僕は孤独さ – No Signal
✠
Sesto intermezzo: Cambio di rotta
Parte unica.
«Non
è andata poi così male, alla fine.
Sbaglio?»
Aiko premeva forte contro la
clavicola sinistra per fermare il sanguinamento. In quel punto preciso, dove un
taglio poco profondo ma lungo le arrivava sin quasi alla spalla. Una ferita da
poco, che Roma le aveva inferto per una sua disattenzione, quando le urla di Sasaki avevano riecheggiato tra le mura della sede delle
aste. Tutti erano fermati ad ascoltare quel lamento forte e doloroso, quasi
folle, men che quel bizzarro membro dei clown, che
aveva allungato il suo bikaku sfruttando la loro
distrazione, facendo perdere l’equilibrio a Takeomi
che combatteva senza più una quinque e arrivando fino
a lei. Se Kuramoto non l’avesse tagliata, quella coda
le avrebbe probabilmente trapassato la gola.
Proprio
il biondo aveva avanzato quella domanda ripiena di puro ottimismo, mentre le
allungava una lattina di soda al gusto di ciliegia, iper
calorica e dal sapore stucchevole, ma che però l’avrebbe aiutata a recuperare
un po’ di zuccheri. Lei l’aveva accettata sorridendogli sinceramente,
nonostante gli occhi pieni di stanchezza e le membra pesanti, allontanando il
panno e buttandolo in un cestino dei rifiuti, poco distante dall’ambulanza su
cui si era appoggiata. Dentro di essa, su una barella, c’era Take, collassato. Takeomi l’aveva praticamente portato fuori in spalla.
«Abbiamo
rischiato di perdere il caposquadra, quindi sì. È andata bene, alla fine.»
Itou aveva annuito lentamente,
recuperando un minimo di serietà. «I paramedici ti hanno detto qualcosa?»
Lei
lo guardò direttamente negli occhi socchiusi, tirando la linguetta per aprire
la lattina. «Sono preoccupati per i tendini, quindi lo portano in ospedale per
un paio di accertamenti, prima di ricucirlo. Uno dei dottori ha detto che la
ferita sull’avambraccio lo preoccupa e pensa che lo dovranno operare.
Probabilmente in mattinata.»
«Un
altro bollino sulla sua cartella medica.»
Aiko non riuscì a trattenere una
mezza risata. «Ormai ci siamo, il set di pentole è vicino. Mancheranno sì e no
altri due o tre timbri. Non lo hanno mai operato alla testa e alle caviglie,
direi.»
«No,
lo hanno operato alla caviglia sinistra in realtà. Quattro o cinque anni fa. Gli era uscito il perone,
brutta storia.»
«Smettetela
voi due, vi sento.»
I
due giovani si guardarono con complicità, sorridendosi, poi Kuramoto
allungò le braccia dietro al collo, «Vado a salutare Shukumei.
Stava parlando con Kuroiwa e uno dei Quinx. Voi due non fate troppo casino sull’ambulanza.»
«Cercheremo
di non litigare mentre lui è ridotto così. Non mi piace vincere facile.» Aiko guardò il biondo allontanarsi di qualche passo, prima
di salire sul veicolo di primo soccorso. Prese posto sulla panca laterale,
guardando negli occhi Hirako, che ricambiò lo
sguardo. «Dormi, dannato demone. Senza Faccia ti ha conciato proprio bene, eh?
Però devo ammetterlo, hai combattuto fino all’ultimo.»
«Come
sempre?»
«Come
sempre.»
La
lattina venne appoggiata accanto alla sua caviglia, poi la mora si sfilò uno
dei guanti, portando la mano sul capo di Hirako, fra
le ciocche color rame, mentre scuoteva piano la testa, quasi come se lo stesse
biasimando. Aveva combattuto da solo, mentre loro tre si concentravano
solamente su Roma. Avrebbe potuto chiedere aiuto, ma non l’aveva fatto perché Uta, diamine, era
forte. Aiko non poteva dirgli che lo sapeva e non
poteva nemmeno dirgli quanto a disagio si fosse sentita quando il produttore di
maschere si era voltato nella sua direzione, portando una mano laddove doveva
esserci la sua bocca per simulare che l’avrebbe tenuta chiusa, da sopra la
maschera, prima di sparire nel nulla. L’operazione però era finita e ciò che
contava era che l’intera squadra fosse sopravvissuta.
Take
in ospedale era quasi un rito, alla fine.
«Il
classe speciale Washuu ci ha detto di andare. Vedi di
metterti a letto il prima possibile, hai una faccia da far paura.»
Masa aveva alzato le sopracciglia,
smettendo di accarezzargli il capo, quasi risentita. «Io e Itou
veniamo in ospedale con te, schifoso ingrato. Poi come si dorme? Da dove
inizio? Non me lo ricordo nemmeno. »
«Non
dire sciocchezze, oggi è stata una giornata sfiancante. Non voglio che veniate
con me.»
«Indovina
quanto ci interessa la tua opinione? Molto poco. Ora vedi tu di dormire un po’,
stai tenendo gli occhi aperti a fatica e hai perso un sacco di sangue. Non
voglio vederti svenire pateticamente due volte nel giro di una sera.»
Lui
non se lo fece ripetere e dopo un ultimo, intenso sospiro, chiuse le palpebre.
Lei non smise di passare le dita in modo rassicurante fra i suoi capelli fino a
che non vide il suo respiro farsi regolare. Erano rari quei contatti fra loro,
ricorrenti solo quando uno dei due rischiava di morire. Dopo tornavano ad
essere semplicemente Hirako e Masa,
tra litigi e incomprensioni. Però, per quanto difficile da spiegare, entrambi
diventavano più comprensivi quando uno dei due metteva in pericolo se stesso in
modo stupido.
Aiko rimise il guanto, recuperando
la bevanda e appoggiandosi con le spalle alla parete dell’ambulanza, alzando un
secondo il capo per stirare i muscoli del collo, prima di girarlo. Kuramoto stava parlando in modo concitato con una
giornalista molto bella che Masa aveva visto
gironzolare in cerca di scoop più di una volta. Itou
era troppo buono o troppo ingenuo – o entrambe- per negarle un’intervista. Per
fortuna con loro c’era Takeomi, che teneva le braccia
incrociate sul petto ampio e fermava di tanto in tanto il collega.
L’investigatrice
però non guardò il volto della giornalista, né le scuse goffe del coinquilino
biondo. I suoi occhi si ancorarono a due iridi sottili come quelle di un
serpente.
Masa Aiko
si era ritrovata a spiare il secondo livello Urie Kuki
spesso, negli ultimi mesi. Era uguale a suo padre e per lei era impossibile non
guardarlo e rivedere in lui Mikito. Mentre camminava
per i corridoio della sede centrale con le mani in tasca e le cuffie sulle
orecchie, di coda al resto della squadra Quinx, o
quando rimaneva in dipartimento anche oltre l’orario per fare qualche ora di
internato extra e lavorare di nascosto ai casi aperti da altre unità.
Lui
però non l’aveva mai ricambiata, fino a quel momento. In quell’istante, forse
per la prima volta, anche lui la stava guardando. Non c’era la stessa curiosità
che albergava nelle iridi di Masa, nei suoi occhi, ma
solo un velo di apatia. La ragazza si chiese come fosse andata la sua notte,
quanti ghoul avesse ucciso usando la kagune. E cosa stesse pensando, guardandola.
La
porta dell’ambulanza venne chiusa, interrompendo quel contatto e riportandola a
guardare Take, mentre il paramedico richiamava Itou,
che la raggiunse. Aiko stava bevendo, quando prese
posto accanto a lei. Attese di sentire il motore partire e di vedere il biondo
prendere la mano di Take, prima di attaccare gli occhi al paramedico, che stava
controllando i parametri del caposquadra. «Il Quinx»,
sussurrò con tono basso. «Era ricoperto di sangue. Nottata movimentata?»
Kuramoto schioccò la lingua. «Non
saprei, non ha detto una parola. Però un ragazzo delle comunicazioni mi ha
detto che ha affrontato da solo Big Madame. Oggi lo dico per i posteri:
sentiremo parlare molto più spesso di Urie Kuki. Quel
ragazzo è una promessa.»
«Come
suo padre.»
Aiko concluse, appoggiandosi col capo
alla spalla del coinquilino, prima di chiudere gli occhi e sospirare.
Stanca,
ma soddisfatta.
Capitolo
trentacinque.
«Che
brutto scherzo che ci hai tirato oggi, Aogiri. Non
potevi proprio trattenerti dal fare l’eroina, immagino. Non l’hai mai fatto, che
pessimo tempismo per cambiare attitudine. Proprio Tatara, poi? Di tutti i
brutti stronzi che albergano questo mondo, dovevi diventare un’altra tacca
sulla cintura di quel bastardo cinese?»
Il
tono di Aizawa era così basso e atono da risultare
impercettibile. Nello shock, non si stava nemmeno rendendo conto di star
parlando per davvero, dando sfogo a tutti i suoi pensieri. Infondo nessuno lo
stava ascoltando. Nemmeno l’inserviente che stava lavando via la pozza di
sangue da sotto il lettino. Ivak non vedeva e non
sentiva. Era diventato muto e cieco al mondo. Tutto quello ciò che riusciva a
percepire era la mano di Aiko, sottile e pallida,
ancora tiepida fra le sue. Lasciava scorrere su di essa le iridi celesti,
soffermandosi sui lividi e sulle bruciature dell’avambraccio che sbucava da
sotto il lenzuolo celeste che la celava.
Non
aveva nemmeno il coraggio di guardarla in viso, in quel momento.
La
raggelante consapevolezza che lui sapeva e non aveva detto o fatto niente lo
immobilizzava. Se l’avesse denunciata, l’avrebbero arrestata e spedita in Cochlea, prima dell’espianto del kakuho.
Oppure glielo avrebbero lasciato e l’avrebbero condannata a morte. Oppure
sarebbe rimasta a marcire nelle celle della prigione, come informatrice. Erano
tante le possibilità, ma tutte risultavano più dignitose nel saperla morta dopo
una battaglia in una fogna, a strisciare sul ventre ai piedi dell’albino. Lo
odiava, Ivak. Odiava Tatara come non aveva mai odiato
nessuno.
Per
alcuni minuti, forse, lo odiò anche più di quanto aveva odiato Arima, ma perché Tatara aveva avuto sulla sua vita e su
quella dei suoi cari più influenza di un singolo colpo di quinque
dello Shinigami Bianco.
«Te
lo prometto, Aiko. Io li ucciderò tutti e due.
Ucciderò Tatara e ucciderò quel vigliacco di Arima.
Perché non lo ha preso, poi? Come può essergli sfuggito di nuovo? In una
fognatura? No, no…. Qualcosa non quadra. Questa è
tutta una gigantesca cospirazione….»
Accarezzò
piano il dorso di quella mano esangue, prima di scivolare con le dita fino alle
sue unghie. Così come i capelli, avevano reagito all’eccesso di cellule RC,
crescendo rapidamente. Le stesse cellule che avevano poi fermato il suo cuore.
Il
dottore chiuse gli occhi rossi di pianto, ormai secchi e stanchi, stringendo le
palpebre e passandoci sopra i polpastrelli. Aveva del lavoro da fare. Doveva
espiantare il kakuho prima di poter andare a casa.
Delicatamente ripose l’arto della giovane sul lettino, coprendola con
delicatezza. Le mise il lenzuolo anche sul capo, recuperando un altro paio di
guanti di lattice, prima di cercare una flebo di inibitori. Li avrebbe sparati
direttamente nel nucleo dell’organo, per estrarlo senza rimetterci a sua volta
la vita. Il Pavone avrebbe continuato a combattere sempre, a dispetto della
sorte del suo ospite. Quando avvicinò l’agocanula
questi ebbe uno spasmo, ma Ivak non gli diede il
tempo di attivarsi. Lo infilzò senza pietà, aprendo subito il canale della
flebo per irrorarlo.
Ciò
che accadde dopo rischio di fermare il suo, di cuore.
L’intero
corpo di Aiko ebbe un tremito, poi alzò il busto,
facendo leva sulle e facendo cadere il lenzuolo di lato. Ivak
arretrò così in fretta da inciampare nel carrello, rischiando di ferirsi con le
attrezzature chirurgiche, mentre rotolava a terra. La mora prese un respiro profondo,
come se fosse appena riuscita ad uscire da uno stagno, con le labbra spalancate
e gli occhi sgranati. Si guardò attorno spiazzata, terrorizzata, coprendosi il
petto con la stoffa, prima di depositare gli occhi sulla figura scomposta del
dottore, che non era riuscito a dire ancora niente.
«Ivak?», lo chiamò, mentre la voce le tremava.
«Ma che cazzo, Aiko!»
E
per un istante guardò con un moto di stizza mista al sollievo quelle iridi
rosse avviluppate nel nero più profondo.
«Non
so come sia possibile ma è così! È viva e lei mi serve ora in sala operatoria!»
Shiba aveva avuto appena il tempo di
voltarsi verso Aizawa, mentre questi usciva dalla
porta gridando al miracolo. Lo era davvero, un miracolo.
La
morte era stata decretata sette minuti prima, eppure la ragazza era tornata
indietro. Doveva esserci una motivazione razionale dietro, ma in quel momento a
nessuno importava. Tutta la sala d’aspetto aveva trattenuto il respiro, a
quelle parole.
Ivak si era spazientito subito.
«Allora?? Continueremo il gioco del silenzio ancora per molto! Andiamo,
dottore! E vieni anche tu!»
Urie,
che ormai non sapeva più cosa provare, si trovò tirato per un braccio. Entrò
nella sala operatoria con i due medici dopo aver scambiato uno sguardo in tralice
con Saiko, arrivando fino alla zona dei lavandini,
dove i due chirurgi presero a lavarsi di nuovo le mani.
«Espiantiamo
o no?», stava chiedendo il biondo all’altro, ma l’investigatore non li stava
più ascoltando. Aiko era stesa a pancia sotto sul
lettino, con le mani strette attorno al bordo, tanto da far sbiancare le
nocche.
«Sta
soffrendo?»
Aizawa lo guardò con la coda
dell’occhio, prima di rispondere. «Il suo corpo sta combattendo una battaglia
impossibile da vincere. Ha così tanto afflusso di RC da ucciderla almeno dieci
volte, ma sorprendentemente il cuore ha ripreso a battere in autonomia. Kuki, devi dirci tu cosa fare.»
Per
poco lo colse un malore. «Io? Io non sono un medico, Aizawa!
Tu lo sei!»
«No,
ma sei il suo referente», Shiba si asciugò le mani,
prima di porgerle all’infermiera per farsi rimettere i guanti. «Abbiamo due
scelte: togliere il kakuho per tutelare il suo cuore
e sperare che le emorragie non la uccidano oppure lasciarlo e sperare che con
una nuova gabbia i livelli si ripristino in fretta.»
«Togliamolo»,
disse Aizawa, senza mezzi termini. «Dì che dobbiamo
toglierlo e smetteremo subito con gli inibitori. Poi la porteremo in coma
farmacologico per qualche giorno, il tempo che il suo corpo guarisca
riassorbendo le cellule RC in eccesso. Quando saranno tornate al livello di un
essere umano, innesteremo di nuovo l’organo predatorio nella gabbia nuova.»
Urie
non rispose immediatamente. Guardò di nuovo oltre il piccolo oblò sulla porta.
Non sapeva nemmeno di cosa stavano parlando, di preciso, ma gli occhi di Ivak erano ricchi di convinzione e lui, come già detto, non
era un medico.
«Procedete,
va bene.»
«Ottimo.
Rimani qui, se vuoi.»
Non
si sarebbe sicuramente schiodato di un metro. Non per qualche nobile o
romantica motivazione, ma perché non riusciva più a ragionare abbastanza
lucidamente per ricordarsi quale fosse la strada per tornare alla saletta
d’attesa. Come poteva essere il referente di qualcuno? Non era in grado nemmeno
di capire come stesse lui. Era stanco? Disidratato? Spaventato?
Non
gli sembrava di sapere più niente.
Rimase
immobile lì, con una mano sulla bocca, a guardare dentro alla stanza.
Se
fosse stato capace, avrebbe anche pregato.
✠
«Sei
arrivata in anticipo.»
Hairu era bella e dolce esattamente
come la ricordava. Anzi, le parve ancor più graziosa, avvolta da quel vestitino
dalla gonnellina ampia di un pallido color pesca dalle spalline ricamate. Non
aveva memoria di averla mai vista con addosso qualcosa di diverso dagli abiti
formali che teneva in ufficio, ad accezione di qualche sera al pub di Gerry. Anche in quei casi, comunque, Hairu
non aveva mai indossato una gonna.
Il
sorriso, però, era il medesimo, così come i grandi occhi espressivi. Le stava
tenendo piano la mano, come se avesse paura di ferirla, mentre sorseggiava da
una cannuccia rossa quello che dall’odore sembrava un cocktail fruttato. Agli
agrumi.
«Non
dovresti essere qui. È presto per te.»
Aiko non aveva capito. L’aveva
guardata perplessa, prima di allungare l’occhio verso il bancone del caffè
dalle ampie vetrate luminose. Lì dietro, un vecchio stava servendo una bella
donna dai capelli castani, che portava acconciati di lato, in una lunga coda
castana. Ad un tavolo poco distante dal loro, un giovane dai capelli coi
capelli neri teneva il naso ben infilato in un libro di diritto, mentre con
l’indice cercava l’ansa della tazzina di caffè.
«Non
capisco», sussurrò quindi, perplessa. Aggrottò la fronte, sentendo una fitta
alla testa così forte da costringerla a portare la mano ad essa. Chiuse un
attimo gli occhi, prendendo un piccolo respiro. «Sono così stanca, Hairu.»
«Davvero
lo sei? Non dovresti. Hai ancora tante cose da fare.»
«Perché
stai parlando come Koori?», domandò quindi la mora,
per riflesso, facendola ridacchiare giuliva. Poi notò che sul volto della più
giovane si stava facendo spazio un sorriso malinconico. Un luccichio nei suoi
occhi le fece comprendere che qualcosa non andava, ma non riusciva a
reindirizzare le informazioni. Per riflesso, strinse di più la sua mano, «Hairu», la chiamò così da costringerla a guardarla. «Cosa è
successo? Perché sei triste?»
Questa
abbassò di poco il capo, incassandolo tra le spalle e sfilando la cannuccia
dalle labbra. «La trovo una cosa davvero crudele», sussurrò, alla fine. «Venire
strappati da coloro che amiamo. Non lo pensi anche tu?»
«Però
non è ancora arrivato il momento. È troppo presto, Macchan.»
La
seconda persona che parlò, impedendole di rispondere alla strana domanda di Hairu, le arrivò dalle spalle. La giovane dai capelli rosa
sorrise maggiormente, facendole cenno di voltarsi. Quando le fece, furono gli
occhi di Aiko a riempirsi di lacrime. «Shirazu…»
Il
giovane portò la mano dietro al capo, imbarazzato, prendendo posto accanto a
lei a quel tavolino. «Mi dispiace tanto, Aiko.»
«A
te dispiace? A me dispiace per ciò che ti ho fatto. Per ciò che ho lasciato che
facessero al tuo corpo.»
Lui
alzò le spalle, mentre l’anziano signore serviva anche Ginshi,
appoggiandogli di fronte una tazza ricolma di caffè fumante e andandosene di
nuovo, senza rivolgere ad Aiko nemmeno uno sguardo.
«Io sono morto, Aiko. Così come Orihara,
Noro, Osaki, Ihei… Tu però puoi ancora fare qualcosa, non pensi? Chi se
ne frega di un corpo vuoto. Non è ancora tardi. Devi solo capire che per te è
troppo presto e non puoi rimanere qui.»
Masa lasciò la mano di Hairu solo per potersi aggrappare al braccio del vecchio
compagno di squadra. Chiuse gli occhi, ormai pieni di lacrime amare, chinando
il capo in segno di rispetto verso di lui. «Non è vero, menti. È troppo tardi.
Per me è sempre stato troppo tardi.»
Lui,
per risposta, portò una mano tra i suoi capelli, accarezzandoli. «Lo sarà
quando avrai smesso davvero di credere in ciò che fai. Perché non importa
davvero da che parte stai, ma cosa fai.»
«Tutto
ciò non ha senso», ricomponendosi, Aiko portò via le
lacrime dal suo viso con le mani, spazzandole quasi come se le temesse. «Io non
so più da che parte sto, né tanto meno cosa sto facendo. Mi sento come se il
fatto che io sia viva stesse privando gli altri della libertà. Urie per primo,
ma anche Tatara. Ho perso la fiducia degli uomini della diciannovesima di Aogiri, ho perso anche quella della squadra Suzuya nonostante non me lo dicano. Io ho preso tutto
quello che potevo prendere e poi cosa ho fatto per meritarmelo? Nulla.»
«Hai
preso molto di più.» Il ragazzo che stava parlando non era seduto con loro, ma
al tavolino accanto. Era solo, chino su un atlante di medicina, apparentemente
disinteressato. Solo quando Aiko si voltò a guardarlo
sollevò le iridi di un verde smeraldino incredibilmente bello nelle sue.
Sembravano dello stesso colore dei raggi del sole attraverso delle vetrate
ramina. «Tutti prendono qualcosa dagli altri. Ghoul o
esseri umani non importa. È una guerra civile silenziosa quella che viene
combattuta ogni giorno e il suo nome è sopravvivenza.
Non vive più nessuno, sopravvivono tutti e basta.» Non lo interruppe, mentre
chiudeva il libro appoggiando fra le pagine un segnalibro colorato, così da non
perdere il segno. «Io potevo diventare un chirurgo e salvare vite. Forse salvare
la tua. Loro due combattevano al tuo fianco, ma tu non li hai protetti, lei»,
continuò, indicando una figura seduta ad uno dei tavoli vicino alle vetrate.
Aveva corti capelli viola e una rosa fra le mani. Il viso rivolto verso
l’esterno e una tazza vuota di fronte a sé. «Ha cambiato se stessa per colui
che amava e tu hai permesso alla tua padrona di torturarla fino alla follia e
condurla alla morte. Lui», stavolta, ad essere indicato fu l’anziano. «Aiutava
centinaia di vite, dando loro da mangiare e un rifugio sicuro. Lo ha fatto
anche con la donna che siede al bancone, ma voi vi siete permessi di inserirvi
nella sua vita, spezzandola. Per non parlare del ragazzo dietro di me.
Scommetto che nemmeno lui voleva morire quel giorno nella undicesima.»
Aiko non riuscì a rispondere. Lo
fissava in silenzio, realizzando di essere rimasta sola con lui solo quando le
luci si spensero di colpo. Non c’era più nessuno da indicare, nessuno a tenerle
la mano.
Solo
a quel punto il ragazzo si alzò, passandosi una mano fra i corti capelli neri.
Si sfilò gli occhiali da vista, chinandosi su di lei, improvvisamente
ammutolita. Sinuose come serpi, delle code familiari la circondarono, brillando
nel buoi nei loro toni del verde, del viola e del blu elettrico. La kagune del ghoul a avvolgeva
totalmente, ma non era minacciosa, no.
Aveva
qualcosa di famigliare.
«Tutti
prendono qualcosa dagli altri. Che sia giusto o sbagliato poco importa, succede
e basta. Niente filosofia né morale. Il mondo è ingiusto, Aiko
Masa.»
✠
A
svegliarla fu la pessima combinazione della porta che veniva chiusa con enfasi
e lo stridere di una sedia sul pavimento. Non fu comunque semplice tornare in
sé, anzi. Aiko ci mise parecchio ad aprire gli occhi,
infastidita dal suono continuo delle macchine che la circondavano e dalla
vibrazione del telefono che l’uomo seduto accanto al suo letto stringeva fra le
mani.
Un
forte odore di mandarini permeava la stanza, nonostante la finestra socchiusa e
la pioggia battente che profumava l’ambiente con le fragranze dell’autunno.
Hairu.
Sollevare
le palpebre fu difficile, perché le sentiva pesanti, ma quando ci riuscì captò
la fonte di tutto quel disturbo. «Aizawa», sussurrò
piano, attirando su di sé l’attenzione del medico. «Ho sognato Hairu Ihei. È Shirazu.
C’erano anche Kenzo e Kanae Von Rosenwald
con loro, insieme a persone che non conosco…»
Ivak sospirò, sollevato, buttando
la buccia del mandarino nel cestino, accanto al letto, prima di porgerne uno
spicchio alla ragazza. «Sono sicuro che sia stato un sogno davvero terrificante,
allora. Pieno di persone morte e-Kanae von Rosenvald? Quello del caso del Lunar
Eclipse?» La guardò afferrare a fatica quel piccolo
oggetto, come se pesasse chili. La mano, completamente ricoperta di cerotti per
tenere ferma la flebo, vibrò pericolosamente, ma alla fine lei riuscì seppur
con un grande sforzo ad accompagnarla alla bocca. «Che ne pensi? Ha ancora un
buon sapore?»
«Ammetto
di non essere mai stata una grande fan dei mandarini, ma questo è molto dolce.»
«Mi
rincuora parecchio sapere che possiamo ancora andare a cena negli stessi
ristoranti. Hai vissuto l’esperienza di diventare un ghoul,
sai?», dal suo sguardo, Aizawa capì. «Qual è l’ultima
cosa che ricordi, Aogiri?»
Lei
dovette pensarci sul serio. Tutto pareva così confuso e avvolto da una nebbia
impenetrabile. «Mi ricordo dell’inizio dell’operazione nelle fognature. Mi
ricordo anche che ero con la squadra Suzuya e che ci
siamo separati dalla squadra Quinx. Poi sono andava
da Hige e Aura e…. e…»
Aveva
affrontato Tatara. Il suo Laoshi. Un tremito la scosse, mentre le macchine segnalavano
l’aumento del battito cardiaco. Ivak si alzò per far
cessare quel ronzio fastidioso, «Non temere, non ti può prendere qui. Ci sono
così tanti agenti nell’edificio da farmi pensare che presto sposteranno alcuni
uffici per permettere ai tuoi colleghi di fare comunque servizio.» Il biondo
tornò a sedersi, accavallando le gambe. Poi le sorrise, incoraggiante. «Hai
salvato Higemaru e Aura da morte certa, te ne do
atto. Bel lavoro, Aogiri. Sei morta per sette minuti
e qualche secondo per questa tua botta di testa. Però ora sei di nuovo qui,
tutta intera nonostante ti avesse fatto a pezzi e con di nuovo il tuo kakuho in
corpo. Sei stata senza per quattro giorni.»
«Fa
male», ammise, stupendolo. «Sento la schiena in fiamme.»
«Penso
sia normale, tutto sommato. Abbiamo inserito una nuova gabbia, più resistente
della precedente, nemmeno dieci ore fa. È strutturata con una nuova tecnologia
che Chingyou aveva in cantiere, più sferica e a
reticolato. Una cosa molto figa.
Ti abbiamo fatta uscire dal coma
stamattina e devo ammettere che ti sei svegliata prima del previsto. Hai
dormito cinque giorni, Aiko.» Si interruppe il tempo
di inviare un messaggio, prima di indicarle il tavolo accanto al letto, sotto
alla finestra. «Hai ricevuto molte visite in questi giorni e molti regali.
Scollare di qui il culo di alcuni dei ragazzi è stato tutt’altro che semplice,
mentre con altri ci siamo semplicemente rassegnati.»
Aiko sorrise, nonostante i tubicini
che le uscivano dalle narici. Di minuto in minuto si sentiva più forte, sintomo
che gli inibitori che avevano usato durante l’intervento stavano perdendo la
loro efficacia. «Compreso il tuo, di culi?»
«Io
sono il tuo medico curante, devo stare qui.»
«Il
patologo è il mio medico curante? La
dice lunga sulla situazione.» Lo fece ridacchiare, mentre tra i tanti fiori e
pupazzi sul tavolo, un oggetto richiamò l’attenzione di Aiko
in particolare. Era rosso, scintillante, con una frattura al centro. Senza
quasi pensarci, la ragazza sollevò di poco i fianchi, facendo strisciare una
delle code oltre le coperte per afferrare l’oggetto. «Oi,
Masa! Perché non mi hai chiesto di prenderlo per
te?», chiese Ivak, allarmato. La sicurezza con cui la
ragazza arrivò a prendere fra le mani quel dono grottesco lo fece sospirare
rassegnato. «Vedo comunque che riesci ancora a usarlo bene. Non hai spaccato
nemmeno un muro.»
«Il
mio corpo è ancora abituato e anche la mente. Parte tutto da essa, non dal kakuho. Questa chi me l’ha portata?»
Ivak lasciò scivolare lo sguardo
sulla maschera rossa di Tatara, decisamente contrariato e forse disgustato. Poi
sputò il nome e Aiko capì. «Arima.
Pensava che avresti voluto averla, quando ti saresti svegliata. Come una sorta
di trofeo di guerra, suppongo. L’aveva con sé la notte della missione e poi non
si è fatto più vedere, se vuoi saperlo. Ha mandato il suo cane Hirako a-»
«Ma
io non ho vinto, immagino. Se no non sarei in queste condizioni. Hai detto che
sono morta?»
«Hai
affrontato il bastardo cinese e non sei morta. Hai decisamente vinto tu, Aiko.» Il medico continuò a mangiare il suo mandarino,
mentre la guardava passare le dita sulla frattura. Sembrava leggermente
dispiaciuta. «Sì, sei morta e hai fatto morire noi di paura. Poi sei tornata e
un ottimo team medico ha fatto un ottimo lavoro sul tuo corpo, riuscendo a
impedire al tuo cuore di continuare a fermarsi.»
Usando
la mano libera dalle flebo, Aiko si portò a sedere. Aizawa la aiutò, sistemandole i cuscini dietro alla schiena
dolorante, poi le porse un altro spicchio, tornando a guardare la maschera
rossa. La stringeva ancora. «Cosa ti passa per la testa?»
«Sono nei guai.»
«Io
fossi in te non ci penserei ora. Non credo avessi grandi alternative infondo.
Nemmeno tu sei così senza cuore da lasciare morire Higemaru
e Aura.»
Lei
alzò le sopracciglia, chiedendosi se doveva o meno offendersi. «Grazie, Yakuza», si limitò a rispondere semplicemente, prima di
sospirare afflitta. «Cosa faccio ora?»
«Ti
ho detto di non pensarci. Tanto non puoi andare da nessuna parte, no? Pensa al
tuo nuovo look, alla medaglia che sicuramente ti verrà assegnata e magari anche
al fatto che wow, non sei morta! Sai
quanta gente vorrà tirarti le guanciotte?»
Per
riflesso, Aiko prese fra le dita una delle ciocche
nere che le ricadevano sul petto, fin quasi al seno. Non aveva mai avuto i
capelli così lunghi. «Le cellule rc?», chiese,
facendo annuire Ivak. «Grazie al Grande Demone
Celeste non sono diventata come Sasaki. Sai, quando
li aveva bianchi con la ricrescita.»
«Sì
ho presente. Erano osceni. Sei stata fortunata suppongo, anche se non posso
dire lo stesso per noi. Io e Shiba ti abbiamo
tagliato le unghie ed erano dure come il ferro.»
Una
piccola risata proruppe dalle labbra di Aiko, che
dovette smettere a causa del dolore alle costole. «Vivere è soffrire.»
«Già,
è una dura verità.»
Si
scambiarono un sorriso, trasalendo contemporaneamente quando la porta si aprì
così tanto energicamente da sbattere contro la parete. Urie li fissò entrambi
con gli occhi sgranati e un leggero fiatone, segno che aveva fatto le scale
parecchio di fretta. Nella mano libera dalla maniglia –che
aveva schiantato contro il muro, facendo staccare un po’ di stucco colorato-
teneva sollevato il telefono, indicando Aizawa. «Sono
andato a mangiare qualcosa meno di mezz’ora fa.»
«E
lei nel frattempo si è svegliata. Stavamo appunto dicendo che la vita fa
schifo.»
Urie
non lo stava ovviamente ascoltando. I suoi occhi erano incollati su quelli
gialli di Aiko, la quale comprese improvvisamente ciò
che Aizawa aveva detto e ridetto riguardo ai
‘colleghi’ che avevano ricevuto la notizia della sua morte e resurrezione. Ci fu un secondo di stallo, poi decise di parlare
per prima. «Ei.»
«Ei…»
«Ok
io vado, sono già di troppo.» Il biondo recuperò un libro dal comodino, una
borraccia azzurra e il suo cellulare, prima di prendere dalla tasca del camice
altri mandarini, che lasciò sul ripiano per la giovane. «Tra un limone e
l’altro ficcateci un mandarino.»
«Sei
anticlimatico.»
«Questo
è l’insulto più raffinato che mi abbiano mai rivolto, Cookie. Prendetevi il
vostro tempo, io sarò qui in corridoio a fermare chiunque vorrà entrare.»
Il
caposquadra dei Quinx attese di vederlo defilarsi,
mentre Masa poggiava la maschera da parte,
nascondendola con il lenzuolo. Non seppe perché lo fece, ma si sentì in dovere
di levarla dalla vista. Rimasero soli e il ragazzo le si avvicinò, sfilandosi
il cappotto nero e appoggiandolo sulla sedia lasciata vuota, mentre allentava
il nodo della cravatta e si sfilava i guanti. «Come ti senti?», le domandò,
sedendosi in parte sul letto.
Lei
alzò piano le spalle, pensierosa. «Come se mi avessero macellato. Però a quanto
mi ha detto il mio medico curante, ovvero il patologo, è andata proprio così.»
«Hai
subito degli interventi molto invasivi, ma il tuo corpo ha risposto meglio del previsto
alla privazione e al ri-inserimento del kakuho. Secondo Shiba ti
riprenderai in fretta adesso, ma avrai molte cellule rc
in corpo. Hanno già programmato un ciclo di cure per riportare i livelli alla
normalità.»
Masa annuì, seguendo il discorso,
mentre si girava una ciocca fra le dita. «Fino ad allora saranno stabili o
diventerò Raperonzolo?»
«Sono
già stabili. Senti la kagune sensibile?»
Di
nuovo, lei annuì. «Sento come se avessi la schiena ricoperta di spilli. È una
sensazione discutibile in effetti, a metà fra il fastidio totale e l’euforia.
Sento che potrei infilzare un francobollo nella nebbia, bendata e a testa in
giù, ora.»
Urie
sbuffò, prendendole la mano nella sua. Lo fece con una delicatezza che infondo
l’aveva sempre rappresentato, anche se apparentemente Urie non sembrasse quella
pasta di uomo. «Che drammatica.»
«Mi
dispiace di essere morta.»
Le
scuse arrivarono inaspettate, tanto da fargli di nuovo sgranare gli occhi. Non
rispose subito, limitandosi a guardarle la mano e quel groviglio di tubicini
che la collegavano alla flebo. Quando riacquistò la parola, dovette togliersi
un dubbio. «Perché mi hai nominato tuo referente?»
Non
si aspettava quella domanda, ma la risposta le venne spontanea. «Per anni è stato Take, il mio referente. Quando
sono entrata nella sua squadra l’ho nominato perché la mia famiglia non c’è mai
stata in questi casi. Mio padre hai avuto il piacere di vedere che razza di
verme è e mia madre odia il distintivo della ccg. Non
ho altri parenti vicini e infatti immagino che non si sia fatto vedere nessuno,
vero?», lui scosse il capo, lentamente. «Non è un problema, non è la prima
volta che finisco in ospedale e mia madre non si presenta. Ho nominato te
quando abbiamo iniziato a frequentarci perché mi fido del tuo giudizio, tutto
qui. E poi siamo obbligati ad averne uno designato, senza eccezioni.» Gli
strinse di più la mano, «A quanto pare ho fatto una buona scelta.»
«Ha
deciso tutto Aizawa, non ho meriti se si parla della
tua salute.» Urie sembrava tristemente sincero nel dirlo e quando Masa fece per parlare e provare almeno in parte a
consolarlo cancellando dalla sua faccia quell’espressione derelitta, lui la
precedette di nuovo. «Avevi detto che non ti saresti mai frapposta fra un ghoul di raiting elevato e un tuo
sottoposto. Ti ricordi?»
Lei
boccheggiò un paio di secondi, mentre cercava di riportare alla mente quel
ricordo. Quando successe, sbuffò apertamente. «Non sono più quella persona»,
snocciolò con non curanza. «Voglio dire, non conoscevo ancora Hige. Chi lascerebbe mai morire Hige?
Naturalmente anche Aura, ma Touma va protetto. Lui non è ancora capace di
farlo da solo.» Smise di scherzare quando realizzò che lui era mortalmente
serio. «Cosa vuoi che ti dica? Ero più vicina a loro di voi. Non saresti mai
arrivato in tempo, non potevo aspettare che tu e il resto della squadra mi
deste supporto. Ho cercato in ogni modo di prendere tempo ma Tatara a quanto
pare non voleva concederci nemmeno un secondo.»
«Per
fortuna è arrivato Mutsuki.»
Aiko rimase un attimo in silenzio.
«Non
te lo hanno detto? Mutsuki ti ha salvato la vita. È
arrivato e ha guadagnato tempo fino all’arrivo della S0. Poi ti ha portato qui
in ospedale insieme ad Hirako.»
A
quel punto, Masa alzò la mano libera, come se si
stesse arrendendo al carico di informazioni. «Va bene, voglio tutta la storia
nel dettaglio, per favore. Aizawa non mi ha detto
niente di Tooru.»
«Aizawa è un coglione. Però ti ha salvato la vita, anche se
era ubriaco quando è arrivato qui la notte dell’operazione.»
C’era
qualcosa di estetico in Ivak che la operava sbronzo,
ma riusciva comunque a salvarle la vita prendendo le giuste decisioni. «Gli
devo una birra.»
«Pagagli
una cena. Basta alcool.»
Aiko inspirò pesantemente, mentre
un sorrisetto divertito le incurvava le labbra. Non sembrava che il medico
avesse bevuto molto negli ultimi giorni, preso dagli interventi e dalla cura
dell’amica. Forse avrebbe superato così la morte di Mei,
dedicandosi ai vivi e alle loro sofferenze. Comprendendo che poteva lasciare
andare ciò che non c’era più e ricordandosi di chi invece era ancora in vita.
Nonostante il fastidio alla schiena e i tubicini che le irroravano le narici di
ossigeno, Masa trovò la forza di pensare in positivo.
Nonostante avesse affrontato apertamente Aogiri, ci
riuscì comunque. Poteva accomodare tutto, in un modo o nell’altro. In realtà,
il pensiero di farlo in quel momento, raccontando ad Urie la verità su se
stessa, su Labbra Cucite, la attraversò. Cercò un modo delicato per dirlo,
realizzando che non esisteva. Sarebbe stata dura, ma andava fatto e non avrebbe
avuto altre chance per uscirne bene a metà.
Un
coraggio nuovo la animò, mentre Urie le scostava i capelli dalle spalle e le
sprimacciava il cuscino dietro alla schiena. «C’è una cosa che devo dirti da
tanto tempo, Kuki.»
Lui
tenne gli occhi nei suoi, mentre alzava di poco il lenzuolo per tenerla al
caldo. «Di qualsiasi cosa si tratti, puoi farlo dopo. Ora devi riposare e poi
ci saranno gli altri che vorranno salutarti. Ti vogliamo tutti a casa, non in
ospedale, ma per tornare devi esserti ripresa.»
Casa. Lo chateau.
Se
avesse parlato di Aogiri, se si fosse denunciata,
chissà se ci sarebbe mai tornata. No. L’avrebbero licenziata e incarcerata. Se
l’avessero mandata nella Cochlea? Molti dei
prigionieri ce li avevano spediti le sue squadre.
Avrebbe
perso i Quinx.
Avrebbe
perso Urie.
«No,
devo dirtelo.»
Non
poteva permetterlo. Non voleva
permetterlo.
«Io
ti amo, Urie Kuki. Non voglio più farti preoccupare
così, ma succederà di nuovo. Posso però prometterti di aspettarti, la prossima
volta.»
Provò
disgusto per se stessa, ma quel sentimento venne scambiato per senso di colpa
al punto tale che l’agente seduto accanto a lei non disse niente. Si chinò solo
su di lei, baciandola con delicatezza, come se avesse paura di spezzarla.
Il
disgusto non se ne andò, nonostante lei cercò di rimpiazzarlo con la sua solita
ironia.
«Per
il matrimonio, pensavo in inverno. Vicino a natale magari.»
«No,
odio la neve, le lucine e le persone che si vestono di rosso, Aiko. Posso concederti autunno se vuoi.»
La
lacrima che le solcò la tempia, ricadendo sul cuscino, non era commozione.
Solo
tristezza e consapevolezza che non avrebbe mai e poi mai potuto rivelarsi senza
perderlo.
E
avrebbe preferito morire piuttosto che perderlo.
«Ok,
ma la luna di miele in Francia. È un clichè, lo so,
ma riuscirò a portarti a Parigi.»
✠
Masa venne dimessa dall’ospedale
solo il venti di settembre, tre giorni dopo il suo risveglio. Nell’arco di quei
tre giorni, successero parecchie cose imprevedibili.
Prima
fra tutte, vi fu la visita di Midori, che andò da lei
per dirle che si stava davvero sposando. Aveva concordato la cerimonia per i
primi giorni di aprile, così da avere dalla sua la fioritura dei ciliegi della
grande tenuta della famiglia del futuro marito, dove avrebbero allestito dei
bellissimi gazebo imbellettati per consumare quello che aveva l’aspetto di un
banchetto imperiale. Un matrimonio in grande stile con il quale Masa non avrebbe mai potuto competere e forse anche per
questo non rivelò all’amica che lei e Urie avevano parlato parecchio, in quei
giorni.
Ebbe
quanto meno modo di presentarglielo, visto che la bionda rimase tutto il
pomeriggio con lei, mostrandole le foto degli abiti delle damigelle, i fiori
che aveva scelto e il prospetto per un abito ideale su misura che avrebbe
commissionato a una delle migliori boutique di tutta Tokyo, così da avere un
capo unico e originale come sosteneva di essere lei stessa.
«Non
capisco cosa c’entri lei con te», era stato il solo commento di Kuki quando l’amica di infanzia aveva lasciato la stanza.
Aiko aveva sorriso divertita,
rispondendo senza giri di parole. «Assolutamente nulla e penso sia questo il
bello fra noi. Non siamo nemmeno così amiche, ma lei è ancora ancorata al
nostro passato. Però che tristezza, damigella sì, ma mai d’onore.»
«Vuoi
dire che nemmeno tu sceglierai lei?»
«Scherzi?
Saiko sarà cento volte più carina con gli abiti color
pistacchio a cui sto pensando.»
La
seconda visita straordinaria la ebbe la sera del secondo giorno. Aveva appena
completato un controllo di routine con il dottor Shiba,
che aveva decretato che sarebbe potuta tornare a casa il pomeriggio successivo,
postumo però un po’ di sano riposo. Niente lavoro per almeno una settimana e niente stress. Le sue cellule rc iniziavano a stabilizzarsi grazie alle pastiglie di
inibitori, tanto che la flebo non era più stata necessaria. A distanza di meno
di una ventina di ore dal suo risveglio, Aiko
sembrava tornata in forma.
Era
pronta per ricevere il visitatore più interessante di tutti.
«Oi, Aiko», aveva esordito Aizawa, entrando nella stanza con un cipiglio perplesso.
«Un ragazzino qui fuori dice di essere qui per te. Lo faccio entrare?»
La
ragazza si stava abbottonando la camicetta da notte, così il biondo spostò lo
sguardo sul muro in muto rispetto. Lei invece alzò gli occhi dorati sull’amico,
socchiudendo piano le labbra. «Un ragazzino? Non sai chi sia?»
«No,
ma è alto e lo ha sguardo incazzato. Non so perché ma non mi piace molto,
soprattutto perché si guarda parecchio alle spalle mentre aspetta in corridoio.
Certo, mi ricorda qualcuno, ma non riesco a collegare chi….»
Masa sentì un piccolo tuffo al
cuore. «Chi c’è in ospedale?»
«Itou e Hirako sono al bar.»
La
mora si mordicchiò l’unghia che Nimura Furuta le aveva ricoperto di smalto blu notte durante la
sua visita quella stessa mattina, pensierosa. «Va bene, fallo entrare, credo di
avere capito chi è. In ogni caso, c’è Hirako.»
Lo
aveva capito davvero. Per questo quando Ayato mise
piede nella stanza lei cercò di mantenersi distaccata, incrociando le mani sul
ventre, sopra alle coperte. Chiese ad Aizawa di
chiudere la porta, lasciandolo libero se rimanere o meno. Quando il medico non
si mosse dalla stanza, lei alzò la mano per fermare il ragazzo. «Va tutto bene.
Lui sa.»
Ayato non sembrava molto persuaso,
ma non aveva tutto il giorno. Il sole stava calando.
«Se
per te va bene, andrà bene anche a me. Questi li manda Tatara.»
Aiko prese fra le mani il mazzolino
arrabattato alla meno peggio, sorridendo melanconica. «Manjushage», sussurrò, mentre il
suo sguardo accarezzava i fiori dai petali allungati. «I fiori dei morti.
Interessante scelta.»
«Sappiamo
che sei morta e tornata. Tatara ha detto che dietro a questo evento c’è un
oscuro presagio. Sembrava quasi turbato, se ti fa piacere saperlo. Hai fatto
muovere il suo gelido culo durante uno scontro e lo hai anche fatto sentire uno
schifo. Bella mossa, Labbra Cucite.»
Masa si prese un secondo, prima di
sorridere appena, chiudendo gli occhi. Sarebbe stata una serata parecchio
lunga. «Non ho fatto le presentazioni, a proposito. Yakuza,
questo è Rabbit. Rabbit,
questo è Yakuza.»
Ivak sembrava quasi offeso sul
personale. «Ma davvero? Quanti anni ha? Sedici? Almeno vai a scuola?!»
Ayato non gli rispose, passando gli
occhi violacei su tutto il suo corpo, come per capire se fosse o meno armato.
«Non è un agente», decretò alla fine e no, non era una domanda la sua.
«Sono
il patologo che estrai gli organi predatori e ci fa quinque,
in realtà. Vuoi entrare in una valigetta anche tu o ci dici perché sei qua?»
Kirishima assottigliò gli occhi, prima
di tornare a guarda Masa, portando una mano nella
tasca del cappotto e abbassandosi del tutto il cappuccio con l’altra. Aveva
mantenuto un profilo molto basso, sfruttando quando era affollato l’ospedale a
quell’ora, ma non aveva messo la maschera per ovvie ragioni. Quando gettò
quella di Aiko sul letto, lei la prese e la nascose
velocemente. «Stasera usciamo a caccia, Labbra Cucite.»
«Non
posso, Ayato.»
Ivak si gonfiò come un rapace
offeso. «Ovviamente non può! Siamo in un ospedale per quello che il tuo amico cinese le ha fatto. Se invece
di unirsi ad Aogiri avesse aperto una attività di
cibo da asporto come tutti i suoi simili, ora non saremmo qui.»
«Devi
uscire e trovarlo tu», ripeté Ayato, sovrapponendosi
alla voce del medico per coprirla. Fece un passo verso il letto, appoggiandosi
ad esso con le mani per guardarla meglio negli occhi. «Sei ancora un capo di Aogiri o no?»
«Dovresti
dirmelo tu, Ayato.»
«Non
abbiamo avuto ordini che dicono il contrario.»
Aiko prese un profondo respiro,
stringendo nelle mani i fiori. Quando li posò sul comodino per sollevare la sua
maschera, comprese che quella era una omissione di intenti. «Chi devo trovare?»
Kirishima infatti parve sicuro di sé,
come se ormai lei avesse accettato. Sapeva che non si sarebbe tirata indietro
una volta venuta a sapere il soggetto della loro ricerca. «Takizawa
è scappato», sganciò senza rispetto, facendole sgranare gli occhi. «Lo riesco a
rintracciare e penso di aver capito dove ha fatto il nido, ma non riesco a
prenderlo. Tatara ha detto che il punto di partenza per te sarà riportare la
pecora nera all’ovile.»
Ivak incrociò le braccia, alzando
le sopracciglia e sfidandola apertamente. «Non uscirai da questa porta, Aogiri. Conosco persone che possono spezzarti le gambe»
Non
ne dubitava. Aiko scambiò uno sguardo di intesa con Rabbit, poi guardò il dottore. «No, non lo farò», scostò le
coperte, prendendo il cappotto del medico dalla sedia, dove l’aveva appoggiato
il dottore quel pomeriggio stesso. «Usciremo dalla finestra e tu mi coprirai.»
«Scordatelo!
Non sei in te.»
Aiko accarezzò il bordo del cappotto e, in ultima, mise la maschera di
Labbra Cucite nella tasca.
«Sto
bene. Non lascerò Seidou la fuori a naufragare nella
sua follia. Sai quanti morti farebbe? Non posso permetterlo nemmeno come
agente.»
Non
c’erano speranze di farle cambiare idea, Ivak lo
sapeva. Sbuffò apertamente, allargando le braccia prima di farle cadere molli
contro fianchi. «Perfetto allora! Fammi
diventare tuo complice. Che devo fare?»
Lei
sorrise, divertita. Poi guardò prima Kirishima,
fermando lo sguardo sull’amico solo alla fine. «Cenare con me e poi ficcarti
nel letto al mio posto, ovviamente. Non verrà nessuno se si spargerà la voce che
sono stanca e voglio riposare.»
Sul
volto di Ivak rimase solo l’amarezza.
«Come
in campeggio, quando i miei amici scopavano e io dovevo coprirli.»
✠
«Cavolo
dovevo proprio fare la ballerina nella vita.»
Aiko scavalcò un pilastro portante
di cemento armato, guardando la scena attorno a sé. L’antro che Takizawa aveva scelto come sua tana era un vecchio
cavalcavia mai ultimato, che avrebbe dovuto collegare una zona della dodicesima
al centro residenziale adiacente. Il cantiere era stato dismesso da tempo, con
il disappunto degli abitanti di Tokyo che avevano visto naufragare quel
collegamento stradale comodo.
L’area
era diventata un cimitero, ammazzando ogni speranza. Aiko
sentiva l’odore della decomposizione ogni singolo passo che compiva a piedi
nudi fra le macerie, consapevole che una sola doccia non sarebbe bastata. Tenne
il cappuccio della felpa di Ayato calato sul capo,
dove i capelli lunghi iniziavano già a darle problemi, troppo lisci per
rimanere stretti nel concio che aveva arrabattato alla meno peggio prima di
indossare la maschera.
Il
giovane accanto a lei incrociò le braccia sulla canottiera, indicandole un
punto in cui una ragazza dalla maschera ovale se ne stava appollaiata, in
attesa. «Anche tu saresti dovuta diventare qualcos’altro, Tomoe»,
proseguì la mora, salendo sulla montagnola di detriti assieme all’altra
discepola di Tatara. Questa la guardò scettica da dietro la maschera, prima di
tornare a voltarsi alla volta dell’oscurità. Non dovette dire nulla, Aiko prese ad annusare l’aria. «Lo sento, anche attraverso
il fetore della carne in decomposizione. È qui e ha bisogno di un bagno oltre
che di un supporto psicologico.»
«Hai
in mente un buono specialista?», domandò sarcastico Ayato.
La
mora ridacchiò appena. «Ho in mente una pazza che potrebbe mangiare. La
psicologa del dipartimento, ovvero la mia spina nel fianco.»
«Tutti
abbiamo i nostri nemici», sussurrò fievole come un vento primaverile Hakatori, stringendo fra le mani l’elsa della quinque. Sembrava un cane in allerta. «Sa che siamo qui e
ci sta ascoltando, vero, mèi mèi?»
«Dannazione
se lo sa. Mi chiedo solo cosa sta aspettando per saltarci addosso.»
Si
creò una situazione di stallo insopportabile. Aiko
era piuttosto sicura che da soli, loro tre, non sarebbero riusciti a fare
fronte alla furia di Seidou. Se davvero era uscito di
nuovo di testa, avrebbe fatto meglio ad agire da sola. Era avventato, certo, ma
la sua stessa presenza in quel luogo lo era.
Devo arginare in
ogni modo la sua rabbia.
«Va
bene, vado io. Voi state qui e copritemi, se scoppia
un casino.» Passò la giacca di Aizawa al ragazzo,
prima di appoggiare una mano sull’impugnatura della katana di Tomoe. Si abbassò la maschera sul viso, guardandola
severamente, come avrebbe dovuto sempre fare con la sua kohai,
ottenendo come risposta la presa dell’altra ammorbidirsi. «Andrà tutto bene, mi
prenderò io cura di lui, perché è il mio dharma.» Lo
disse con una certa sicurezza, mentre si liberava della felpa e di qualsiasi
impedimento.
«Cerca
di non lasciarci il culo, sul tuo dharma.»
«Grazie
per le belle parole di incoraggiamento, Kirishima.»
Con
un respiro profondo, si preparò e discese la collinetta di calcinacci e
cemento, non ferendosi solo grazie alla sua pelle indurita. La camiciola da
ospedale che aveva indossato al posto della sua camicetta da notte lasciava
libera la schiena, ma a causa delle visite di controllo a cui veniva sottoposta
giornalmente, sperava di non dovere utilizzare la kagune.
Iniziò
a chiamare il compagno di disavventure, camminando nel buio e pestando chiazze
di sangue e resti di pasti. L’odore più avanzava più si faceva insopportabile.
Improvvisamente si rese conto di quanto gli allenamenti con Tatara in cui
soleva bendarla fossero stati utili. Sentiva dei movimenti attorno a lei, ma
nella penombra non poteva distinguere nulla se non ombre, forse proiezioni
mentali della sua mente paranoica. Eppure sapeva che lui era lì. Lo sentiva.
«Seidou, ti supplico, vieni da me.» Si fece coraggio,
abbassando la spada e allungando una mano, chiudendo gli occhi.
«La
Kitsune, la
Kitsune….»
All’inizio
le parole arrivarono alle sue orecchie come una carezzevole litania, recitata
però con voce tagliente. Sembrava essere ovunque attorno a lei. Takizawa poteva anche essere leggermente sopra le righe in
quel momento, ma rimaneva comunque intelligente e calcolatore: stava fruttando
in modo a dir poco perfetto l’eco della grotta artificiale in cemento armato. Aiko decise di affidarsi unicamente al suo naso, così da
evitare di venire tradita dagli altri sensi. La mano tesa non ebbe nemmeno un
sussulto quando realizzò che era alle sue spalle.
«Non
sono un Youkai.
Sono solo un agente morto della ccg, come te.»
«La
Kitsune è
ingannevole, assume molti volti. Ed è furba! Furba come una volpe», una risata
sinistra le fece accapponare la pelle, ma nuovamente tenne immobile la
posizione e non aprì gli occhi. «Aprì le code, le voglio contare. Sei il Nogitsune, vero? Sei qui per farmi diventare
pazzo.»
«Sei
già pazzo», sussurrò con tono basso la mora, «Sono qui per riportarti a casa.»
«Io
non ho una casa.»
«Hai
ragione, ma nemmeno io ce l’ho. Ti consola?»
Una
mano fredda scivolò sotto al suo camice, toccandole il fianco. «Non c’è più»,
disse Takizawa, alludendo a quella cicatrice che lui
stesso aveva provocato con un morso anni prima. L’altra mano la strinse al
collo, forte. Aiko lasciò cadere il braccio e
lasciando la presa sulla quinque, arrendevole. «Non
sei lei. Sei un mostro mandato da altri mostri, lo so. Lei è morta. Tatara l’ha
uccisa e io sono stato di nuovo abbandonato.»
«Le
mie cellule sono impazzite», la presa si rafforzò e lei dovette deglutire due o
tre volte per riuscire a proseguire. «Le mie cicatrici, il tatuaggio di Eto…. Il mio corpo ha riassorbito tutto.»
«Menti.»
«Mettimi
alla prova Seidou. Cosa vuoi sentirti dire? Vuoi che
ti ricordi di quella sera a Kyoto, quando abbiamo fatto a pezzi mio fratello?
Oppure quella volta che mi hai aiutata a far sparire quel gruppo di rivoltosi
nella decima? Oppure vuoi storie più vecchie? Voi che ti parli dei nostri dieci
giorni insieme?»
Non
la lasciò andare e smise addirittura di ascoltarla. «Kitsune mostrami la tua sfera,
voglio mangiare anche quella. Insieme al tuo corpo, voglio anche l’anima.»
«Basta!»
Gli assestò una gomitata decisa nelle costole, non facendogli male, ma
prendendolo abbastanza in contropiede da toglierselo di dosso. Non poteva più
tollerare le sue mani sulla sua pelle, le riportava alla mente ricordi
orribili. «I fantasmi e gli spiriti dei boschi non possono prenderti a calci in
culo, ma io sì, Seidou.» Cercò i suoi occhi nell’oscurità, trovandoli a
brillare come quelli di una fiera, illuminati da una scintilla di crudeltà che
andava però spegnendosi. «L’onestà non è un’opinione o un sostantivo
altisonante. L’onestà fra due persone è un dedalo di vincoli inossidabili, un
legame che non si può estirpare con una serie di notizie buttate al caso e
inconcludenti.» Se non fosse riuscita a farlo ragionare, non ci sarebbero state
speranze di farlo uscire di lì con le buone, per questo giocò il tutto per
tutto, allungando di nuovo la mano, decisa. «L’onestà che c’è sempre stata fra
noi, ogni singolo giorno di ogni singolo mese di ogni singolo anno da quando l’Aogiri ci ha costretti insieme in quella cella, è un dato
di fatto. Ti ho mai mentito? Ti ho mai ingannato? Andiamo via di qui, ti prego,
e risponderò a tutte le tue domande.»
Aiko era pronta. Aveva portato il
piede sotto la spada, pronta a sollevarla con un calcio per contrastare un
attacco.
Non
ce ne fu bisogno. La mano di Takizawa, al contrario
della sua, tremava. Era fredda esattamente come l’aveva avvertita sul fianco e
pallida come quella di un malato. Sapeva che era così, anche se non poteva
vederla nitidamente. Da prima si sfiorarono le loro dita, che lei poi intrecciò
a quelle del ragazzo. «Seidou ti prego, basta
scappare. Non esiste per noi un altro posto che non sia quello in cui già
siamo.»
Non
ci furono altre parole.
Il
corpo di Seidou si appoggiò molle al suo, mentre il ghoul pareva perdere le energie. Aiko
gli abbassò il cappuccio, legando le dita ai suoi capelli mentre con le labbra
gli sfiorava la tempia.
«Va
tutto bene, sono qui.»
«Hakatori ha detto che sono tornati alla base della
diciannovesima. Tatara è compiaciuto, Eto è felice e
c’è tutto il lieto fine necessario. Ce l’hai fatta di nuovo, Labbra Cucite.»
Aiko aveva ancora i capelli bagnati
e l’accappatoio addosso, quando Ayato le comunicò la
lieta notizia, seduto sul davanzale della finestra spalancata. Aizawa, che era stato brutalmente svegliato dal loro
ritorno, osservò il ragazzino intascare la maschera dell’amica, prima di
riporre il cellulare. Non era molto felice del fatto che il suo cappotto,
pregno dell’odore di T-Owl e decomposizione, fosse
stato cestinato molto lontano dall’ospedale, ma preferiva quello alle
conseguenze di ciò che sarebbe potuto succedere se un Quinx
l’avesse fiutato.
«Almeno
è stato un successo.»
Masa non sembrava concordare con il
medico. Sospirò, alzando il braccio e osservando la macchia rosata che rivelava
dove prima aveva tatuato il crisantemo, quasi completamente riassorbito dalla
pelle rigenerata. Poi lo riabbassò con un gesto secco. «Se non stesse così
male, non l’avrei riportato.»
«Lo
so, lo hai detto otto volte mentre tornavamo.»
«Non
sto scherzando, Ayato. Se Seidou
non fosse completamente fuori controllo, non l’avrei mai rispedito dai suoi
carnefici.»
Rabbit non sembrava colpito da quella
predica di amore e bontà. Alzò un sopracciglio, prima di alzarsi con un
saltello sul davanzale. «Come preferisci, boss», la prese in giro, tenendo le
mani nelle tasche della felpa che gli era stata restituita. «Se questo ti
aiuterà a dormire la notte, a me sta bene. Te ne devi raccontare parecchie di
storie, per convivere con te stessa.»
«Non
abbiamo tutti il lusso della libertà, sai?»
Ivak sospirò pesantemente, alzando
il capo verso l’alto e mormorando qualcosa in una lingua che nessuno degli
altri due poteva capire. «Basta coi merdosi
discorsi filosofici da Aogiri. Tana libera tutti.
Torna a Wonderland, coniglio, tra
poco sorgerà il sole e qui potrebbe scaldarsi la situazione.»
Aiko sembrava d’accordo. «Vai e dì
a Tatara che per un po’ non mi farò sentire. Sarò nell’occhio del ciclone.»
«Diglielo
tu, hai un telefono no?», fu la pragmatica risposta del ragazzino, prima di
lasciarsi cadere all’indietro.
Ivak gli diede appena il tempo di
farlo. Chiuse la finestra e si voltò verso Masa,
stanco. «Basta avventure, signorina. Fila a letto e guai a te se finisco nella
merda. Se si sospetterà anche solo vagamente di un mio coinvolgimento, canterò
come un canarino.»
Aiko si infilò sotto alle coperte,
lasciando al medico un po’ di posto. Lui prese la palla al balzo, recuperando
una coperta dalla poltrona di fronte al letto e mugolò soddisfatto quando tornò
a stendersi sul materasso.
La
mora appoggiò il capo alla sua spalla.
«Sono
sicura che lo farai, Yakuza.»
✠
«La
vuoi diritta? O magari scalata? Oppure un po’ più lunga ai lati e corta al
centro?»
Aiko si sentiva stanca morta e sicuramente
la scampagnata notturna non aveva aiutato. Sbuffò, prima di rispondere
incolore. «Devi tagliarmi una frangetta, Koori. Non
devi compilare un rapporto. Non servono tutte queste….
Cosa sono, definizioni? Stili? Fammi quella che pensi mi starà meglio e basta.»
Il
classe speciale non sembrava soddisfatto. Sistemò le due forcine che tenevano
separata la ciocca lunga frontale dal resto dei capelli, prima di guardare
critico l’amica. Poi prese la forbici. «Asimmetrica sia. Verso sinistra o verso
destra?»
«Smettila
e taglia!»
Dalla
poltrona, Urie alzò il viso. Stava leggendo il giornale in silenzio, tenendo
con una mano la tazza di caffè bollente che Aizawa
gli aveva appena servito ridacchiando sotto i baffi. Anche lui aveva
visibilmente bisogno di dormire un po’ di più, ma per fortuna il capo dei Quinx non aveva fatto domande. Forse non se ne era manco
accorto.
«Dovrebbe
farlo Fura.»
«Fura non è qui», insistette Aiko, mentre Koori iniziava
almeno ad accorciare i capelli, con espressione scettica. «Io non li sopporto
oltre tutti questi capelli, voglio almeno avere la visuale libera.»
«Falli
scalati verso destra, così il kakugan rimane bello
libero», suggerì il medico, stupendo piacevolmente il classe speciale, il quale
annuì compiaciuto.
«Allora
vado.»
Un
bussare alla porta tutt’altro che leggerlo lo bloccò con la mano a mezz’aria e
il polso piegato in una angolatura morbida. Nakarai
non attese nemmeno il permesso per entrare, ritrovandosi a guardare perplesso
la scena. Dietro di lui si affacciò anche Tamaki, con
in mano un sacchetto pieno di paste alla marmellata di lampone. Masa avvertì subito il buonissimo profumo.
«Stiamo
per assistere a Ui passione parrucchiere», li anticipò
Aizawa, facendo cenno verso la brocca del
caffè. «Vi unite?»
«Siamo
solo di passaggio», lo fermò Keijin, mentre Mizurou si avvicinava per lasciare alla ragazza la
colazione speciale. Koori iniziò piano a tagliare,
mentre Nakarai continuava. «Ti senti in forze
abbastanza per sostenere una conversazione formale, primo livello Masa?»
«Sto
per tornare a casa, prima classe. Stasera sarò di nuovo con voi nella
tredicesima», gli rispose lei, incrociando gli occhi per osservare i progressi
dell’amico, talmente concentrato da tenere i suoi assottigliati. «Sei venuto a
parlarmi del nostro nuovo caso?»
«No,
sono venuto a dirti che hanno richiesto il tuo trasferimento alla squadra
definitiva per il tuo periodo di congedo dalla Quinx Squad», la corresse il vice capo della squadra Suzuya, senza tatto.
Tutti
si voltarono verso di lui per guardarlo, eccetto Koori
che pareva troppo preso dal lavoro di precisione e dai dettagli clinici
dell’amica, sui quali non sarebbe passato sopra con leggerezza. «Aiko deve riposare per qualche giorno. Su mio ordine, dite
a chiunque l’abbia notata che potrà inoltrare la richiesta nuovamente
all’inizio della prossima settimana.»
Gli
occhi neri e profondi come pozzi di Nakarai
squadrarono la sua schiena magra, prima di sollevare il mento leggermente. «Con
tutto il rispetto, vorrei che fosse lei a comunicarlo al classe speciale Arima, signore. So che avete più confidenza e oggi mi
sembrava molto di fretta quando è venuto a portarmi questo.»
Ui allontanò le forbici dal viso
di Masa, voltandosi del tutto verso il vicecapo della
squadra Suzuya. «Arima ha
fatto da intermediario?», chiese stupito, prendendo il fascicolo e aprendolo.
«No.
Il classe speciale Arima ha fatto domanda per
integrare il primo livello Masa nella prima squadra
della S3.»
Fu
strano. Aiko sentì il cuore bloccarsi per qualche
istante, chiedendosi se fosse quella la sensazione di nausea e vertigine che si
provava durante un arresto cardiaco. Istintivamente cercò lo sguardo di Koori, che però era troppo preso a leggere quelle carte,
quasi come se contenessero fra le righe le risposte al senso della vita. Non
erano i soli a sembrare spaesati. Aizawa aveva
completamente perso il colore sul viso, mentre il suo sguardo si era spostato
assente sul pavimento. Urie, invece, versò una goccia di caffè sul pavimento,
prima di alzarsi in piedi, appoggiando tazza e giornale sul tavolino
frettolosamente. Si affiancò al classe speciale, portando una mano al mento
mentre a sua volta prendeva a leggere. «Tutto qui?», chiese, senza giri di
parole. «Non ho mai letto una richiesta formale di trasferimento così breve.»
Ui lo guardò con la coda
dell’occhio. «Arima non è mai stato un uomo di molte
parole.» Dal taschino della camicia, Ui prese una
penna stilografica, voltandosi quindi verso Masa.
«Devi decidere entro qualche ora e poi farlo firmare al primo livello Urie. Suzuya ha già firmato e anche il prima classe Nakarai.»
«Avete
firmato prima di interpellarmi?»
Il
biondo scambiò uno sguardo con Tamaki, il quale
rispose per lui. «Kei non ha usato eufemismi: il
classe speciale Arima era davvero di fretta e ha
detto che avete molto lavoro da fare. Se non vuoi lavorare nella S3 e rimanere
con noi, meglio se lo chiami subito, Aiko.»
«Che
follia», parlò di nuovo Ui. «Chi direbbe mai di no a
una tale opportunità? Aiko io sono stato un membro
della S3 per anni. Nessuno ti formerà mai a livello combattivo e tattico come Kishou Arima. Questo è il tuo
trampolino di lancio per fare carriera.»
Urie
incrociò le braccia, «Aiko», la chiamò cercando di
essere premuroso. Eppure una nota stonata gli storpiò appena la voce. «La
decisione è tua. Se vuoi andare, posso firmare anche subito.»
«Torneresti
a vivere allo cheatau, se lo desideri», sottolineò Koori, come se stesse effettivamente cercando di
invogliarla. «E saresti di nuovo in squadra con Take. Senza contare che sono
molto a corto di organico logistico e tu sei una bravissima criminologa. Tutti
i casi ad alto profilo passano per le mani di Arima e
ora dovrà occuparsi di qualcosa di davvero grande, che non mi è dato rivelare.
Avrà bisogno di un’investigatrice come te e tu, dopo lo scontro che hai appena
avuto con Tatara, avrai bisogno di un buon insegnante.»
Sembrava
ironico.
Dopo lo scontro
con il mio maestro, ne necessito uno nuovo.
Aiko prese la penna in mano, non
sapendo cosa fare. Doveva firmare? Poteva tornare allo cheatau?
Poteva essere all’altezza di quella squadra così famosa? La squadra a cui
ambiva Urie da tutta la vita. La squadra che tutti guardavano dal basso, che
tutti elogiavano. Sarebbe riuscita a lavorare per Arima
Kishou e per la Aogiri
allora stesso tempo?
«Voglio
pensarci bene e leggere quel fascicolo», rispose la mora, tenendo la penna in
mano e portando l’altra per ricevere il plico. Se lo appoggiò in grembo e poi
passò la mano sulla frangetta, che era venuta particolarmente bene nonostante
la situazione. «Non voglio prendere una decisione di questa portata a cuor
leggero.»
«Credo
sia saggio, ma non sottovalutare la grande opportunità che ti è stata data. Una
volta nella vita si può entrare in una squadra così.» Koori
le sorrise, appoggiando le forbici sul comodino. «Però hai tutto il diritto di
pensarci su. Se desideri tornare nella Prima, sono pronto ad assumerti io
stesso nella S1. Anche io sono a corto di organico.»
Nakarai si fece avanti, guardando
soprattutto nella direzione di Aizawa. Dietro alla
schiena teneva ancora una cartellina. «Posso parlare un secondo con la paziente
da solo, signori?»
Mentre
la stanza si svuotava lentamente e Aizawa la guardava
negli occhi, in tralice, Aiko strinse forte a sé Tamaki. «Ti preparerò la valigia, nel caso in cui deciderai
di andare via», le sussurrò il castano. «E la porterò a casa tua. La S3 e la S1
uno sono eccezionali, dovresti tornare qui.»
«Anche
voi siete eccezionali, tu lo sei», si staccarono lentamente, scambiandosi un
sorriso sincero. «Ma la storia di Kenzo e Iruka…. Lo
stare in squadra insieme e la iella…. Sono vere. Sono quasi morta!»
«Cavolo
se sono vere. Vattene fino a che sei in tempo.»
Un
ultimo sorriso e poi si chiuse la porta alle spalle, lasciandola sola col
biondo. Questi le porse il fascicolo che teneva ancora con sé, molto più
consistente dell’avviso di trasferimento. «Volevo che tu fossi la prima a
leggerlo. Sto per andare a consegnarlo al diretto.»
Aiko lo aprì, leggendo il titolo di
quel rapporto e sentendo il sangue calare di temperatura mentre scorreva rapido
nelle vene.
«Indagine interna sul potenziale rapporto fra
Aiko Masa, primo livello
investigativo, e l’Albero di Aogiri», lesse a
voce alta, «Sono impressionata da quanto hai scritto, davvero. Sono nei guai?»
Lui
scosse piano il capo. «Ti risparmio la lettura. Ho avuto sospetti su di te dal
primo istante in cui abbiamo iniziato a lavorare insieme. Anche Suzuya ne ha avuti, ma insieme siamo arrivati alla
conclusione che non ti abbiamo mai capita.» Fece un piccolo intervallo fra
quelle parole e il resto del discorso, permettendole di guardare le foto che
aveva allegato di lei per strada. Sempre sola e nel tempo libero. Era stata
anche pedinata e nemmeno se ne era accorta.
«Non ho fatto menzione della tua storia con l’agente Urie, né delle
uscite notturne che non autorizzavamo. Siamo arrivati alla conclusione che stai
indagando su qualcosa di strano, forse collegato a Hideoshi
Nagachika, sul quale hai lavorato tempo fa. Sul
rapporto abbiamo scritto solo che non ci sono le basi per avviare una
istruttoria su di te e che posteriormente al tuo scontro con Tatara, è ovvio
che non c’è possibilità di un tuo coinvolgimento con Aogiri.
Non sei tu la spia che cerchiamo da anni, quindi….
Perché non sei tu, vero?»
Gli
occhi dorati di Aiko saettarono in quelli dell’altro.
Non esitò.
«No,
non sono io la spia, Nakarai. Volevo davvero aiutarti
a trovarla, ci ho provato, ma non riesco a capire chi potrebbe essere.»
«Stai
indagando su questo?», la incalzò lui, senza pietà né inclinazioni nella voce.
«Seguivi qualche pista strana utilizzando informatori non esattamente ‘legali’
?»
Masa annuì. «In un certo senso sì,
cercavo anche la spia»
In un certo
senso.
«E
sì, ho avuto contatti con ghoul per risolvere alcuni
casi. Come l’Embalmer.»
Il
biondo riprese la cartella, «Non sei né la prima né sarai l’ultima a farlo.
Solo occupatene quando non ti saranno più utili, va bene?», lei acconsentì e
lui si allontanò di un paio di passi dal letto. «Siamo stati insieme troppo
poco per conoscerci davvero, Masa Aiko.
Non posso dire quindi molto su quello che so essere un addio.»
La
morettina ridacchiò piano, appoggiandosi fiacca ai cuscini. «Diciamo un
arrivederci, ok? Niente più addii.»
«Allora
arrivederci. Se posso permettermi, però, ti do un consiglio finale, in quanto
sono ancora tuo partner sino a che non firmerai: non lasciare che quello che
stai cercando ti faccia perdere. Non ne vale la pena. Ora riposati, hai un
aspetto schifoso.»
«Grazie
di tutto, prima classe.»
Anche
lui lasciò la stanza e una volta sola, Aiko chiuse
gli occhi, abbandonando indietro il capo.
Si
sentiva persa da così tanti anni ormai, in balia di continui sentimenti
contrastanti, da poter avere solo l’ambizione di un assaggio di vita normale.
Una
aspirazione diversa.
Il
potere stretto fra le mani, ma in positivo.
Avrebbe
trovato se stessa nella S3? Se lo chiese, mentre riapriva la cartellina,
passando le dita sulle due righe scritte da Arima con
calligrafia sottile e stretta.
Richiedo che
l’agente di primo livello Aiko Masa
entri a far parte della S3, per compensare l’ingente perdita di personale dei
recenti mesi. Classe speciale Kishou Arima.
«Non
un perché, non una spiegazione. È così da Arima da
sembrare un clichè.»
Con
la penna stretta nella mancina, decise in fretta senza consultare Eto.
Sapeva
cosa le avrebbe detto quest’ultima.
Pose
una firma sulla carta e poi si voltò sul fianco, chiudendo gli occhi.
La
sua vita avrebbe avuto finalmente quello spasmo che serviva per far cessare
quegli assordanti applausi?
Continua…
✠Nda✠
So
che sono di nuovo in ritardo, ma per scusarmi vi ho scritto un capitolo davvero
lungo!
Che
dire, un bel cambio di rotta, uhm?
Stiamo
per entrare nella parte di storia che preferisco in assoluto su tutti.
Sono
eccitata al pensiero di scriverlo!
Voglio
ringraziare sinceramente le due ragazze fantastiche che mi hanno recensita.
Mi
avete dato una carica in più!
Grazie
davvero.
A
presto con l’inizio del prossimo caso.
…Un caso indimenticabile.
C.L.