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Autore: Avareil    18/06/2018    4 recensioni
Mito ancestrale, fondativo, quello di Ade e Persefone narra del legame tra Superficie e Oltretomba, avvinte in una danza ciclica e imperitura.
Un'unione ostacolata, un sentimento messo a tacere, il destino dell'uomo minacciato dall'egoismo.
I miti raccontano l'immortalità degli dei, tralasciando il loro essere vivi e pervasi da sentimenti umani, troppo umani.
Celebriamo la vittoria della fiamma sulla brace.
Cantiamo la storia di una vita promessa alla morte.
*In revisione*
Genere: Avventura, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ade, Estia, Persefone
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il mostro nel cuore
 
Due occhi.
Due occhi opachi, quasi vitrei, la scrutavano dall’alto.
L’inquietudine trapelava da essi cristallina e lacerante, una vecchia angoscia appesantiva il respiro solitamente leggero.

Da quanto tempo la osservava?

Le palpebre mezze schiuse, la fronte corrucciata, il busto sollevato ritmicamente in respiri ancora assonnati: chiaro il tentativo di mettere a fuoco il volto di quell’esserino fluttuante al suo cospetto.

“Emisu.”

Unico rumore udibile: il sottile fiammeggiare ai piedi dello spirito.

“Emisu?” Un’altra invocazione a vuoto aveva accompagnato la rapida vestizione della dea: faceva freddo, il focolare stranamente taceva.
Impensierita dal quell’anormale silenzio, la dea dalle spalle ammantate aveva tentato di richiamare l’attenzione dell’essere avernale con una carezza sul viso sfregiato ma quella, forse distante secoli da quel luogo, continuava ostinatamente a fissare il letto vuoto dinnanzi a lei.
Repentino il presentimento di un qualcosa di inquietante le aveva folgorato la mente.

“Dov’è il tuo signore, ancella?”

“Il sovrano dell’Averno è lontano da questi luoghi. Egli si trova presso la sorella Estia.”

“E’ stata liberata?”

“A caro prezzo.”

Un singulto di gioia, sfuggito troppo rapidamente dalle labbra sorridenti, si era infranto contro l’amaro retrogusto di quel a caro prezzo mormorato gravemente dall’avernale.

“Sarà meglio che li raggiunga. Fa’ in modo che il carro di Ade mi attenda all’ingresso.”

“No, mia signora, è impossibile.”

Persefone, turbata dai modi di quella, non aveva esitato un istante e, rivoltole ancora uno sguardo carico di domande e timori, aveva ribadito la propria richiesta.

“Mia signora, non vi è alcun modo in cui io possa accogliere la vostra richiesta. Siete attesa altrove, il più celermente possibile”.

“Chi mi attende?”

Nemmeno quel quesito aveva ricevuto risposta: Emisu, divampata in piccolo fuoco smorto, aveva già raggiunto l’uscio, in attesa di esser seguita.
 

Tutto taceva.
L’Averno, di cui sempre aveva percepito la vita e l’essenza, sembrava adesso immobile, muto al suo incedere lento. La volta del cielo, nera e fumosa, appariva tetra e l’aria, pesante e umida, si appiccicava al corpo, alle narici, tra i capelli morbidamente acconciati in treccia ribelle.
Non un’anima incrociava la sua marcia, non un servitore l’accompagnava con lo sguardo, al riparo delle pareti nere. Le torce non ardevano, il vento non sferzava l’etere e, per questo motivo, il tanfo si era fatto miasma come al cospetto di cadaveri in decomposizione.
Essere ospite di quel luogo, al quale apparteneva ma che non possedeva a sua volta, la rendeva ansiosa, incapace di comprendere veramente ciò che la circondava: la preoccupazione si era fatta paura quando un lungo ululato aveva spaccato il regno dei morti.
Il primo era stato profondo, roco, di avvertimento, gli altri, invece, un misto di guaiti e uggiolii.
Cerbero puntava i musi verso le sponde, la coda rigida svelava il suo turbamento nell’aver percepito qualcosa tendersi verso il nucleo pulsante del dominio di Ade.
Nemmeno in quello stato, con gli occhi sgranati e il respiro leggermente accelerato, Persefone aveva osato rivolgere parola al fuocherello che la precedeva a quasi cinque braccia di distanza, né più sentiva il bisogno di invocare Ade in muta preghiera del cuore; le bastava rimanere in silenzio, tendere l’orecchio alla ricerca di quell’antico battito che sosteneva il regno delle ombre per coglierlo debole, quasi nascosto.

L’Averno taceva, astante silenzioso di uno spettacolo di cui sapeva essere la sfortunata protagonista.

Oramai immobile, a pochi passi dal suolo sacro che vedeva suggellato il patto tra Ade e il Fato in quella pianta oramai divenuta tronco robusto, percepiva distintamente come cento mani e cento corde e cento catene tirarla con forza.

Un ultimo passo e avrebbe varcato il confine.

 A distrarla,

solo un battito d’ali convulso.
 

°°°


 
 
Un barbagianni?
Il becco piccolo e affilato campeggiava al centro di un volto piumato e spettrale, bianco come un’anima trapassata.
Messaggero di cattive notizie, portatore di sventure, animale avernale dall’indole solitaria e macabra.

Demetra osservava impietrita l’animale al suo cospetto.

Mai aveva permesso che una simile bestia le si avvicinasse, mai era stato concesso a un simile mostro di poggiare gli artigli sulle messi, i prati, le sponde o i sentieri a lei sacri.

Eppure era lì, candido come una vergine, funereo come l’Averno dal cui cielo proveniva.
E la osservava, il disgraziato, la scrutava dal basso, silenzioso e immobile, in attesa di un cenno.

“Bestia dell’Ade, perché abbandoni la tua dimora? Perché ti presenti al mio cospetto lugubre come un morto?”.

“Mia dea” un verso, gracchiante e stonato, aveva accompagnato la mirabile metamorfosi, tramutandosi, infine, in armoniosa voce umana.

“Mia signora, voi che tanto mi disprezzate, apprezzerete, invece, quanto sto per rivelarvi. Vostra figlia è vittima di una cospirazione”.

Ascalafo, questo il nome dell’entità che aveva osato abbandonare l’Erebo, utilizzava giuste parole per turpi scopi: far leva sul cuore tormentato di una madre per ottenere riconoscenza.

“Cosa è successo a mia figlia?” Improvvisamente pallida, la dea un tempo maestosa, si era fatta presso al giovane e, a mani giunge sul petto, lo pregava per ottenere la conoscenza.

Ascalafo, figlio di Acheronte, dal naso appuntito e gli occhi piccoli e neri, sorrideva velatamente, compiaciuto dinnanzi alla miseria di quella.

“Vostra figlia verrà sacrificata all’Averno. La sua vita è posta su un piatto, di fianco al suo valore. Se non sarà ritenuta degna verrà consumata da colei che facilitò la sua discesa agli inferi”.

Vostra figlia verrà sacrificata all’Averno.
…verrà consumata da colei che facilitò la sua discesa agli inferi?

“Che cosa intendi? Ti prego, non capisco.”

Disperata e con le lacrime agli occhi, Demetra aveva afferrato la veste del mutaforma invitandolo a chiarire i suoi terribili dubbi.

“Vostra figlia già da tempo è legata all’Averno. Mani artigliate e violente hanno fatto scempio di lei, costringendola a ingerire le ardenti acque del Flagetonte. Ade, dinnanzi a quel tormento, ha deciso di recidere una promessa per suggellarne una più urgente: la vita di vostra figlia in cambio di un suo legame incondizionato all’Averno mortifero. La vostra innocente Kore ha bevuto l’ambrosia nera.”

Con le mani tremanti ora premute contro le labbra, la dea madre cercava di bloccare i terribili singulti che le scappavano feroci dal profondo del cuore; la furia, lo sdegno e il dolore le serravano la gola.

“Chi ha osato levare la mano su mia figlia? Ade forse? Per legarla a sé, privandola di qualsiasi possibilità di scelta?”

“Il mio signore le ha salvato la vita, quella stessa che Menta voleva sottrarle.”

Menta.

Con occhi di brace e voce cupa, la dea aveva posto una e una sola domanda.

“Chi è costei?”
“Una succube, mia signora.”

Silenzio.

Non aveva voluto sapere oltre, le labbra sigillate tra i denti testimoniavano un’ira cieca trattenuta a stento.

Ecco allora il legame, capiva adesso il perché di quella situazione.

Non era a Persefone che toccava l’ultima parola. Ella, già promessa all’invisibile, doveva venir scelta a sua volta. E poco contava il volere del fratello avernale.

Il sottosuolo esige una consorte all’altezza di sé.

Quell’amara constatazione, forse la più lucida nel caos del risentimento e della vendetta, aveva raggelato la dea.

“Vogliono metterla alla prova, pena il dissolvimento eterno, qualora fallisse…”

Il bisbiglio lugubre aveva accompagnato il volto in quella torsione verso il messaggero.

“Mia figlia verrà immolata alle acque, sacrificata se non asseconderà i voleri del Fato ancora una volta: è questo il tuo messaggio per me, terribile bestia? Con che coraggio ti mostri al cospetto di una madre disperata solo per acuire il suo dolore? Tu sai che sono impotente!”

Con gli occhi gonfi di pianto, aveva sollevato il dito contro il volto della sfinge: intimava la fuga.

“Fuggi lontano, Ascalafo, figlio di Acheronte, lontano dalla mia vista. Che tu sia maledetto, vincolato a quelle sembianze che si nutrono di morte!”.

Con quel castigo proferito a denti stretti, ella aveva osservato l’incerto volo dell’infausto messaggero e, con il passo lento di chi si rassegna, infine, alla sorte, si era rivolta verso la meta di ogni suo vano peregrinare.

L’avrebbe attesa a braccia aperte, al di qua della nera porta. 
 
Non poteva superare quell’angusta spelonca, il piede non poteva calpestare il suolo dell’Ade, lo sapeva bene, eppure l’avrebbe attesa lì, su quella soglia funerea;
come fa una madre,
sempre in attesa del figlio.

°°°

 

“Sei arrivata. Ti credevo già in fuga, alla ricerca disperata delle tuniche del tuo signore. Devo ricredermi.”

Avrebbe potuto riconoscere quella voce ovunque, anche travolta da una folla vociante, immersa nel peggiore dei caos.
Il suono stridulo di quella, lo strascichio melenso delle parole e il velenoso sibilo scolpivano nella mente turbata un solo volto:

Menta.

“Siamo in due a stupirci. Ben comprendo, ora, il motivo di questo fetore: eri tu, Menta”.

Cosa aveva detto?
Sei forse impazzita, Persefone? Quale demone dilania il tuo cuore innocente?

La dea, forte nella parola, ostentava, però, una sicurezza e una calma non sue: il sangue gelato nelle vene, le mani strette in pugni, il respiro placato a forza; tutto in lei svelava l’ignobile terrore che la vista della succube causava.
Non aveva dimenticato con che ferocia quella l’avesse trascinata verso il suo personale tormento, né, tantomeno, riusciva a sradicare da sé il ricordo della sua reazione nell’udire la sentenza scelta per il demone: aveva digrignato i denti quasi inconsapevolmente quando la voce cupa di Ade aveva pronunciato la pena.

Rinchiusa in eterno nel Tartaro”.

Quella condanna non aveva soddisfatto il mostro del suo cuore.

Anche questo l’aveva a lungo sconvolta.

“L’acqua del Flagetonte ti ha rivoltata come un cencio, bene”.

La succube aveva sorriso degna del peggior caino, i denti in bella mostra, gli artigli affilati minacciosamente puntati contro la dea.

“Il tuo posto non è qui, l’Averno, per mezzo di me, ti rifiuta. Abbandona questo terreno sacro o rassegnati al tormento. Questa volta nessuno interverrà in tuo soccorso”.

La minaccia, eco del turpe proposito di vendetta, trovava bieca conferma nella figura lugubre alle spalle dell’avernale.

Thanatos?

Voi? Cosa fate al fianco di una simile traditrice? Ella si è posta contro il sovrano del regno che voi servite”.

Sconvolta dalla vista del genio un tempo fedele ad Ade, Persefone aveva sgranato gli occhi alla ricerca di una qualche lucida spiegazione, invano.

“Mia signora, il mio voto è all’Averno. Non ho avuto altra scelta. Se un giorno sarete regina ben comprenderete il mio operato. Fino ad allora non preoccupatevi di me, il mio compito è giunto al termine”.

Svanito nel nulla dell’Averno nero, Thanatos lasciava la dea di superficie in balia di terribili pensieri.

“Se un giorno sarete regina?”
Non era forse già stato sancito dal Fato il suo legame con Ade?

“Qualcosa ti turba, piccola Kore?”

La succube ghignante, poneva quell’interrogativo con malcelata cattiveria.

“Non osare rivolgerti a me utilizzando quel nome. Ti avverto, Menta, le tue parole hanno un peso, proprio come le tue azioni. Non sfidarmi un’altra volta. Già in passato la tua opera si è rivolta contro di te; sono già sposa del dio che dici di onorare. La Terra ci vede uniti.”

Verde di bile, Menta aveva mosso feroce dei passi verso la dea,

“Tu non sei ancora regina, piccola stolta, e Ade non è il tuo sposo. Sei solo una misera bugiarda, come tutti quelli della tua razza!”

Uno sputo ai piedi di Persefone aveva concluso l’invettiva.

Tentando di tenere a bada quel cane bestiale che sentiva ruggirle dentro, la dea aveva modulato ogni parola, scandito ogni lettera con chiarezza, ferrea e razionale come il nero Erebo.

“Tu, misero essere, che ti rivolgi a un dio con infida cattiveria, con quale audacia mi dai della bugiarda?”

“I vostri riti di superficie non contano nulla qui, tra questa gente ignobile. L’Averno esige una sposa all’altezza del suo signore e io, Menta, la vera e giusta sovrana di questi luoghi, sono qui per porre rimedio a un tragico errore: quello della tua esistenza, Kore”.

Gelata da quella lacerante riflessione, Persefone, infine, vedeva comporsi davanti agli occhi i cocci di quella realtà capovolta.

L’assenza di Ade, Cerbero in vincoli, il lugubre incedere di Emisu, l’operato di Thanatos: ci si accingeva alla celebrazione di un sacrificio.

Molto probabilmente il suo.

“Il Fato ha gonfiato il tuo petto di odio, l’incarcerazione ti ha reso animale rabbioso, ma nessuno fugge dal Tartaro senza una ragione.
Non capisci, Menta? La tua morte sancirà il mio legame all’Averno”.

Lo sguardo vitreo della giovane dea, le parole profetiche in totale distacco dalla realtà, avevano scatenato l’ira della succube, incapace di veder oltre la linearità del Fato.

“La mia morte? Non hai proprio capito nulla, piccola sciocca.”

Aveva riso di gusto come quando si sente un’assurdità: la coda guizzava pericolosa a destra e a sinistra, mentre le chiome, terribili serpenti, sibilavano irrequieti.

Poi, l’aveva mostrata.

La mano sinistra, che sempre aveva tenuto dietro la schiena, rivelava il prezioso tesoro.

Meravigliosa.

Rosso brillante, lucida e dalla scorza dura, la melagrana, piena di succosi frutti, riempiva la mano nodosa della succube.

Emanava un profumo mischiato e sapeva di sole e luce e morte e terra bagnata.

“So per certo, stupida dea, che colei che si nutrirà di questi frutti diverrà consorte legittima dell’Averno e del suo signore. Ebbene, allora, ecco il mio invito ad assistere alla tua disfatta. Sarà un piacere poter godere del tuo dolore”.

Quasi blasfema, dimentica di un qualsiasi sentimento di rispetto verso la natura e i doni degli dei, aveva forzato la scorsa del frutto sacro rivelandone il contenuto fragile e prezioso.

Doveva forse assecondare l’impulso viscerale che la dilaniava dentro? Buttarsi contro quella, artigliarne le vesti, graffiarne il volto, mettere in salvo il suo dono?
A che sarebbe servito?

Come una profezia che si ripete ciclicamente nel corso del tempo, Persefone assisteva al ricordo vivido dell’ultima volta in cui aveva osato levar mano contro un demone in un regno che non era casa.

Il sorriso beffardo di Menta si era fatto smorfia sadica quando una manciata di chicchi profumosi era caduta sul palmo sporco.

“Alla tua”, aveva sghignazzato malata e poi, in un colpo secco, li aveva ingeriti tutti.

°°°

 
 
Due occhi.

Due occhi, opachi e stanchi, la scrutavano dall’alto. L’inquietudine trapelava da essi cristallina e lacerante, una nuova angoscia appesantiva il respiro, solitamente leggero.

Da quanto tempo la osservava?
 
La schiena doleva paurosamente, le gambe, scompostamente stese al suolo, presentavano tagli e tumefazioni mentre un generale intorpidimento le annebbiava la mente. Alcune ciocche rimanevano ostinatamente incollate al volto sporco e sudato, irritando, in questo modo, gli occhi gonfi e sensibili alla luce trasversale di quel posto.

“Emisu? Sei tu? Perché resti lì, immobile ed in silenzio?”

“Persefone…”

Quella voce, un tempo cara e amichevole ben oltre il vincolo del servizio, adesso le si rivolgeva quasi fredda e distaccata.

“Emisu, dove mi trovo?”

“Vi trovate nell’Averno, giovane dea di superficie, al di qua delle mura nere.”

“Cosa è successo?”

“L’Averno vi ha rifiutata e confinata: non siete più la benvenuta presso i luoghi sacri”.

Supplice ma regale, distrutta eppure non ancor spezzata, Persefone aveva chinato leggermente il capo.

“Capisco”.

Da tempo sentiva il corpo abbandonato stancamente contro quelle pareti di tenebra. Da tempo percepiva nascere dentro di sé la consapevolezza che un qualcosa di terribile aveva reciso ogni sua possibile felicità.
Dinnanzi a lei solo una brulla e aspra distesa fino al fiume traversato dal vecchio Caronte, alle sue spalle, in lontananza, la sacra terra che l’aveva vista nuovamente sconfitta.

“Dove si trova il tuo re?”

“Egli siede immutabile sul trono dell’Erebo, dal quale ode le preghiere dei mortali e dei trapassati”.

“Conducimi da lui”.

Il tentennamento dell’ancella era andato in frantumi dinnanzi alla sofferenza della giovane.

“Seguitemi, infelice, vi condurrò da colui che cercate.”

Ed era svanita, tramutata in piccolo fuoco, incapace di proferir verbo.

“Grazie”.

Cenci logori e sporchi mal celavano lembi di pelle tirata, violacea o, nel peggiore dei casi, imbrattata di sangue.

Perché?

Le mani sporche tentavano di ripulire alla bene e meglio quello scempio e più sfregava più le macchie si estendevano, e più le macchie si estendevano più lo strofinio si faceva convulso, sragionato.

Calma. Calma Persefone.
Non ha alcun senso perdere la testa.

Abbandonato qualsiasi tentativo di riguadagnare l’ordine e la compostezza, con fatica aveva imboccato la lunga via nera e, al termine di quella, al cospetto dell’immenso portone, la mano si era levata per bussare con forza.

Solo il silenzio come risposta.

Nemmeno chiamare il suo nome era servito a nulla.
Sordo, come l’Averno dinnanzi al suo tormento, Ade non l’accoglieva nei suoi domini né le offriva ospitalità.

Dimentichi, Persefone, il tuo fallimento?

Stanca delle occhiate, delle risate, dei motteggi osceni delle ombre che, in un lento logorio fatto di scherno e pietà, le mangiavano la dignità, aveva spinto quelle porte con tutte le sue forze, in barba ai dettami del rispetto: un gemito di grande sofferenza le era sfuggito dalle labbra…

… e maledizione a lei, maledizione a lei e a quell’azione compiuta.

Due troni di inimmaginabile bellezza si offrivano come comoda seduta ai sovrani dell’Averno.
Ade, capo cinto di severo metallo e spalle corazzate dalla pesante armatura da guerra, sedeva di fianco ad un essere dall’emblematica bellezza: non severità e rispetto per i caduti quanto piuttosto beffarda compiacenza illuminava quello sguardo.
Menta sedeva vittoriosa di fianco al dio di quei luoghi.

 “Tu.”

Il ringhio animalesco era sfuggito dalle labbra divine e spaccate.
Nessuno aveva rivolto lo sguardo verso di lei, misera e cenciosa.

“Tu.”

Occhi sgranati e iniettati di sangue tramutavano il bel volto in ghigno ferino.
Nessuno la percepiva, nessuno le rivolgeva la parola.
Menta, incoronata regina, sedeva fiera al fianco di Ade e, incurante delle preghiere umili elevate al suo cospetto, compiaceva con maliziosa intenzione, il suo sovrano.
A volte gli afferrava la mano, altre strusciava la testa contro la sua spalla, altre ancora allungava la mano dal bracciolo alla coscia fasciata dal serio chitone e dalla coscia muscolosa si spingeva ancora più in alto, assolutamente irrispettosa del luogo e della mansione sacra.
Il dio al suo fianco, ben lontano dall’imperturbabilità, anzi compiacente e bestiale, si prestava a quei giochi meschini.
Come davanti ai suoi occhi, poteva immaginarli già avvinti, stretti in un umido abbraccio perverso, giacere su quel letto che ella stessa aveva reso talamo insieme a quel sovrano di cui sconosceva le sembianze.
Mostruosi, terribili, ben lontani dal fulgore divino, i due regnati sprofondavano nella lascivia e nell’assoluto disinteresse verso quei compiti un tempo consacrati all’Ade.

“E’ questo ciò che desideri?”

Una voca, indistinta e fumosa, aveva annebbiato la sua mente, privandola di qualsiasi raziocinio.

“No, egli mi appartiene.”

“Non hai impedito che ella si nutrisse della vostra melagrana”.

L’Averno non legittima le mie azioni. Non ho alcun potere in questo regno”.

“Lo credi veramente?”

“Già una volta ella ha tentato di distruggermi, riuscendoci”.

“Tu l’hai permesso.”

Non è vero.”

“Il tuo cuore non è più innocente come quello di una fanciulla. Cuore di donna esso è nero, intriso di passioni e reclama ragione. Quando accetterai il fatto di non essere più Kore ma Persefone?”

“Chi sei tu?”

Il mostro che riduci al silenzio, il mostro a cui non dai una voce.”

“Furia?”

“Giustizia.”

°°°
 
 
 
Nessuno di loro aveva mai dovuto presenziare un rito simile, e questo non perché avessero cuore puro e nobile animo, anzi. Ognuno di quei volti esprimeva una preoccupazione, un’ansia, forse anche il ricordo di un antico timore, messo a tacere e nascosto nell’angolo più oscuro del cuore. Temevano, gli dei, quello che di lì a poco si sarebbe compiuto dinnanzi ai loro occhi; a mangiarli, il senso di colpa di sapersi illesi al cospetto di una dea punita ingiustamente.
Il sommo Zeus, ora col capo chino e coperto da uno spesso velo bianco, non proferiva parola e così, fiancheggiato dai fratelli, rimaneva in attesa del momento.  Solo Demetra mancava, cuore di madre sanguinante, la sapevano prostrata dinnanzi le porte nere, in disperata attesa della figlia.
 
“Sorella, ritorna alla vita.”

Con un cenno del capo e una folgore ad illuminare il cielo, Zeus si era infine chinato al cospetto del magnifico e solitario tempio e, dando l’esempio al suo seguito, con mano decisa aveva strappato all’ignobile sepoltura un pugno di terra.

Bisognava restituire Estia alla luce affinché il suo fuoco tornasse ad ardere. 

E in quell’incedere lento di divinità che con rispetto si inchinavano al suolo, il silenzio regnava sovrano; forse solo il respiro accelerato di Radamanto, invisibile a molti, imprimeva una certa nota di impazienza.
Il giudice avernale, celato dall’ombra della morte, osservava come un falco quanto si compiva ai suoi piedi. Ogni dio o dea del corteo si inginocchiava dinnanzi alla tomba sotterranea e, recitata una sacra invocazione, sollevava la terra per poi scagliarla lontano.
Anche lui avrebbe desiderato fare la sua parte, liberare il corpo che sapeva smunto e stanco da quella terribile condizione ma, ben conscio del grande dono che il suo dio già gli aveva fatto concedendogli di oltrepassare il sottosuolo,  rimaneva rigido, fermo, immobile; a stento sollevava il busto nel mimare l’atto della respirazione.
Perché lui era morto, e viveva una vita resagli da quella dea.
Ecco il secondo dono.
 
Tempo dopo aveva parlato il dio dell’Averno, colui che a ognuno il giusto dispensa:

“Pura sorella, il nostro benvenuto al mondo. Perdona…perdona se puoi il passato scellerato.”

Pochi bisbigli, il capo chino: egli, a nome dell’assemblea, porgeva la mano che avrebbe aiutato la gracile dea nel suo ritorno all’etere fresco.

Simile ad una bella stella, Estia poggiava il piede sul suolo a lei sacro, luminosa e piena di vita nuova. Un gemito di sollievo il saluto degli astanti al suo cospetto.

Il sorriso accennato, profondi solchi intorno agli occhi, vesti sfolgoranti su un fisico debole: tutto in lei palesava una contraddizione. Toccata dall’infamia e dal tormento, rinasceva dopo patimenti inimmaginabili, eppure irradiava bellezza.

I capelli corti, scomposti, sferzati dal vento fresco che l’accoglieva al mondo, incorniciavano un volto pallido e vibrante, come accesi erano gli occhi enormi e verdi.

Afferrata la mano del fratello, aveva lasciato alle sue spalle il loculo.

“Perdono me stessa, caro fratello. Mi perdono di tutto”, uno sguardo laterale aveva sfiorato il volto di Zeus per poi riorientarsi su quello del maggiore.

“A voi devo il ribaltamento della mia sorte. Grazie.”

Un bacio sulla guancia del signore nero suggellava il rito mentre un suo bisbiglio, precluso a tutti, le inondava il cuore:

“qualcuno è al mio fianco e gioisce di nascosto”.
Un sorriso materno, capace di contagiare gli occhi, aveva oltrepassato l’avernale, cercando nel buio delle tenebre spettrali finanche l’ombra di quell’essere che tanto aveva desiderato.

“Grazie, fratello”.

“Concludi il rito, cara sorella, tu stessa consacrati alla terra: gira intorno al focolare tre volte e raggiungi il trono olimpico”.

“No. No, caro Ade.” Dicendo questo aveva rivolto uno sguardo anche al resto delle divinità convenute,

“Non esigo né pretendo né desidero alcun trono. Estia, la dea che avete conosciuto in passato, è morta, uccisa da patto ingiusto sancito con inganno.
Ma ecco, fratelli, la dea che avete davanti è viva, piena di una nuova grazia.
Nessun vincolo impedirà alla mia fiamma di ardere e questo fuoco, da sempre confinato in bracieri, arderà vivido solo per coloro che si doneranno completamente al valore che l’alimenta: la famiglia.”

In piedi, piccola e solenne, ella aveva mosso i primi passi verso il suo immenso e non più desolato tempio.

Non si udiva più alcun tintinnio di catene,
le pesanti cavigliere erano oramai svanite.
 
 

°°°

Che sapore ha un dono destinato ad altri?”
Dimmi, succube, che cosa senti nelle viscere?”

Occhi sgranati e lingua dolciastra, Menta osservava stupita e ghignate la dea al suo cospetto.

Ignorava cosa avesse avuto luogo dietro le palpebre divine, sconosceva cosa la sua vittima avesse visto nella rivelazione di una qualche profezia, trascurava la forza con la quale il mostro nel suo cuore si dibatteva in cerca di giustizia, cruda e apodittica.
 
“Oramai è tardi per pentirsi, giovane dea. Arrivi tardi, il tuo dono è profanato”.

“Già.”

Gelida, Persefone scrutava i resti del dolce frutto rosso.

“Senti forse il rimpianto di esserti intromessa in un mondo non tuo?”

“Il sottosuolo mi appartiene. La terra che calpesti è mio dominio, l’aria che contamini è votata a me come l’Averno che adesso mi abita; il frutto che tieni stretto tra le mani, rendimelo, adesso”.

Un ringhio demoniaco aveva fatto vibrare l’etere.

“Non hai ancora compreso quanto inutile e insulsa sia la tua presenza qui? Quanto ancora vorrai illuderti di essere la dea di questi luoghi?”

“Tu”, il braccio, sollevato di scatto, sosteneva l’indice puntato contro l’essere avernale in una posa sacra e terribile.

 “Tu, china il capo al cospetto della tua signora”.

“Tu non sei…”

Prima che la voce compisse la frase, prima che il ringhio si facesse ruggito, ecco una forza calarsi imperiosa sul collo della succube, costringendola ad un inchino sofferto.

“Io sono Persefone, sovrana dell’Averno che tormenti. Abbandona questi luoghi prima che la mia condanna ti colpisca: che il tuo piede si muova lesto e celermente abbandoni il suolo a me sacro, pena il dissolvimento. Questo è il mio volere”.

Intimorita, quasi sconvolta dal tremore che sembrava pervaderla dal fondo di una coscienza che non ricordava di aver mai posseduto, Menta aveva sibilato il suo odio ancora una volta ma quella, ferrea, inamovibile e impenetrabile si limitava ad osservarla.

“Va’, prima che sia tardi: rendi meno aspra la tua sorte, Menta”.

Forse per l’aria che sentiva pungente e gelida trapassarle le carni, forse per lo sguardo vitreo della dea animata da un vigore spettrale, forse per la voce che continuava a risuonare nella mente come imperativo categorico, la succube si era data alla fuga.
E aveva corso, follemente e disperatamente, lasciando al suolo la melagrana violata al cospetto della regina avvolta di nera essenza.
Risaliva la brulla distesa, oltrepassava le mura accompagnata da scherno e vergogna e giungeva infine presso le porte dell’Ade, dove il sottosuolo diventava terreno ma, quando il sollievo di una condanna scampata iniziava a gonfiare il petto di tracotanza, lì, sulla terra dominio degli olimpici,

era stata colpita.

Accartocciata, rattrappita, ricurva e piegata su sé stessa, gemeva il suo nome e la sua pena ingiusta. Non distrutta, non svanita, non ritornata alla polvere nera che l’aveva generata ma viva e rigogliosa rimaneva immobile e impotente.

E quando il braccio si era tramutato in arbusto, il sangue in linfa e il vento iniziava a sibilare tra le sue fronde, ecco udibile solo un rumore, il vago ricordo di un nome.
Menta
 


Due occhi.
Due occhi, cerchiati da profonde occhiaie, la scrutavano dall’alto.
L’incredulità trapelava da essi con forza vibrante: uno strano sdegno accelerava il respiro, solitamente calmo.


Al suo cospetto un arbustino verde brillante dal profumo intenso.
Stupita, Demetra lo aveva scrutato con cipiglio attento alla ricerca di una spiegazione per quell’improvvisa presenza ma, quando il vento aveva soffiato e un nome, quel nome, aveva riempito la sua mente, ecco la verità sradicare ogni timore.  
L’attesa della madre era stata ripagata e mentre il cuore si riempiva di sollievo per le sorti della figlia, le viscere si contorcevano per l’odio nutrito nei riguardi di quell’essere di cui ora poteva ammirare la terribile condanna.

 “Menta, colei che offese la mia bambina, giace per sempre alle soglie dell’Ade, profumosa in onore della dea che disonorò, sterile per volere della madre privata troppo presto della figlia.

Questo il sugello finale della tua maledizione.”
 
 


 
 
Nell’Averno, spettrale e giusto, ora sazio e soddisfatto, Persefone raccoglieva il povero frutto.
Se ne era fatto scempio eppure lo sentiva ancora, vivido e pulsante tra le mani.
Sei chicchi superstiti, raccolti uno ad uno, nutrivano e addolcivano il cuore inasprito dalla violenza, restituendo pace e offrendo un posto.
Per ogni grumo rosso che assaporava sulla lingua, un senso di lei si acuiva, offrendole uno spettacolo inimmaginabile: l’Ade le si schiudeva dinnanzi come un magnifico fiore.

La regina dell’Averno era stata consacrata.






L'Angolo di Avareil
Eccomi qui, il 21esimo capitolo scioglie i nodi... e adesso viene il bello.
Estia e Radamanto, Ade e Persefone, siamo alle ultime battute.
Ma vi assicuro, non sarà una fine. 
Nella speranza che quello che avete appena letto vi sia piaciuto, vi rivolgo il mio più affettuso saluto, sempre ricordandovi che avere la possibilità di sapere che cosa pensate è un ottimo incentivo per la fantasia e l'autostima.
Un bacio e a prestooo
Avareil

 
  
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