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Autore: Defective Queen    03/07/2009    4 recensioni
Due ragazze, con diverse personalità e passato, si incontrano e diventano amiche, anche se sono entrambe due bugiarde e il loro rapporto non è mai quello che sembra.
Kate è straordinariamente bella, viziata, popolare con il sesso opposto e la reginetta (solo apparentemente) superficiale della scuola. Si dimostra gentile e amichevole con tutti, ma in realtà cova dentro di sè rancore verso gran parte delle persone e una glaciale freddezza nei rapporti umani. Roxanne ama disegnare ed essere eccentrica. Imbranata, testarda e sensibile, appena trasferitasi dalla Florida conquista al primo colpo tutti gli amici di Kate, e quest'ultima non può fare a meno di sentirsi minacciata dalla sua crescente popolarità.
Una volta che Roxanne entra nella sua vita, però, Kate cerca più di ogni altra cosa di continuare ad odiarla, ma i suoi sforzi ben presto si rivelano vani.
Questo, e molto altro, è "Beauty is the Beast".
Genere: Drammatico, Generale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Allora, qui di seguito farò un po’ di considerazioni in riguardo all’ultimo capitolo, per giustificare il “sorprendente” comportamento di Kate

 



Allora, qui di seguito farò un po’ di considerazioni in riguardo all’ultimo capitolo, per giustificare il “sorprendente” comportamento di Kate. Non c’è nessun contenuto aggiuntivo alla storia, perciò se volete potete tranquillamente saltarlo e andare direttamente a leggere il capitolo

 

Ho trovato particolarmente divertente il fatto che i commenti ritraessero il comportamento di Kate come “inaspettato” o “insolito” o “poco intelligente”, certo, anche a me sembra moralmente sbagliato, però io sinceramente ho sempre pensato che questo fosse “adeguato” per Kate.

Mi spiego meglio: scrivendo la storia dall’unico punto di vista di Kate, si perde certamente qualcosa, sebbene nel diario vi sia una descrizione piuttosto ampia degli avvenimenti. Roxanne spesso appare misteriosa al lettore e solo talvolta viene davvero fuori per quello che pensa attraverso alcune risposte che rivolge a Kate, oppure tramite quei pezzettini iniziali che adesso aggiungo prima di ogni capitolo.

Il dialogo in prima persona, esclude anche quell’auto esame psicologico che sarebbe necessario, visto che Kate ha deciso di non rileggere mai il suo diario.

Kate non potrebbe mai scrivere: “mi sto comportando così, perché in passato ho avuto questo trauma”, ma tende a giustificare qualsiasi sua azione come è giusto che sia.

Per quanto riguarda la storia, ora so che è passato parecchio tempo da quando ho iniziato a scrivere BisB e la mia lentezza nell’aggiornare non aiuta, però Kate nel primo capitolo si descrive come una “manipolatrice” a cui non importa nulla delle sue “marionette”, che non vede nulla di sbagliato nello scendere a compromessi. Cito le sue stesse parole: “non mi faccio scrupoli nell’usare mezzi di ogni tipo per ottenere ciò che voglio. Ho sempre trovato stupide quelle persone che si sforzano tanto per raggiungere qualcosa e poi ricevono in cambio solo un pugno di polvere. Io non rischio, non fatico, eppure raggiungo sempre i miei obiettivi. Non lo trovo un atteggiamento ingiusto, semplicemente sensato.

Dunque, per Kate questa è la definizione di sensato. Sacrificare la sua stessa dignità per ottenere ciò che vuole non è un problema per lei.

Di cosa parli “Beauty is the Beast” sinceramente io non lo so dire. Parla di un'amicizia, certo, ma io parlerei piuttosto di una connessione di anime. E’ questa la parola chiave.
E quando il collegamento è instaurato non si può più cancellare. Tutto va interpretato in questo modo: è un viaggio di vita, di formazione, di conoscenza dei propri fantasmi, della parte che resta nascosta dentro noi stessi e che è più feroce della maschera che noi usiamo per celarla al mondo.

Cosa abbia reso Kate così stronza e manipolatrice? Beh, io direi che non ci sia stato un vero e proprio avvenimento, ma una serie di cose e parte della sua stessa personalità indipendente dal resto. Kate è strana, perchè valuta sopra ogni altra cosa cose come l'aspetto fisico, ma per ottenere ciò che desidera sarebbe disposta a qualsiasi cosa. Non ha paura di scendere a compromessi, perchè per lei non sono un ostacolo, ma bensì l'unica via di agire.
Roxanne l'ha accusata di essere
noncurante di sé stessa ed è questo l'aspetto essenziale di Kate. Lei cura troppo ciò che in realtà dovrebbe essere superficiale e si sopravvaluta spesso, credendosi capace di affrontare tutto e tutti. E' un personaggio, forte, certo, ma il castello su cui ha costruito tutta la sua immagine non ha base solide, ma piuttosto minaccia di crollare da un momento all'altro.

Chiariamoci non è che a Kate dispiaccia vivere così, anzi, questo è il suo stile di vita. E’ molto realista e gli episodi che le sono accaduti in passato non hanno fatto altro che insegnarle che il mondo è crudele, che si deve sempre pagare un prezzo e che se non ci si impone per primi, gli altri cercheranno di fare lo stesso con te.

In più ha in sé quel senso di supereroina (non con nobili intenzioni) di dominare sugli altri e dimostrare la sua superiorità nel far sempre le cose meglio e per prima. Ovviamente ciò non è facile e per quello che non riesce ad affrontare diversamente, Kate ricorre al sesso.

Il sesso per Kate è una merce di scambio che tutto sommato non richiede di investire molto di sé: solo il suo corpo, purché questo continui a mantenersi in una forma perfetta.

Kate non investe mai sui suoi sentimenti, che sono più complicati di quelli di una qualsiasi persona normale, ma credo sia palese che qualcosa si sta muovendo già da qualche capitolo in reazione a Roxanne.

Kate, essenzialmente, sebbene sia un po’ maturata dall’inizio della storia, è sempre la stessa, tranne in presenza di Roxanne. E’ con lei che si nota la differenza.

E’ la suddetta connessione di anime di cui parlavo.

 

Detto questo la smetto parlare a sproposito, sperando che questo piccolo chiarimento sia stato apprezzato, e vi lascio leggere il nuovo (lungo) capitolo che spero susciti allo stesso modo una discussione come il precedente.

 

Grazie mille come al solito a ninfea306, balakov, nikoletta89 e flyily per le recensioni!

 

Mi scuso per il ritardo, ma per lo meno sono riuscita ad aggiornare nel giorno del mio compleanno, perciò sarei felicissima se mi lasciaste delle recensioni!

Finalmente ho la stessa età delle mie protagoniste! :D

 

Alla prossima!

 

***

 

Roxanne riteneva che non ci fosse poi molta differenza tra un sogno e una bugia.

Entrambi le permettevano di vivere per un po' in un mondo idilliaco, lontano da qualsiasi tipo di verità che potesse ferirla.

"Vattene"

Non si era aspettata quelle parole. Non facevano parte del piano.

"Vattene"

La sua voce glaciale le fece realizzare che quello non era semplicemente un sogno.

"Vattene"

Qualsiasi cosa potesse dire, non avrebbe mai riempito il varco che in un istante si era aperto fra di loro. L’eco di quel grido rabbioso le rimbombava nella mente.

"Vattene"

Avrebbe voluto urlare a Kate che era stata lei la prima ad allontanarsi sempre di più dalla sua comprensione, sebbene lei cercasse in tutti i modi di mettersi nei suoi panni.

Un baratro di distruzione in quelle iridi.

Un baratro di odio puro.

Ne ebbe paura.

"Vattene"

Non diceva sul serio. Ci doveva essere una spiegazione.

Cercò, scrutò, cacciò invano.

Non può essere.

"Vattene"

Nella sua bocca si diffuse il calore del sangue e del  dolore: il sapore della verità.

 

 

 

7 giugno

 

 

Nel momento in cui ho appoggiato la penna sulla carta, mi sono resa conto di essere molto fortunata di poter ancora scrivere su questo diario.

Perché? Beh, la questione è un po’ lunga, ma d’altronde ho tutto il tempo per spiegare.

Come si fa a capire quando gli incubi terminano una volta per tutte?

Ci sono tante cose nella vita che io ho voluto dimenticare, semplicemente perché non erano di mio gusto. Non rientravano nella mia definizione di giusto e così le ho cancellate.

Il tempo mi ha aiutato molto in questo: ha nascosto ciò che non volevo vedere e, a meno che io non rievocassi certe memorie di mia spontanea volontà, queste restavano nell’ombra.

Eppure questa volta non è andata così, perché qualcuno mi ha forzato a riaprire una cartella già archiviata.

Qualcosa…no, qualcuno con cui io non volevo più avere a che fare.

E’ tornato da me e ha tentato di nuovo di sconvolgermi la vita. Peccato non avesse ancora realizzato con chi aveva a che fare.

Ma andiamo con ordine.

Dopo il turbolento sabato di cui ho già parlato, la calma piatta di lunedì pomeriggio mi ha trovata un tantino impreparata.

Noia. Tanta noia, come raramente ne ho provata prima.

Guardavo il soffitto della mia camera, seduta ansiosamente sul bordo del letto, come aspettandomi che il bianco dell’intonaco si macchiasse improvvisamente e uno scricchiolio inquietante emergesse dall’armadio.

Avrei pregato perché succedesse qualcosa di diverso, qualsiasi cosa, ma le mie speranze sono rimaste disattese.

La stasi totale mi ha avvolta e il silenzio mi ha soppressa, fino a che non ho preso in mano il diario.

Non l’ho aperto come faccio sempre, scorrendo fino all’ultima pagina senza mai rileggerlo, ma l’ho tenuto semplicemente in mano, poggiandomelo sul cuore.

Il fatto che ricercassi conforto in un inutile oggetto inanimato mi ha fatta sentire patetica e così l’ho gettato via appena mi sono resa conto di cosa stessi facendo. Il risentimento è durato poco, però, visto che sono subito corsa a raccoglierlo e a riporlo con cura nel comodino.

Non era il momento di scrivere, quello. Ma dovevo trovare uno stratagemma che mi distraesse dal vuoto immobile che permeava le pareti.

Un secondo dopo, facendomi sobbalzare per la sorpresa mentre ero ancora intenta a richiudere il cassetto contenente il diario, la porta della mia camera si è aperta leggermente, rivelando uno spicchio dell’espressione intimidita di Roxanne.

«Uhm. Ciao Kate, disturbo?»

«No», ho risposto automaticamente, ricomponendomi.

Era la pura verità.

Mi sono sforzata di fare un sorriso, malgrado continuassi a sentirmi strana. La sensazione che mi aveva invasa era talmente peculiare, da non permettermi di associarla a nessuna esperienza passata.

Era sollievo, nervosismo, inquietudine, frenesia, turbamento. Niente a che vedere con la noia precedente.

«A cosa devo l’onore?», ho domandato affabile.

Roxanne, che allora si è decisa ad entrare completamente, è comparsa alla mia vista indossando una salopette di jeans, sotto alla quale si intravedeva una t-shirt bianca a righe azzurre. Andava a completare la sua immagine ancora prettamente fanciullesca un frontino blu, posizionato posteriormente alla linea della frangia, che cercava di trattenere quelle onde brune dietro le sue orecchie.

In risposta alla mia domanda, Roxanne ha semplicemente sollevato la busta che portava in mano.

«Ricordi? Te l’avevo già detto stamattina che sarei passata per restituirti il vestito», ha detto, consegnandomi la busta.

«Non ce n’era bisogno», ho risposto, evitando accuratamente di guardarne il contenuto, appoggiandola sul tappeto ai piedi del mio letto.

«E invece sì. Sei stata così gentile anche solo a prestarmelo! Non avrei potuto mai tenerlo!», ha insistito la Miller con fervore.

Io ho nascosto un sorriso sardonico, evitando di rivelarle che visto che non l’aveva tenuto con sé, il vestito sarebbe stato bruciato molto presto.

Non avevo intenzione di vederlo mai più.

Le ho sorriso, rispondendo in quel modo alle sue parole di ringraziamento.

«Immagino mia madre ti abbia tenuto sottotorchio un bel po’, prima di lasciarti salire», ho detto, avvicinandomi al letto.

Roxanne ha scosso la testa, lasciando che i suoi capelli danzassero nell’aria a ritmo di quel movimento: «Mannò. E’ solo molto socievole.»

«Se per socievole intendi una persona affetta da un atteggiamento logorroico impulsivo, allora hai ragione. E’ come una sveglia a cui non è stato aggiunto il pulsante dello spegnimento», ho commentato sarcastica, arrampicandomi sul mio morbidissimo letto e appoggiandomi mollemente contro la testiera.

Roxanne mi ha guardato severa, con un cenno di sorriso negli occhi. Naturalmente condannava la mia ipercriticità nei confronti della mia genitrice, ma questo al tempo stesso la divertiva, senza che potesse evitarlo.

Malgrado tutto, abbiamo un senso dell’umorismo molto simile.

Sprofondata tra i miei cuscini di seta, ho fissato Roxanne mentre lei con lo sguardo basso, spostava il peso da un piede all’altro. Come mai era così nervosa?

«Cosa stavi facendo di bello?», mi ha domandato dopo un po’.

Io ho scrollato le spalle, indifferente.

«Stavo aspettando che un mostro spuntasse dal mio armadio», ho replicato. Il mio tono serissimo aveva privato quella battuta di alcun possibile significato scherzoso.

Roxanne ha sbattuto le palpebre perplessa.

«Ovvero, mi stavo annoiando», ho continuato, cercando di risollevarla dalla sua confusione.

Le è scappata una risata, involontariamente. «Mi dispiace di non aver optato per un film horror, allora.»

«In che senso?»

«Tada!», ha esclamato, mostrandomi il cofanetto di un DVD.

Ho aggrottato le sopracciglia, dubbiosa.

«Di che si tratta?», le ho chiesto, sistemandomi meglio contro i cuscini della testiera e raccogliendo le gambe sotto di me. A quel punto, la mia adorabile gattina è comparsa dal nulla e mi è saltata in grembo, dove l’ho accolta di buon grado.

Roxanne non ha risposto, ma ha semplicemente iniziato a trafficare con la televisione e il lettore DVD, mentre io massaggiavo il pelo di Susie.

Sembravo aver trovato finalmente il modo di risollevare la mia noia. Non che fosse semplice, visto che a parte l’ossessione di trovare un vestito adatto per la cerimonia del diploma, non ho poi molto da fare in questo periodo della mia vita.

La scuola terminerà entro una settimana. Tutti quelli che hanno perso tempo a cazzeggiare fino a questo momento, tra cui figurano molti dei miei amici purtroppo, non possono fare altro che lavorare perché la loro media si alzi almeno un po’. Per qualcuno come me, invece, ammesso da mesi alla sua università prescelta, l’attesa del college è un’operazione semplicemente noiosa. Roxanne, allo stesso modo, deve trovarsi nella mia stessa situazione.

Terminata la sua operazione con il lettore DVD, Roxanne si è voltata verso di me soddisfatta e il suo sorriso si è ampliato di più quando ha visto Susie tra le mie braccia.

«Susie!», ha esclamato e la gatta ha alzato pigramente il muso verso chi la chiamava. Roxanne allora è saltata allegramente sul letto, liberandosi delle sue infradito, e si è avvicinata per strofinarle delicatamente la testa con due dita.

Susie ha iniziato a fare le fusa, vibrando forte e scuotendo tutto il letto. Questo mi ha fatto scoppiare a ridere.

Spostandomi più verso un lato, ho fatto posto a Roxanne accanto a me e lei si è accomodata volentieri. Susie, senza abbandonare il mio grembo, ha appoggiato il capo sulla coscia jensata di Roxanne, vicinissima alla mia, prima di chiudere gli occhi e decidere di mettersi a riposare.

Guardandola piacevolmente stesa su di noi, non sono riuscita a frenare un sorriso spontaneo.

«L’Era Glaciale», ha risposto Roxanne ad una domanda che avevo ormai scordato.

«Eh?»

«Guardiamo “L’Era Glaciale”», ha ripetuto, prendendo il telecomando e raggiungendo il menù del DVD.

«Cosa?! Ma non è un cartone animato?», ho protestato. Mi prendeva per una bambina?

Roxanne non ha detto nulla. Ha ignorato il mio sguardo allibito, per dirigere completamente la sua attenzione verso lo schermo.

«Io non guardo cartoni animati!», ho ripetuto, lagnandomi in un modo adorabile a cui so che nessuno può dire di no.

Nessuno, a parte Roxanne, a quanto pare.

Così mi sono arresa a vedere il film, non avendo a disposizione un’alternativa adatta per impiegare il tempo.

Meno di un’ora e mezza dopo Roxanne mi ha rivolto un sorriso saputo, alzando il sopracciglio in un’espressione eloquente.

«Allora?»

«Allora cosa?», ho domandato innocentemente.

«Ti è piaciuto, vero? Mi sembravi molto presa dalle scene!», ha esclamato divertita.

Io l’ho adocchiata in modo palesemente scettico: «Oh, davvero?»

«Certo! Qualcuno che non è preso dal film non scoppia a gridare “sì!” - facendomi anche spaventare - quando lo scoiattolo viene schiacciato a meno di tre minuti dall’inizio», ha risposto lei prontamente.

«Perché lo scoiattolo è un idiota. Persino più del bradipo», ho replicato noncurante.

«Sid? No! Io lo adoro! E’ un mito!», lo ha difeso tenacemente Roxanne.

Io l’ho ignorata: «Sono entrambi degli idioti, ma lo scoiattolo supera di certo il bradipo. Credevo fosse morto all’inizio, però continuava a resuscitare inspiegabilmente…»

Roxanne ha soffocato una risatina dietro una mano: «E’ un cartone animato, Kate.»

«Proprio per questo non riesco a capire come lo scoiattolo sia sopravvissuto dopo essere stato ripetutamente schiacciato, colpito da un fulmine e congelato nel ghiaccio per più di ventimila anni, mentre il capo delle tigri è stato ucciso da un paio di pezzetti di ghiaccio. Non è giusto che i cattivi siano uccisi più facilmente solo perché se lo meritano», ho protestato, restando ferma nelle mie opinioni.

Roxanne ha scosso la testa, sempre ridendo: «I pezzi di ghiaccio erano appuntiti!»

«Era comunque del ghiaccio!»

Roxanne ha sbuffato e compresa la mia ostinazione, ha deciso di adottare una strategia più diretta: «Ma insomma, hai da criticare tutto? Non ti è piaciuto niente?»

«Beh, mi piaceva il mammuth, che certamente in quel covo di pazzi era il più intelligente…e Diego», ho ammesso.

Roxanne ha increspato le labbra in un sorrisino, alzando un sopracciglio: «Aha! Ti ricordi il suo nome!»

«Perché non so a che specie appartenesse.»

«Una tigre zannuta, forse?», ha proposto lei, non abbandonando la sua ridicola espressione.

«Non è un nome molto chic», ho ribattuto.

«No, in effetti non lo è», ha riso lei, «Comunque stai sviando il discorso. Non sei stata tu quella che è balzata in piedi esclamando “Cazzo!”, quando il bambino è caduto nello scivolo di ghiaccio?»

«Pensavo fosse fico…anche Diego lo pensava!», ho risposto, quietamente. Roxanne ha tentato di nascondere la sua risata ma non ce l’ha fatta.

Alzando eloquentemente le sopracciglia le ho chiesto: «Dove vuoi arrivare?»

«Voglio farti ammettere che il film ti ha appassionata», ha replicato lei come una so-tutto-io.

L’ho guardata piuttosto infastidita, decisa a non dargliela vinta: «Non mi ha appassionata.»

«E chi ha stritolato in un abbraccio la sua gatta quando Manny ha ricordato la morte della sua famiglia?»

«Era Susie a volere le mie coccole», ho precisato.

«E chi ha gridato quando sembrava che Diego fosse morto?», ha continuato lei senza ascoltarmi.

Ho sentito le mie guance accalorarsi: «Ma…ma lui era l’eroe! Era un momento drammatico!»

«E chi è che ha sorriso come un’idiota quando Diego poi è riapparso?»

«Era una scena…simpatica», ho tentato di giustificarmi, «E tu non avevi niente di meglio da fare che studiare le mie reazioni?»

Roxanne è scoppiata a ridere, sinceramente divertita: «Il film l’avevo già visto e poi tu con il tuo debole per la tigre zannuta eri più divertente!»

«Non ho un deb-», ho cercato di smentirla, ma la sua improvvisa esclamazione di sorpresa mi ha interrotta.

«Cosa c’è?»

«Oddio! L’hai sviluppata davvero?», mi ha chiesto, voltandosi verso di me con il sorriso più entusiasta che avessi mai visto.

Seguendo la direzione del suo sguardo non è stato difficile capire a cosa si stesse riferendo.

Ho sorriso, mio malgrado: «Ti piace?»

«Stai scherzando? E’ fantastica!», ha risposto lei, balzando giù dal letto e avvicinandosi di più alla mia scrivania dove un’insolita cornice d’argento risaltava in mezzo ai soliti suppellettili.

Ed ecco lì la foto memorabile che raffigurava i nostri volti quasi irriconoscibili, celati da una mistura verde scuro decisamente disgustosa da vedere.

Roxanne ha preso in mano la cornice con cautela, sorridendo delicatamente.

«Marissa è andata per me dal fotografo stamattina per farla stampare», ho spiegato, «la cornice d’argento è un pugno nell’occhio vista la foto, ma non sono riuscita a trovare di meglio.»

«Allora costruirò io una cornice di melma che si addica alla foto», ha proposto Roxanne allegramente, voltandosi di scatto verso di me.

Inorridendo per i miei poveri mobili pregiati, le ho restituito un’occhiata truce a cui Roxanne ha risposto con una risata ancora più fragorosa della precedente.

Non si poteva di certo dire che non fosse di buon umore.

«Okay. Lo so che potrà sembrare strano, ma ho voglia di pop corn», ha dichiarato la Miller, rimettendo a posto la cornice.

«Dopo il film?»

Lei ha semplicemente annuito.

«A dire il vero anche io», le ho concesso di buon grado sorridendo, «Chiamo Marissa e lei ce li porterà su appena saranno pronti…»

«No, no, non preoccuparti. Scendo a prenderli io», si è offerta Roxanne.

Prima che potessi replicare, lei è uscita dalla stanza e io sono sprofondata tra le morbide coltri del mio letto, sospirando soddisfatta.

Inutile. Per quanto tempo possa passare, Roxanne ha sempre lo stesso effetto curativo su di me. I pomeriggi passati in sua compagnia non sono mai piatti. Le chiacchiere scambiate con lei mai scontate, sebbene molto poco serie.

Mi rassicurano. Mi permettono di chiudere gli occhi e prendere un gran respiro, senza nient’altro che turbi i miei pensieri.

Non più noia, ma pace. Una pace serena e tranquillizzante.

Roxanne è risalita pochi minuti dopo, portando con sé un vassoio su cui una grossa ciotola di pop corn si reggeva a malapena in piedi, a causa dei frequenti sbalzi della sua andatura.

«Ecco qua», ha esordito, facendo il suo ingresso.

«Attenta!», l’ho ammonita, permettendole di avvicinarsi al letto e posizionare correttamente il vassoio sul materasso. Fortunatamente nessun pop corn è andato perduto.

Ho allungato pigramente la mano verso la ciotola, ma Roxanne mi ha soffiato il boccone delle mani, portandosi alla bocca il pugno pieno, sorridendo furbamente.

Io ho ricambiato il sorriso e ho preso con un guizzo la ciotola tutta per me, noncurante delle sue proteste.

«Beh?», l’ho provocata e lei mi ha messo il broncio.

«Scusa», ha sbuffato.

«Non sembri molto convinta», ho continuato, con un ghigno mellifluo.

«Scusa!», ha ripetuto e in quello stesso istante il mio sguardo è stato calamitato sulla superficie d’appoggio del vassoio, dove una busta di carta giallognola recitava “Sig.na Kate Hudson”.

«E quella cos’è?», ho domandato, aggrottando la fronte.

Roxanne ha sbattuto un attimo le palpebre in confusione, prima di capire di cosa stessi parlando.

«Ah. Me l’ha data la tua domestica. Ha detto che qualcuno l’ha portata per te poco fa.»

«Qualcuno chi?», ho chiesto, avvicinandomi alla busta per prenderla.

«Non lo so», ha risposto lei, scuotendo la testa e scrollando le spalle, «Ma non credo che fosse l’ora del postino.»

La mia sveglia digitale segnava le ore 17.18 con caratteri grandi e rossi.

In effetti, Roxanne aveva ragione.

Più curiosa che titubante, ho afferrato la busta e me la sono girata tra le mani.

Roxanne ha sgranocchiato qualche altro pop corn dalla ciotola tornata ormai in suo possesso, scrutando attenta ogni mio movimento.

I suoi occhi blu erano fissi su di me in un modo difficile da ignorare.

Ho esitato per un momento, proprio perché la busta, la calligrafia e quel modo di spedizione non mi erano affatto nuovi, propendendo di aprirla in seguito, non appena Roxanne se ne fosse andata.

«Non la apri?», ha domandato, incrociando le gambe sotto il suo corpo.

«Magari dopo», ho sorriso affabilmente, alzandomi e posizionandola ordinatamente sulla scrivania, per poi ripiombare sul letto e sgranocchiare qualche altro pop corn. Sebbene i suoi occhi tradissero il suo palese interesse, Roxanne si è sforzata di non darlo a vedere, acquietandosi come mai l’avevo vista fare prima.

Per un momento si è persino incantata nel guardare un chicco di mais che non era scoppiato ed era finito per sbaglio nella ciotola.

«Oh…adesso che ricordo», ha iniziato, interrompendo il precedente lungo silenzio, «Sabato sera in discoteca ho incontrato il tuo amico.»

Le sue parole mi hanno lasciata interdetta, perciò non ho risposto nulla, permettendole di continuare.

«Mi ha chiesto di te, sai? Voleva sapere come stavi…»

Le cose iniziavano a non quadrare.

«Ma di chi stai parlando?», sono sbottata in quello che poteva essere considerato quasi un lamento.

Lei mi ha risposto e io mi sono immediatamente pentita di averglielo domandato.

Quel nome pronunciato dalle sue labbra è piombato dentro di me come un machete, abbattendo in un solo colpo tessuti organici e barriere intercellulari.

Incurante della presenza di Roxanne, adesso sempre più insospettita dalla mia reazione, sono scattata in piedi e sono corsa ad afferrare nuovamente la busta giallognola che avevo messo da parte poco prima.

Roxanne mi ha seguita con lo sguardo, stupita da quel movimento repentino.

Con un solo gesto ho strappato ferocemente la parte superiore della busta, così violentemente che tutto il suo contenuto è caduto ai miei piedi.

Il resto è successo talmente velocemente da non lasciarmi nemmeno il tempo per riprendere fiato.

La busta era piena di foto. Tra tutte quelle che erano cadute a terra me n’è rimasta solo una in mano.

Roxanne, preoccupata dal mio comportamento, si è alzata dal letto e si è avvicinata a me quasi immediatamente.

«No!», ho urlato io, sentendo l’ombra del pianto avvicinarsi nella mia voce, crollando a terra in ginocchio per coprire con il mio corpo il soggetto di quelle foto.

Roxanne si è bloccata: un piede già puntato in avanti nella mia direzione e l’altro che la tratteneva sul posto per mio ordine.

«Kate, cosa…»

All’improvviso non riuscivo più a sopportare la vista di quegli occhi così puliti su di me. Erano stati la mia cura per tutto quel tempo, ma in quel momento sono tornati a farmi lo stesso effetto di sempre. Mi mettevano a disagio e non facevano altro che evidenziare lo sporco presente dentro di me.

«No…», ho sussurrato, affrettandomi per celare quelle foto dalla sua vista, nascondendole spasmodicamente sotto le mie gambe e tra le mie braccia.

Roxanne è tornata in un momento l’odiosa perbenista che sin dal primo momento mi aveva dato sui nervi con il suo istinto di crocerossina totalmente altruista, pronta a dare tutto di sé agli altri solo per ottenere la loro ammirazione. Una bugiarda peggiore di me.

E quella stessa bugiarda adesso mi guardava, con quei dannati occhi spalancati e le punte dei suoi ondulati capelli mogano che scendevano scomposti sulle sue spalle. Quella stessa bugiarda che ora si era inginocchiata davanti a me e cercava di accarezzare il mio volto per calmarmi.

Ma la calma era ben lontana da me. Mi sentivo tremare, mentre gli occhi si gonfiavano inesorabilmente di lacrime di rabbia.

 “No! Lei non può guardare!”

Con un gesto brusco, ho scacciato la mano protesa di Roxanne, scostando il mio volto come schifata da quel contatto. Roxanne quasi automaticamente si è ritratta, fissandomi più stupita di prima.

«Kate, cosa è successo?», ha domandato, cercando di mantenere la sua voce bassa e non aggressiva.

Ma aggressiva o meno, io ero convinta che lei fosse il mio nemico numero uno in quel momento.

Non sopportavo il suo sguardo, non sopportavo il suo tocco, non sopportavo più niente.

La rabbia accresceva dentro di me, frenando l’istinto del pianto, ma stimolando in compenso il mio odio.

Ripensandoci adesso, quell’odio non era rivolto verso Roxanne, ma verso quello che lei nella mia mente ha rappresentato in passato.

In ogni caso, in quel momento non ho pensato da cosa potesse emergere il mio sentimento, ma semplicemente volevo sfogarlo in qualche modo.

«Vattene», ho soffiato tra i denti stretti, sforzandomi di rimanere rigida per coprire con il mio corpo tutte le foto cadute.

Roxanne ha sbattuto le palpebre interdetta, ma non si è mossa.

«Vattene!», ho ripetuto alzando la voce, ben consapevole di ciò che stavo facendo.

Non mi importava quali mezzi usare, ma dovevo mandarla via. Lei non poteva vedere. Non doveva vedere.

Più tardi ho realizzato che ancora una volta avevo fatto tutto questo per lei.

La bocca di Roxanne era pressata in una linea quanto mai rigida e le sue iridi blu, che hanno presto evitato il mio sguardo collerico, mi sono apparse più scure che mai.

Ha deglutito un paio di volte, prima di alzarsi in piedi con un movimento fluido.

Avevo visto un contegno simile solo in me stessa.

Le avevo fatto male, ne ero perfettamente conscia, eppure il suo contegno impassibile pochi istanti dopo mi ha lasciata totalmente esterrefatta, portandomi a dubitare che le cose stessero veramente così.

Roxanne è andata via, camminando senza alcuna fretta verso lo stipite e richiudendo diligentemente la porta alle sue spalle.

E’ rimasto solo silenzio.

Dopo qualche minuto passato inerte sul pavimento, il fantasma dei suoi occhi ancora impresso nella mia mente, mi sono decisa ad esaminare meglio quelle foto. Ho fatto un lungo respiro prima di raccoglierle tutte, evitando accuratamente di esaminarle prima che fossero disposte ordinatamente.

Era solo uno stupido espediente per ritardare la resa dei conti.

Quando finalmente il mio compito è terminato, mi sono decisa a rialzarmi e a disporre tutto il materiale sulla mia scrivania per averne una visione globale.

Erano all’incirca una ventina di foto, di qualità molto bassa, certo, ma di cui sfortunatamente era molto facile riconoscere i soggetti.

C’ero io che ballavo tra i miei amici, io che ballavo sul cubo da sola e poi attorniata da due ragazzi, io che tornavo tra i miei amici, io che baciavo Reeve, io e lui nel privè

Queste ultime foto erano le più sgranate di tutte e filtrate con un colore verde. Ho supposto che vista la scarsa luminosità del luogo si trattasse di infrarossi.

Un brivido mi è sceso lungo la schiena esaminando le foto più compromettenti.

Era una sensazione strisciante e viscida, come l’impressione di essere continuamente osservata e la paura di non poter avere più privacy.

Mi sono voltata di scatto, sapendo benissimo nonostante tutto di essere solo vittima dei miei timori. Affannata, ho guardato lo spazio vuoto davanti a me con i sensi all’erta e gli occhi che spaziavano da qualsiasi parte.

Quella paura mi stava lentamente consumando, talmente tanto da farmi impazzire.

Ritrovando il controllo delle mie mani sudate e per nulla focalizzate sulla presa, ho vagliato disordinatamente ancora una volta tutte quelle foto.

Quella più innocua di tutte ha attirato la mia attenzione. Si trattava di un mio primo piano in cui sorridevo innocentemente a qualcuno accanto a me. Ricordando il momento in cui questo era accaduto, sapevo che si trattava di Roxanne.

Al pensiero del suo nome, ho percepito una lingua di fuoco fatta di pura lava all’altezza del mio ventre.

Ho stretto i denti. No. Dovevo essere fredda, pensare chiaramente, agire guidata da una rabbia composta, ma non accecante.

Ho ripetuto quella sorta di mantra in testa, acquietando i furiosi battiti del mio cuore. Non potevo cedere prima di aver ottenuto le mie risposte.

Con calma esasperante ho girato la foto del mio primo piano e sul retro vi ho trovato senza alcuna sorpresa – come se sapessi già cosa mi aspettava, ma avessi semplicemente tentato di negarlo a me stessa – un suo messaggio:

 

Sono sempre vicino a te.

 

                                 N.

 

Sorridendo sardonica, senza essere affatto divertita, ho pensato che la presenza di quella iniziale fosse totalmente inutile.

Dall’istante in cui Roxanne mi aveva informato di averlo incontrato in discoteca avevo intuito esattamente chi fosse il mittente di quella busta.

«Nathan», ho pensato e sulla mia lingua ho scandito ogni lettera con lo stesso odio e la stessa furia che mi nutriva ed era l’unica cosa che mi aveva impedito di rannicchiarmi in un angolo e scoppiare a piangere per la vergogna, l’imbarazzo e la paura.

Checchè ne dicano gli altri, per me l’odio è il sentimento più forte. Citazioni sdolcinate a parte, che individuano nell’amore la forza in grado di muovere il mondo, io so solo che l’odio è l’unica cosa che mi ha spinta ad andare avanti in determinati momenti.

E’ stata la cosa che mi ha forgiata e mi ha resa anche se non totalmente invulnerabile agli attacchi del mondo, per lo meno capace di vendicarmi dei torti subiti.

Estraendo una forbice dalla scrivania ho iniziato a tagliuzzare quelle foto in parti talmente piccole da rendere i soggetti irriconoscibili. Ho proseguito con precisione clinica, fino ad ottenere un mucchietto di carta fotografica sparso sul tavolo che ho raccolto in un kleenex che avevo sotto mano.

Più tardi sono scesa in cucina, pur sapendo di attirare così l’incredulità di mia madre e mi sono offerta di buttare la spazzatura.

Marissa mi ha impedito inizialmente di farlo. Era il suo compito e mai prima d’ora mi era mai passato per l’anticamera del cervello di rubarglielo.

Eppure ero determinata nella mia missione. L’ho conquistata con un sorriso al miele e un paio di commenti premurosi che andavano ad esaltare il suo lavoro sempre zelante, in cui almeno per una volta volevo aiutarla.

Terminata la mia opera di convincimento, ho rassicurato mia madre ancora una volta di stare bene e mi sono diretta verso i cassonetti più vicini nella mia area residenziale.

Ovviamente tenevo la busta con la spazzatura il più distante possibile da me, osando a malapena usare l’indice e il medio per trattenere i manici con una smorfia di schifo totale sul mio volto.

Non appena ho abbandonato il cancello della mia proprietà, ho avvertito ancora una volta la sensazione strisciante sulla mia schiena. Era arrivato il momento.

Era simile all’impressione che avevo avuto quando uscendo di casa avevo trovato sulla soglia di casa i miei effetti personali che, nella fretta di scappare, avevo dimenticato a casa sua qualche mese fa. Doveva essere un po’ fissato con il recapitare le sue lettere personalmente.

Io, d’altro canto, non mi sarei tirata indietro davanti a questa richiesta di sfida, ma dovevo prima capire cosa avesse in mente di fare dopo avermi pedinato e aver scattato foto private di me.

Che lui ci fosse o meno non aveva importanza. Dovevo farlo per me. Per dimostrare chi era il più forte tra i due. Chi reggeva il gioco.

Avevo ottenuto questo tipo di forza immediata facendo la stronza con Roxanne, è vero, ma il prezzo ne valeva la pena.

In modo da essere ampliamente visibile, ho gettato nel cassonetto prima i rifiuti casalinghi e poi prendendo in mano il kleenex appallottolato, contenente i rimasugli delle foto, l’ho aperto, lasciando che quelli volassero come coriandoli tra l’altra immondizia.

La sensazione sul mio dorso si è fatta più vibrante. Mi sono voltata di scatto, rimanendo nuovamente sorpresa dalla mancanza di anime vive in giro. Magari si trattava solo dell’inquietudine che, anche se continuava a pesarmi addosso, cercavo di nascondere sotto una faccia da poker, a farmi degli scherzi. Oppure lui da qualche parte si stava godendo la mia dichiarazione di guerra.

Conoscevo i suoi motivi. Lui voleva che io soffrissi tanto quanto diceva di aver sofferto in prima persona, perché l’amore – l’attrazione - di suo padre per me aveva distrutto la sua famiglia.

Ma io non sarei restata a guardare. Mi sarei difesa con le unghie e con i denti, facendo pagare caro l’affronto a chiunque si sarebbe permesso di toccarmi.

Forse io avevo sbagliato, oppure no. Non importava. Dovevo proteggermi.

Stai calma. Era quello l’imperativo principale. Non farti annientare dalla tua stessa foga.

Così ho sorriso, lievemente. Sono ritornata in casa con un’espressione serafica in viso, come se niente a questo mondo fosse in grado di turbarmi.

Quella notte non ho dormito. Sapevo di trovarmi in una situazione relativamente pericolosa. Nathan non aveva affatto esitato a minacciarmi con un coltello prima e a tentare di strozzarmi alla mia festa, dopo. Per quanto potesse sembrare assurdo rivedere tutti gli eventi in questa chiave, ciò era accaduto per davvero.

Io non avevo la possibilità di difendermi in alcun modo sotto questo punto di vista.

L’unica cosa che potevo fare era continuare a fingermi tranquilla, nonostante i miei timori.

Oltre ad essere una bluffatrice carismatica, non avevo altri punti a mio favore, ma questo doveva bastarmi, almeno per il momento.

Roxanne era un altro problema. Non volevo trattarla così in fondo, ma non potevo permettermi di rispondere alle sue domande. Il mio era stato solo un meccanismo di difesa.

Cosa avrebbe pensato di me?

Non che rifiutare così platealmente il suo aiuto avesse reso le cose più facili tra di noi.

Mi avrebbe odiato in un caso o nell’altro, ma per lo meno questo l’avrebbe tenuta lontana per un po’, o almeno questo è quello che credevo sarebbe successo, prima di rincontrarla nuovamente a scuola il giorno seguente.

Lei non è scappata via, né ha evitato il mio sguardo, anzi, mi si è piazzata davanti prima che incontrassi le Gallinelle nei corridoi, mantenendo un fronte determinato.

«Posso parlarti?», mi ha chiesto seria come non mai.

Io ho annuito altezzosamente, seguendola verso un luogo più appartato.

Tienila lontana. In questa cosa devi essere sola.

«Kate», mi ha chiamato e il suo tono si è lievemente addolcito, «Sono stata preoccupata per tutto il giorno. Puoi spiegarmi cosa è successo esattamente? Eri sconvolta.»

Dannata Roxanne e la sua acuta percezione delle cose e dannata me che non ero riuscita a camuffare immediatamente il problema.

«Non è successo niente», ho replicato atona. Non avevo idea di che scusa inventare come causa del mio comportamento così peculiare, perciò ho deciso di negare qualsiasi cosa.

«Niente?!», Roxanne ha ripetuto, incredula, «Kate, non ti ho mai vista così…tremavi…ti muovevi come in preda ad una crisi--»

«Ti ho detto che non è successo niente», ho insistito.

“Lascia perdere, Roxanne. Per te è meglio non sapere nulla.

Dopo un primo momento Roxanne, inaspettatamente, si è messa a ridere. Io l’ho guardata come se fosse fuori di testa.

«Erano tutte stronzate, eh?», mi ha domandato, ma la sua sembrava essere una domanda retorica, «Tutte stronzate

«Quali?», ho domandato, incapace di seguire il suo discorso come accadeva la maggior parte delle volte.

«La stronzata dell’essere amiche, no? Di esserci l’una per l’altra!»

«Io non l’ho mai detto», le ho ricordato, il più freddamente possibile.

Era vero, d’altronde. Non stavo mentendo. Era Roxanne che continuava a ripetermi che io ero la sua migliore amica, senza dubbio per conquistarsi la mia fiducia. Io non le avevo mai risposto nulla.

E adesso sì, Roxanne era ferita. Oltre ogni capacità di camuffare le sue emozioni, il suo volto era una maschera di delusione. A causa dei suoi tratti leggermente infantili, era molto simile a quello di un bambino a cui era stato negato un dolcetto.

«Ok», ha detto, raccattando dignitosamente la borsa che aveva posato a terra poco prima, «Scusa se ti ho fatto perdere tempo.»

Se n’è andata via velocemente e io mi sono ritrovata a pensare che non poteva essere un caso che ultimamente dovessi assistere sempre a questa scena, per poi sentirmi sempre indiscutibilmente male dopo.

Ho saltato il pranzo più tardi per non vederla e per non dover ascoltare le chiacchiere delle Gallinelle che innocentemente mi pregavano di fare pace con lei.

Sono rimasta seduta in cortile a guardare il cielo, lasciandomi accarezzare dalla brezza che inspiegabilmente riusciva a tranquillizzarmi come se fosse un paio di braccia spalancate pronte a dare conforto.

Percepivo su di me gli sguardi curiosi degli altri studenti, stupiti di vedere Kate Hudson stranamente sola. Quel tipo di sguardi non mi creavano alcun problema, né mi provocavano una sensazione strisciante sulla schiena, semplicemente mi facevano sentire al centro dell’attenzione, pur non facendo assolutamente niente per attirare un così grande interesse.

Sapevo che nessuno avrebbe osato avvicinarsi, perché forse segretamente intimorito dalla stessa ammirazione che aveva nei miei confronti, quindi sono rimasta decisamente di stucco quando una ragazzina del primo anno mi si è accostata timidamente.

Io l’ho squadrata dalla panchina, senza muovermi di un millimetro. Lei si è ritratta all’istante, facendo un passo indietro. Bene.

«Ehm…un ragazzo all’entrata mi ha dato questa», ha balbettato lei, passandomi all’istante una busta giallo scuro. Riconoscendo lo stile, gliel’ho sottratta di mano in un guizzo, sentendo il mio cuore iniziare a battere all’impazzata.

Ho subito fissato il cancello che delimitava l’entrata, ma nessuno dei presenti lì vicino assomigliava minimamente a lui. E pensare che era stato così vicino…

«Grazie», ho detto il meno bruscamente possibile alla ragazzina, tentando di ricompormi, visto che non accennava ad andarsene. Afferrata l’antifona, lei è subito tornata dalle sue compagne, stranamente contenta.

All’improvviso tutti quegli sguardi, mi hanno fatta sentire a disagio. Non potevo aprire la busta all’aperto, così sono sgattaiolata in bagno. Lì avrei avuto tutta la privacy necessaria.

Questa volta, la busta conteneva un foglio ripiegato a metà. L’ho aperto freneticamente.

 

Sono deluso.

Pensavo che dopo la busta di ieri avresti voluto vedermi immediatamente, ma non è andata così.

Forse queste altre foto riusciranno a convincerti.

In qualsiasi momento vuoi, sai dove trovarmi.

Io sono sempre vicino a te.

                                                                                                                                  N.

 

Accartocciando il foglio in un pugno, sono andata subito alla ricerca delle nuove foto. Ed eccole lì, in fondo, dove inizialmente non le avevo viste perché nascoste dal foglietto.

Le nuove foto erano simili alle precedenti, ma ritraevano me e Reeve in un atteggiamento molto più appassionato, anche se questa volta le facce erano meno riconoscibili a causa dei baci.

Riaprendo il foglio appallottolato sono ritornata a leggere il suo messaggio.

Pensavo che dopo la busta di ieri avresti voluto vedermi immediatamente…

Quindi il suo scopo era incontrarmi?

Sai dove trovarmi. Io sono sempre vicino a te.

Ancora una volta quelle parole.

Intendeva dire che aveva iniziato a seguirmi? E poi perché voleva incontrarmi di persona?

E cosa aveva in mente di fare con queste foto?

Si trattava sicuramente di una trappola per adescarmi, questo non era difficile da comprendere, e una volta in mano sua, secondo lui avrei ricevuto la giusta punizione per le mie presunte malefatte.

Cosa avrei dovuto fare? La situazione sembrava complicarsi e lui non sembrava affatto disposto a lasciare perdere. Avrei dovuto denunciarlo alla polizia? Ma lui aveva quelle foto per ricattarmi e io non intendevo in alcun modo affidare i miei problemi a qualcun altro.

Uscita dalla cabina in cui mi ero rinchiusa, ho visto una figura familiare lavarsi le mani nel lavello comune. Ho incontrato lo sguardo di Roxanne nello specchio, ma lei si è curata di  distoglierlo immediatamente e io con la busta nascosta dentro l’uniforme sono andata via il prima possibile.

Mi sono subito pentita di aver condannato la calma piatta del giorno precedente, perchè avrei lungamente preferito annoiarmi a morte, piuttosto che finire in quel casino.

Conscia di non poter cadere nella sua trappola, poiché non sapevo ancora cosa aveva in mente di fare con quelle foto, ho deciso di aspettare. Probabilmente si sarebbe fatto vivo presto, stipulando meglio i suoi motivi e le sue intenzioni, io nel frattempo non dovevo fare altro che dimostrarmi assolutamente tranquilla.

Non andava bene isolarsi dagli altri, perché gli avrei dato solo una maggior possibilità di azione, ma sarei riuscita a proteggermi meglio in compagnia, vista la sua presenza continua alle mie calcagna.

Seguendo questo tipo di programma ho aspettato per due giorni trascorrendo tempo con vari conoscenti e amici, cercando il più possibile di evitare Roxanne e il senso di colpa che mi opprimeva, ma finendo indiscutibilmente per incontrarla molto spesso e a farmi investire dal rimorso non appena lei si trovava fuori dal mio campo visivo.

Il terzo giorno, ovvero giovedì, è arrivata un’altra lettera che ho raccattato personalmente dalla cassetta della posta. Tuttavia quest’ultima non era bollata, segno che era stata quindi recapitata personalmente come al solito.

 

Probabilmente il destinatario a cui scrivo è sbagliato, visto che continuo a non ricevere risposta.

Forse dovrei provare a contattare l’ambasciator Hudson, che ne dici?

Sono convinto che lui sarà molto curioso di vedere come si diverte la sua figlioletta quando smette di fare la brava bambina.

 

                                                                                                                                                  N.

 

Ed ecco il ricatto. Rivedere le cose con freddezza, cercando di riportare esattamente quali siano state le mie sensazioni sul momento, non è facile. So solo una cosa: ho avuto paura, una dannata paura.

Non avevo idea di cosa sapesse esattamente di mio padre, né come potesse contattarlo così facilmente, visto che non è quasi mai a casa, ma sapevo solo che non potevo permettere che questo accadesse.

Mio padre non mi è stato mai particolarmente vicino nella mia vita, è vero, ma ha sempre tenuto ad alcune cose come il mio comportamento cordiale con tutti, oppure il non tornare troppo tardi la sera, o primeggiare a scuola, o mantenere intatta la rispettabilità della nostra famiglia. Sono tutte cose che ho sempre cercato di rispettare per renderlo fiero di me, per dimostrargli che laddove la perfezione era impossibile, sua figlia era per lo meno riuscita ad arrivarci in apparenza.

E ora Nathan stava mettendo in pericolo anche quel piccolo legame che mi legava a lui.

Onestamente ho avuto paura.

Eppure la sua volontà di minare il rispetto di mio padre nei miei confronti, mi ha fatto capire che se lui poteva ottenere l’ausilio della mia autorità paterna contro di me, io d’altro canto avevo il pieno diritto di servirmene completamente.

E’ stato allora che ho realizzato che restare sola non solo mi avrebbe danneggiata in questa guerra, ma oltretutto mi avrebbe indebolita, logorandomi per l’ansia che, anche se nascosta nel miglior modo possibile, era sempre in agguato.

Con questa risoluzione ho afferrato il cellulare e sgattaiolando nello studio vuoto di mio padre, ho cercato alcuni numeri nella sua agenda che ho prontamente chiamato.

Mio padre era ospite del Presidente questa settimana e, dato il livello piuttosto alto di sicurezza già presente nel posto, avrebbe concesso loro di sicuro un periodo di pausa.

Mi dispiaceva disturbare le loro meritate vacanze, ma se tutto fosse andato per il verso giusto, con il loro aiuto avrei sistemato questo problema in men che non si dica.

Al “Pronto” piuttosto cupo proveniente dalla cornetta, ho sorriso, indubbiamente rincuorata.

«John, sono Katie», l’ho salutato, usando mio malgrado il soprannome con cui lui si riferisce spessissimo a me, «Devi darmi una mano.»

Convincerli ad aiutarmi non è stato affatto difficile, anzi, ho dovuto lottare con una fin troppo fervente disponibilità.

«No, no tranquillo», ho cercato di declinare le sue premure, «ho bisogno solo che mi aiutiate ad eliminare uno scocciatore.»

«Che tipo di scocciatore?», ha domandato John con il suo vocione.

«Uno scocciatore piuttosto insistente», ho replicato, non trovando altri modi di descriverlo, «sembra abbia preso l’abitudine di pedinarmi e mandarmi lettere minatorie.»

«Ti ha fatto del male?», ha chiesto John, improvvisamente adirato, «Lo dirò a tuo padre e…»

«No», l’ho bloccato io con autorità, «mio padre deve restarne fuori, capito? Non voglio si preoccupi. Mi bastate solo tu, Mitchell ed Steven e stasera sistemeremo questa cosa una volta per tutte.»

«Va bene, ma se la situazione dovesse essere più grave di quanto mi stai dicendo, dovrò informare l’ambasciatore per forza.»

«Non lo sarà», ho smentito categoricamente, tentando di non andare in panico, «come ti dicevo è solo uno scocciatore.»

Per qualche secondo John è restato a meditare, poi ha ceduto alle mie rassicurazioni: «Va bene. Dimmi tu dove e quando, noi ci saremo. Dobbiamo portare gli attrezzi?»

Io c’ho riflettuto su. «Sì, portateli, ma è giusto per precauzione. Non userete niente del genere.»

«Lo spero. Ehi, Katie, sicura di stare bene?»

«Sì, perché non dovrei?», ho chiesto, fingendomi sorpresa.

«Niente. Lo so che sei una tipa tosta, ma ogni tanto cedere è umano.»

«E’ uno scocciatore», ho ripetuto con un’enfasi maggiore, «nulla di cui preoccuparsi eccessivamente.»

In realtà avevo già passato tre notti insonni.

«Ci penseremo noi», mi ha rassicurato John che, dopo aver ricevuto le coordinate del nostro incontro, ha riattaccato tra battute di spirito.

Ho sospirato, premendo il pulsante rosso sulla tastiera del telefonino.

Tutto mi sembrava così confusionario un momento dopo aver riattaccato, che speravo sinceramente di aver preso la decisione giusta.

Due ore dopo, ero alla porta di Nathan.

Mi sono persino vestita bene per l’occasione. Indossavo un abito in stile baby doll di Alice + Olivia con delle spalline sottili e il corpetto paiettato, assieme a dei sandali alti.

Essendo sola, la situazione appariva dall’esterno estremamente rischiosa, ma ormai non era più possibile tornare indietro. Gli avrei fatto credere di essere totalmente al sicuro in questo modo, mettendolo chiaramente a suo agio il più possibile.

Ho suonato il campanello e ho aspettato all’incirca mezzo minuto, prima che lui venisse ad aprire con un’espressione più che sorpresa in volto. Immagino non si sarebbe mai aspettato che gli facessi una visita direttamente a casa.

In quelle condizioni mi è parso debole. Uno stupido, debole sciocco che mi aveva privata del sonno e mi aveva ossessionata per poco meno di una settimana, anche se, considerando le nostre esperienze passate, tutta questa situazione si trascinava da parecchio tempo.

Lui mi fissava con la bocca spalancata e io ho sorriso apertamente della sua infinita nullità nei miei confronti.

Era assurdo che per un momento avessi persino messo in discussione chi tra i due deteneva il controllo.

Vedendo che Nathan non riusciva ancora a riprendersi dalla sua sorpresa, gli sono andata incontro.

«E’ tanto che non ci vediamo», ho commentato in un tono soffice, continuando a sorridere.

I suoi occhi verdi hanno avuto un guizzo e lui si è subito irrigidito.

«Non ti aspettavi la mia visita?», ho domandato ironicamente, «Dopo tutte le lettere che mi hai mandato, pensavo saresti stato entusiasta del mio arrivo.»

Nathan ha tentato di sorridere, ma non essendo un esperto nell’arte del fingere, la sua sembrava piuttosto una smorfia esagitata: «S-sì, certo che sono contento che tu sia venuta.»

«Bene», ho acconsentito, inclinando la testa verso un lato, in un modo infantile che ispira tenerezza nell’altro.

Tutti i fili del palcoscenico sembravano essere nelle mie mani, in attesa che io li manovrassi, perchè se c’è una cosa che so fare bene, quella è la burattinaia.

Ho sorriso ancora e in realtà stavo sorridendo per davvero, colma di orgoglio in me stessa e di vittoria, sebbene fosse ancora troppo presto per parlare di resa dei conti.

Nathan era esterrefatto e io potevo benissimo comprenderlo. Presumo non si sarebbe mai aspettato di vedermi così salottiera, cordiale e disposta a conversare piacevolmente con il mio supposto carnefice. Forse stavo giocando con il fuoco, forse con una mera fiammella, eppure non riuscivo a reprimere il trionfo che riempiva le mie membra.

«Non mi fai entrare?», ho suggerito e lui, suo malgrado, ha fatto un passo indietro, probabilmente intuendo che c’era qualcosa che non andava.

Con una naturalezza spontanea ho sbattuto le palpebre, un tantino delusa.

«Non posso?», ho domandato innocentemente.

Nathan ha tentato disperatamente di ricomporsi: «Certo. Certo. Fa pure», mi ha invitata ad entrare, spalancando la porta.

Come avevo previsto. Naturalmente non si sarebbe lasciato scappare l’occasione che aveva tanto aspettato e che adesso gli veniva posta davanti quasi su un piatto d’argento.

Mi sono avvicinata all’uscio con nonchalance, ma prima che questo potesse richiudersi alle mie spalle, due mani pressoché enormi si sono infilate nei cardini della porta e l’hanno spalancata.

«Ehi amico! Hai dimenticato degli ospiti fuori!», ha esordito il primo uomo, alto e robusto quanto un armadio, mostrando i denti candidi che risaltavano visibilmente sulla carnagione di colore.

Ho sorriso soddisfatta, guardando l’ingresso trionfale di John alle mie spalle.

Accanto a lui sono piombati Mitchell e Steven, entrambi della stessa stazza di John, sebbene appena più bassi, e io mi sono chiesta incredula come quel corridoio così piccolo potesse contenerli tutti.

Nathan, evidentemente ancora più scioccato di me, li ha fissati a corto di parole.

«Nathan, loro sono John, Steven e Mitchell. Immagino avresti preferito conoscere i loro nomi prima di ricevere…», ho esordito.

«Questo!», John ha terminato la mia frase, mirando dritto alla faccia di Nathan con un cazzotto ben assestato. Non sono nemmeno riuscita ad immaginare quanto potesse essere stato doloroso quel colpo, visto che il suo naso ha iniziato a sanguinare all’istante.

«Che cazzo fai?!», ha urlato Nathan, cadendo automaticamente a terra.

«No, tu che cazzo fai? Pedinandomi, minacciandomi, scattando mie foto private…», l’ho accusato io, abbassandomi al livello della sua figura rannicchiata a terra per il dolore, per ringhiargli quelle parole in faccia.

«Tu hai distrutto la vita della mia famiglia! Devi pagarla!», si è giustificato lui, tamponando il più possibile il naso colante. Era apparentemente molto desideroso di parlare se questo gli permetteva di evitare altri pugni.

«Non l’hai ancora capito? Io non c’entro nulla! E’ stato tuo padre a perdere la testa per me e a rovinarsi la vita!»

«Questo è perché tu gli hai fatto un lavaggio del cervello!», ha insistito lui e io non sono riuscita a trattenermi dallo scoppiare a ridere di gusto.

«E’ inutile insistere allora, mi sembri piuttosto ostinato nella tua stupidità», ho commentato rialzandomi e lanciandogli uno sguardo disgustato dall’alto, prima di voltargli le spalle e dire a John e agli altri cosa fare.

«Spaccate il suo computer, la sua macchina fotografica e qualsiasi altro tipo di aggeggio che possa contenere delle foto. Io vi aspetto fuori», ho ordinato loro, prima di avviarmi verso l’uscita.

«Sei solo una sporca puttana che non sa nemmeno difendersi da sola!», ha urlato Nathan con una voce logicamente nasale.

Ho trattenuto John, che stava già per avventarglisi contro, con una mano sul petto, prima di voltarmi ancora una volta verso colui che aveva sputato tali accuse.

«Oh davvero?», ho domandato sarcastica, incrociando le braccia sul petto e incitandolo a continuare.

Fa' crescere la mia rabbia, su.

«Sì, sei una sporca puttana! E anche se dovessi riuscire a distruggere tutte le foto, rivelerò a tutti la verità personalmente! Prima di tutti alla tua amica! Immagino che non si aspetterebbe mai di sapere che in realtà sei fatta così.»

No, non Roxanne…

Stava cercando di indebolirmi, ma io non potevo fargli capire che in realtà temevo le sue parole, perciò sentendomi incapace di controllare l’espressione del mio viso, mi sono voltata e ho fatto ancora una volta per andarmene.

«Mi raccomando, le foto», ho ricordato ancora una volta a John e lui ha annuito mestamente, senza commentare.

«Sono sicuro che sarà stupita del fatto che la sua amichetta l’aveva abbandonata alla mercé di due ubriachi per scoparsi uno sconosciuto», Nathan ha continuato dal suo angolino e io ho stretto i pugni, incapace di andarmene davvero.

Era la verità, eppure perché sentirla raccontata da uno sconosciuto le dava un connotato più disgustoso della realtà?

«Ti vuole bene», mi ha canzonata lui, «E per farlo deve essere sicuramente all’oscuro della tua vera indole. Io le schiarirò solo un po’ le idee. E’ carina d’altronde, non mi dispiacerà nemmeno…»

Questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

Frugando al di sotto della giacca di John, le mie dita sono venute al contatto con il manico della sua Beretta e l’ho tirata fuori dalla custodia sotto i suoi occhi spalancati.

«Katie, che stai…», ha tentato di dire l’uomo, sconvolto.

Guardando in basso verso Nathan, il cui naso era completamente rosso e gonfio, ho tolto la sicura alla pistola.

«Signorina Kate…», mi hanno chiamato tutti e tre gli uomini allarmati.

Io ho alzato una mano per azzittirli.

Nathan mi guardava come se avessi perso la testa.

Probabilmente era vero. Ma non ero più sicura di vincere e avrei fatto qualsiasi cosa per arrivare direttamente alla conquista del premio.

Oppure era stato solo il suo nome a scatenare tutto.

No, non lo doveva sapere. Di tutto questo schifo doveva rimanere all’oscuro. Quando tutto questo sarebbe finito, sarei tornata e lei ovviamente mi avrebbe sorriso e sollevato tutte le mie ansie. Non poteva conoscere la verità, altrimenti l’effetto curativo che aveva su di me sarebbe finito. Non potevo permettermi di perdere l’unica cosa che mi tenesse realmente in piedi. Non potevo perdere lei.

L’adrenalina scorreva nelle mie vene ed un brivido di eccitazione mi ha invasa.

L’euforia del potere, della dominazione, accrescevano contemplando la paura sconfinata negli occhi del mio nemico.

Ero in estasi. Volevo ridere e ridere ancora, completamente soddisfatta.

Mi sono inginocchiata nuovamente vicino a Nathan, ormai affannato come un animale in gabbia, e gli ho puntato la pistola alla gola senza alcuna esitazione.

«Sei pazza???», ha urlato lui, incapace di dimenarsi per il timore che al minimo movimento io potessi sparare.

Io ho sorriso adorabilmente.

«Se mi uccidi marcirai tutta la tua vita in galera, sei sicura di volerlo?», ha gridato ancora, sperando di farmi vacillare.

Ma non ha funzionato.

«Questi uomini, le guardie del corpo di mio padre, sono pagati per dare la vita per lui e in una certa estensione anche per la mia. Se io dovessi premere questo grilletto se ne assumerebbero la completa colpa e ne sarebbero profumatamente ricompensati», ho spiegato e mi è sembrato che gli altri tre alle mie spalle annuissero.

Nathan ha sgranato gli occhi, iniziando a sudare visibilmente. Se la stava facendo addosso.

«No, no, ti prego, non…»

«Non cosa?», l’ho spronato a continuare, lasciando che la canna della pistola nel frattempo gli accarezzasse lentamente tutto il collo.

«N-non m-mi vedrai più d-da oggi in poi…», ha balbettato, deglutendo di continuo mentre il metallo dell’arma sembrava marchiargli a fuoco la pelle con un semplice tocco.

«Pur senza farti vedere sei riuscito a rendere la mia settimana un inferno», ho commentato sarcasticamente, continuando a sorridergli.

«Non-non…», ha deglutito ancora lasciando che le parole scorressero il più velocemente possibile ma con qualche difficoltà, «t-ti prometto, che non ti contatterò m-mai più!»

«Anche se tu dovessi smettere di contattare me, hai appena detto di voler parlare con qualcun altro di questo, no? Fallo e ti distruggerò con le mie stesse mani. Come vedi non ho bisogno di nascondermi dietro nessuno per risolvere i miei problemi. Non è così?»

Lui ha annuito ferocemente.

«Allora, prometti?»

«Sì, cazzo! Adesso metti via quella pistola!»

«Na-ah», gli ho fatto il verso, «Non mi piace sentire parolacce.»

«Prometto, giuro, te lo garantisco! Non sentirai più parlare di me in nessun modo! Lasciami andare!»

Io ho finalmente lasciato da parte quel sorriso falso e l’ho guardato con la mia vera espressione.

Rabbiosa, furiosa, brutale, aggressiva, crudele eppure suadente gli ho sussurrato nell’orecchio: «Se non mantieni questa promessa, ti distruggerò, capito? E non sto scherzando. Lascia perdere il tuo desiderio di vendicarti contro di me, perché se dovessi fare sul serio io con la mia vendetta, nessuno riuscirà a fermarmi.»

Lui ha annuito ancora una volta, completamente fradicio di sudore, socchiudendo gli occhi e rabbrividendo.

Io mi sono allontanata lentamente e, quando la pistola ha smesso di toccare la sua pelle, Nathan è letteralmente crollato in un respiro di sollievo, esausto.

Ho restituito la pistola a John, che era ancora atterrito da tutta la scena che si era appena svolta, e gli ho ricordato: «Distruggi il resto.»

Le guardie del corpo hanno annuito, guardandomi con timore malcelato, e io sono andata via nel silenzio più totale, scandito solamente dal rumore fastidioso dei tacchi dei miei sandali sul pavimento e dal fruscio delle mie vesti. Quando sono iniziati il fracasso e le urla di Nathan che tentava di fermare i tre uomini nella loro impresa di demolizione, io stavo già scendendo le scale esterne di casa sua.

Ho preso un ampio respiro, chiudendo le palpebre, ferma sul marciapiede, assaporando la freschezza della sera. Il mio animo sussultava ancora, il cuore pompava nel sangue ancora adrenalina.

Era davvero tutto finito?

Le mie precedenti azioni hanno iniziato a pesarmi addosso in quello stesso istante.

Ma cosa avevo fatto?

Riaprendo gli occhi ho riconosciuto la strada. Quella stessa strada che non molto tempo fa mi aveva vista scappare con il timore che Nathan continuasse a seguirmi in direzione verso la ben più familiare villetta a schiera dal cancello rosso.

Dopo aver percorso una breve strada ed essere arrivata davanti a quest’ultimo, tutte le mie certezze sono crollate.

E se non avesse voluto vedermi? Se non mi avesse perdonato? Se non avesse più sorriso per me?

Era sconcertante pensare che qualcuno che fino a pochi minuti prima avesse minacciato di morte il suo peggior nemico, potesse trasformarsi nella persona più vulnerabile del mondo davanti ad uno stupido cancello cremisi.

Il nome Miller campeggiava sul campanello. Ho esitato a lungo, guardandomi le unghie dei piedi laccate di smalto bianco in coordinato con il colore dei miei sandali.

Poi ho suonato, mi sono presentata e il cancello si è aperto con uno scatto.

Roxanne era sulla porta, i capelli raccolti in una coda alta, la frangia che nascondeva le sue sopracciglia aggrottate e l’espressione poco amichevole.

Ti prego, sorridimi.

Ma lei non sorrideva. Si ergeva nella sua modesta statura, seria come non mai, e mi guardava camminare lentamente verso di lei, con un atteggiamento di distacco evidente.

La situazione volgeva verso il mio svantaggio, ne ero perfettamente conscia.

Ti prego, sorridimi o non riuscirò a sbarazzarmi di questo peso che ho sul cuore.

«Ciao», ho detto, cercando di trovare un’apertura.

«Ciao», mi ha risposto senza scomporsi.

Non volevo vedere un’altra mia brutta copia. Volevo vedere solo Roxanne.

Ti prego.

«Mi dispiace per quello che è successo questi giorni», ho ammesso onestamente, «ma c’era una faccenda che dovevo sistemare prima…»

«Cosa?», ha tagliato corto Roxanne, apparentemente non interessata ai miei sproloqui.

Io ho serrato la mascella.

Lei non può saperlo.

«Niente», ho risposto, schivando il suo attacco, «posso entrare?»

Era la seconda volta che cercavo di introdurmi da sola in casa di qualcun altro. Stavolta dovevo farlo perché era l’unico modo per non essere interrotta prima ancora di arrivare alla fine del mio discorso. Ero sicura di riuscire a convincere Roxanne con poche parole giuste, ma dovevo pur avere il tempo per pronunciarle.

«No», mi ha negato categorica lei, «Non ti ho chiesto di entrare. Ti ho solo chiesto di spiegarmi cosa sia successo.»

«Mi dispiace, ma…», ho tentato di continuare.

Ero arrivata a puntare una pistola alla gola a Nathan solo perché lei non venisse a sapere nulla e adesso si aspettava che io le confessassi tutto spontaneamente?

Poi ancora le sue parole: “Sono sicuro che sarà stupita del fatto che la sua amichetta l’aveva abbandonata alla mercé di due ubriachi per scoparsi uno sconosciuto. Ti vuole bene e per farlo deve essere sicuramente all'oscuro della tua vera indole…”

Lei non deve saperlo.

«Mi dispiace», ho ripetuto affranta. Lei non ha battuto ciglio.

«Cosa è successo? La mia domanda è questa. Non voglio che tu cambi discorso con un “mi dispiace”», ha replicato Roxanne.

Io l’ho guardata senza dire nulla e lei ha sospirato, scuotendo la testa.

«E’ inutile. Allora era vero. Erano solo cazzate», ha mormorato tra sé e sé, prima di tentare di richiudere la porta.

«Aspetta!», ho gridato allarmata, costringendola a bloccarsi.

«Cosa devo aspettare ancora? Non rispondi a nessuna delle mie domande. Non ti apri. Non mi parli di quello che ti turba. Questo è quello che si fa con un’amica e io per te evidentemente non lo sono», ha dedotto Roxanne e nelle sue parole c’era una verità che mi ha colpita.

«Aspetta…», ho continuato. Mi sono avvicinata a lei e ho bloccato la porta con la mano destra in modo che non potesse richiuderla.

La mia mano sinistra poi ha afferrato la sua.

Roxanne ne è rimasta scossa e, sebbene restasse passiva al contatto, non si è scostata.

Ho guidato la sua mano sulla mia guancia, continuando a coprirla con la mia.

I suoi grandi occhi blu erano spalancati, cercando di ricollegare la situazione.

La sua mano, quella stessa mano tesa verso di me che avevo cacciato, adesso era ritornata dove avrebbe dovuto essere.

«Mi dispiace», ho detto un’altra volta, sperando che alle sue orecchie la mia voce non suonasse così spezzata come sembrava a me.

La mia mano si è sollevata dalla sua che, invece, continuava ancora a sostare sulla mia guancia.

Rischia tutto. O la va o la spacca.

Ti prego, fa che funzioni. Fa che lei riesca a farmi sentire meglio.

Continuavo a ripetere quelle parole nella mia mente, come un disco rotto. Roxanne era l’ultimo appiglio che avevo.

Le mie membra avevano ormai iniziato a tremare.

Non ce la faccio più.

Il fuoco implacabile negli occhi di Roxanne si è affievolito e le sue labbra hanno vibrato simpateticamente quando le mie prime lacrime sono iniziate a sgorgare.

Allora la sua mano è scesa dalla mia guancia verso la mia nuca, attirandomi verso di sé in una stretta che io ho ricambiato goffamente.

Ti prego, fa che funzioni. Fa che funzioni.

Lo avvertivo nella sua stretta rigida. Lo sentivo nella sua voce stranamente atona che tentava di calmarmi. Lo percepivo nella distanza che era rimasta tra i nostri corpi durante l’abbraccio. Lo vedevo nello sguardo assente che evitava accuratamente di guardarmi negli occhi.

Avevo costretto Roxanne a consolarmi, spingendola a commuoversi per le mie lacrime fasulle. L’avevo convinta sfruttando la sua incapacità di lasciare qualcun altro da solo.

Fa che funzioni.

Ma quel nodo alla gola non se ne andava.

E’ stato allora che ho capito che si trattava del prezzo delle mie bugie da cui Roxanne non avrebbe mai potuto sollevarmi, perché ne era vittima allo stesso modo.

«Mi dispiace», ho ripetuto.

«Va bene. Andrà tutto bene.»

Non le ho creduto; stava mentendo.

 

   
 
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