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Autore: Laix    22/05/2018    4 recensioni
Shiho non ricorda quasi nulla dei momenti passati con la sua famiglia.
Non ricorda che suo padre era un uomo freddo e silenzioso, ma così legato a lei da non parlare più per giorni quando la sapeva sequestrata dall'Organizzazione. Non ricorda che sua sorella Akemi, malgrado le prese in giro e le dimostrazioni di superiorità, piangeva disperata nel suo letto quando non la vedeva a fianco a lei in cameretta. E non ricorda che sua madre si era guadagnata il suo diabolico soprannome perché, quando ciò che più amava veniva minacciato, sapeva commettere atti orribili.
Non ricorda quasi niente. Ma c'è stato. E Rei Furuya, che ha ritrovato qualcosa che può riportare tutto questo alla memoria, è pronto a starle accanto in questa tremenda, difficilissima scoperta.
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Come sono scomparsi i coniugi Miyano? Quali erano le loro personalità e come si relazionavano con le figlie? In quali vicende l'Organizzazione ha coinvolto tutti loro nella sua spirale nera?
Della famiglia Miyano non si sa molto, perciò questa FF verrà trattata come una storia quasi del tutto inventata.
[Pairing: ElenaAtsushi, ShihoRei]
Genere: Drammatico, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Akemi Miyano, Elena Miyano, Tooru Amuro, Vermouth
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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5. So much hate for the ones we love






«Grandi progressi in arrivo, ho sentito. Com'è che lo volevi chiamare? Silver Bullet?» le chiese Vermouth riferendosi al nuovo farmaco in sperimentazione, stranamente senza il suo tipico tono un po' languido da cui non si riusciva a capire se fosse realmente interessata o meno agli argomenti.
«Sì, penso lo chiameremo così.» rispose Elena a bassa voce, tenendo l'occhio al microscopio. «Ma non direi che si sono fatti progressi. E' un lavoro lungo e il primo vero progresso, se avverrà, non si vedrà prima dei tre mesi.»
«Awesome.» mormorò lei, e sembrava davvero colpita. Forse. Non si capiva mai.
«Lo pensi sul serio, Vermouth? O mi stai solo prendendo in giro come tutte le volte?»
«Un misto delle due. Lo penso davvero, ma non perdo nemmeno l'occasione di denigrarti un po'.»
«Sempre gentile.» sbuffò Elena, staccandosi dal microscopio al solo scopo di rivolgerle un'occhiata scocciata e sarcastica. Vermouth rise, ricambiando.
«Bisogna pur intrattenersi qua dentro. E dimmi, i suoi effetti saranno davvero... quelli richiesti in principio? Quelli che si suppone che siano?»
«Se tutto va bene.» confermò di malavoglia Elena, tornando con l'occhio al microscopio.
«Beh, ti vedo tranquilla. Nonostante sia qualcosa di davvero, davvero grosso. E pericoloso.»
«Preferisco definirlo innovativo.»
Vermouth rise di nuovo, stavolta più esposta ed esilarata.
«Come nascondi bene le verità dei fatti, darling.»
«Questo progetto non l'ho inventato io. Mi è stato richiesto, e malauguratamente il caso vuole che io abbia le competenze per svilupparlo.»
«Ci hai messo un po' del tuo, però. Ammettilo. Come un artista lascia la sua impronta e la sua firma su un dipinto, sebbene si tratti di una copia o di una riproduzione, credo che uno scienziato faccia lo stesso coi suoi esperimenti.»
«Beh, credi male. La scienza è molto più schematica e rigida dell'arte.»
«Oh, io non penso.»
«Si vedrà. Sta di fatto che, per quanto la tua compagnia sia di tanto in tanto piacevole, se mi continui a distrarre potrei davvero combinare qualche casino.»
«Ho anche sentito voci su tua figlia, quella minore. Grandi voci e grandi news.»
Elena tacque, ma smise anche di respirare e di muoversi. Il silenzio più assoluto e l'immobilità più ferrea la avvolsero, e Vermouth inclinò la testa di lato per scrutarla.
«Le voci girano, eh.» sussurrò Elena, rimanendo a testa bassa.
«Più veloci di quanto vorremmo. Cosa intendi fare con lei, per questa faccenda? Farle frequentare il posto o nasconderla tipo in un bunker?» continuò la bionda con un tono privo di sarcasmo che in realtà rasentava l'amichevole, forse perché concepiva la gravità del problema di Elena e dei Miyano.
«Se tu avessi una figlia piccola, Vermouth» ribatté Elena a voce più alta, staccandosi dal microscopio ma mantenendo lo sguardo basso, «e l'Organizzazione capisse che lei ha il tuo potenziale, sta ereditando le tue stesse facoltà che qui dentro servono, volesse tirartela via di forza, dal tuo grembo, per poterla testare e farle un po' di sana paura mentre tu non puoi aiutarla, cosa faresti?» Elena alzò gli occhi scuri su di lei, seria. «Le faresti frequentare il posto o la nasconderesti tipo in un bunker?»
Vermouth le restituì uno sguardo così trasparente e privo di qualsiasi ironia da stentare a riconoscerla. «La prenderei e la porterei via lontano, con me. In un altro Paese, in un'altra realtà.»
«Verresti perseguitata e uccisa, e tua figlia con te.»
«Farei di tutto perché ciò non accada. E infine le impartirei la lezione più importante: tenersi il più lontano possibile da tutte le cose che vede fare da sua madre.»
Elena sospirò e annuì, tornando a fissare il pavimento. Il suo viso doveva essere pieno di ombre. Constatò però che Vermouth, nella sua insensibilità di base corredata da dichiarata crudeltà, sapeva essere coscienziosa.
«Ti dirò una cosa. Se completo il Silver Bullet, ho già qualcuno in lista a cui somministrarlo, qui dentro. Magari con una variante un po' tossica.»
Vermouth ridacchiò. «Ed io ti appoggerei, cara. Lo sai perché gli altri hanno ragione quando ti soprannominano Hell Angel?»
«No. Non ne ho idea.»
Vermouth si avvicinò a lei riacquistando le sue belle saette negli occhi azzurri. «Perché vista da fuori sei così buona e disponibile. Ma dentro, appena qualcosa imbocca il binario sbagliato e viaggia storto, diventi veramente terribile.»

***

Per la quarta volta, il liquido ambrato scese giù lungo la sua gola. Denso, aromatico, forte. Pesante. Ampie sorsate che le distesero i nervi, le rilassarono le spalle e le mandarono la testa in un giramento simile al vortice. La bocca pastosa, il sapore ancora presente sulla lingua e l'esofago che bruciava un po', ma sopportabile. Piacevole. Le gambe erano molli e perciò si risedette subito appoggiandosi con le braccia al tavolo della cucina, tenendo il quarto bicchiere di whisky invecchiato nella mano destra e riportandolo alle labbra.
Elena sorrise, un sorriso beota e poco consapevole.
«Quindi secondo te quand'è che potrò tornare a giocare con Shiho?»
Il sorriso le si spense.
La vocina di Akemi poneva curiosa quella domanda da alcuni giorni, da quando la piccola Shiho era tornata a casa in seguito a quel processo di test, o torture, ancora sconosciute a cui era stata sottoposta all'interno dell'Organizzazione. Nonostante vedesse che la risposta non arrivava mai, non nel modo che desiderava lei, Akemi continuava e continuava fino allo sfinimento. Elena chiuse gli occhi, inspirò profondamente e con altrettanta enfasi espirò, scrollandosi di dosso il piglio nervoso che la figlioletta le stava facendo venire. Ancora un piccolo sorso di whisky.
Era molto difficile sopportare il pensiero della piccola ramata che da giorni non parlava. Chiusa in se stessa dormiva di continuo, rannicchiata nel suo lettino ed esigendo il buio nella sua stanzetta, mangiava poco e di giocare con Akemi non se ne parlava. I motivi erano chiari. Forse poco alla sorellina, ma molto, moltissimo alla madre. Akemi glielo ricordava di continuo chiedendole cose a cui non sapeva minimamente rispondere, e in questo modo si sentiva davvero e del tutto fallita.
«Tra qualche giorno, Akemi-chan.» rispose con voce roca e leggermente lontana.
«Dici sempre così!»
«Perché è la verità.»
Silenzio tombale, il che era piuttosto raro da parte della primogenita. Udivano la pioggia fuori che scendeva fitta e colpiva il tetto, in un'acquazzone autunnale che sarebbe durato ancora ore. Elena immaginò la sua piccola al piano di sopra da sola, che come lei, come loro, udiva i ticchettii dell'acqua incessante sul tetto. Le vennero le lacrime agli occhi, voleva andare a farle compagnia ma non riusciva a salire le scale.
«Come fa ad essere la verità ogni giorno? Come faccio a sapere che, non lo so, per i prossimi cinque anni non continuerete a dirmi “fra qualche giorno”?»
«Akemi.» Elena si voltò verso di lei, abbassando la testa per guardarla negli occhi. La stanza girava, Akemi si sdoppiò per un brevissimo istante. «Non lo so. E sto lavorando. Devo finire tutto. Se non vuoi che l'uomo nero che detesti così tanto venga da noi altre volte perché non ho il lavoro completo da dargli, allora continua pure a disturbarmi.»
«Proprio non te ne frega niente, di Shiho?»
La donna si trovò nuovamente ad inspirare, trattenendo stavolta l'aria per molto più tempo. Con gesto nervoso mandò giù velocemente un altro sorso. Quella piccoletta lo stava facendo apposta. Akemi voleva delle risposte e, per ottenerle, sarebbe ricorsa a qualsiasi metodo: anche quello di far sentire sua madre come una merda umana priva di rispetto per la famiglia.
«Akemi.» ripeté lei, sibilando. Si alzò in piedi dalla sedia ma, una volta eretta, il ginocchio destro le cedette e per poco non crollò a terra: si tenne salda al tavolo poggiando sul gomito, emettendo una risata a tratti bassa e a tratti acuta. E dentro di sé, finalmente, lo pensò: era sbronza marcia.
La piccola si irrigidì: non era mai un bel segno quando la madre si ripeteva, anche solo con un nome, togliendo addirittura il suffisso “-chan”. E meno ancora se barcollava. Ma decise di non demordere, sostenne dunque lo sguardo tetro e duro della donna, sebbene poco lucido, tirando bene in fuori il petto. Per la sorellina questo ed altro.
La pioggia fuori non diminuiva la sua intensità, sentirono anche l'eco di un tuono in lontananza; quei rumori furono trafitti dalla voce bassa di Elena.
«Sparisci e fila in camera tua.»
«Ma tu...»
«Subito
Akemi fu percorsa da un brivido oscuro. Faceva davvero paura quel tono, era quello della sua rabbia più recondita e nessuno di loro amava tirarglielo fuori. Ma la piccola, dopo aver deglutito, proseguì più squillante di prima.
«Pensi solo a lavorare. Lei è solo una bambina e chissà dove l'hanno ficcata. E tu pensi solo a lavorare!»
«Ma per cosa pensi che io lavori, eh?! Per CHI pensi che lo faccia? Per divertirmi?!» Elena alzò la voce e picchiò il bicchiere sul tavolo, facendone schizzare fuori il liquido. «Lo faccio per VOI, maledizione! Per garantirvi un futuro migliore!»
«Un futuro come il tuo e quello di papà?! No, grazie!» sbraitò Akemi, facendosi male, malissimo alla gola.
Elena tentennò udendo quelle parole, ma non si fece abbattere. «Akemi, non ti azzardare! Io voglio solo che voi...»
«Non lo so perché lo fai e non mi interessa! A me va bene se l'uomo nero torna, fa lo stesso, ma facciamo ritornare Shiho-chan come prima!» saltò sul posto e scalciò, facendo più rumore che le riusciva con le scarpe sul pavimento. Nelle orecchie di Elena, quei rumori stavano rimbombando e la frastornavano. «E neanche papà mi risponde! Lui nemmeno mi guarda quando glielo chiedo! SIETE DEI CODARDI!»
Elena si morse le labbra, controllando anche le mani e i movimenti nevrotici delle dita: le tremavano, voleva darle uno schiaffo e farla smettere. Velocemente mandò giù un altro sorso e prese a fissare il bicchiere mentre Akemi proseguiva nel produrre rumori forti, adesso si era addossata alla parete battendo pugni e calci sul muro e urlando parole insensate, che erano più che altro versi. Elena si afferrò la mano destra con la sinistra, entrambe tremanti, tenendole ferme.
Una voce da fuori la cucina, autoritaria e roca, arrivò a salvare la situazione interrompendola bruscamente.
«Ehi, ehi! Ma siamo impazziti?! Ma che succede qua?»
Una donna dai corti capelli biondo chiaro e dall'atteggiamento mascolino piombò in cucina, gettando un'occhiata rapidissima ad una Elena mezza sdraiata sul tavolo, stremata, e ad una Akemi scalciante e isterica lasciata del tutto a se stessa. Volò dalla bambina e con forza, ma cercando di non farle male, le tenne ferme le braccia e la tirò a sé.
«Akemi, ma sei andata fuori di testa?! Ehi! Smettila, basta!»
La piccola era sempre un po' in soggezione, di fronte alla severità proverbiale della zia: avrebbe voluto scalciare ancora un po', senza dubbio, ma ritenne molto più saggio smettere specie nel momento in cui incrociò i suoi occhi smeraldo incattiviti. Con quelle occhiaie così paurose. La vedeva pochissimo, al massimo una volta all'anno, e in quelle occasioni aveva sempre il terrore.
«Allora? Abbiamo finito, piccina? O devo passare alle maniere forti?»
«Mary... lascia perdere, Akemi era solo un po' arrabbiata e...»
«Tu zitta e muta, Elena. Perché dopo di lei viene il tuo turno. E per fortuna, conciata come sei, non puoi scapparmi.»
Elena ridacchiò, roca e sconnessa.
La sorella era venuta quel giorno per aiutarla sia in casa sia psicologicamente: Atsushi era via da giorni per un progetto, e per Elena iniziava ad essere pesante il rimanere a casa per ore assieme a una figlia aggressiva e ad un'altra in post-trauma, con tutte le attività arretrate che c'erano da compiere a partire dai semplici mestieri. Contro le sue aspettative Mary aveva accettato, raggiungendola in poco tempo.
«Allora, Akemi, che ne dici di andare di sopra a fare compagnia a tua sorella? Qui adesso ci stanno le ragazze grandi. Su su» Mary le diede due colpetti sulla schiena, incoraggiandola.
«Io... io non voglio essere comandata!» provò Akemi, senza riuscire a guardare negli occhi la zia ma sfruttando l'impeto di coraggio che ancora non le si era esaurito.
«Oh, mi fa piacere. E' sempre bello sentire una donna parlare così, brava!» falso sorriso da parte della zia.
«Q...quindi posso rimanere, zia?»
«Ovviamente no. Perché neanche a me piace essere comandata. Tanto meno da una mocciosa.»
«Mary...!» provò Elena, ma la sorella la zittì e tornò a guardare in volto Akemi, che era sconvolta dalla risposta.
Mary afferrò il braccio della bambina senza tanti giri di parole e la trascinò fino alle scale. Akemi cercò di resistere, di liberarsi dalla morsa, gemendo forte (molto più del necessario, era chiaro) e battendo i piedi.
«Sei cattiva anche tu, zia! Come la mamma!»
«Sì, sì...» Mary non la degnò di uno sguardo, trascinandola.
«E tu glielo permetti, mamma?!» Akemi rivolse lo sguardo furente ad Elena che, in un attimo di lucidità, la guardò di rimando. Le faceva così male vedere tutta quella rabbia negli occhi della piccola.
«Lo so, hai ragione Akemi-chan e...» la sua voce uscì debole, sommessa.
«Voglio una vita normale! E anche Shiho so che lo vuole!»
«S-sì, io...»
«Vorrei che non fossimo mai nate da voi!»
A quel punto la piccola scoppiò in lacrime, divincolandosi dalla presa della zia e fuggendo via da quella stanza. Mary rimase un paio di secondi ferma a guardarla, forse sul punto di inseguirla e darle una botta in testa per punirla: anche dal moccioso arrogante che era suo figlio maggiore uscivano frasi poco simpatiche, anche se non di questa portata, e non l'aveva certo mai passata così liscia.
Elena sentì in bocca il sapore del sangue, tanto forte si era morsa il labbro. Si portò una mano al viso per nasconderselo, gli occhi le bruciavano, le spalle tremavano mentre udiva la figlia disperarsi in quel modo. Era poco lucida ma l'aveva visto tutto, nei suoi piccoli occhi, il segno di una rabbia, di un affetto, di un amore troppo grande che vedeva minacciato e poco salvaguardato.
«Lascia perdere. Per come la vedo io è una bambina ingrata che guarda solo ai tuoi errori, oltre che estremamente egocentrica» sbuffò Mary tornando verso di lei e posandole una mano sulla spalla per aiutarla a raddrizzarsi sulla sedia. «Puzzi di alcool, bella mia.»
«...grazie, lo so» rispose Elena, gli occhi lucidi sia per l'ebbrezza che per il dispiacere. «Mi aiuti ad alzarmi?»
Mary la aiutò, sorreggendola mentre la conduceva verso il divano in salotto. Una volta sprofondata sopra, Elena abbracciò un cuscino per affondarci il viso dentro.
«Sarà meglio che ti faccio un caffè, non ti vedevo così ubriaca da quando il tuo primo ragazzo ti ha sganciato il due di picche colossale. O era il secondo? Boh, comunque lo fecero tutti e due.»
«Smettila... che stronza...» la sua voce ovattata dal cuscino fece ridacchiare Mary, che andò a preparare il caffè per due.
Intanto Elena ripensò alle parole di sua figlia. Sentiva ancora rimbombare nella mente il suono delle scarpine che colpivano il terreno, tap tap tap, poi arrivava subito il silenzio. Nel silenzio era di nuovo sola, nel silenzio Akemi era sparita di sopra e adesso tutto era immobile, senza respiro, senza movimento, senza luce. Solo la pioggia fitta, in picchiata sulla casa, le testimoniava lo scorrere delle cose.
Hai ragione su tutto. E sai, per quanto io vi ami, quando vedo il dolore che dovete sopportare, a volte io stessa avrei desiderato non darvi vita in questa casa.

Mary arrivò dieci minuti dopo con due tazze di caffè, trovandola stravaccata lungo il divano e con lo sguardo perso nel vuoto.
«Mh. Fantastico.»
Iniziò a bere il suo, lasciando l'altro sul tavolino da salotto. La sala era immersa nella penombra della sera, un paio di abat-jour accese ai lati del divano.
«Se questa situazione ti attanaglia, Elena... devi darci un taglio.» mormorò Mary, guardando il pavimento ma in direzione della sorella.
«Non sai con che gente abbiamo a che fare. Gente con cui dare “tagli” non è possibile...»
«Trova comunque il modo.»
«Mary...»
«Altrimenti resta come sei ma non lamentarti.»
Elena sospirò, la testa le girava di meno ma il torpore era ancora molto presente. Capì che la sorella aveva ragione.
«Io e Atsushi, anni fa... abbiamo sbagliato nelle nostre scelte...» biascicò.
«Ok. Vi hanno fregato e l'avete constatato, è un passo avanti. Ora che lo sapete, che lo sai, è importante rimanere lucidi e trovare delle soluzioni» la guardò di sottecchi.
«E come dobbiamo fare...?»
«Non certo ubriacandoti da sola quando puoi essere scoperta.»
«Pensavo che Akemi fosse già a letto...»
«Figurati! 90 su 100 quella peste è qui nei dintorni che ci spia. Sembra mio figlio maggiore, un rompipalle uguale, meno male che non li abbiamo mai fatti incontrare... andrebbero troppo d'accordo e questo è inquietante»
«Smettila di parlare così di mia figlia. Se vuoi maltrattare il tuo accomodati, anche se sai che non approvo per niente, ma la mia non la tocchi...» si portò una mano alla tempia, per una fitta.
«Va beh, comunque hai capito. Tu e Atsushi dovete rimediare al più presto alle vostre cazzate, il sunto è questo»
«Sei brava a riassumere»
«O ci vanno di mezzo le piccole.»
«Ecco, sempre più brava...»
Il tono di Mary era duro, nonostante le parole affabili.
«E non affogare i tuoi dispiaceri nell'alcool. Devi rimanere lucida per aiutare Shiho, farle sentire la tua presenza come madre, o davvero non si riprende più. Non so cosa le sia accaduto ma...»
«Non lo so neanche io, Mary...!» esalò Elena, iniziando a singhiozzare sommessa. Si coprì il viso con il cuscino. «Non sono nemmeno riuscita a impedire che me la portassero via! Ho solo aspettato che... finissero di torturarla...»
Mary abbassò lo sguardo, udendo i lievi sussulti della sorella accanto a lei. Contro le sue usuali abitudini, alzò un braccio e le posò una mano sulla schiena.
«E poi Atsushi l'ha riportata, io l'ho abbracciata e... e cos'altro ho fatto? Dormo con lei, le racconto qualche storia e poi? Cosa sto facendo per farla uscire dalla sua apatia e per aiutarla?»
«E che cos'altro potresti fare? Va bene così. Stalle vicino. Quando sarà pronta, col vostro aiuto, uscirà da sola dal guscio.»
Elena placò i singhiozzi e provò a rilassarsi un po', al suono delle parole di Mary. Si sentiva ancora stordita, aveva sonno. Avrebbe voluto drizzarsi a sedere per abbracciarla, perché sapeva quanto quell'atteggiamento non fosse nelle corde di Mary – ma non lo fece per due motivi: la stanchezza, e la barriera emotiva che da anni persisteva in modo del tutto naturale tra lei e la sorella. Erano sempre andate abbastanza d'accordo, ma entrambe si erano premurate di mantenere una distanza corporea necessaria a tenere il loro rapporto in equilibrio. Fosse stato troppo, o troppo poco, prima o poi qualcosa avrebbe ceduto per via dei caratteri così diversi. Così, su quella linea d'equilibrio poco affettuosa ma sicura, andava più che bene.
Elena pensò alla scatolina di Atsushi, che ancora non aveva trovato, prima di addormentarsi profondamente e lasciando che il suo caffè gelasse. Non sentì la coperta di pile che Mary le mise sul corpo poco dopo, e non la sentì nemmeno salire le scale per andare a far compagnia alla nipotina Shiho, visto che quella sera la sua mamma era un po' stanca. Perché, a differenza di Akemi, tra zia Mary e Shiho scorreva un singolare feeling.

***

«Che poi, che cazzo di soprannome del cazzo è mai?»
«Atsushi, modera i toni. Che Akemi ha già mostrato una buona inclinazione a questo linguaggio che stai passando...»
«Ho capito, ma Elena! “Hell Angel”? Io ignoravo ti chiamassero così, ma che problemi hanno? Perché devono sempre soprannominare la gente? Che poi io lo so, è quella deviata di Vermouth che foggia tutte 'ste trovate...»
«Risposta esatta» ridacchiò Elena.
La mano di Atsushi scivolò sulla sua. La accarezzò.
«E' stata gentile Mary a tenere le bambine mentre noi siamo fuori» ammiccò lui mentre sorseggiava del vino rosso, lanciandole un'occhiata complice. La tavola del ristorante a cui erano seduti era armoniosamente imbandita.
«Sì, dovrò farle un regalo un giorno di questi.»
«Devi farne uno anche a me rimasto in sospeso, ti ricordi?»
«Fammi indovinare... la scatolina?»
Atsushi sorrise, sarcastico.
«Quando avrò tempo la cercherò...»
«Sei davvero terribile...» le strinse la mano più forte, continuando a carezzarne la superficie con il pollice. «...ed è una peculiarità che mi piace di te. Mi è sempre piaciuta.»
«L'essere terribile?»
«Sì. Un po' crudele.» si portò la sua mano alle labbra, baciandola dolcemente e poi aprendo la bocca, facendo guizzare la lingua su un paio di dita. Elena fu scossa da un brivido.
«Atsushi, ti prego... siamo in luogo pubblico» rise lei a bassa voce.
«Non sto facendo nulla di che...» sussurrò, leccando altre due dita senza farsi notare da nessuno, in modo sempre più lento e sensuale. Lei avvertì un piacevole dolore al bassoventre.
«Come sta andando... il progetto a cui ti sei dedicato nell'ultima settimana? Sei stato via un bel po'...» provò lei a cambiare discorso.
«Non lo so, penso bene. Ho voglia di fare l'amore con te.»
Lei abbassò lo sguardo e sorrise appena.
Attorno a lei avvertiva i dolci aromi che invadevano quel luogo, le luci soffuse e le fiammelle delle candele accese su ogni tavolo, le calde decorazioni appese alle pareti in pietra e le porte a vetri che davano sul giardino del ristorante, a sua volta costellato da lanterne cinesi appese ai rami di ogni albero. Immersa nel buio della sera si originava un'atmosfera armoniosa, alchemica, che aumentava il suo fascino grazie alla presenza di quell'uomo di fronte a sé, per quel che la riguardava. Fosse stata in compagnia di chiunque altro, era probabile non avrebbe neanche notato tutti quei dettagli – o non li avrebbe visti con gli stessi occhi.
«E' importante che sia andato bene... così non te ne vai più. Almeno per un po'.»
«Sai perché ho dovuto farlo. Una sorta di punizione. Tenermi lontano dalla mia famiglia per giorni per aver interrotto i test su nostra figlia»
«Ne è valsa la pena, però.»
«Assolutamente.» e lui riprese quel rito sulla sua mano, instancabile, ponderando ogni movimento. Nonostante le occhiate di rimprovero occasionali, Elena non ritrasse mai la mano.
Dall'arrivo del cameriere e delle pietanze, poi, la serata proseguì in modo fluido, ma la magia innescata non si spezzò.
Fino a che lui non avanzò domande.
«Hai qualche problema grave in questo periodo?»
Elena alzò la testa su di lui, perplessa, un pezzo di pane che le usciva dall'angolo della bocca. «In che senso? A che ti riferisci?»
«Intuito. Per via di due cose che hanno attirato la mia attenzione»
«Cioè?»
«La prima: la bottiglia di whiskey che ci ha regalato Pattinson dalla Scozia è finita, l'ho trovata vuota nella spazzatura. Seconda: Mary che evade prontamente il mio sguardo quando mi vede scoprire la bottiglia, e quando capisce che voglio chiederle qualcosa.»
Elena masticò lentamente, senza lasciargli lo sguardo ma saettando gli occhi sulla piccola fiamma della candela.
«Ti copre bene, tua sorella. Ringraziala anche per questo.»
«Atsushi...»
«Vorrei solo che me ne parlassi.»
«E' stato solo un momentaccio, come ce ne sono stati tanti. E come probabilmente ce ne saranno»
«Ce ne saranno ancora, tesoro, eccome, ma anche per quelli vorrei che me ne parlassi. Perché da sola non puoi reggere tutto, devi condividere, devi farlo»
«Io non devo fare proprio un bel niente.»
«Insomma, hai capito. Io mi preoccupo»
«Beh, fai male!»
«Non ti incazzare adesso. Non renderti insopportabile.»
«Smettila di dirmi cosa posso o non posso, cosa devo o non devo»
«Se ti sbronzi fino a crepare io, che sono tuo marito, devo pur sapere che cosa ti ronza nella testa, o no?»
«Sono crepata? Ti sembro crepata?»
Lei alzò la voce di qualche nota, anche se in realtà la stavano alzando impercettibilmente già da un po', attirando sguardi dai tavoli attorno. Stavano degenerando e ne erano consapevoli, ma ormai erano dentro.
«Oh, per adesso no, Elena, ma tu prova soltanto a tirarla ancora un po' questa corda.»
«Sono una donna adulta e so gestirmi»
«Ti sei concessa a queste crisi anche per altri fatti, figuriamoci adesso che nostra figlia è in stato di apatia. Ma se non reagisci tu, se non stai in piedi tu, non puoi pretendere che lo faccia Shiho da sola!»
«Ti sei messo d'accordo con Mary, su questo copione?»
«No, ma si vede che abbiamo entrambi buonsenso?»
«E tu che mi dici di Shiho, eh? O di Akemi, che sembra uscita di senno? Sei stato via una settimana, una fottuta settimana in cui lei non ti ha visto e in cui mi sono occupata di tutto da sola facendo anche le tue parti, quindi che cazzo vuoi da me?» afferrò rabbiosamente il calice di vino e ne vuotò metà. Atsushi rimase a fissarla a labbra strette.
«Finiscila, Elena. Sono stato via perché in alternativa mi avrebbero forato la tempia con una pallottola e lo sai benissimo.»
«E allora non venire a giudicare me e il mio modo di gestire da sola la situazione incresciosa che si è creata!»
«Non è ciò che ho fatto. Se preoccuparmi per mia moglie per te significa questo, vedi di cambiare la visione delle cose»
«E tu vedi di non darmi ordini»
«Vedi di starmi a sentire una volta, una sola volta nella tua vita! Credo tu abbia un problema serio, Elena, è tanto difficile da ammettere?!»
«L'unico problema che ho adesso, Atsushi, è quello di mandarti affanculo.»
Lui sospirò, e proprio come lei bevve con foga dal suo calice di vino. Elena non era un'amante del linguaggio scurrile – glielo aveva recriminato proprio all'inizio di quella serata – e il fatto che adesso ne facesse largo uso era sintomatico del suo stato d'animo facilmente alterabile. Litigare con lei non gli piaceva, non gli sarebbe mai piaciuto, non ci trovava nulla di eccitante e gli lasciava puntualmente un sapore amaro in bocca. Anche perché i motivi dei loro litigi erano sempre questi, sempre di una certa pesantezza, e avrebbe volentieri fatto a cambio con qualche stupida bisticciata casalinga. 
Aveva paura che lei lo stesse odiando fortemente, in quel momento. E forse, per un brevissimo istante, anche lui aveva provato lo stesso. L'aveva provato Elena nei confronti di Akemi, quando la piccola le era esplosa addosso senza ritegno? Tramite Mary aveva appurato la gravità della scena; lo aveva provato per Shiho, anche, per il suo atteggiamento chiuso e non incline a collaborare, nonostante a livello conscio sapesse che era solo una bimba traumatizzata? E Mary, Mary lo stava provando per loro e per la loro situazione? Per lui? Per aver coinvolto la sorella in tutto questo? 
Tutto quell'odio riversato sulle persone che si amano di più al mondo, seppur in piccole dosi, a cosa serviva? A far capire come l'umanità funzionava veramente? 
Lasciò passare almeno un minuto e mezzo di silenzio. Le tolse delicatamente il bicchiere di vino dalla mano, lei lo lasciò fare ma tenne lo sguardo basso. Lui glielo alzò con calma ponendo due dita sul mento.
«E allora mandamici.» sussurrò lui.
«No, non mi va più.»
«Mi fa piacere.»
Lei sorrise appena, e lui ricambiò con un sorriso largo il doppio. Poi fece passare il pollice sul suo labbro inferiore, leggermente umido per il vino bevuto poco prima.
«Di tutte le parole che sono state dette.» sussurrò lei all'improvviso, guardandolo complice.
«E di tutte quelle che non saranno mai ripetute.» rispose lui con lo stesso tono.

***



«E adesso questo che diavolo significa?»
Maledizione, pensò Shiho tra sé e sé, perché doveva finire tutte le volte un set di pagine con quella frase in testa? “Che significa?”, oppure “ma che diavolo?” o ancora “e questo adesso?”
Chiarezza, chiedeva solo chiarezza. I suoi genitori erano ancora più enigmatici di lei.
Rei, se possibile, la irritò ancora di più col suo gesto seguente. Mostrò un bel sorrisetto spavaldo, guardò il cielo stellato e solcato dalle nuvole con aria di chi la sa lunga, stiracchiò un po' le braccia e infine, quando ritenne di aver fatto sufficientemente il misterioso, estrasse un piccolo libro dalla tasca dei pantaloni.
«E quello cosa diavolo è?» chiese Shiho.
Ecco, di nuovo. “E quello?”, “ma che diavolo?”, “gne gne?”
Sopportazione ridotta al minimo.
«Siccome lo sapevo, o quanto meno lo immaginavo, mi sono attrezzato.»
«Che cosa sapevi? Cosa immaginavi?»
Rei sorrise sotto i baffi e aprì il libro.
«Mi rispondi?»
«Sapevo che in mezzo a tutte le pagine che avresti letto, in mezzo a tutti quei fatti nuovi, sarebbero state quelle due frasi a colpirti. Ne ero sicuro.»
«B-beh...»
«Ma sì, chi se ne importa se eri in stato apatico, se tua madre ogni tanto si faceva un goccio mentre tua zia prendeva a pedate nel sedere Akemi, se Vermouth giocherellava in laboratorio. La cosa importante, signori miei, sono le due frasi senza senso mormorate a cena!»
Shiho lo fissò a lungo, cercando di selezionare l'espressione più terrificante che i suoi muscoli facciali avrebbero potuto produrre. Voleva terrorizzarlo, farlo scappare a gambe levate e ricordargli chi comandava. Ma in realtà lo guardava inespressiva e a tratti inebetita, troppo indecisa sul da farsi.
«Mi stai prendendo in giro, Rei?»
«Chi, io?»
«Con che diritto?»
«Mmmh, quello di divertirmi?»
Voleva dargli una botta in testa e poi, magari, dare un seguito con altre tipologie di schiaffi. Oh, se lo voleva, aspettava solo il comando dal cervello – che però era curiosamente in stand-by. Lui invece rideva.
«Non è che tutto il resto di ciò che ho letto non mi interessi, ovviamente. Solo che...»
«Solo che, quando scovi dei tasselli particolari e senza risposta, senza apparente senso, inevitabilmente catturano tutta la tua attenzione.» sussurrò lui, fissando il piccolo libro.
«E tu come lo sai?» chiese lei, rendendosi conto di avere la voce strozzata.
«Perché sto imparando a conoscerti.» alzò gli occhi su di lei.
Shiho gli restituì lo sguardo, in silenzio. Con solo gli occhi di lui nel suo quadro visivo, ora chiari ed ora scuri, a seconda di come la luna si comportava dietro le nuvole, udì le chiome degli alberi scosse da una folata notturna, un fruscio continuo e talmente totalizzante, talmente bello e naturale, da farle percepire brividi sul collo.
«Hai freddo?» chiese lui piano.
Lei lo ignorò.
«Come puoi dire una cosa simile? Ci conosciamo da troppo poco» di nuovo voce lieve, bassa. Sulla difensiva.
Lui si limitò a continuare quel contatto visivo, sorridendo appena. Non era più spavaldo come prima, solo consapevole ed empatico. Il suo intento era chiaramente quello di imprimere un messaggio, in quello sguardo, qualcosa che Shiho cercò di leggere. Le sembrò di capire che per Rei il tempo era un fattore di poco conto, nella conoscenza, a meno che non si trattasse di istanti. Istanti decisivi.
Lui sbatté le palpebre, interropendo la trasmissione.
«Si vede che un paio di cose mi sono già saltate all'occhio. Niente di più.» risolse lui, mentre lei continuava a guardarlo poco convinta. Da un lato la inquietava quella sua velocità nell'individuare i lati più nascosti degli altri, ma dall'altro la faceva anche sentire interessante. Rei non tornò più sull'argomento, comunque, anche perché trovò stuzzicante l'idea di lasciarla navigare per un po' in una brodaglia di mistero indotta da lui, e aprì il libriccino. «Non preoccuparti, in quelle frasi non c'era nulla di losco né messaggi in codice. Sono due frasi tratte da un libro che tua madre avrà letto sì e no un migliaio di volte, e che amava ripetere spesso ad alta voce fino a farle entrare anche nella testa di Atsushi. Il libro è di un autore cileno. Vuoi che ti legga tutto il passo?»
«Magari più tardi.» disse lei, forse per la perdita di interesse nei confronti di due frasi che adesso acquistavano un'identità che lei non poteva più indagare. Lui se la rise, fece spallucce e chiuse il libro.
«E' inquietante, comunque. Sembra quasi che mia madre e Vermouth andassero d'accordo» dopo quella frase, tacquero entrambi per svariati secondi guardando di fronte a sé. «Se penso a come invece, in seguito, quella donna si sia accanita contro di lei... e poi contro di me, per il solo fatto che ero la figlia...»
«Già, le cose cambiano. I rapporti pure, si incrinano. E da come la conosco io, Vermouth non è mai stata molto brava a mediare né a perdonare.»
«Anche per come la conosco io.»
Shiho ebbe un brivido. Rei si tolse il golf leggero di dosso e lo appoggiò sulle spalle di lei, in silenzio. Altrettanto in silenzio lei accettò volentieri. Nel nuovo tepore creatosi, Shiho si rilassò e ripensò velocemente agli eventi appena letti: al litigio dei suoi, che era tale proprio per l'amore che lo contrassegnava; alla sbronza di sua madre, che aveva deciso di inghiottire tutto il groppo da sola, alla zia Mary di cui ricordava poco o niente - se non che aveva il pugno di ferro e terrorizzava un po' tutti, e quelle pagine glielo avevano dimostrato. Le venne da ridere e lo fece, senza trattenersi. Ripensò a se stessa in quello stato con cui era uscita dai test di laboratorio e di cui però non ricordava la minima sfumatura, ad Akemi che scalpitava e stava male quanto lei e forse più di lei, perché voleva proteggerla ma non ne aveva le risorse, e il sorriso le si spense. Aveva solo realizzato la quantità di problemi che aveva creato in casa, anche se non era stata colpa sua.
A furia di pensare a tutto questo, Shiho si perse un po' nella sua testa e si chiuse a guscio, tenendosi saldamente il golf di Rei addosso. Le unghie conficcate nella pelle dei gomiti e la rigidità tipica di chi sta spegnendo temporaneamente il corpo, le sembravano tutti personaggi di un libro lontano e inconsistente. Ma era lei, erano loro, quella notte non avrebbe dormito e li avrebbe sognati tutti ad occhi aperti. 
«Ma devo andare avanti, devo continuare, finché non mi viene indicato che questo è il mio ultimo viaggio.»
Shiho si riebbe come da una trance, sentendo le parole uscire dalla bocca di Rei.
«Loro verranno a saccheggiare questo luogo e tenteranno di rimuovere tutto ciò che c'è di buono. E quando cercheranno di rimuovere il mio corpo, sia pure per l'impercettibile spazio di un filo, conosceranno l'arte dei nostri architetti, quelli che hanno calcolato il peso del mio cadavere, e tutto crollerà come se non fosse mai esistito.»
Lei abbassò gli occhi nell'oscurità, scorgendo il libriccino aperto su una pagina che Rei stava leggendo. Doveva essere il passo che a sua madre piaceva tanto.
«Ma niente andrà perduto, niente. Perché le mie ossa stanche saranno le fondamenta dell'eternità di questo luogo, di chi ci abita, di chi è con me. Di tutte le parole che qui sono state dette. Di tutte quelle che non saranno mai ripetute.»
E Shiho non seppe spiegarsi il perché, forse le parole, forse la voce calda di Rei mentre lo leggeva, ma le lacrime sgorgavano copiose sul suo viso senza il minimo controllo. Non produceva suoni, né sussulti, solo navigava tra il suo stesso sale. Rei chiuse il libro con calma, per poi afferrarle forte una mano senza temere conseguenze, senza commentare nulla.
Shiho, che in quel momento non ne aveva la testa né l'appropriato sentimentalismo, si sarebbe resa conto solo in seguito della sensibilità che quell'individuo stava dimostrando nell'essere andato a ripescare, tra le migliaia di cose e ricordi forse più importanti, tra le gioie dichiarate e i dolori nascosti, proprio le parole preferite del libro di Elena Miyano. Qualcosa di superfluo, futile, piccolo, inosservato, eppure così fondamentale, e lui l'aveva capito subito.
In quel momento lei vide solo una cosa.
Le sembrò che Elena avesse appena mormorato, scritto, esalato le parole della sua vita, delle sue più forti volontà.












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Eccomiiiiii, dopo una spappolante attesa! E in quanto tale, ho voluto regalarvi un capitolo un po' più lunghetto del solito in modo da recuperare e sentirmi un minimo a posto con voi altri :D :D
Allora, che ve ne pare? Cominciamo col dare poi, giusto per completezza, un simbolico allarme rosso: sono usciti dei file di cui non parlerò visto che sono spoiler, ma che si potrebbe pensare intacchino in qualche modo la trama delle FF che stanno parlando di questi argomenti che tratto anche io. Nel mio caso, comunque, voglio precisare che non cambierà nulla nella linea narrativa che ho definito dall'inizio, neanche se si dovesse scoprire qualcosa di pratico in più ;) Finisco qua perché sennò arriviamo in terreni ardenti! XD
Nella parte iniziale ecco arrivare un altro personaggio chiave della cerchia della BO, Vermouth, per la quale ho voluto ipotizzare un cenno di rapporto con Elena, che come vedete a questo punto è abbastanza neutrale e, anzi, sfocia anche in un pseudo-aiuto reciproco. Per la gioia di alcuni, me compresa, comparirà ancora per alcune questioni :D Come vi è sembrata? Nonostante gli argomenti toccati, forse non proprio tipici di Vermouth, ho provato a rimanere più IC possibile. Tutta la parte del disagio di Elena, invece (non solo la parte iniziale ma anche quella estesa al litigio col marito) è un pretesto per capire nel modo più ravvicinato possibile come questi due poveretti dovessero affrontare il problema dell'Organizzazione anche da un punto di vista più domestico e intimo, che a mio parere è ugualmente difficile a quello più manifesto e pericoloso delle visite a casa dei corvi, delle minacce e di tutto il resto.
Anche qui, come mi è già successo in passato, ho preso in considerazione l'ipotesi molto gettonata per cui Mary sia sorella di Elena. In quel caso, la domanda bonus è se vi è piaciuta la sua presenza e se è stata abbastanza prorompente come il personaggio di Mary richiede! U__U Mi sono troppo divertita a scrivere la sua parte :P
Il pezzo finale ShihoRei prosegue la linea degli altri, cioè quella di permettere ai due di conoscersi sempre un pochino meglio: continua ad essere il turno di Rei, a cui bastano davvero pochi elementi per iniziare a determinare gli aspetti più ricercati del carattere di Shiho. La quale, sentendoli scoperti uno dopo l'altro, viene colta da diverse reazioni che spaziano dalla violenza gratuita al rimanere inebetita di fronte a costui. Spero poi che il finale si sia compreso anche se non c'è una formula univoca, ciò che interessa è che tutte quelle informazioni, per Shiho, costituiscono anche emozioni.

Infine vorrei precisare che il passo finale che tanto mi è servito per questo pezzo è tratto dal libro “Incontro d'amore in un paese in guerra”, del celebre autore Luis Sepùlveda e che io consiglio vivamente a tutti.

E GRAZIE per le bellissime recensioni che mi scrivete, siete fenomenali. Davvero, vi stringo tutti in un enoooooormeeeee abbraccio!!! *___* Mi premuro di dirvi, sapendo di non esagerare, che questa FF la state componendo anche VOI, tramite i vostri suggerimenti o anche solo le vostre constatazioni. Fatemi sapere anche su questo, se potete! Siete così attenti e accurati che ad un certo punto diventa difficile fare a meno dei vostri pareri <3
A prestoooo!

  
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