
Salerno,
lunedì, 30 novembre 1992
ore 15:35
 
Caro diario,
in questo grigio e uggioso lunedì di novembre ti scrivo mentre sono in pausa pranzo. Ho con me la cartella del nuovo cliente che l’avvocato De Angelis mi ha chiesto di visionare e studiare per dargli tutto il supporto possibile. Fare la tirocinante è davvero dura, vengo pagata solo quattro lire e alla fine l’avvocato si prende il merito.
Onestamente? Io valgo molto più di lui che non riesce neanche a mettere su un discorso decente da tenere davanti al giudice. Penso che chiunque abbia superato i sessanta anni debba andare in pensione, certe cose non sono fatte per gli anziani!
Tuttavia non sono qui a scriverti per lagnarmi del mio umiliante ruolo, bensì per darti una delle notizie più sconvolgenti del XX secolo: Annarita e Guido convoleranno a nozze.
Fuori piove, il mare è in tempesta, i pescherecci questa mattina sono rimasti ammainati al molo e la bella stagione è davvero lontana. L’umidità a volte sembra entrarmi nelle ossa, insinuarsi sotto i vestiti e penetrare fino al midollo.
Ecco, la notizia che ieri sera mi hanno riferito i due piccioncini ha sortito questo stesso effetto sulla mia persona. A volte non riesco a capire cos’è che mi turbi sul serio: sono innamorata di Guido o semplicemente invidiosa del loro rapporto?
Non ho mai sognato di indossare l’abito bianco e figliare come fossi un coniglio, eppure dinnanzi a tanta felicità non posso fare a meno di chiedermi cosa sarebbe accaduto se dopo il bacio non lo avessi respinto. Saremmo stati felici come lo sono loro? Ci saremmo lasciati e lui comunque si sarebbe messo con Annarita?
Tra l’altro Guido ha abbandonato gli studi universitari, cosa che mi ha fatto incavolare molto, mentre la sua fidanzata sembra non aver neanche concepito la gravità della situazione. Era bravo Guido, in alcuni casi anche più intuitivo di me, poi un pomeriggio mi disse che aveva deciso di mollare: le tasse costavano troppo e intendeva trovarsi un lavoro. Allora non feci caso allo sguardo complice che lui e Annarita si scambiarono – ormai è diventato un vero caso pescarli in separata sede, sono diventati come quelle offerte al supermercato “prendi 2 paghi 1”.
Solo ora comprendo il motivo per cui gli serviva un lavoro: soldi per il matrimonio. Annarita è una ragazza semplice, ha trovato posto in un negozio di scarpe subito dopo il diploma; porta la stessa pettinatura dalla terza media (capelli biondini lisci fino alle spalle) e a volte mi sembra di vederla indossare ancora il maglioncino rosa che la mamma le regalò a un Natale di diversi anni fa.
Io sono il suo opposto, negli anni ho cambiato così tante volte acconciatura e colore dei capelli che neanche io ricordo più la tonalità naturale. Indosso tailleur alla moda e scarpe con il tacco. Non riesco a trovare un solo motivo per il quale un uomo come Guido – alto, ben piazzato, bruno e con gli occhi di un azzurro intenso – possa provare interesse per una come Annarita.
Eppure mi sono sembrati davvero convinti quando mi hanno annunciato la data del matrimonio (19 giugno 1993), poi lei mi ha chiesto una cosa con il suo sguardo da cerbiatta ferita e non ho potuto dire di no.
Mi ha chiesto di farle da damigella d’onore, ciò significa che dovrò restare tutto il tempo della cerimonia sull’altare a guardarlo negli occhi.
Accidenti!
 
 
 
L’unico dei grandi specialisti che si è degnato di parlare con me come si farebbe con una persona spaventata è stato il giovane radiologo, brutto quasi quanto uno spaventapasseri. Con garbo e un pizzico di remore mi illustrò la situazione da un altro punto di vista – il mio – e ciò che mi sarei dovuta aspettare nei prossimi mesi. Mi spiegò passo dopo passo gli effetti collaterali della radioterapia e mi disse che non era di quello che dovevo preoccuparmi, bensì del cambiamento della personalità e dell’umore poiché avrei faticato a riconoscere la persona che mi aveva cresciuta. Avrei voluto dirgli che in verità mia madre non è mai stata il prototipo di mamma perfetta e amorevole, per questo nessun atto aggressivo o offensivo avrebbe potuto sconvolgermi.
Il radiologo mi elencò gli effetti collaterali della radio, ma soprattutto quelli della chemioterapia che avrebbe seguito la radio. Innanzitutto mi disse che i farmaci chemioterapici antitumorali combattono le cellule cancerose che si moltiplicano molto più velocemente di quelle sane, perciò il loro obiettivo è distruggerle salvaguardando quelle adiacenti. A volte però i chemioterapici non eliminano solo le cellule tumorali, ma anche le altre…
Conosco gli effetti dannosi della chemio, soprattutto quelli evidenti, come perdita di capelli o nausea e vomito. Tuttavia quelli che mi illustrò il radiologo quel pomeriggio mi sconvolsero e spaventarono a morte. Spesso la gente non sa che queste cure per il cancro possono fartene venire un altro; contrarre la leucemia; problemi renali o cardiaci; un’alta percentuale di eventi trombotici; epatite B e C.
«E allora perché si sottopongono i malati di tumore alla chemio?» Chiesi nella mia totale ignoranza.
«Perché sono le uniche cure a disposizione per allungare la vita ai nostri pazienti.»
Per consentire al corpo di riprendersi dall’effetto tossico che questi farmaci possono avere sul malato è consigliato dividere la terapia in vari cicli, lasciando degli intervalli liberi di tre settimane tra un ciclo e quello successivo. 
Il magistrato Di Vece non è riuscita a concludere neanche il secondo ciclo di chemio poiché il suo fisico è degenerato così velocemente che non sarebbe riuscita a reggere neanche più una seduta. I capelli iniziarono a cadere subito dopo la conclusione della prima settimana, la nausea ormai era all’ordine del giorno, anche quando non aveva la chemio. Talvolta vomitava durante la terapia e quindi non potevo allontanarmi da lei nemmeno per un istante, o si sarebbe vomitata addosso.
Quando le gambe smisero di reggerla, l’ASL ci convalidò una vecchia sedia a rotelle sulla quale si è sempre rifiutata di sedersi, urlando che mai e poi mai una donna come lei si sarebbe ridotta alla carrozzina, piuttosto avrebbe preferito morire. Dal momento che mamma si è rivelata uno di quei pazienti che rifiutano la malattia e gli aiuti esterni, l’infermiere che veniva a darmi una mano la mattina presto – per lavarla e cambiare le lenzuola – propose di inserirle un catetere se non volevo che la vescica esplodesse.
Il magistrato ha urlato ogni ingiuria possibile e inimmaginabile all’infermiere mentre questo mi diceva di tenerla ferma intanto che cercava di infilarle un tubicino in mezzo alle gambe. Tra tutte le cose che ho visto e le scene umilianti alle quali mia madre è stata costretta, penso che questa si piazzi direttamente sul podio. Le altre due in particolare riguardano: la prima volta che si cagò addosso in piena notte e – mossa da coscienza – mi rimboccai le maniche per pulirla, e quando è morta.
Nei film sembra che la morte arrivi in sordina, calma e quieta, ma la realtà è diversa, completamente diversa. Il grande magistrato donna era così legata alla sua vita, alla vita che si era costruita con le proprie mani, a fatica e sacrificando così tanto, che quando è giunta al confine proprio non voleva attraversarlo. Si è aggrappata a questo mondo con le unghie e con i denti, i suoi occhi fissi nei miei come se attraverso di essi potesse restare afferrata a me e al mondo stesso. I suoi respiri trasformati in rantoli, ognuno dei quali sembrava l’ultimo e a un certo punto mi sono ritrovata a sperare, a supplicare, che fosse davvero l’ultimo, sofferente sospiro. Se non stesse morendo avrei giurato che fosse sul punto di dirmi qualcosa, forse chiedermi scusa per la madre che non è mai stata capace di essere; forse confessarmi il suo bene.
O forse intendeva semplicemente rivelarmi il nome di mio padre.
  
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