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Autore: _Polx_    25/05/2018    3 recensioni
A sei anni dall'uscita di Skyrim, ormai pilastro videoludico.
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“Perché ti sei arruolato?”.
Il ragazzo si guardò attorno, incerto: “dici a me, signore?”.
“A chi altri?”.
Quello ridacchiò: “be', pagano bene, signore... e, ovviamente, il Concordato”.
“Certo” anche lui ridacchiò “il Concordato”.
“E tu, signore? Perché hai accettato di stanziarti in questa terra vile e fredda?”.
“Il destino mi ha condotto qui”.
La fronte dell'altro si corrugò: “non è la risposta che mi sarei aspettato da te, signore”.
“Auri-El qui prende il nome di Akatosh, o sbaglio?”.
“Non sbagli, signore”.
“Ebbene, lui ha voluto che arrivassi a Skyrim. Aveva un dono per me” sospirò “ho avuto molto da fare”.
Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Dovahkiin, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Fu un grugnito ferale a riscuoterlo. Non appena i suoi occhi si liberarono dal velo di sopore che li annebbiava, ecco che un draugr scalzo e armato di un'ascia sbeccata si stagliò sopra di lui, erto in attesa di ricevere risposta.
La stretta di Dovah su Cal si rafforzò, ma non osò muoversi. Continuò a sedere, in attesa.
“Fin munseved los til” così gli disse il cadavere inquieto mentre il suo braccio putrido si stendeva a indicare verso est.
Dovah annuì appena e il draugr si ritirò.
“Che ti ha detto?” Cal sussurrò con estrema cautela e lui si stupì di scoprilo sveglio.
“Ha provato a parlare con me” continuò il bambino “ma non lo capivo. Sono rimasto fermo come una lucertola perché è quello che mi hai detto di fare e lui è restato lì ad aspettare”.
“Bravo, Cal. Hai agito bene”.
“E cosa ti ha detto?”.
“Mi ha indicato dove trovare Ebor”.
“Possiamo andare, ora?” persisteva nel parlare in bisbigli sommessi e Dovah non riuscì a trattenere una risata lieve: “sì, Cal. Non c'è pericolo. Forza, in piedi” s'alzò con un gran dolore a intorpidire le sue gambe. Tuttavia, si scoprì più saldo e in forze di quanto sperato. Tese la propria destra: “coraggio” lo incitò e Cal strinse la sua mano, pronto a riprendere il cammino.
Seguirono la via indicata e infine giunsero al grande salone in cui volontariamente Dovah aveva permesso la propria cattura.
Molti corpi vi erano disseminati e ancor più sangue lordava la pietra, fluendo verso il centro dell'ampia pavimentazione, dove una solida grata di ferro nero lo catturava e rigettava nelle viscere del Nirn. Tuttavia, vi era anche dell'altro a insozzarla: una sostanza più densa e scura del sangue e che con esso s'amalgamava a fatica, di molto rassomigliante al petrolio e che pareva convergere verso lo scolo non per spinta d'inerzia, bensì per volontà. Nell'oscurità del baratro spariva senza lasciare traccia alcuna dietro di sé e Dovah pensò di riconoscere quel limo ripugnante.
Solo quando i suoi occhi s'alzarono dallo scempio cui tanto erano attratti, vide Ebor, distante da lui e apparentemente inconsapevole della sua presenza. Vi era un fuoco di lingue turchine a lampeggiare al suo fianco e lui vi si rivolse come per riscaldarsi. Ma tale non era il suo proposito: teneva un libro in mano e persino da quella distanza Dovah riusciva a scorgerne le pagine del tutto annerite. Senza esitazione Ebor lo gettò tra le fiamme: gli ultimi tentacoli di melma nera rovinarono attraverso la grata.
Dovah non riuscì a immaginare cosa Ebor avesse compiuto in sua assenza, come avesse abbattuto i nemici che ora giacevano ai suoi piedi, né quali bestie diaboliche avesse evocato perché combattessero al suo fianco.
“Che bello vederti di ritorno”.
Sobbalzò all'udire la sua voce e certo non lo accolse con altrettanto entusiasmo.
“Dunque ecco Cal” Ebor sorrideva ampiamente, avvicinandosi con una leggerezza a guidare i suoi passi che molto cozzava con il grande sfacelo a circondarlo “è un piacere conoscerti”.
Quando, però, fu abbastanza vicino da tendere la propria destra verso il bambino, Dovah si frappose ai due, forzando Cal dietro sé.
A lungo lui ed Ebor si guardarono in silenzio e un grande senso d'attesa gravava su entrambi.
Fu Dovah, infine, a parlare: “in principio credevo che fossi un sacerdote di Hermaeus Mora, un'eccezione al suo operato, forse in cerca di redenzione o di perdono per un voto di cui ormai provavi pentimento, ma nessun Daedra terrebbe in così alto conto un proprio affiliato da cedergli simili poteri”.
Ebor ascoltava e taceva, lo sguardo cupo, il respiro fermo.
“Dunque, cosa sei?” chiese Dovah, ma il suo tono non invogliava alla sincerità, poiché trasudava minaccia e repulsa.
“Una sfida a Mara e alla purezza delle creature che, nel Nirn, nascono da ventre di donna. Questo è quanto devi sapere e questo è quanto devi accettare. Se così non è, dunque qui ci salutiamo e più non metterai piede in casa mia, perché non voglio animi ostili attorno alla mia famiglia” vi fu silenzio prima che aggiungesse poche, lapidarie parole scandite in fil di voce “io ti sono amico”.
Dovah non replicò. Con gesto seccò gli voltò le spalle: “non permetterò a Cal di avvicinarsi a quello scempio né di guardarlo un solo istante in più. Ci rifocilleremo all'ingresso, poi torneremo alla tua tenuta”.
Nessuno avrebbe osato contestarne gli ordini.
 
Della sacca da viaggio, che Ebor aveva salvato dallo scontro e poi ripreso con sé, avanzarono molte scorte, poiché non avevano trascorso che due giorni tra le soffocanti mura di quella cripta senza nome.
“Rulf, sei un maledetto ingordo”.
Il cavallo aveva già mangiato metà del foraggio lasciatogli da Ebor e questi borbottò contrariato, mentre raccoglieva il rimanente e lo ordinava così da poterlo riportare a casa: “hai mangiato ciò che solitamente consumeresti nel doppio del tempo. Certo non ti risparmierò un giorno di digiuno”. Lo caricò delle provviste, ma lasciò la sella libera perché Cal potesse sedervi e trascorrere il viaggio in comodità.
Dovah non ne parve entusiasta, poiché era una cavalcatura dalle dimensioni notevoli e non ne conosceva il temperamento, ma Ebor si fece scherno dei suoi timori, affermando che non vi fosse castrone più affidabile di quello in tutta Skyrim e che, in ogni caso, l'avrebbe accompagnato per le briglie lungo l'intero tragitto.
Così partirono e Rulf si dimostrò a tal punto quieto e sereno che Cal s'addormentò sull'ampia sella dopo una sola ora di viaggio.
Ebor ne approfittò per parlare apertamente: “certo ciò cui abbiamo assistito non lascia ben sperare”.
“Tu dici?”.
Ignorò l'aspro sarcasmo di Dovah: “cercavano il potere del Sangue di Drago e chissà che non siano riusciti a ricavarne con la loro folle magia”.
“Il potere del Sangue di Drago è un dono divino, non ereditario”.
“Infatti Cal non mostrerà il tuo talento per la Voce, né sarà costretto al medesimo destino, tuttavia quello del Dovahkiin è un marchio potente e persiste nello scorrere delle generazioni, come un retaggio o una reminiscenza. Questo è ciò che hanno tratto da lui”.
“Vale a dire?”.
“Da lui, hanno tratto te. O, per lo meno, un'ombra di ciò che sei. Prega le divinità che non sia sufficiente”.
“Sufficiente per cosa?”.
“Io questo non lo so. Non riesco a vederlo”.
Dovah tacque e più non s'azzardò in supposizioni. La sua mente era scissa e vi era lotta in lui tra la gioia più sincera ed egoista per aver ritrovato Cal e saperlo finalmente al proprio fianco, vivo e salvo, e la consapevolezza d'aver appena smascherato una grande opera di male, ramificatasi nell'ombra.
Mancava meno d'un miglio alla loro destinazione quando un giovane in abiti contadini corse loro incontro e pareva avere una gran fretta di parlare con Ebor.
“Ebor, signore, finalmente sei tornato: è nata! Una femmina, sana e in carne. È accaduto la scorsa notte, poco prima del sorgere del sole. Zeala ti aspetta”.
Certo Dovah pensò che fosse una gran bella notizia, da accogliere con gioia ed entusiasmo, invece Ebor sbiancò all'udirla e, passato il pallore, le sue gote si tinsero d'un inaspettato rossore. Sembrava adirato e il suo borbottare rabbioso certo non ne mascherava il malcontento. Cedette le redini a Dovah senza proferir parola e si precipitò alla tenuta, dove trovò Zeala accomodata accanto al focolare, l'infante assopita tra le sue braccia, quieta e inconsapevole.
Quando si accorse del suo arrivo, lo salutò con un ampio sorriso, ma subito si rabbuiò, scorgendo lo sguardo tetro che lui le ricambiò.
“Tu lo sapevi, non è così?” proruppe Ebor “l'avevi sognato, forse? Te ne era giunta premonizione?”.
Gli occhi di lei si colmarono di stupore e sgomento: “a che ti riferisci?”.
“Per questo avevi tanta fretta che lasciassi casa?”.
“Insinui forse che desiderassi allontanarti di proposito?”.
“Insinuo che volessi convincermi a partire quanto prima per assistere Dovah, poiché si trattava d'una decisione che avrei probabilmente titubato a prendere, se avessi saputo della nascita tanto imminente”.
Zeala non replicò. Voltò lo sguardo, duro e ostile, e più non badò a lui.
“Ora sei tu a mostrarti di malumore?” insistette Ebor.
“Sto tacendo, o sbaglio?” replicò con ostentata noncuranza.
Anche lui tacque, colto da un certo disagio. Infine, le si avvicinò e tese le proprie mani: “posso tenerla?”.
“Oh, guarda” esclamò Zeala, dando finalmente sfogo alla propria stizza “dunque t'interessa. Credevo fossi troppo preso dal tuo malanimo per accorgerti di lei”.
Ebor sospirò: “andiamo, Zeala”.
Con occhi di brace allentò la presa sul fagotto stretto tra le sue braccia: “prendila” disse soltanto, scostando nuovamente lo sguardo.
Ebor ignorò una volta per tutte il suo livore: raccolse la creaturina con gran delicatezza e questa si mosse appena nel sonno.
“Per carità, non svegliarla”.
Ma era troppo tardi: presto Ebor si ritrovò a guardare due occhi d'intenso cobalto, pressoché ciechi e molto accigliati.
“Salve, Helsy!“ la salutò con entusiasmo e le parlò come se davvero lei potesse cogliere il senso delle sue parole. Tale era la gioia nel suo sorriso e con tale attenzione la piccola pareva seguire il moto della sua voce calda e dolce che l'animo di Zeala non poté evitare d'ammorbidirsi un poco, accantonando gran parte della propria acredine.
Riuscì tuttavia a rivestirsi d'ostinazione quando di nuovo Ebor si rivolse a lei. Lui stesso pareva essersi pentito del proprio animoso rientro: “abbiamo salvato il bambino” le disse.
“Lo so. Ne sono felice” e così era, sebbene non lo sembrasse.
Ebor sorrise con tenerezza, poiché era fiera e caparbia e tuttavia ancora sfibrata, provata dal grande sforzo fisico, il volto pallido e gli occhi vagamente cerchiati di stanchezza. Le si sedette accanto, Helsy che si muoveva piano tra le sue braccia: “è andato tutto per il meglio? Stai bene?”.
“Sì”.
Non demorse di fronte alla sua testardaggine: “a Hedil piace?”.
Quella domanda le strappò un lieve sorriso. Scrollò appena le spalle: “pare esserne un po' geloso”.
Ebor ridacchiò: “nulla di più prevedibile”.
Si persero nei loro lieti convenevoli più del previsto e solo dopo lunghi minuti Ebor s'avvide che Dovah tardava ad arrivare. Cedette di nuovo Helsy a Zeala e s'accinse ad uscire per andarlo a cercare, ma quando la sua mano si posò sulla maniglia della porta, ecco questa scattare e aprirsi.
“Mi chiedevo che fine aveste fatto” esclamò, fronteggiando Dovah e sorridendo a Cal, un poco interdetto al suo fianco, lo sguardo ancora impastato di sonno.
“Mi hai aiutato molto e siamo tuoi ospiti: mi pareva il minimo occuparmi delle provviste e del tuo cavallo”.
“Sei fin troppo gentile, Dovah” con una certa difficoltà, Zeala s'alzò e andò loro incontro.
Lui richiuse la porta dietro sé per impedire che il freddo della sera incombente guastasse il tepore del focolare. La salutò con un compito cenno del capo: “la buona notizia s'è rivelata esser vera: le mie congratulazioni”.
Lei ricambiò il suo sorriso e di nuovo passò la bambina a Ebor per potersi rivolgere a Cal senza impicci: “è così bello vederti, piccolo Cal. Eravamo in pena per te” tese la propria mano e il bambino attese il consenso del padre prima di stringerla “tua sorella sarà così felice quando ti saprà di nuovo a casa. Giusto poco fa l'ho mandata in paese per una commissione di cui non potevo occuparmi personalmente e sarà di ritorno domattina... spero di non averti contrariato, Dovah: era assieme ad altri due mercanti che spesso attraversano queste contrade, gente fidata con cui non corre pericolo alcuno. È stata lei a chiedermi di tenerla impegnata”.
Dovah negò bonariamente, ostentando una fiducia nei confronti di Zeala che senza remore aveva negato a Ebor, poiché ogni parola rivoltagli da quella donna s'era rivelata vera e si fidava del suo buonsenso.
Di nuovo Zeala si rivolse al bambino: “sarai molto stanco, mio piccolo Cal. È già stato preparato un giaciglio per te, caldo e comodo. Ti piacerà. Prima, però, pensiamo a riempirti la pancia”.
“Zeala, per grazia dei Nove, siedi e sta quieta” la rimbrottò Ebor “ci penserò io”.
“Non v'è molto da fare” lo liquidò “Wulda ci ha consegnato un bel pasto caldo dalla locanda e tra non molto la vecchia Beresh riporterà Hedil a casa”.
Così, si rifocillarono, si scaldarono e finalmente poterono coricarsi in un letto accogliente, ma soprattutto, poterono riposare privi da crucci e angosce.
Dovah s'addormentò subito, ma non fu altrettanto semplice per Cal: la pressante stanchezza s'era ormai sopita e le ombre della notte gravavano sulla sua mente come spettri feroci. Nel buio, il suo occhio ormai solitario generava immagini spaventose e, sebbene le sapesse irreali, poiché le riconosceva dai propri ricordi, non gli incutevano meno paura.
Sgusciò dal proprio letto e con immensa discrezione s'infilò in quello di Dovah. A casa, mai gli era capitato d'azzardare tanto, poiché suo padre non desiderava che dormisse con lui e Ysolda: ormai era grande a sufficienza da restare nel proprio letto, così asseriva. Quando proprio non riusciva a prendere sonno, attendeva che suo padre s'addormentasse per chiedere a sua madre di fargli un poco di spazio e lei glielo concedeva, stando bene attenta a non svegliare il marito. In casi disperati, piuttosto che nulla, accettava di dormire con Sofie e lei di rado lo mandava via.
Tuttavia, ora non vi era mamma o sorella ad accoglierlo. Sperò di svegliarsi per tempo, così da tornare nel proprio letto prima che Dovah se ne accorgesse, e presto precipitò nel sonno, poiché accanto alla sua presenza sicura il buio perdeva potere e la giovane mente tormentata trovava quiete.
Ad ogni modo, non si svegliò come auspicato. Semmai, Dovah si destò prima dell'alba a causa d'un colpo di gomito che Cal gli inviò alle costole, preda d'un sogno agitato.
Si stupì nel vederlo accanto a sé e si chiese come il piccolo fosse riuscito ad aggirare il suo sonno per intrufolarsi con tanta maestria.
Pensò fosse il caso di svegliarlo: lo scrollò rudemente e Cal si riscosse in un singulto. Prima ancora d'essere ben presente a sé stesso, si mise a sedere e scese dal letto.
“Che fai?” gli chiese Dovah, interdetto.
“Torno al mio posto” rispose lui con sorprendente lucidità, nonostante lo sguardo greve e la voce impastata di sonno.
“Che hai capito? Sognavi e non facevi che colpirmi: per questo ti ho svegliato”.
Cal grugnì: “posso restare?”.
Dovah tornò a coricarsi tra le calde coltri: “puoi restare” gli assicurò.
Come un gatto, Cal s'infilò sotto il suo braccio e in pochi istanti si riaddormentò.
 
Per molte ore riposò serenamente. Poi, ecco nuove ombre addensarsi nei suoi sogni e turbarli, finché riprese ad agitarsi e muoversi nel sonno: fu la sua stessa irruenza a svegliarlo.
Si scoprì solo: ormai il sole filtrava dal piccolo lucernario discretamente schermato da una sottile pelle conciata. Dovah s'era evidentemente svegliato prima di lui, aveva creduto di fargli una cortesia lasciandolo dormire un altro po' e la sua mente incosciente era riprecipitata nella confusione, sentendosi sola.
Si stropicciò l'occhio, si mise a sedere e sobbalzò quando scoprì d'essere osservato: un bambino molto più piccolo di lui, eppure con scuri occhi sorprendentemente vispi e acuti, lo fissava incuriosito.
“Hai fatto un brutto sogno?” gli chiese Hedil e la sua voce suonò tanto squillante quanto briosa.
Cal lo squadrò perplesso.
“Anche io faccio spesso brutti sogni. Che ha il tuo occhio?”.
Tacque.
Hedil non se ne fecce un cruccio e subito passò oltre: “la colazione è pronta. Ne vuoi?”.
Annuì.
“Allora vieni con me” trotterellò contento per le scale e Cal lo seguì.
Vide suo padre seduto al grande tavolo del soggiorno ligneo, intento a discutere sommessamente col padrone di casa. Fu questi che Hedil chiamò: “papà, Cal ha fame. E anche io”.
Lo sguardo di Ebor fu strappato alla fitta conversazione e lui sorrise ampiamente vedendoli avvicinare, Hedil trotterellando come un piccolo saltimbanco, Cal camminando lentamente e con aria terribilmente circospetta. Quasi inconsapevolmente andò da Dovah e si fermò al suo fianco, pur senza degnarlo di molta attenzione.
Quasi sussultò quando ne percepì la mano posarsi sul suo capo e carezzarlo teneramente: “di che hai paura, Cal?” gli chiese con voce tenue “siamo in casa d'amici. Va tutto bene”.
“Sì, lo so” disse senza convinzione.
Dovah lo prese e l'accomodò su un ginocchio.
“Credevo che avrei trovato Sofie” confessò il bambino.
“Hai sentito Zeala: è andata per lei a fare una commissione e tornerà a breve. La rivedremo presto” assicurò. Baciò la sua fronte e di nuovo Cal fu scosso da una bizzarra sensazione, poiché quei gesti affettuosi lo smarrivano più che rincuorarlo.
Ogni turbamento fu spazzato via dall'involto dolce che Ebor gli offrì, posandolo ancora tiepido di cottura proprio sotto al suo naso.
Dovah fermò l'esile mano che subito si fiondò sulla fetta più vicina: “ascoltami attentamente: di queste cinque te ne concedo due. So che altrimenti tartasserai tutti quanti con la tua nausea. Ci siamo capiti?”.
Cal annuì e Dovah più non disturbò la sua colazione.
Fu Hedil, piuttosto, a strapparlo dalle ultime briciole e, presolo per mano, lo trascinò con sé. Cal non era solito intrattenersi con altri bambini, specialmente se tanto vivaci, e si lasciò condurre pressoché passivamente.
Infine Ebor s'alzò e si congedò da loro, poiché i cavalli e l'attività lo chiamavano, e così Dovah restò solo, accomodato al tavolo e immerso nelle proprie rimuginazioni.
La sedia ormai vuota accanto a lui fu occupata da altri, una figura esile e in vesti scure, con un neonato al seno.
“Mi ricordi mia moglie” commentò lui senza neppure volgere lo sguardo verso di lei “non un solo istante a riposo”.
Zeala rise quietamente: “questo mondo non concede il lusso del riposo” il suo sguardo seguì quello di Dovah, finché non s'insinuò nell'ambiente attiguo dove, al tepore del focolare, Hedil s'intratteneva con Cal, investendolo senza remora alcuna di domande e attenzioni.
Il volto di quel bambino era esso stesso sprone per molte curiosità, perché aveva un aspetto delizioso eppure raro, come non se ne incrociavano molti nelle terre di Skyrim e, probabilmente, di Tamriel tutta: la sua carnagione era chiara e i suoi occhi forti e marcati come quelli dei Nord. Tuttavia, per quanto armoniosi e belli, i suoi lineamenti erano affilati e le orecchie lievemente appuntite.
“È bizzarro” ammise a quel punto, con un dolce sorriso ad ammorbidire le sue parole “voi Altmer solitamente non vi ibridate”.
“A esser sincero, non avevo intenzione d'ibridare” ammise Dovah “Cal è stato un amaro imprevisto. O almeno, tale mi pareva al tempo”.
“Pure, ti sei dato così da fare per lui”.
“Tu dici?” il suo sguardo si rabbuiò: “a me non pare”.
“Perché pensi questo? Sta bene ed è di nuovo con te”.
“Dopo aver assistito alla morte di sua madre. Dopo che un occhio gli è stato cavato dal volto” sospirò amaramente tra i denti serrati “desidero solo riportarlo a casa. Desidero restarvi, con lui e con sua sorella, che la faccenda in cui siamo odiosamente incappati si sia conclusa o meno” sospirò profondamente “io non posso rischiare di nuovo la sua vita. Non posso”.
“Non accadrà” gli assicurò “e Sofie è in viaggio, dunque scoprirà a breve che suo fratello è salvo e in salute”.
“Ebor non pare irrequieto per quanto abbiamo visto e combattuto”.
Lei ridacchiò: “Ebor non è mai irrequieto, se non in casi estremi. Se ti pare consapevole ma tranquillo, dunque questo è un buon segno”.
Due colpi di nocche percossero la porta e squillante come un flauto giunse la voce di Sofie che annunciava il proprio rientro. Uditala fin nella stanza dove si trovava, Cal balzò in piedi come un capriolo e si precipitò ad accoglierla.
  
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