Allora, qui di seguito farò un po’
di considerazioni in riguardo all’ultimo capitolo, per giustificare il
“sorprendente” comportamento di Kate. Non c’è nessun
contenuto aggiuntivo alla storia, perciò se volete potete tranquillamente
saltarlo e andare direttamente a leggere il capitolo
Ho trovato particolarmente
divertente il fatto che i commenti ritraessero il comportamento di Kate come “inaspettato” o “insolito” o “poco intelligente”,
certo, anche a me sembra moralmente sbagliato, però io sinceramente ho sempre
pensato che questo fosse “adeguato” per Kate.
Mi spiego meglio: scrivendo la
storia dall’unico punto di vista di Kate, si perde
certamente qualcosa, sebbene nel diario vi sia una descrizione piuttosto ampia
degli avvenimenti. Roxanne spesso appare misteriosa al lettore e solo talvolta
viene davvero fuori per quello che pensa attraverso alcune risposte che rivolge
a Kate, oppure tramite quei pezzettini iniziali che
adesso aggiungo prima di ogni capitolo.
Il dialogo in prima persona,
esclude anche quell’auto esame psicologico che sarebbe necessario, visto che Kate ha deciso di non rileggere mai il suo diario.
Kate non potrebbe mai scrivere: “mi sto
comportando così, perché in passato ho avuto questo trauma”, ma tende a
giustificare qualsiasi sua azione come è giusto che sia.
Per quanto riguarda la storia, ora
so che è passato parecchio tempo da quando ho iniziato
a scrivere BisB e la mia lentezza nell’aggiornare non
aiuta, però Kate nel primo capitolo si descrive come
una “manipolatrice” a cui non importa nulla delle sue “marionette”, che non
vede nulla di sbagliato nello scendere a compromessi. Cito le sue stesse
parole: “non mi faccio scrupoli nell’usare mezzi di
ogni tipo per ottenere ciò che voglio. Ho sempre trovato stupide quelle persone
che si sforzano tanto per raggiungere qualcosa e poi ricevono in cambio solo un
pugno di polvere. Io non rischio, non fatico, eppure raggiungo sempre i miei
obiettivi. Non lo trovo un atteggiamento ingiusto, semplicemente sensato.”
Dunque, per Kate
questa è la definizione di sensato. Sacrificare la sua stessa dignità per
ottenere ciò che vuole non è un problema per lei.
Di cosa parli “Beauty is the Beast” sinceramente io non
lo so dire. Parla di un'amicizia, certo, ma io parlerei piuttosto di una connessione di anime. E’ questa la parola chiave.
E quando il collegamento è instaurato non si può più cancellare. Tutto va
interpretato in questo modo: è un viaggio di vita, di formazione, di conoscenza
dei propri fantasmi, della parte che resta nascosta dentro noi
stessi e che è più feroce della maschera che noi usiamo per celarla al mondo.
Cosa abbia reso Kate
così stronza e manipolatrice? Beh, io direi che non
ci sia stato un vero e proprio avvenimento, ma una
serie di cose e parte della sua stessa personalità indipendente dal resto. Kate è strana, perchè valuta sopra ogni altra cosa cose
come l'aspetto fisico, ma per ottenere ciò che desidera sarebbe disposta a
qualsiasi cosa. Non ha paura di scendere a compromessi, perchè per lei non sono
un ostacolo, ma bensì l'unica via di agire.
Roxanne l'ha accusata di essere noncurante di sé stessa ed è questo l'aspetto
essenziale di Kate. Lei cura troppo ciò che in realtà
dovrebbe essere superficiale e si sopravvaluta spesso, credendosi capace di
affrontare tutto e tutti. E' un personaggio, forte, certo, ma il castello su
cui ha costruito tutta la sua immagine non ha base solide,
ma piuttosto minaccia di crollare da un momento all'altro.
Chiariamoci non è che a Kate dispiaccia vivere così, anzi, questo è il suo stile di vita. E’ molto
realista e gli episodi che le sono accaduti in passato non hanno fatto altro
che insegnarle che il mondo è crudele, che si deve sempre pagare un prezzo e
che se non ci si impone per primi, gli altri cercheranno di fare lo stesso con
te.
In più ha in sé quel senso di
supereroina (non con nobili intenzioni) di dominare sugli altri e dimostrare la
sua superiorità nel far sempre le cose meglio e per prima. Ovviamente ciò non è
facile e per quello che non riesce ad affrontare diversamente, Kate ricorre al sesso.
Il sesso per Kate
è una merce di scambio che tutto sommato non richiede di investire molto di sé:
solo il suo corpo, purché questo continui a mantenersi in una forma perfetta.
Kate non investe mai sui suoi
sentimenti, che sono più complicati di quelli di una qualsiasi persona normale, ma credo sia palese che qualcosa si sta muovendo
già da qualche capitolo in reazione a Roxanne.
Kate, essenzialmente, sebbene sia un po’ maturata dall’inizio della storia,
è sempre la stessa, tranne in presenza di Roxanne. E’
con lei che si nota la differenza.
E’ la suddetta connessione di anime
di cui parlavo.
Detto questo la smetto parlare a
sproposito, sperando che questo piccolo chiarimento sia stato apprezzato, e vi
lascio leggere il nuovo (lungo) capitolo che spero susciti allo stesso modo una
discussione come il precedente.
Grazie mille come al solito a ninfea306, balakov,
nikoletta89 e flyily per le recensioni!
Mi scuso per il ritardo, ma per lo
meno sono riuscita ad aggiornare nel giorno del mio compleanno, perciò sarei
felicissima se mi lasciaste delle recensioni!
Finalmente ho la stessa età delle
mie protagoniste! :D
Alla prossima!
***
Roxanne riteneva che non ci fosse poi molta differenza tra un sogno e una bugia.
Entrambi le permettevano di vivere per un po' in un mondo idilliaco, lontano da qualsiasi tipo di verità che potesse ferirla.
"Vattene"
Non si era aspettata quelle parole. Non facevano parte del piano.
"Vattene"
La sua voce glaciale le fece realizzare che quello non era semplicemente un sogno.
"Vattene"
Qualsiasi cosa potesse dire, non avrebbe mai riempito il varco che in un istante si era aperto fra di loro. L’eco di quel grido rabbioso le rimbombava nella mente.
"Vattene"
Avrebbe voluto urlare a Kate che era stata lei la prima ad allontanarsi sempre di più dalla sua comprensione, sebbene lei cercasse in tutti i modi di mettersi nei suoi panni.
Un baratro di distruzione in quelle iridi.
Un baratro di odio puro.
Ne ebbe paura.
"Vattene"
Non diceva sul serio. Ci doveva essere una spiegazione.
Cercò, scrutò, cacciò invano.
Non può essere.
"Vattene"
Nella sua bocca si diffuse il calore del sangue e del dolore: il sapore della verità.
7 giugno
Nel momento in cui ho
appoggiato la penna sulla carta, mi sono resa conto di essere molto fortunata
di poter ancora scrivere su questo diario.
Perché? Beh, la questione
è un po’ lunga, ma d’altronde ho tutto il tempo per spiegare.
Come
si fa a capire quando gli incubi terminano una volta
per tutte?
Ci
sono tante cose nella vita che io ho voluto dimenticare, semplicemente perché
non erano di mio gusto. Non rientravano nella mia definizione di giusto e così
le ho cancellate.
Il
tempo mi ha aiutato molto in questo: ha nascosto ciò che non volevo vedere e, a
meno che io non rievocassi certe memorie di mia spontanea volontà, queste
restavano nell’ombra.
Eppure
questa volta non è andata così, perché qualcuno mi ha forzato a riaprire una
cartella già archiviata.
Qualcosa…no,
qualcuno con cui io non volevo più
avere a che fare.
E’
tornato da me e ha tentato di nuovo di sconvolgermi la vita. Peccato non avesse
ancora realizzato con chi aveva a che fare.
Ma
andiamo con ordine.
Dopo
il turbolento sabato di cui ho già parlato, la calma piatta di lunedì
pomeriggio mi ha trovata un tantino impreparata.
Noia.
Tanta noia, come raramente ne ho provata prima.
Guardavo
il soffitto della mia camera, seduta ansiosamente sul bordo del letto, come
aspettandomi che il bianco dell’intonaco si macchiasse improvvisamente e uno
scricchiolio inquietante emergesse dall’armadio.
Avrei
pregato perché succedesse qualcosa di diverso, qualsiasi cosa,
ma le mie speranze sono rimaste disattese.
La
stasi totale mi ha avvolta e il silenzio mi ha soppressa, fino a che non ho
preso in mano il diario.
Non
l’ho aperto come faccio sempre, scorrendo fino all’ultima pagina senza mai rileggerlo,
ma l’ho tenuto semplicemente in mano, poggiandomelo sul cuore.
Il
fatto che ricercassi conforto in un inutile oggetto
inanimato mi ha fatta sentire patetica e così l’ho gettato via appena mi sono
resa conto di cosa stessi facendo. Il risentimento è durato poco, però, visto
che sono subito corsa a raccoglierlo e a riporlo con cura nel comodino.
Non
era il momento di scrivere, quello. Ma dovevo trovare uno stratagemma che mi distraesse dal vuoto immobile che permeava le pareti.
Un
secondo dopo, facendomi sobbalzare per la sorpresa mentre ero ancora intenta a
richiudere il cassetto contenente il diario, la porta della mia camera si è
aperta leggermente, rivelando uno spicchio dell’espressione intimidita di
Roxanne.
«Uhm. Ciao Kate, disturbo?»
«No», ho risposto
automaticamente, ricomponendomi.
Era la pura verità.
Mi sono sforzata di fare
un sorriso, malgrado continuassi a sentirmi strana. La sensazione che mi aveva
invasa era talmente peculiare, da non permettermi di associarla a nessuna esperienza
passata.
Era sollievo, nervosismo,
inquietudine, frenesia, turbamento. Niente a che vedere con la noia precedente.
«A cosa devo l’onore?», ho
domandato affabile.
Roxanne, che allora si è
decisa ad entrare completamente, è comparsa alla mia vista indossando una
salopette di jeans, sotto alla quale si intravedeva una t-shirt bianca a righe
azzurre. Andava a completare la sua immagine ancora prettamente fanciullesca un
frontino blu, posizionato posteriormente alla linea della frangia, che cercava
di trattenere quelle onde brune dietro le sue orecchie.
In risposta alla mia domanda, Roxanne ha
semplicemente sollevato la busta che portava in mano.
«Ricordi? Te l’avevo già
detto stamattina che sarei passata per restituirti il vestito», ha detto,
consegnandomi la busta.
«Non
ce n’era bisogno», ho risposto, evitando accuratamente di guardarne il
contenuto, appoggiandola sul tappeto ai piedi del mio letto.
«E
invece sì. Sei stata così gentile anche solo a prestarmelo! Non avrei potuto
mai tenerlo!», ha insistito
Io
ho nascosto un sorriso sardonico, evitando di rivelarle che visto che non
l’aveva tenuto con sé, il vestito sarebbe stato bruciato molto presto.
Non
avevo intenzione di vederlo mai più.
Le ho sorriso, rispondendo
in quel modo alle sue parole di ringraziamento.
«Immagino mia madre ti
abbia tenuto sottotorchio un bel po’, prima di lasciarti salire», ho detto,
avvicinandomi al letto.
Roxanne ha scosso la
testa, lasciando che i suoi capelli danzassero nell’aria a ritmo di quel
movimento: «Mannò. E’ solo molto socievole.»
«Se
per socievole intendi una persona affetta da un atteggiamento logorroico
impulsivo, allora hai ragione. E’ come una sveglia a cui
non è stato aggiunto il pulsante dello spegnimento», ho commentato sarcastica,
arrampicandomi sul mio morbidissimo letto e appoggiandomi mollemente contro la
testiera.
Roxanne mi ha guardato
severa, con un cenno di sorriso negli occhi. Naturalmente condannava la mia ipercriticità nei confronti della mia genitrice, ma questo
al tempo stesso la divertiva, senza che potesse evitarlo.
Malgrado tutto, abbiamo un
senso dell’umorismo molto simile.
Sprofondata tra i miei
cuscini di seta, ho fissato Roxanne mentre lei con lo
sguardo basso, spostava il peso da un piede all’altro. Come mai era così
nervosa?
«Cosa stavi facendo di
bello?», mi ha domandato dopo un po’.
Io ho scrollato le spalle,
indifferente.
«Stavo aspettando che un mostro spuntasse dal mio armadio», ho replicato. Il mio tono serissimo
aveva privato quella battuta di alcun possibile significato scherzoso.
Roxanne ha sbattuto le palpebre perplessa.
«Ovvero, mi stavo
annoiando», ho continuato, cercando di risollevarla dalla sua confusione.
Le è scappata una risata,
involontariamente. «Mi dispiace di non aver optato per un film horror, allora.»
«In che senso?»
«Tada!»,
ha esclamato, mostrandomi il cofanetto di un DVD.
Ho aggrottato le
sopracciglia, dubbiosa.
«Di
che si tratta?», le ho chiesto, sistemandomi meglio contro i cuscini della
testiera e raccogliendo le gambe sotto di me. A quel punto, la mia adorabile
gattina è comparsa dal nulla e mi è saltata in grembo, dove l’ho accolta di
buon grado.
Roxanne non ha risposto,
ma ha semplicemente iniziato a trafficare con la televisione e il lettore DVD,
mentre io massaggiavo il pelo di Susie.
Sembravo aver trovato
finalmente il modo di risollevare la mia noia. Non che fosse
semplice, visto che a parte l’ossessione di trovare un vestito adatto per la
cerimonia del diploma, non ho poi molto da fare in questo periodo della mia
vita.
La scuola terminerà entro
una settimana. Tutti quelli che hanno perso tempo a cazzeggiare
fino a questo momento, tra cui figurano molti dei miei amici purtroppo, non
possono fare altro che lavorare perché la loro media si alzi almeno un po’. Per
qualcuno come me, invece, ammesso da mesi alla sua università prescelta,
l’attesa del college è un’operazione semplicemente noiosa. Roxanne, allo stesso
modo, deve trovarsi nella mia stessa situazione.
Terminata la sua
operazione con il lettore DVD, Roxanne si è voltata verso di me soddisfatta e
il suo sorriso si è ampliato di più quando ha visto Susie tra le mie braccia.
«Susie!», ha esclamato e la gatta ha alzato pigramente il
muso verso chi la chiamava. Roxanne allora è saltata allegramente sul letto,
liberandosi delle sue infradito, e si è avvicinata per strofinarle
delicatamente la testa con due dita.
Susie
ha iniziato a fare le fusa, vibrando forte e scuotendo tutto il letto. Questo
mi ha fatto scoppiare a ridere.
Spostandomi
più verso un lato, ho fatto posto a Roxanne accanto a me e lei si è accomodata
volentieri. Susie, senza abbandonare il mio grembo,
ha appoggiato il capo sulla coscia jensata di
Roxanne, vicinissima alla mia, prima di chiudere gli occhi e decidere di
mettersi a riposare.
Guardandola
piacevolmente stesa su di noi, non sono riuscita a frenare un sorriso
spontaneo.
«L’Era
Glaciale», ha risposto Roxanne ad una domanda che avevo ormai scordato.
«Eh?»
«Guardiamo
“L’Era Glaciale”», ha ripetuto, prendendo il telecomando e raggiungendo il menù
del DVD.
«Cosa?!
Ma non è un cartone animato?», ho protestato. Mi prendeva per una bambina?
Roxanne
non ha detto nulla. Ha ignorato il mio sguardo allibito, per dirigere
completamente la sua attenzione verso lo schermo.
«Io non guardo cartoni animati!», ho
ripetuto, lagnandomi in un modo adorabile a cui so che
nessuno può dire di no.
Nessuno,
a parte Roxanne, a quanto pare.
Così
mi sono arresa a vedere il film, non avendo a disposizione un’alternativa
adatta per impiegare il tempo.
Meno
di un’ora e mezza dopo Roxanne mi ha rivolto un sorriso saputo, alzando il
sopracciglio in un’espressione eloquente.
«Allora?»
«Allora
cosa?», ho domandato innocentemente.
«Ti
è piaciuto, vero? Mi sembravi molto presa dalle scene!», ha esclamato
divertita.
Io
l’ho adocchiata in modo palesemente scettico: «Oh, davvero?»
«Certo!
Qualcuno che non è preso dal film non scoppia a gridare “sì!” - facendomi anche
spaventare - quando lo scoiattolo viene schiacciato a
meno di tre minuti dall’inizio», ha risposto lei prontamente.
«Perché
lo scoiattolo è un idiota. Persino più del bradipo», ho replicato noncurante.
«Sid? No! Io lo adoro! E’ un mito!», lo ha difeso
tenacemente Roxanne.
Io
l’ho ignorata: «Sono entrambi degli idioti, ma lo scoiattolo supera di certo il
bradipo. Credevo fosse morto all’inizio, però continuava a resuscitare
inspiegabilmente…»
Roxanne
ha soffocato una risatina dietro una mano: «E’ un cartone animato, Kate.»
«Proprio
per questo non riesco a capire come lo scoiattolo sia sopravvissuto dopo essere
stato ripetutamente schiacciato, colpito da un fulmine e congelato nel ghiaccio
per più di ventimila anni, mentre il capo delle tigri è stato ucciso da un paio
di pezzetti di ghiaccio. Non è giusto che i cattivi siano uccisi più facilmente
solo perché se lo meritano», ho protestato, restando ferma nelle mie
opinioni.
Roxanne
ha scosso la testa, sempre ridendo: «I pezzi di ghiaccio erano appuntiti!»
«Era
comunque del ghiaccio!»
Roxanne
ha sbuffato e compresa la mia ostinazione, ha deciso di adottare una strategia
più diretta: «Ma insomma, hai da criticare tutto? Non ti è piaciuto niente?»
«Beh,
mi piaceva il mammuth, che certamente in quel covo di
pazzi era il più intelligente…e Diego», ho ammesso.
Roxanne
ha increspato le labbra in un sorrisino, alzando un
sopracciglio: «Aha! Ti ricordi il suo nome!»
«Perché
non so a che specie appartenesse.»
«Una
tigre zannuta, forse?», ha proposto lei, non abbandonando la sua ridicola
espressione.
«Non
è un nome molto chic», ho ribattuto.
«No,
in effetti non lo è», ha riso lei, «Comunque stai
sviando il discorso. Non sei stata tu quella che è balzata in piedi esclamando
“Cazzo!”,
quando il bambino è caduto nello scivolo di ghiaccio?»
«Pensavo
fosse fico…anche Diego lo pensava!», ho risposto,
quietamente. Roxanne ha tentato di nascondere la sua risata
ma non ce l’ha fatta.
Alzando
eloquentemente le sopracciglia le ho chiesto: «Dove vuoi arrivare?»
«Voglio
farti ammettere che il film ti ha appassionata», ha replicato lei come una so-tutto-io.
L’ho
guardata piuttosto infastidita, decisa a non dargliela vinta: «Non mi ha
appassionata.»
«E
chi ha stritolato in un abbraccio la sua gatta quando
Manny ha ricordato la morte della sua famiglia?»
«Era
Susie a volere
le mie coccole», ho precisato.
«E
chi ha gridato quando sembrava che Diego fosse
morto?», ha continuato lei senza ascoltarmi.
Ho
sentito le mie guance accalorarsi: «Ma…ma lui era l’eroe! Era un momento
drammatico!»
«E
chi è che ha sorriso come un’idiota quando Diego poi è
riapparso?»
«Era
una scena…simpatica», ho tentato di giustificarmi, «E
tu non avevi niente di meglio da fare che studiare le mie reazioni?»
Roxanne
è scoppiata a ridere, sinceramente divertita: «Il film l’avevo già visto e poi
tu con il tuo debole per la tigre zannuta eri più divertente!»
«Non
ho un deb-», ho cercato di smentirla, ma la sua improvvisa esclamazione di
sorpresa mi ha interrotta.
«Cosa
c’è?»
«Oddio!
L’hai sviluppata davvero?», mi ha chiesto, voltandosi verso di me con il
sorriso più entusiasta che avessi mai visto.
Seguendo
la direzione del suo sguardo non è stato difficile capire a cosa si stesse riferendo.
Ho
sorriso, mio malgrado: «Ti piace?»
«Stai
scherzando? E’ fantastica!», ha risposto lei, balzando giù dal letto e
avvicinandosi di più alla mia scrivania dove un’insolita cornice d’argento
risaltava in mezzo ai soliti suppellettili.
Ed
ecco lì la foto memorabile che raffigurava i nostri volti quasi
irriconoscibili, celati da una mistura verde scuro
decisamente disgustosa da vedere.
Roxanne
ha preso in mano la cornice con cautela, sorridendo delicatamente.
«Marissa è andata per me dal fotografo stamattina per farla
stampare», ho spiegato, «la cornice d’argento è un pugno nell’occhio vista la
foto, ma non sono riuscita a trovare di meglio.»
«Allora
costruirò io una cornice di melma che si addica alla
foto», ha proposto Roxanne allegramente, voltandosi di scatto verso di me.
Inorridendo
per i miei poveri mobili pregiati, le ho restituito un’occhiata truce a cui Roxanne ha risposto con una risata ancora più
fragorosa della precedente.
Non
si poteva di certo dire che non fosse di buon umore.
«Okay.
Lo so che potrà sembrare strano, ma ho voglia di pop corn»,
ha dichiarato
«Dopo
il film?»
Lei
ha semplicemente annuito.
«A
dire il vero anche io», le ho concesso di buon grado sorridendo,
«Chiamo Marissa e lei ce li porterà su appena saranno
pronti…»
«No,
no, non preoccuparti. Scendo a prenderli io», si è offerta Roxanne.
Prima
che potessi replicare, lei è uscita dalla stanza e io
sono sprofondata tra le morbide coltri del mio letto, sospirando soddisfatta.
Inutile.
Per quanto tempo possa passare, Roxanne ha sempre lo
stesso effetto curativo su di me. I pomeriggi passati in sua compagnia non sono
mai piatti. Le chiacchiere scambiate con lei mai scontate, sebbene molto poco serie.
Mi
rassicurano. Mi permettono di chiudere gli occhi e prendere un gran respiro,
senza nient’altro che turbi i miei pensieri.
Non
più noia, ma pace. Una pace serena e tranquillizzante.
Roxanne
è risalita pochi minuti dopo, portando con sé un vassoio su cui una grossa
ciotola di pop corn si reggeva a malapena in piedi, a
causa dei frequenti sbalzi della sua andatura.
«Ecco
qua», ha esordito, facendo il suo ingresso.
«Attenta!»,
l’ho ammonita, permettendole di avvicinarsi al letto e posizionare correttamente
il vassoio sul materasso. Fortunatamente nessun pop corn
è andato perduto.
Ho
allungato pigramente la mano verso la ciotola, ma
Roxanne mi ha soffiato il boccone delle mani, portandosi alla bocca il pugno
pieno, sorridendo furbamente.
Io
ho ricambiato il sorriso e ho preso con un guizzo la ciotola tutta per me,
noncurante delle sue proteste.
«Beh?»,
l’ho provocata e lei mi ha messo il broncio.
«Scusa»,
ha sbuffato.
«Non
sembri molto convinta», ho continuato, con un ghigno mellifluo.
«Scusa!»,
ha ripetuto e in quello stesso istante il mio sguardo è stato calamitato sulla
superficie d’appoggio del vassoio, dove una busta di carta giallognola recitava
“Sig.na Kate Hudson”.
«E
quella cos’è?», ho domandato, aggrottando la fronte.
Roxanne
ha sbattuto un attimo le palpebre in confusione, prima di capire di cosa stessi parlando.
«Ah.
Me l’ha data la tua domestica. Ha detto che qualcuno l’ha portata per te poco
fa.»
«Qualcuno
chi?», ho chiesto, avvicinandomi alla busta per prenderla.
«Non
lo so», ha risposto lei, scuotendo la testa e scrollando le spalle,
«Ma non credo che fosse l’ora del postino.»
La
mia sveglia digitale segnava le ore 17.18 con caratteri grandi e rossi.
In
effetti, Roxanne aveva ragione.
Più
curiosa che titubante, ho afferrato la busta e me la sono girata tra le mani.
Roxanne
ha sgranocchiato qualche altro pop corn dalla ciotola
tornata ormai in suo possesso, scrutando attenta ogni mio
movimento.
I
suoi occhi blu erano fissi su di me in un modo difficile da ignorare.
Ho
esitato per un momento, proprio perché la busta, la calligrafia e quel modo di
spedizione non mi erano affatto nuovi, propendendo di aprirla in seguito, non
appena Roxanne se ne fosse andata.
«Non
la apri?», ha domandato, incrociando le gambe sotto il suo corpo.
«Magari
dopo», ho sorriso affabilmente, alzandomi e posizionandola ordinatamente sulla
scrivania, per poi ripiombare sul letto e sgranocchiare qualche altro pop corn. Sebbene i suoi occhi tradissero il suo palese
interesse, Roxanne si è sforzata di non darlo a vedere, acquietandosi come mai
l’avevo vista fare prima.
Per
un momento si è persino incantata nel guardare un chicco di mais che non era
scoppiato ed era finito per sbaglio nella ciotola.
«Oh…adesso
che ricordo», ha iniziato, interrompendo il precedente lungo silenzio,
«Sabato sera in discoteca ho incontrato il tuo amico.»
Le
sue parole mi hanno lasciata interdetta, perciò non ho risposto nulla,
permettendole di continuare.
«Mi
ha chiesto di te, sai? Voleva sapere come stavi…»
Le
cose iniziavano a non quadrare.
«Ma
di chi stai parlando?», sono sbottata in quello che poteva essere considerato
quasi un lamento.
Lei
mi ha risposto e io mi sono immediatamente pentita di averglielo domandato.
Quel
nome pronunciato dalle sue labbra è piombato dentro di me come un machete,
abbattendo in un solo colpo tessuti organici e barriere intercellulari.
Incurante
della presenza di Roxanne, adesso sempre più insospettita dalla mia reazione,
sono scattata in piedi e sono corsa ad afferrare nuovamente la busta
giallognola che avevo messo da parte poco prima.
Roxanne
mi ha seguita con lo sguardo, stupita da quel movimento repentino.
Con
un solo gesto ho strappato ferocemente la parte superiore della busta, così
violentemente che tutto il suo contenuto è caduto ai miei piedi.
Il
resto è successo talmente velocemente da non lasciarmi nemmeno il tempo per riprendere
fiato.
La
busta era piena di foto. Tra tutte quelle che erano cadute a terra me n’è
rimasta solo una in mano.
Roxanne,
preoccupata dal mio comportamento, si è alzata dal letto e si è avvicinata a me
quasi immediatamente.
«No!»,
ho urlato io, sentendo l’ombra del pianto avvicinarsi nella mia voce, crollando
a terra in ginocchio per coprire con il mio corpo il soggetto di quelle foto.
Roxanne
si è bloccata: un piede già puntato in avanti nella mia direzione e l’altro che
la tratteneva sul posto per mio ordine.
«Kate, cosa…»
All’improvviso
non riuscivo più a sopportare la vista di quegli occhi così puliti su di me.
Erano stati la mia cura per tutto quel tempo, ma in quel momento sono tornati a
farmi lo stesso effetto di sempre. Mi mettevano a disagio e non facevano altro
che evidenziare lo sporco presente dentro di me.
«No…»,
ho sussurrato, affrettandomi per celare quelle foto dalla sua vista,
nascondendole spasmodicamente sotto le mie gambe e tra le mie braccia.
Roxanne
è tornata in un momento l’odiosa perbenista che sin dal primo momento mi aveva
dato sui nervi con il suo istinto di crocerossina totalmente altruista, pronta
a dare tutto di sé agli altri solo per ottenere la loro ammirazione. Una
bugiarda peggiore di me.
E
quella stessa bugiarda adesso mi guardava, con quei dannati occhi spalancati e le
punte dei suoi ondulati capelli mogano che scendevano scomposti sulle sue
spalle. Quella stessa bugiarda che ora si era inginocchiata davanti a me e
cercava di accarezzare il mio volto per calmarmi.
Ma
la calma era ben lontana da me. Mi sentivo tremare, mentre gli occhi si
gonfiavano inesorabilmente di lacrime di rabbia.
“No! Lei non può guardare!”
Con
un gesto brusco, ho scacciato la mano protesa di Roxanne, scostando il mio
volto come schifata da quel contatto. Roxanne quasi automaticamente si è
ritratta, fissandomi più stupita di prima.
«Kate, cosa è successo?», ha domandato, cercando di
mantenere la sua voce bassa e non aggressiva.
Ma
aggressiva o meno, io ero convinta che lei fosse il mio nemico numero uno in
quel momento.
Non
sopportavo il suo sguardo, non sopportavo il suo tocco, non sopportavo più
niente.
La
rabbia accresceva dentro di me, frenando l’istinto del pianto, ma stimolando in
compenso il mio odio.
Ripensandoci
adesso, quell’odio non era rivolto verso Roxanne, ma verso quello che lei nella
mia mente ha rappresentato in passato.
In
ogni caso, in quel momento non ho pensato da cosa potesse
emergere il mio sentimento, ma semplicemente volevo sfogarlo in qualche modo.
«Vattene»,
ho soffiato tra i denti stretti, sforzandomi di rimanere rigida per coprire
con il mio corpo tutte le foto cadute.
Roxanne
ha sbattuto le palpebre interdetta, ma non si è mossa.
«Vattene!»,
ho ripetuto alzando la voce, ben consapevole di ciò che stavo facendo.
Non
mi importava quali mezzi usare, ma dovevo mandarla via. Lei non poteva vedere.
Non doveva vedere.
Più
tardi ho realizzato che ancora una volta avevo fatto
tutto questo per lei.
La
bocca di Roxanne era pressata in una linea quanto mai rigida e le sue iridi
blu, che hanno presto evitato il mio sguardo collerico, mi sono apparse più
scure che mai.
Ha
deglutito un paio di volte, prima di alzarsi in piedi con un movimento fluido.
Avevo
visto un contegno simile solo in me stessa.
Le
avevo fatto male, ne ero perfettamente conscia, eppure il suo contegno
impassibile pochi istanti dopo mi ha lasciata totalmente esterrefatta,
portandomi a dubitare che le cose stessero veramente così.
Roxanne
è andata via, camminando senza alcuna fretta verso lo stipite e richiudendo
diligentemente la porta alle sue spalle.
E’
rimasto solo silenzio.
Dopo
qualche minuto passato inerte sul pavimento, il fantasma dei suoi occhi ancora
impresso nella mia mente, mi sono decisa ad esaminare meglio quelle foto. Ho
fatto un lungo respiro prima di raccoglierle tutte,
evitando accuratamente di esaminarle prima che fossero disposte ordinatamente.
Era
solo uno stupido espediente per ritardare la resa dei conti.
Quando
finalmente il mio compito è terminato, mi sono decisa a rialzarmi e a disporre
tutto il materiale sulla mia scrivania per averne una visione globale.
Erano
all’incirca una ventina di foto, di qualità molto bassa, certo, ma di cui
sfortunatamente era molto facile riconoscere i soggetti.
C’ero
io che ballavo tra i miei amici, io che ballavo sul cubo da sola e poi
attorniata da due ragazzi, io che tornavo tra i miei amici, io che baciavo
Reeve, io e lui nel privè…
Queste
ultime foto erano le più sgranate di tutte e filtrate con un colore verde. Ho
supposto che vista la scarsa luminosità del luogo si trattasse di infrarossi.
Un
brivido mi è sceso lungo la schiena esaminando le foto
più compromettenti.
Era
una sensazione strisciante e viscida, come l’impressione di essere
continuamente osservata e la paura di non poter avere più privacy.
Mi
sono voltata di scatto, sapendo benissimo nonostante tutto di essere solo
vittima dei miei timori. Affannata, ho guardato lo spazio vuoto davanti a me
con i sensi all’erta e gli occhi che spaziavano da qualsiasi parte.
Quella
paura mi stava lentamente consumando, talmente tanto da farmi impazzire.
Ritrovando
il controllo delle mie mani sudate e per nulla focalizzate sulla presa, ho
vagliato disordinatamente ancora una volta tutte
quelle foto.
Quella
più innocua di tutte ha attirato la mia attenzione. Si trattava di un mio primo
piano in cui sorridevo innocentemente a qualcuno accanto a me. Ricordando il
momento in cui questo era accaduto, sapevo che si trattava di Roxanne.
Al
pensiero del suo nome, ho percepito una lingua di fuoco fatta di pura lava
all’altezza del mio ventre.
Ho
stretto i denti. No. Dovevo essere fredda, pensare chiaramente, agire guidata
da una rabbia composta, ma non accecante.
Ho
ripetuto quella sorta di mantra in testa, acquietando
i furiosi battiti del mio cuore. Non potevo cedere prima di aver ottenuto le mie
risposte.
Con
calma esasperante ho girato la foto del mio primo piano e sul retro vi ho
trovato senza alcuna sorpresa – come se sapessi già cosa mi aspettava, ma
avessi semplicemente tentato di negarlo a me stessa – un suo messaggio:
Sono sempre vicino a te.
N.
Sorridendo
sardonica, senza essere affatto divertita, ho pensato che la presenza di quella
iniziale fosse totalmente inutile.
Dall’istante
in cui Roxanne mi aveva informato di averlo incontrato in discoteca avevo
intuito esattamente chi fosse il mittente di quella
busta.
«Nathan», ho pensato e sulla mia lingua ho scandito ogni
lettera con lo stesso odio e la stessa furia che mi nutriva ed era l’unica cosa
che mi aveva impedito di rannicchiarmi in un angolo e scoppiare a piangere per
la vergogna, l’imbarazzo e la paura.
Checchè
ne dicano gli altri, per me l’odio è il sentimento più forte. Citazioni
sdolcinate a parte, che individuano nell’amore la forza in grado di muovere il
mondo, io so solo che l’odio è l’unica cosa che mi ha spinta ad andare avanti
in determinati momenti.
E’
stata la cosa che mi ha forgiata e mi ha resa anche se non totalmente
invulnerabile agli attacchi del mondo, per lo meno capace di
vendicarmi dei torti subiti.
Estraendo
una forbice dalla scrivania ho iniziato a tagliuzzare quelle foto in parti
talmente piccole da rendere i soggetti irriconoscibili. Ho proseguito con
precisione clinica, fino ad ottenere un mucchietto di carta fotografica sparso
sul tavolo che ho raccolto in un kleenex che avevo
sotto mano.
Più
tardi sono scesa in cucina, pur sapendo di attirare così l’incredulità di mia
madre e mi sono offerta di buttare la spazzatura.
Marissa
mi ha impedito inizialmente di farlo. Era il suo compito e mai prima d’ora mi
era mai passato per l’anticamera del cervello di rubarglielo.
Eppure
ero determinata nella mia missione. L’ho conquistata con un sorriso al miele e
un paio di commenti premurosi che andavano ad esaltare il suo lavoro sempre
zelante, in cui almeno per una volta volevo aiutarla.
Terminata
la mia opera di convincimento, ho rassicurato mia madre ancora una volta di
stare bene e mi sono diretta verso i cassonetti più vicini nella mia area
residenziale.
Ovviamente
tenevo la busta con la spazzatura il più distante possibile da me, osando a
malapena usare l’indice e il medio per trattenere i manici con una smorfia di
schifo totale sul mio volto.
Non
appena ho abbandonato il cancello della mia proprietà, ho avvertito ancora una
volta la sensazione strisciante sulla mia schiena. Era arrivato il momento.
Era
simile all’impressione che avevo avuto quando uscendo
di casa avevo trovato sulla soglia di casa i miei effetti personali che, nella
fretta di scappare, avevo dimenticato a casa sua qualche mese fa. Doveva essere
un po’ fissato con il recapitare le sue
lettere personalmente.
Io,
d’altro canto, non mi sarei tirata indietro davanti a questa richiesta di
sfida, ma dovevo prima capire cosa avesse in mente di fare dopo avermi pedinato
e aver scattato foto private di me.
Che
lui ci fosse o meno non aveva importanza. Dovevo farlo
per me. Per dimostrare chi era il più forte tra i due. Chi reggeva il gioco.
Avevo
ottenuto questo tipo di forza immediata facendo la stronza
con Roxanne, è vero, ma il prezzo ne valeva la pena.
In
modo da essere ampliamente visibile, ho gettato nel cassonetto prima i rifiuti
casalinghi e poi prendendo in mano il kleenex
appallottolato, contenente i rimasugli delle foto, l’ho aperto, lasciando che
quelli volassero come coriandoli tra l’altra
immondizia.
La
sensazione sul mio dorso si è fatta più vibrante. Mi sono voltata di scatto,
rimanendo nuovamente sorpresa dalla mancanza di anime vive in giro. Magari si
trattava solo dell’inquietudine che, anche se continuava a pesarmi addosso,
cercavo di nascondere sotto una faccia da poker, a farmi degli scherzi. Oppure
lui da qualche parte si stava godendo la mia dichiarazione di guerra.
Conoscevo
i suoi motivi. Lui voleva che io soffrissi tanto quanto diceva di aver sofferto
in prima persona, perché l’amore – l’attrazione
- di suo padre per me aveva distrutto la sua famiglia.
Ma
io non sarei restata a guardare. Mi sarei difesa con le unghie e con i denti,
facendo pagare caro l’affronto a chiunque si sarebbe permesso di toccarmi.
Forse
io avevo sbagliato, oppure no. Non importava. Dovevo
proteggermi.
Stai calma. Era quello l’imperativo principale. Non farti annientare dalla tua stessa foga.
Così
ho sorriso, lievemente. Sono ritornata in casa con un’espressione serafica in
viso, come se niente a questo mondo fosse in grado di turbarmi.
Quella
notte non ho dormito. Sapevo di trovarmi in una situazione relativamente
pericolosa. Nathan non aveva affatto esitato a
minacciarmi con un coltello prima e a tentare di
strozzarmi alla mia festa, dopo. Per quanto potesse
sembrare assurdo rivedere tutti gli eventi in questa chiave, ciò era accaduto
per davvero.
Io
non avevo la possibilità di difendermi in alcun modo sotto questo punto di
vista.
L’unica
cosa che potevo fare era continuare a fingermi tranquilla, nonostante i miei
timori.
Oltre
ad essere una bluffatrice carismatica, non avevo altri punti a mio favore, ma
questo doveva bastarmi, almeno per il momento.
Roxanne
era un altro problema. Non volevo trattarla così in fondo, ma non potevo
permettermi di rispondere alle sue domande. Il mio era stato solo un meccanismo
di difesa.
Cosa
avrebbe pensato di me?
Non
che rifiutare così platealmente il suo aiuto avesse reso le cose più facili tra di noi.
Mi
avrebbe odiato in un caso o nell’altro, ma per lo meno questo l’avrebbe tenuta
lontana per un po’, o almeno questo è quello che credevo sarebbe successo,
prima di rincontrarla nuovamente a scuola il giorno seguente.
Lei
non è scappata via, né ha evitato il mio sguardo, anzi, mi si è piazzata
davanti prima che incontrassi le Gallinelle nei corridoi, mantenendo un fronte
determinato.
«Posso
parlarti?», mi ha chiesto seria come non mai.
Io
ho annuito altezzosamente, seguendola verso un luogo più appartato.
Tienila lontana. In questa cosa devi essere sola.
«Kate», mi ha chiamato e il suo tono si è lievemente addolcito, «Sono stata preoccupata per tutto il giorno. Puoi
spiegarmi cosa è successo esattamente? Eri
sconvolta.»
Dannata
Roxanne e la sua acuta percezione delle cose e dannata me che non ero riuscita
a camuffare immediatamente il problema.
«Non
è successo niente», ho replicato atona. Non avevo idea di che scusa inventare
come causa del mio comportamento così peculiare, perciò ho deciso di negare
qualsiasi cosa.
«Niente?!», Roxanne ha ripetuto, incredula, «Kate,
non ti ho mai vista così…tremavi…ti muovevi come in preda ad una crisi--»
«Ti
ho detto che non è successo niente», ho insistito.
“Lascia
perdere, Roxanne. Per te è meglio non sapere nulla.”
Dopo
un primo momento Roxanne, inaspettatamente, si è messa a ridere. Io l’ho
guardata come se fosse fuori di testa.
«Erano
tutte stronzate, eh?», mi ha domandato, ma la sua
sembrava essere una domanda retorica, «Tutte stronzate.»
«Quali?»,
ho domandato, incapace di seguire il suo discorso come accadeva la maggior
parte delle volte.
«La stronzata dell’essere amiche,
no? Di esserci l’una per l’altra!»
«Io non l’ho mai detto», le ho ricordato,
il più freddamente possibile.
Era
vero, d’altronde. Non stavo mentendo. Era Roxanne che continuava a ripetermi
che io ero la sua migliore amica, senza dubbio per conquistarsi la mia fiducia.
Io non le avevo mai risposto nulla.
E
adesso sì, Roxanne era ferita. Oltre ogni capacità di camuffare le sue
emozioni, il suo volto era una maschera di delusione. A causa dei suoi tratti
leggermente infantili, era molto simile a quello di un bambino a cui era stato negato un dolcetto.
«Ok», ha detto, raccattando dignitosamente la borsa che
aveva posato a terra poco prima, «Scusa se ti ho fatto
perdere tempo.»
Se
n’è andata via velocemente e io mi sono ritrovata a pensare che non poteva
essere un caso che ultimamente dovessi assistere sempre a questa scena, per poi
sentirmi sempre indiscutibilmente male dopo.
Ho
saltato il pranzo più tardi per non vederla e per non dover ascoltare le
chiacchiere delle Gallinelle che innocentemente mi pregavano di fare pace con
lei.
Sono
rimasta seduta in cortile a guardare il cielo, lasciandomi accarezzare dalla
brezza che inspiegabilmente riusciva a tranquillizzarmi come se fosse un paio di braccia spalancate pronte a dare conforto.
Percepivo
su di me gli sguardi curiosi degli altri studenti, stupiti di vedere Kate Hudson stranamente sola. Quel tipo di sguardi non mi
creavano alcun problema, né mi provocavano una sensazione strisciante sulla
schiena, semplicemente mi facevano sentire al centro dell’attenzione, pur non
facendo assolutamente niente per attirare un così grande interesse.
Sapevo
che nessuno avrebbe osato avvicinarsi, perché forse segretamente intimorito
dalla stessa ammirazione che aveva nei miei confronti, quindi sono rimasta
decisamente di stucco quando una ragazzina del primo
anno mi si è accostata timidamente.
Io
l’ho squadrata dalla panchina, senza muovermi di un millimetro. Lei si è
ritratta all’istante, facendo un passo indietro. Bene.
«Ehm…un
ragazzo all’entrata mi ha dato questa», ha balbettato lei, passandomi
all’istante una busta giallo scuro. Riconoscendo lo stile, gliel’ho sottratta
di mano in un guizzo, sentendo il mio cuore iniziare a battere all’impazzata.
Ho
subito fissato il cancello che delimitava l’entrata, ma nessuno dei presenti lì
vicino assomigliava minimamente a lui. E pensare che era stato così vicino…
«Grazie»,
ho detto il meno bruscamente possibile alla ragazzina, tentando di ricompormi,
visto che non accennava ad andarsene. Afferrata l’antifona, lei è subito tornata
dalle sue compagne, stranamente contenta.
All’improvviso
tutti quegli sguardi, mi hanno fatta sentire a disagio. Non potevo aprire la
busta all’aperto, così sono sgattaiolata in bagno. Lì avrei avuto tutta la
privacy necessaria.
Questa
volta, la busta conteneva un foglio ripiegato a metà. L’ho aperto
freneticamente.
Sono deluso.
Pensavo che dopo la busta di ieri avresti
voluto vedermi immediatamente, ma non è andata così.
Forse queste altre foto riusciranno a
convincerti.
In qualsiasi momento vuoi, sai dove
trovarmi.
Io sono sempre vicino a te.
N.
Accartocciando
il foglio in un pugno, sono andata subito alla ricerca delle nuove foto. Ed eccole lì, in fondo, dove inizialmente non le avevo viste
perché nascoste dal foglietto.
Le
nuove foto erano simili alle precedenti, ma ritraevano me e Reeve in un
atteggiamento molto più appassionato, anche se questa
volta le facce erano meno riconoscibili a causa dei baci.
Riaprendo
il foglio appallottolato sono ritornata a leggere il suo messaggio.
Pensavo che dopo la busta di ieri avresti voluto
vedermi immediatamente…
Quindi
il suo scopo era incontrarmi?
Sai dove trovarmi. Io sono sempre vicino a te.
Ancora
una volta quelle parole.
Intendeva
dire che aveva iniziato a seguirmi? E poi perché voleva incontrarmi di persona?
E
cosa aveva in mente di fare con queste foto?
Si
trattava sicuramente di una trappola per adescarmi, questo non era difficile da
comprendere, e una volta in mano sua, secondo lui avrei ricevuto la giusta
punizione per le mie presunte malefatte.
Cosa
avrei dovuto fare? La situazione sembrava complicarsi e lui non sembrava
affatto disposto a lasciare perdere. Avrei dovuto denunciarlo alla polizia? Ma
lui aveva quelle foto per ricattarmi e io non intendevo in alcun modo affidare
i miei problemi a qualcun altro.
Uscita
dalla cabina in cui mi ero rinchiusa, ho visto una figura familiare lavarsi le
mani nel lavello comune. Ho incontrato lo sguardo di Roxanne nello specchio, ma
lei si è curata di distoglierlo
immediatamente e io con la busta nascosta dentro l’uniforme sono andata via il
prima possibile.
Mi
sono subito pentita di aver condannato la calma piatta del giorno precedente,
perchè avrei lungamente preferito annoiarmi a morte, piuttosto che finire in
quel casino.
Conscia
di non poter cadere nella sua trappola, poiché non sapevo ancora cosa aveva in
mente di fare con quelle foto, ho deciso di aspettare. Probabilmente si sarebbe
fatto vivo presto, stipulando meglio i suoi motivi e le sue intenzioni, io nel
frattempo non dovevo fare altro che dimostrarmi assolutamente tranquilla.
Non
andava bene isolarsi dagli altri, perché gli avrei dato solo una maggior
possibilità di azione, ma sarei riuscita a proteggermi meglio in compagnia,
vista la sua presenza continua alle mie calcagna.
Seguendo
questo tipo di programma ho aspettato per due giorni trascorrendo tempo con
vari conoscenti e amici, cercando il più possibile di
evitare Roxanne e il senso di colpa che mi opprimeva, ma finendo
indiscutibilmente per incontrarla molto spesso e a farmi investire dal rimorso
non appena lei si trovava fuori dal mio campo visivo.
Il
terzo giorno, ovvero giovedì, è arrivata un’altra lettera che ho raccattato
personalmente dalla cassetta della posta. Tuttavia quest’ultima non era
bollata, segno che era stata quindi recapitata
personalmente come al solito.
Probabilmente il destinatario a cui scrivo è sbagliato, visto che continuo a non ricevere
risposta.
Forse dovrei provare a contattare l’ambasciator
Hudson, che ne dici?
Sono convinto che lui sarà molto curioso di
vedere come si diverte la sua figlioletta quando
smette di fare la brava bambina.
N.
Ed
ecco il ricatto. Rivedere le cose con freddezza, cercando di riportare
esattamente quali siano state le mie sensazioni sul momento, non è facile. So
solo una cosa: ho avuto paura, una dannata paura.
Non
avevo idea di cosa sapesse esattamente di mio padre,
né come potesse contattarlo così facilmente, visto che non è quasi mai a casa,
ma sapevo solo che non potevo permettere che questo accadesse.
Mio
padre non mi è stato mai particolarmente vicino nella mia vita, è vero, ma ha
sempre tenuto ad alcune cose come il mio comportamento cordiale con tutti,
oppure il non tornare troppo tardi la sera, o primeggiare a scuola, o mantenere
intatta la rispettabilità della nostra famiglia. Sono tutte cose che ho sempre
cercato di rispettare per renderlo fiero di me, per dimostrargli che laddove la
perfezione era impossibile, sua figlia era per lo meno riuscita ad arrivarci in
apparenza.
E
ora Nathan stava mettendo in pericolo anche quel
piccolo legame che mi legava a lui.
Onestamente
ho avuto paura.
Eppure
la sua volontà di minare il rispetto di mio padre nei miei confronti, mi ha
fatto capire che se lui poteva ottenere l’ausilio della mia autorità paterna
contro di me, io d’altro canto avevo il pieno diritto di servirmene
completamente.
E’
stato allora che ho realizzato che restare sola non
solo mi avrebbe danneggiata in questa guerra, ma oltretutto mi avrebbe
indebolita, logorandomi per l’ansia che, anche se nascosta nel miglior modo
possibile, era sempre in agguato.
Con
questa risoluzione ho afferrato il cellulare e sgattaiolando nello studio vuoto
di mio padre, ho cercato alcuni numeri nella sua agenda che ho prontamente
chiamato.
Mio
padre era ospite del Presidente
questa settimana e, dato il livello piuttosto alto di sicurezza già presente nel
posto, avrebbe concesso loro di sicuro un periodo di pausa.
Mi
dispiaceva disturbare le loro meritate vacanze, ma se tutto fosse andato per il
verso giusto, con il loro aiuto avrei sistemato questo problema in men che non si dica.
Al
“Pronto” piuttosto cupo proveniente dalla cornetta, ho sorriso, indubbiamente
rincuorata.
«John, sono Katie», l’ho salutato,
usando mio malgrado il soprannome con cui lui si
riferisce spessissimo a me, «Devi darmi una mano.»
Convincerli
ad aiutarmi non è stato affatto difficile, anzi, ho dovuto lottare con una fin
troppo fervente disponibilità.
«No,
no tranquillo», ho cercato di declinare le sue premure, «ho bisogno solo che mi
aiutiate ad eliminare uno scocciatore.»
«Che
tipo di scocciatore?», ha domandato John con il suo
vocione.
«Uno
scocciatore piuttosto insistente», ho replicato, non trovando altri modi di
descriverlo, «sembra abbia preso l’abitudine di pedinarmi e mandarmi lettere
minatorie.»
«Ti
ha fatto del male?», ha chiesto John, improvvisamente
adirato, «Lo dirò a tuo padre e…»
«No»,
l’ho bloccato io con autorità, «mio padre deve restarne fuori, capito? Non
voglio si preoccupi. Mi bastate solo tu, Mitchell ed Steven e stasera sistemeremo
questa cosa una volta per tutte.»
«Va
bene, ma se la situazione dovesse essere più grave di
quanto mi stai dicendo, dovrò informare l’ambasciatore per forza.»
«Non
lo sarà», ho smentito categoricamente, tentando di non andare in panico, «come
ti dicevo è solo uno scocciatore.»
Per
qualche secondo John è restato a meditare, poi ha
ceduto alle mie rassicurazioni: «Va bene. Dimmi tu dove e quando, noi ci
saremo. Dobbiamo portare gli attrezzi?»
Io
c’ho riflettuto su. «Sì, portateli, ma è giusto per precauzione. Non userete
niente del genere.»
«Lo
spero. Ehi, Katie, sicura di stare bene?»
«Sì,
perché non dovrei?», ho chiesto, fingendomi sorpresa.
«Niente.
Lo so che sei una tipa tosta, ma ogni tanto cedere è
umano.»
«E’
uno scocciatore», ho ripetuto con un’enfasi maggiore, «nulla di cui
preoccuparsi eccessivamente.»
In
realtà avevo già passato tre notti insonni.
«Ci
penseremo noi», mi ha rassicurato John che, dopo aver
ricevuto le coordinate del nostro incontro, ha riattaccato tra battute di
spirito.
Ho
sospirato, premendo il pulsante rosso sulla tastiera del telefonino.
Tutto
mi sembrava così confusionario un momento dopo aver riattaccato, che speravo sinceramente
di aver preso la decisione giusta.
Due
ore dopo, ero alla porta di Nathan.
Mi
sono persino vestita bene per l’occasione. Indossavo un abito in stile baby doll di Alice + Olivia con delle spalline sottili e il
corpetto paiettato, assieme a dei sandali alti.
Essendo
sola, la situazione appariva dall’esterno estremamente
rischiosa, ma ormai non era più possibile tornare indietro. Gli avrei
fatto credere di essere totalmente al sicuro in questo modo, mettendolo
chiaramente a suo agio il più possibile.
Ho
suonato il campanello e ho aspettato all’incirca mezzo minuto, prima che lui
venisse ad aprire con un’espressione più che sorpresa in volto. Immagino non si
sarebbe mai aspettato che gli facessi una visita direttamente a casa.
In
quelle condizioni mi è parso debole. Uno stupido, debole sciocco che mi aveva
privata del sonno e mi aveva ossessionata per poco
meno di una settimana, anche se, considerando le nostre esperienze passate,
tutta questa situazione si trascinava da parecchio tempo.
Lui
mi fissava con la bocca spalancata e io ho sorriso apertamente della sua
infinita nullità nei miei confronti.
Era
assurdo che per un momento avessi persino messo in discussione chi tra i due
deteneva il controllo.
Vedendo
che Nathan non riusciva ancora a riprendersi dalla
sua sorpresa, gli sono andata incontro.
«E’
tanto che non ci vediamo», ho commentato in un tono soffice, continuando a
sorridere.
I
suoi occhi verdi hanno avuto un guizzo e lui si è subito irrigidito.
«Non
ti aspettavi la mia visita?», ho domandato ironicamente,
«Dopo tutte le lettere che mi hai mandato, pensavo saresti stato entusiasta del
mio arrivo.»
Nathan
ha tentato di sorridere, ma non essendo un esperto nell’arte del fingere, la
sua sembrava piuttosto una smorfia esagitata: «S-sì,
certo che sono contento che tu sia venuta.»
«Bene»,
ho acconsentito, inclinando la testa verso un lato, in un modo infantile che
ispira tenerezza nell’altro.
Tutti
i fili del palcoscenico sembravano essere nelle mie mani, in
attesa che io li manovrassi, perchè se c’è una cosa che so fare bene, quella è la
burattinaia.
Ho
sorriso ancora e in realtà stavo sorridendo per davvero, colma di orgoglio in
me stessa e di vittoria, sebbene fosse ancora troppo presto per parlare di resa
dei conti.
Nathan
era esterrefatto e io potevo benissimo comprenderlo. Presumo non si sarebbe mai
aspettato di vedermi così salottiera, cordiale e disposta a conversare
piacevolmente con il mio supposto carnefice. Forse stavo giocando con il fuoco,
forse con una mera fiammella, eppure non riuscivo a reprimere il trionfo che
riempiva le mie membra.
«Non
mi fai entrare?», ho suggerito e lui, suo malgrado, ha fatto un passo indietro,
probabilmente intuendo che c’era qualcosa che non andava.
Con
una naturalezza spontanea ho sbattuto le palpebre, un tantino
delusa.
«Non
posso?», ho domandato innocentemente.
Nathan
ha tentato disperatamente di ricomporsi: «Certo. Certo. Fa pure», mi ha
invitata ad entrare, spalancando la porta.
Come
avevo previsto. Naturalmente non si sarebbe lasciato scappare l’occasione che
aveva tanto aspettato e che adesso gli veniva posta
davanti quasi su un piatto d’argento.
Mi sono avvicinata all’uscio con nonchalance, ma
prima che questo potesse richiudersi alle mie spalle, due mani pressoché
enormi si sono infilate nei cardini della porta e l’hanno spalancata.
«Ehi
amico! Hai dimenticato degli ospiti fuori!», ha esordito il primo uomo, alto e
robusto quanto un armadio, mostrando i denti candidi che
risaltavano visibilmente sulla carnagione di colore.
Ho
sorriso soddisfatta, guardando l’ingresso trionfale di John
alle mie spalle.
Accanto
a lui sono piombati Mitchell e Steven,
entrambi della stessa stazza di John, sebbene appena
più bassi, e io mi sono chiesta incredula come quel
corridoio così piccolo potesse contenerli tutti.
Nathan,
evidentemente ancora più scioccato di me, li ha fissati a corto di parole.
«Nathan, loro sono John, Steven e
Mitchell. Immagino avresti preferito
conoscere i loro nomi prima di ricevere…», ho esordito.
«Questo!»,
John ha terminato la mia frase, mirando dritto alla
faccia di Nathan con un cazzotto ben assestato. Non
sono nemmeno riuscita ad immaginare quanto potesse
essere stato doloroso quel colpo, visto che il suo naso ha iniziato a
sanguinare all’istante.
«Che
cazzo fai?!», ha urlato Nathan, cadendo automaticamente a terra.
«No,
tu che cazzo
fai? Pedinandomi, minacciandomi, scattando mie foto private…», l’ho accusato
io, abbassandomi al livello della sua figura rannicchiata a terra per il dolore,
per ringhiargli quelle parole in faccia.
«Tu
hai distrutto la vita della mia famiglia! Devi pagarla!», si è giustificato
lui, tamponando il più possibile il naso colante. Era apparentemente molto desideroso
di parlare se questo gli permetteva di evitare altri pugni.
«Non
l’hai ancora capito? Io non c’entro nulla! E’ stato tuo padre a perdere la
testa per me e a rovinarsi la vita!»
«Questo
è perché tu gli hai fatto un lavaggio del cervello!», ha insistito lui e io non
sono riuscita a trattenermi dallo scoppiare a ridere di gusto.
«E’
inutile insistere allora, mi sembri piuttosto ostinato nella tua stupidità», ho
commentato rialzandomi e lanciandogli uno sguardo disgustato dall’alto, prima
di voltargli le spalle e dire a John e agli altri cosa fare.
«Spaccate il suo computer, la sua macchina fotografica e
qualsiasi altro tipo di aggeggio che possa contenere delle foto. Io vi aspetto
fuori», ho ordinato loro, prima di avviarmi verso l’uscita.
«Sei
solo una sporca puttana che non sa nemmeno difendersi da sola!», ha urlato Nathan con una voce logicamente nasale.
Ho
trattenuto John, che stava già per avventarglisi contro, con una mano sul petto, prima di
voltarmi ancora una volta verso colui che aveva sputato tali accuse.
«Oh
davvero?», ho domandato sarcastica, incrociando le braccia sul petto e
incitandolo a continuare.
Fa' crescere la mia rabbia, su.
«Sì,
sei una sporca puttana! E anche se dovessi riuscire a distruggere tutte le
foto, rivelerò a tutti la verità personalmente! Prima
di tutti alla tua amica! Immagino che non si aspetterebbe mai di sapere che in
realtà sei fatta così.»
No, non Roxanne…
Stava
cercando di indebolirmi, ma io non potevo fargli capire che in realtà temevo le
sue parole, perciò sentendomi incapace di controllare l’espressione del mio
viso, mi sono voltata e ho fatto ancora una volta per andarmene.
«Mi
raccomando, le foto», ho ricordato ancora una volta a John
e lui ha annuito mestamente, senza commentare.
«Sono
sicuro che sarà stupita del fatto che la sua amichetta
l’aveva abbandonata alla mercé di due ubriachi per scoparsi uno sconosciuto», Nathan ha continuato dal suo angolino e io ho stretto i
pugni, incapace di andarmene davvero.
Era
la verità, eppure perché sentirla raccontata da uno sconosciuto le dava un
connotato più disgustoso della realtà?
«Ti
vuole bene», mi ha canzonata lui, «E per farlo deve essere sicuramente
all’oscuro della tua vera indole. Io le schiarirò solo un po’ le idee. E’
carina d’altronde, non mi dispiacerà nemmeno…»
Questa
è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Frugando
al di sotto della giacca di John, le mie dita sono
venute al contatto con il manico della sua Beretta e
l’ho tirata fuori dalla custodia sotto i suoi occhi
spalancati.
«Katie, che stai…», ha tentato di dire l’uomo, sconvolto.
Guardando
in basso verso Nathan, il cui naso era completamente
rosso e gonfio, ho tolto la sicura alla pistola.
«Signorina
Kate…», mi hanno chiamato tutti e tre gli uomini allarmati.
Io
ho alzato una mano per azzittirli.
Nathan
mi guardava come se avessi perso la testa.
Probabilmente
era vero. Ma non ero più sicura di vincere e avrei
fatto qualsiasi cosa per arrivare direttamente alla conquista del premio.
Oppure
era stato solo il suo nome a scatenare tutto.
No,
non lo doveva sapere. Di tutto questo schifo doveva rimanere all’oscuro. Quando
tutto questo sarebbe finito, sarei tornata e lei ovviamente mi avrebbe sorriso
e sollevato tutte le mie ansie. Non poteva conoscere la verità, altrimenti
l’effetto curativo che aveva su di me sarebbe finito. Non potevo permettermi di
perdere l’unica cosa che mi tenesse realmente in
piedi. Non potevo perdere lei.
L’adrenalina
scorreva nelle mie vene ed un brivido di eccitazione mi ha invasa.
L’euforia
del potere, della dominazione, accrescevano contemplando la paura
sconfinata negli occhi del mio nemico.
Ero
in estasi. Volevo ridere e ridere ancora, completamente soddisfatta.
Mi
sono inginocchiata nuovamente vicino a Nathan, ormai affannato come un animale in gabbia, e gli ho
puntato la pistola alla gola senza alcuna esitazione.
«Sei
pazza???», ha urlato lui, incapace di dimenarsi per il
timore che al minimo movimento io potessi sparare.
Io
ho sorriso adorabilmente.
«Se
mi uccidi marcirai tutta la tua vita in galera, sei sicura di volerlo?», ha
gridato ancora, sperando di farmi vacillare.
Ma
non ha funzionato.
«Questi
uomini, le guardie del corpo di mio padre, sono pagati per dare la vita per lui
e in una certa estensione anche per la mia. Se io dovessi premere questo
grilletto se ne assumerebbero la completa colpa e ne sarebbero profumatamente
ricompensati», ho spiegato e mi è sembrato che gli altri tre alle mie spalle
annuissero.
Nathan
ha sgranato gli occhi, iniziando a sudare visibilmente. Se la stava facendo
addosso.
«No,
no, ti prego, non…»
«Non
cosa?», l’ho spronato a continuare, lasciando che la canna della pistola nel
frattempo gli accarezzasse lentamente tutto il collo.
«N-non m-mi vedrai più d-da oggi
in poi…», ha balbettato, deglutendo di continuo mentre
il metallo dell’arma sembrava marchiargli a fuoco la pelle con un semplice
tocco.
«Pur
senza farti vedere sei riuscito a rendere la mia settimana un inferno», ho
commentato sarcasticamente, continuando a sorridergli.
«Non-non…», ha deglutito ancora lasciando che le parole
scorressero il più velocemente possibile ma con
qualche difficoltà, «t-ti prometto, che non ti contatterò m-mai più!»
«Anche
se tu dovessi smettere di contattare me, hai appena
detto di voler parlare con qualcun altro di questo, no? Fallo e ti distruggerò
con le mie stesse mani. Come vedi non ho bisogno di nascondermi dietro nessuno per risolvere i miei problemi. Non è così?»
Lui
ha annuito ferocemente.
«Allora,
prometti?»
«Sì,
cazzo! Adesso metti via quella pistola!»
«Na-ah», gli ho fatto il verso, «Non mi piace sentire
parolacce.»
«Prometto,
giuro, te lo garantisco! Non sentirai più parlare di me in nessun modo!
Lasciami andare!»
Io
ho finalmente lasciato da parte quel sorriso falso e l’ho guardato con la mia
vera espressione.
Rabbiosa,
furiosa, brutale, aggressiva, crudele eppure suadente gli ho sussurrato
nell’orecchio: «Se non mantieni questa promessa, ti distruggerò, capito? E non
sto scherzando. Lascia perdere il tuo desiderio di vendicarti contro di me, perché
se dovessi fare sul serio io con la mia vendetta, nessuno riuscirà a fermarmi.»
Lui
ha annuito ancora una volta, completamente fradicio di sudore, socchiudendo gli
occhi e rabbrividendo.
Io
mi sono allontanata lentamente e, quando la pistola ha smesso di toccare la sua
pelle, Nathan è letteralmente crollato in un respiro di
sollievo, esausto.
Ho
restituito la pistola a John, che era ancora
atterrito da tutta la scena che si era appena svolta, e gli ho ricordato:
«Distruggi il resto.»
Le
guardie del corpo hanno annuito, guardandomi con timore malcelato, e io sono
andata via nel silenzio più totale, scandito solamente dal rumore fastidioso
dei tacchi dei miei sandali sul pavimento e dal fruscio delle mie vesti. Quando
sono iniziati il fracasso e le urla di Nathan che
tentava di fermare i tre uomini nella loro impresa di demolizione, io stavo già
scendendo le scale esterne di casa sua.
Ho
preso un ampio respiro, chiudendo le palpebre, ferma sul marciapiede,
assaporando la freschezza della sera. Il mio animo sussultava ancora, il cuore
pompava nel sangue ancora adrenalina.
Era
davvero tutto finito?
Le
mie precedenti azioni hanno iniziato a pesarmi addosso in quello stesso
istante.
Ma
cosa avevo fatto?
Riaprendo
gli occhi ho riconosciuto la strada. Quella stessa strada che non molto tempo
fa mi aveva vista scappare con il timore che Nathan
continuasse a seguirmi in direzione verso la ben più familiare villetta a
schiera dal cancello rosso.
Dopo
aver percorso una breve strada ed essere arrivata davanti a quest’ultimo, tutte
le mie certezze sono crollate.
E
se non avesse voluto vedermi? Se non mi avesse perdonato? Se non avesse più
sorriso per me?
Era
sconcertante pensare che qualcuno che fino a pochi minuti
prima avesse minacciato di morte il suo peggior nemico, potesse
trasformarsi nella persona più vulnerabile del mondo davanti ad uno stupido
cancello cremisi.
Il
nome Miller campeggiava sul campanello. Ho esitato a lungo, guardandomi le
unghie dei piedi laccate di smalto bianco in coordinato con il colore dei miei
sandali.
Poi
ho suonato, mi sono presentata e il cancello si è aperto con uno scatto.
Roxanne
era sulla porta, i capelli raccolti in una coda alta, la frangia che nascondeva
le sue sopracciglia aggrottate e l’espressione poco amichevole.
Ti prego, sorridimi.
Ma
lei non sorrideva. Si ergeva nella sua modesta statura, seria come non mai,
e mi guardava camminare lentamente verso di lei, con un atteggiamento di
distacco evidente.
La
situazione volgeva verso il mio svantaggio, ne ero perfettamente conscia.
Ti prego, sorridimi o non riuscirò a sbarazzarmi di
questo peso che ho sul cuore.
«Ciao»,
ho detto, cercando di trovare un’apertura.
«Ciao»,
mi ha risposto senza scomporsi.
Non
volevo vedere un’altra mia brutta copia. Volevo vedere solo Roxanne.
Ti prego.
«Mi
dispiace per quello che è successo questi giorni», ho ammesso onestamente, «ma
c’era una faccenda che dovevo sistemare prima…»
«Cosa?»,
ha tagliato corto Roxanne, apparentemente non interessata ai miei sproloqui.
Io
ho serrato la mascella.
Lei non può saperlo.
«Niente»,
ho risposto, schivando il suo attacco, «posso entrare?»
Era
la seconda volta che cercavo di introdurmi da sola in casa di qualcun altro.
Stavolta dovevo farlo perché era l’unico modo per non essere interrotta prima
ancora di arrivare alla fine del mio discorso. Ero sicura di riuscire a
convincere Roxanne con poche parole giuste, ma dovevo pur avere il tempo per
pronunciarle.
«No»,
mi ha negato categorica lei, «Non ti ho chiesto di
entrare. Ti ho solo chiesto di spiegarmi cosa sia successo.»
«Mi
dispiace, ma…», ho tentato di continuare.
Ero
arrivata a puntare una pistola alla gola a Nathan
solo perché lei non venisse a sapere nulla e adesso si aspettava che io le
confessassi tutto spontaneamente?
Poi
ancora le sue parole: “Sono sicuro che sarà stupita
del fatto che la sua amichetta l’aveva abbandonata alla mercé di due ubriachi
per scoparsi uno sconosciuto. Ti vuole bene e per farlo deve essere sicuramente
all'oscuro della tua vera indole…”
Lei non deve saperlo.
«Mi
dispiace», ho ripetuto affranta. Lei non ha battuto ciglio.
«Cosa
è successo? La mia domanda è questa. Non voglio che tu cambi discorso con un
“mi dispiace”», ha replicato Roxanne.
Io
l’ho guardata senza dire nulla e lei ha sospirato, scuotendo la testa.
«E’
inutile. Allora era vero. Erano solo cazzate», ha
mormorato tra sé e sé, prima di tentare di richiudere la porta.
«Aspetta!»,
ho gridato allarmata, costringendola a bloccarsi.
«Cosa
devo aspettare ancora? Non rispondi a nessuna delle mie domande. Non ti apri.
Non mi parli di quello che ti turba. Questo è quello che si fa con un’amica e
io per te evidentemente non lo sono», ha dedotto Roxanne e nelle sue parole
c’era una verità che mi ha colpita.
«Aspetta…»,
ho continuato. Mi sono avvicinata a lei e ho bloccato la porta con la mano
destra in modo che non potesse richiuderla.
La
mia mano sinistra poi ha afferrato la sua.
Roxanne
ne è rimasta scossa e, sebbene restasse passiva al contatto, non si è scostata.
Ho
guidato la sua mano sulla mia guancia, continuando a coprirla con la mia.
I
suoi grandi occhi blu erano spalancati, cercando di ricollegare la situazione.
La
sua mano, quella stessa mano tesa verso di me che avevo cacciato, adesso era
ritornata dove avrebbe dovuto essere.
«Mi
dispiace», ho detto un’altra volta, sperando che alle sue orecchie la mia voce
non suonasse così spezzata come sembrava a me.
La
mia mano si è sollevata dalla sua che, invece, continuava ancora a sostare
sulla mia guancia.
Rischia
tutto. O la va o la spacca.
Ti prego, fa che funzioni. Fa che lei riesca a
farmi sentire meglio.
Continuavo
a ripetere quelle parole nella mia mente, come un disco rotto. Roxanne era
l’ultimo appiglio che avevo.
Le
mie membra avevano ormai iniziato a tremare.
Non ce la faccio più.
Il
fuoco implacabile negli occhi di Roxanne si è affievolito e le sue labbra hanno
vibrato simpateticamente quando le mie prime lacrime
sono iniziate a sgorgare.
Allora
la sua mano è scesa dalla mia guancia verso la mia nuca,
attirandomi verso di sé in una stretta che io ho ricambiato goffamente.
Ti prego, fa che funzioni. Fa che funzioni.
Lo
avvertivo nella sua stretta rigida. Lo sentivo nella sua voce stranamente atona
che tentava di calmarmi. Lo percepivo nella distanza che era rimasta tra i
nostri corpi durante l’abbraccio. Lo vedevo nello sguardo assente che evitava
accuratamente di guardarmi negli occhi.
Avevo
costretto Roxanne a consolarmi,
spingendola a commuoversi per le mie lacrime fasulle. L’avevo convinta
sfruttando la sua incapacità di lasciare qualcun altro da solo.
Fa che funzioni.
Ma
quel nodo alla gola non se ne andava.
E’
stato allora che ho capito che si trattava del prezzo delle mie bugie da cui
Roxanne non avrebbe mai potuto sollevarmi, perché ne era vittima allo stesso
modo.
«Mi
dispiace», ho ripetuto.
«Va
bene. Andrà tutto bene.»
Non
le ho creduto; stava mentendo.