CAPITOLO SETTE
Lui.
La sua voce.
Il suo impeto.
Marco era venuto da me.
Non seppi controllare più le mie azioni; come una pazza,
balzai in piedi scattando come una molla, e mi catapultai direttamente nel
corridoio, dove mia madre era intenta a fronteggiare un Marco che, forse, non
era venuto lì con i modi che mi aspettavo.
“Fatti da parte! Levati di mezzo”, inveì infatti contro mia
madre, e quando lei non si scostò dalla porta d’ingesso, la spintonò da parte.
“Non devo parlare a te, non me ne frega niente. Cerco tua
figlia”, le disse a voce smoderatamente alta, cercando di soffocare i lamenti
d’indignazione della mamma, mortificata ed umiliata da così tanta maleducazione.
Ed io ero rimasta pietrificata nel corridoio, sul viso ancora
di certo impressa quell’espressione di gioia pura che mi aveva fatto
salterellare poco prima, contenta come non mai.
Marco non si fermò e venne verso di me, e senza neppure
notare com’ero rimasta, mi afferrò a braccetto quasi con la forza e mi spinse
verso la cucina.
“Qui possiamo parlare, vero? Dobbiamo chiarirci subito”.
Mi spinse nella cucina e chiuse la porta dietro di noi, dando
anche un giro di chiave, approfittando del fatto che era inserita nella
serratura dall’interno.
“Chiamo i Carabinieri! Subito!”, strepitava mia madre, al di
là della porta chiusa.
“Chiama chi ti pare”, fu la laconica risposta di Marco.
Io ero fuori di testa; forse aveva avuto ragione il padre del
mio ragazzo, quando era venuto a comunicarmi, nei giorni scorsi, che suo figlio
sembrava aver perso la razionalità da quando avevo deciso di punirlo in modo
eloquente.
“Cosa significa tutto questo?”, ebbi la forza di chiedere non
appena riuscii ad articolare qualche parola, dopo lo sbigottimento iniziale,
che mi aveva preso letteralmente in contropiede.
“Siediti pure, dobbiamo parlare un attimo con calma”, mi
disse, serio, il mio ragazzo, andando a posizionarsi su una delle sedie della
cucina.
“Ehi, mi dispiace interrompere la tua sceneggiata, ma qui non
sei mica a casa tua, eh! Questa è casa di mia madre, come ti permetti di
trattarla così?”, mi venne subito da rimproverarlo, ma lui mi concesse uno
sguardo nervoso, e con un dito mi indicò chiaramente la sedia che aveva di
fronte.
“Non sono il tuo cane ammaestrato! Mi siedo se mi va”, mi
arrabbiai.
La mia gioia di rivederlo era svanita tutta quanta. Non
riuscivo davvero più a riconoscere la persona che avevo di fronte; era come se
non fossero passati due giorni da quando ci eravamo visti l’ultima volta, e da
cui avevamo convissuto per parecchio tempo, bensì un mezzo secolo.
“Senti, non ho tutto il giorno! E ora mi ascolti, e subito”.
Tacqui, incrociando le braccia.
“Adesso vai su, metti in valigia le tue cose e torniamo a
convivere”.
“Ma tu sei pazzo! Sei bacato!”, sbraitai, nervosa come mai.
Mi veniva da ridere e da gridare allo stesso tempo, di fronte a quella
situazione che era effettivamente assurda.
“Immediatamente”, mi ordinò, implacabile.
“Vai a farti visitare da uno specialista, amore. Tu non ci
stai più con la testa”, gli dissi, arrabbiata, mentre mia madre urlava anche
lei di là della porta chiusa a chiave. Mi diressi proprio verso di essa, ma
Marco balzò in piedi e mi afferrò con decisione le braccia, e fronteggiandomi
con quei suoi occhi così belli, eppure tanto lontani, in quel momento.
“Non hai detto che volevi che tirassi fuori le palle? Ecco,
ora l’ho fatto, finalmente. Sei contenta? No? Mi dispiace. Ripartiamo da qui”.
“Levami le mani di dosso!”.
Scivolai lontano da lui, che non si fece ripetere la mia
affermazione irata.
“Non mi fai paura! È questo quello che credi? Di venire qui,
di fare il matto, di prendermi di peso e di portarmi dove ti pare? Credi così
di avermi dimostrato che sei cresciuto, che non sei più il bambinello che corre
sotto la sottana di mamma e che va a lucidare le scarpe di pelle di papà? Ma
come sei messo?”.
Sbollii la mia rabbia, con quelle parole, gettandogliele
addosso come se fosse stato olio bollente. Infatti, Marco, dopo averle udite,
impallidì all’improvviso e si distanziò da me.
“Voglio solo che torniamo assieme. Costi quel che costi.
Tutto il resto non importa”, affermò alla fine il mio ragazzo, a voce bassa e
controllata, tornando ad abbandonarsi sulla sedia che aveva occupato poco
prima.
“Così cominciamo a ragionare”, gli dissi, calmandomi un
attimo e poi andando alla porta, facendo scattare la chiave nella serratura ed
aprendola.
“Stai tranquilla, ci penso io”, sussurrai impercettibilmente
a labbra strette a mia madre, che me la trovai impalata dietro la porta appena
aperta, e lei mi fece cenno affermativo col capo, facendomi capire, però, con
la sua aria risoluta, che avrebbe continuato a tenerci d’occhio, seppur da una
breve distanza.
“Io non ce la faccio più, voglio tornare con te”, continuò a
dirmi Marco, con voce sconsolata e atona.
Dopo il momento di pura follia, mi sembrava che si fosse come
svuotato; tornato a sedere, lasciava che le braccia penzolassero verso terra,
senza cercare di tenerle incrociate sulle ginocchia o al petto, o perlomeno di
appoggiarle sul tavolo che aveva di fronte, ancora per metà imbandito per il
nostro ritardatario pranzo. La testa ciondolava, le gambe si muovevano
ritmicamente, in una sorta di ballo da fermi che riusciva a trasmettermi un po’
d’ansia.
Ecco, quello era tutto ciò che il mio ragazzo stava riuscendo
a mostrarmi.
Sul suo viso aleggiava un’espressione triste ed abbattuta,
mortificata, ma nulla riusciva più a togliermi di dosso quella rabbia che
ancora stavo provando per tutto quello che era accaduto poco prima.
Da lui, una sceneggiata del genere non me la sarei mai potuta
aspettare, e vista la sua scarsa mancanza di controllo, mi parve di vederlo
molto più bambino di prima. Prepotente, egoista, ma soprattutto molto
infantile.
“Anche io voglio tornare con te… o, meglio, volevo. Tu non
hai idea di quanto io abbia sofferto in questi ultimi giorni…”.
“Volevi?”.
Marco m’interruppe alzando il capo abbandonato e piantando il
suo sguardo su di me, come a voler analizzare ogni mia altra parola o gesto.
“Sì, volevo, perché dopo tutto quello che è successo non so
se me la sento più di riprendere a vivere come prima. Poi, questa sceneggiata
di cattivo gusto ha rovinato tutto! E pensare che avevo aspettato da giorni la
tua mossa, e ti avevo tanto desiderato. Questo momento doveva essere una
favola, e non un casino totale”.
“L’ho fatto per te, per farti capire che non sono solo un
mollaccione svogliato, ma che quando mi impegno posso anche riuscire a fare
molto di più!”, saltò su, alzando di nuovo la voce.
“Ah, se per te impegnarti vuol dire aggredire le persone,
credo che tu non abbia compreso il significato della parola”, gli feci notare,
con una ritrovata punta di triste ironia, che non fece effetto sul mio ragazzo
accecato dai suoi desideri.
“Senti, io ti rivoglio, io ti voglio, io ti desidero, io ti
amo, io ti voglio riportare a casa, io… io ti voglio, e basta!”, tornò a dirmi,
facendomi poi scuotere la testa, mentre sul mio viso doveva aleggiare una
smorfia da funerale.
Marco stava parlando ancora peggio di quando ci eravamo
momentaneamente lasciati; se la pausa da me voluta era rivolta a far emergere
qualcosa di definitivo dal suo comportamento, a smascherarlo per quello che era
e a spingerlo a migliorarsi senza più stare a perdere tempo dietro a giri di
parole o a incomprensioni inutili, ebbene, il risultato finale c’era stato, e
non era affatto positivo.
Quel voglio continuamente pronunciato da lui, quel suo
desiderarmi come se fossi stato un bell’oggetto in mostra in una vetrina in
centro, fregandosene di tutto quello che gli avevo sempre detto e ripetuto, mi
faceva davvero sentire un giocattolo da stringere nelle sue grandi mani da
bambino cresciuto. Non ci volevo stare.
E poi, dopo la scenata da poco andata in onda, avevo una
ferita che sanguinava copiosamente nel mio cuore, e la mia lingua, impostata
sulla difensiva, non riusciva ad essere dolce o a sciogliersi, nel vano
tentativo di venirgli incontro.
Alla fine, invece di un miglioramento c’era stato solo un
peggioramento, da quanto potevo freddamente diagnosticare.
“Anche io ti amo tanto. Ma, a questo punto, penso che prolungare
la pausa non possa farci altro che del bene”.
“No”, sbraitò subito, tornando a irritarsi.
“Sì, invece. Io ti chiedo di diventare l’uomo che sei, l’uomo
che stai nascondendo negli angoli bui della tua mente, e tu non fai altro che
mandare davanti a te tuo padre, o di rifugiarti dalla…”.
“Ho detto basta! Basta! Smettila di parlare dei miei
genitori, loro non c’entrano se sono un debole!”, quasi urlò Marco,
imbestialendosi dopo il mio ennesimo affondo. Raccattò le sue braccia e le
strinse al petto, minacciosamente. Mise su anche il broncio; pareva davvero un
bambino troppo cresciuto.
Era tutto inutile, a quel punto ai miei occhi appariva solo
come un bambino viziato e patetico.
“Peccato che sia stato proprio uno di loro a volersi
immischiare direttamente nella faccenda, venendomi a parlare al lavoro, a fine
turno”.
“Mio padre?”.
“Tuo padre”.
Non mi parve troppo sorpreso da quella che speravo potesse
essere una rivelazione, anche se questo sembrò calmarlo un pochino, dopo la
tensione degli ultimi secondi.
“Ti ha proposto dei soldi, immagino. Avrà voluto comprarti
per la felicità del suo unico figlio, giusto?”, sussurrò, lasciando che le
parole sibilassero acutamente in ogni angolo remoto della cucina, e forse anche
oltre, in corridoio e fino alle orecchie attente di mia madre.
“Proprio così, non sbagli affatto”.
“Tu saresti stata l’ultimo giocattolo che mi avrebbe
regalato, e poi sarei diventato perfettamente adulto, ai suoi occhi. Una volta
impegnato in modo inderogabile con te, avrei messo la testa a posto ed avrei
fatto una bella vita, occupando anche il posto del mio genitore, che sta
invecchiando”, razionalizzò, sempre a bassa voce, col suo sguardo vacuo,
puntato verso la finestra spalancata.
“Il vostro unico problema è che io non sono un vostro
oggetto, e non sono in vendita. Il tuo impegno avrebbe potuto comprarmi,
diciamo così, ma mi sembra proprio che non sia andata per il verso giusto”,
considerai, spietatamente.
“Volevi che diventassi un uomo da me, da solo”.
Sempre il suo sguardo vuoto, distante e sofferente. Nessun
lampo d’ira che baluginasse in essi e sul suo viso, che pareva addirittura più
vecchio, da quarantenne in crisi di mezza età.
“Sì, volevo che tu mettessi la testa a posto con coraggio e
determinazione”.
“Non ci sono riuscito, vero?”.
“Al momento, decisamente no”, riconobbi.
“Devo riflettere un altro po’. Credo che, a questo punto,
ancora qualche giorno di isolamento potrà aiutarmi a raccogliere le idee, e a
capire quello che realmente voglio dalla vita. Restiamo in pausa, allora…”.
Concluse la frase come se fosse stata una domanda, ma capivo
che aveva compreso quella volta, e stava provando solo a mascherare una
constatazione.
“Restiamo in pausa. Ma mi piacerebbe tanto risentirti,
parlarti… insomma, essere chiara con te, e restare in contatto, senza
sparizioni improvvise e durature… immagino che tu abbia capito il mio discorso,
dai”.
“Certo”.
Silenzio, per qualche secondo. Un silenzio amaro, occupato
dal rumore che produsse il mio corpo mentre si lasciava scivolare su una sedia,
proprio di fronte a Marco, quello che era stato il mio Marco, che se ne stava
ancora a ciondoloni, smorto e senza vitalità.
Nonostante tutto, non riusciva a farmi pietà, ed era come se
non riuscissi a capirlo fino in fondo, né lui e neppure i suoi discorsi. Forse
neppure lui stesso riusciva a farlo.
“Non hai un altro, vero?”.
La sua domanda improvvisa mi spiazzò.
“Come?”.
“Non è che mi rifiuti in questo modo perché hai trovato un
altro ragazzo?”, insinuò di nuovo, coi suoi occhi da serpente che ritrovarono
improvvisamente vitalità e affrontarono in modo diretto i miei.
“Non ti permettere mai più di farmi questa domanda. Io con te
sono stata chiara e sempre lo sarò; se hai dei dubbi del genere, tanto vale che
ci lasciamo per sempre”, gli dissi, con veemenza. Non potevo sopportare
quell’affronto volgare nascosto nel suo quesito ripetuto. Per me era già stata
un’umiliazione infame averlo dovuto ascoltare, e poi così a tradimento mi aveva
davvero sconvolto.
Pensava questo di me il mio ragazzo? Era una pugnalata al
cuore.
“Va bene, mi fido delle tue parole”, asserì, dopo qualche
secondo, calmandosi di nuovo. Gli occhi tornarono ad abbassarsi da me, come se
si stessero spegnendo.
“Non ti mentirei mai su una cosa del genere. E adesso, per
favore, prima di peggiorare ancora di più le cose, è molto meglio se te ne vai”.
Marco rimase immobile e non mi guardò neanche.
“Ti prego, vattene. Ci risentiamo quando sarai un po’ più lucido,
ora sei troppo sconvolto”, tornai ad incitarlo, e allora reagì. Mosse le mani
verso la sua gola, in un gesto che non compresi all’istante, ma che si rivelò
essere un movimento utile a sistemare il bavero della camicia a mezza manica
che indossava, ormai tutta in disordine.
“Va bene, ma non finisce qui, ok? Io ti amo e ti rivoglio, a
qualsiasi prezzo. Dammi qualche giorno per chiarirmi ancora meglio le idee, poi
ricominciamo daccapo, sei d’accordo?”, mi chiese, docilmente.
“Ne riparleremo. Ma ora, vai”.
Non gli riservai neanche un sorriso, o una parola di
conforto. Tirai solo un sospiro di sollievo quando se ne andò, sbattendo la
porta d’ingresso dietro di sé e senza salutare mia madre, che per tutto il breve
lasso di tempo che aveva impiegato per percorrere il corridoio non aveva tolto
neppure per un attimo i suoi occhi di ghiaccio dalla sua slanciata figura.
Lasciai poi che la mia schiena sudaticcia scivolasse
lentamente lungo la sedia, rincassandomi come se fossi interiormente morta. O
sciolta. Non seppi bene quale delle due alternative apparisse più concreta.
“Devi lasciarlo immediatamente”.
Mia madre mi aggredì col suo solito cipiglio da guerrigliera
sanguinaria, che sapeva sfoggiare solo nei confronti di Marco.
Borbottai qualcosa di incoerente, di tutta risposta; che
altro potevo dire, d’altronde? Era stata una batosta anche per me, tutto quello
che era appena accaduto.
“Non mi stupirei se tra qualche giorno si ripresentasse qui
per rapirti. O per picchiarci”.
Altro mio mugugno incosciente.
“Smettila di fare così! Non dirmi che il suo assalto ti ha
rammollito, perché è proprio quello che quel delinquente desiderava. Io te lo
dico già da ora, chiaramente e in faccia; se fai entrare di nuovo quello lì in
casa mia, io chiamo subito le autorità”, infierì ulteriormente, mentre io
restavo immersa nella mia prosciugata fiacchezza.
“Mamma, era solo sconvolto, abbi pietà di lui”, trovai il
coraggio di mediare, ancora stravaccata in maniera orribile sulla mia sedia.
“Ecco, è grazie a comportamenti del genere per cui le donne
vengono maltrattate e picchiate ogni giorno, e subiscono passivamente. Tu vuoi
giustificare quel violento, quel pazzo, quel decerebrato, quel potenziale
assassino…”.
“Basta, per favore”, la stoppai, prima che quella serie di
epiteti potesse divenire così lunga da farmi venire un’emicrania alla massima
potenza. Ci riuscii solo per qualche minuto, prima che riattaccasse, mentre
cominciava a lavare le stoviglie sporche.
“Ma hai visto com’è entrato in casa? Come mi ha aggredito, e
come ha trattato te? Ti sembra normale? E poi, io ti avevo detto e promesso che
non avrei mai più interferito nel vostro rapporto, ma questa volta ha passato
il limite! Ah, no, quello non tratterà mai più in questo modo mia figlia! E se
so che torni assieme a lui, dopo tutto quello che è accaduto di recente, non ti
voglio più vedere e ti diseredo!”, continuò ad inveire la mamma, ormai senza
più ritegno.
La sua foga mi donò un sorriso lezioso, quasi paradossale.
“Tu e papà, invece? Tutte rose e fiori? La nonna sapeva che
il tuo futuro marito aveva avuto problemi di alcolismo e con la Legge fin da
ragazzino. Non ti aveva detto le stesse cose? E poi le hai seguite?”,
rimbottai, con stizza.
Ecco, a quel punto ero stata io ad aver passato il segno, e
me ne rendevo conto, ma non ero riuscita a trattenermi. L’avevo voluta ferire,
per tutto quello che continuava a dire su di me e sul mio amore durato anni.
La vidi impallidire, lasciando poi cadere la spugna
insaponata che stringeva tra le mani bagnate, prima di chiudere il rubinetto e
di rivolgermi un’occhiata che aveva un che di molto dolce.
“E’ per questo che sto cercando di darti dei suggerimenti,
siccome io ci sono già passata. Io ho imparato sulla mia pelle cosa vuol dire
scegliere un uomo sbagliato, e voglio far sì che tu trovi solo il meglio. Un
uomo delicato, innamorato e tranquillo, e non un pazzo con due o tre
personalità differenti, e pure infantile più di un lattante in fasce”, mi
disse, con la voce strozzata, ridotta ad un singulto.
Poi, tornò al suo lavoro, silenziosamente.
“Svegliati. Lui non ti ama, lui ti vuole. C’è differenza tra
amare e volere; amare vuol dire ascoltare, rispettare chi ti sta davanti, far
di tutto per lui. Volere significa prendere letteralmente chi hai di fronte e
farne quello che ti pare, come un oggetto, per l’appunto. E, come un oggetto,
poi verrai cestinata, un giorno. È questo quello che vuoi davvero dalla tua
vita?”.
Il mio castello di carta crollò, collassò su sé stesso.
Mia madre, quel pomeriggio, proprio quando io avevo cercato
di minare la sua autostima per metterla a tacere, era stata in grado, con due
semplici e brevi affondi a parole, di farmi riflettere come mai prima di quel
momento… e di spingermi davvero a capire, sempre più verso una dolorosa verità.
All’improvviso, mi parve come se tutti i miei bellissimi
ricordi legati al mio ragazzo e al nostro rapporto avessero qualcosa di
fasullo; cos’ero stata io per lui? Uno svago, sul serio?
Mi tornarono alla mente i pomeriggi passati in centro, quando
mi accompagnava a fare un po’ di shopping, come di tanto in tanto accadeva,
soprattutto prima che cominciasse la nostra convivenza, e mi appariva Marco che
mi sorrideva, che mi guardava… ma qualcosa aveva rovinato tutto. Lo sguardo che
veniva rievocato nei miei ricordi era più simile a quello di un approfittatore,
di una persona che ti accompagna solo per farti contenta, e per tenerti
vincolata a lui.
Poi, senza sosta, rivissi tutti i momenti di breve tensione
tra noi, quando, soprattutto di recente, insistevo sul fatto che dovesse
cercare di applicarsi un po’, e trovare un impiego. Di farlo per noi, per la
nostra vita di coppia, per il nostro futuro. E mi riappare il suo sorriso, di
nuovo, ancora, mentre poi cercava di quietarmi con un abbraccio, o forzandomi
un bacio. Ed io crollavo, anche in quel caso.
Mi passò per la mente anche il dubbio che, forse, fossi così
malleabile per le persone che mi circondavano, che così avevano grandi chances
di manovrarmi e di influire su di me senza difficoltà.
No, no, non ce la facevo più, e la mia povera testa era tutta
in subbuglio, sospesa tra flussi di ricordi e amarezza estrema.
“Ti ha plagiato. Non te ne accorgi? Guarda come ti sei
ridotta. Te ne stai lì immobile, senza reagire, come una morta. Non hai una
parola per riprenderlo, e per giudicarlo, e non fai altro che cercare di ideare
scuse per non addossargli colpe”.
Ancora e di nuovo, mia madre infieriva, e la sua voce era
come una colonna sonora di quel momento molto delicato, sia per la mia vita e
sia per il mio immediato futuro.
“Lui ti ha svuotato. Ho visto i suoi occhi da pazzo, erano
proprio così; vuoti. Io non ho mai immaginato che fosse una persona di quel
livello, anche se qualcosa nel tempo avevo compreso, ma se avessi saputo, non
ti avrei mai permesso di convivere con quello squilibrato, anche se tu sei
maggiorenne e in grado, sulla carta, d’intendere e di volere. Ma lui ti ha
rubato la personalità, e proprio adesso, che dovresti tirarla fuori e
giudicare, ragionando, sembri priva di ingegno e di spina dorsale!”.
“Basta! Basta!”, urlai contro mia madre, dopo le sue ennesime
parole.
All’improvviso, il senso di spossatezza lasciò ampio spazio a
una rabbia incendiaria, che cominciò a circolarmi fin nelle vene. Andavo in
fiamme.
Piantai lì mia madre, e senza dire altro, me ne andai in
camera mia, come una bambinetta arrabbiata, a sfogare la mia tensione con un
bel pianto ristoratore. Era l’unica cosa che riuscivo a fare, mentre il
disordine ruotava senza sosta nella mia provata scatola cranica.
Non appena riuscii a calmarmi un po’, dopo una marea di
singhiozzi soffocati dal mio profumato cuscino, ormai tutto bagnato e rovinato
per via delle mie lacrime, che erano infine sgorgate in abbondanza, scelsi che
per far maggiore chiarezza avrei dovuto chiamare la mia migliore amica, che
avevo visto solo da poche ore.
Le telefonai.
“Ire, sono io…”, le dissi, con un filo di voce,
presentandomi. Il mio vano tentativo di non mostrarmi fragile come la
porcellana, anche con lei andò a vuoto.
“Oddio, Isa! Che voce!
Ma cosa ti è successo?!”.
La mia interlocutrice era preoccupatissima. Lo sarei stata
anch’io, se un’amica mi avesse telefonato per parlarmi con una voce del genere.
“Ti ho chiamato… per raccontartelo…”, e tra un singhiozzino e
un altro, la aggiornai sui progressi della situazione.
La lasciai sbigottita. Non aveva alcuna fretta di finire di
ascoltarmi.
“Lascialo subito”.
Il suo verdetto fu molto sintetico e pratico, ma mi fece
scuotere la testa.
“Parli come mia madre”.
“Tua madre ha ragione, questa
vostra storia non può andare avanti così. E non parliamo poi di come si è
comportato”.
“Oggi era troppo scosso… sono certa che presto potrà andare
meglio. Ma…”.
“Ma?”, mi sollecitò
la mia curiosa interlocutrice.
“Ma, nel frattempo, ci sto male e ci soffro”, conclusi,
mostrando di nuovo la mia esasperazione.
Forse, sbagliavo davvero a cercare di voler giustificare il
comportamento recente di Marco.
“Ecco. Metti un punto;
lascialo. Se poi è destino e sono rose, fioriranno. Ma adesso mi sembra che il
terreno sia troppo sterile per piantarli, questi beati fiori, no?”.
“Hai ragione”, le acconsentii, infine.
Mi sdraiai sul mio letto sfatto, stanca morta.
“Vedi allora quali
saranno le sue prossime mosse, poi valuta tu”.
“Certo, farò così”.
“Ti va se ci vediamo,
la prossima settimana? Vorrei stringerti forte, forte. Tu non meriti tutto
questo, sei così onesta, pura e lavoratrice… meriti molto di più e molto di
meglio!”, affermo Irene con una premura tale che seppe farmi sorridere,
nonostante la disperazione in cui ormai facevo il bagno quotidianamente.
“Assolutamente sì!”, quasi esultai, contenta della proposta
della mia amica. Avere una persona a mio fianco in quel momento, soprattutto
una mia coetanea, mi rincuorava molto e mi faceva stare meno male.
“Perfetto, allora ci
risentiamo. E ci teniamo in contatto! Mi raccomando, tienimi sempre aggiornata
su tutto, e se posso esserti di aiuto in un qualche modo, sono qui e sai dove e
come trovarmi, ok?”.
“Ok, Ire. Se non ci fossi tu…”.
“Fidati, tu meriti
tutto il meglio dalla vita, limpida come sei. Segui sempre il tuo cuore! A
presto, allora”, si congedò con bonarietà la mia cara interlocutrice,
gentilissima e disponibile nei miei confronti, come ogni volta che glielo avevo
concesso.
“A presto, grazie ancora”, e riattaccai. Poi, misi sul
comodino il mio cellulare, e mi concessi totalmente al mio letto, spostando il
cuscino umido e finendo di pulirmi il viso dagli ultimi residui delle lacrime
da poco versate.
Mi sentivo pronta a voltare pagina, e in un certo senso era
come se avessi tutti a mio fianco.
Marco passò per qualche istante in secondo piano, mentre
lasciavo che il mio sguardo si perdesse nel verde che regnava al di là della
mia finestra perennemente spalancata, che sembrava essere, in quegli istanti,
quasi una porta aperta sulla libertà e sulle infinite possibilità di scelta che
mi si stagliavano di fronte, con temerarietà e nitidezza.
NOTA DELL’AUTORE
Allacciate le cinture di sicurezza! I prossimi capitoli
continueranno a essere molto movimentati ^^
Vi ringrazio per aver letto anche questo capitolo.