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Autore: Luce Lawliet    15/07/2018    1 recensioni
Quella che sta guidando a 95 km/h sotto la pioggia, su una strada isolata e circondata dai boschi è Kaia Birkbeck. Sta piangendo, ma le lacrime non le impediscono di tenere d’occhio la strada, o almeno così crede finché i fari dell’auto illuminano un ragazzo sbucato dal nulla, che cammina proprio sulla carreggiata. Evitata per un soffio la catastrofe e sentendosi in colpa per averlo quasi messo sotto, Kaia gli offre un passaggio, domandandosi chi sia questo misterioso ragazzo incappucciato che gira con solo uno zaino in spalla.
Ma le sorprese non finiscono: quando lui rimuove il cappuccio, rivela di essere affetto da albinismo, che gli impedisce di viaggiare alla luce del sole.
Entrambi hanno dei segreti, così come una destinazione da raggiungere.
A mezzanotte comincia il loro viaggio fatto di risate, equivoci, furti, situazioni imbarazzanti, letti condivisi e dolorose rivelazioni.
Genere: Avventura, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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II.


 

Santo piripillo, quanto parla questo qui. Non ha chiuso quel becco da quando siamo partiti, peggio di radio rap! E non sembra volersi fermare.

All’inizio mi stava anche bene perché non ha una voce fastidiosa e il suo chiacchiericcio mi impediva di farmi venire improvvisi colpi di sonno, ma adesso stiamo esagerando, è più di un’ora che va avanti così. Almeno parlasse di cose interessanti in cui la mia opinione potrebbe contare e dar via ad una conversazione, no, è dallo svincolo della statale che non ha smesso un secondo di elencarmi le qualità di suo zio Bob. Ho appreso che il suo parente sarebbe capace di prendere a testate un bambino se solo questo si mettesse ad insultare gli Yankees o peggio ancora Sonny Gray; che una volta all’anno durante la sagra di paese vince regolarmente il primo premio nella gara a chi mangia un’anguria intera e sputa i semi più lontano; che tra Naomi Campbell e un boccale di birra scura sorseggiata durante la replica di una partita di baseball in tv con i colleghi pensionati, sceglierebbe la seconda opzione.

Oh, e che dire della zia Trudy invece? Lei è la migliore. Durante le visite settimanali pare sia solita regalare al nipote una montagna di scatole di cioccolatini e paste zuccherate che Epsi butta sempre via perché potrebbero seriamente nuocere la sua già fragile salute. Inoltre la cara zia, che a quanto pare è una parrucchiera, si offre praticamente sempre di provare a tingergli i capelli per dargli un’aria più “normale”, cosa che a quanto pare il ragazzo non apprezza.

Riesco ad infilare un “Perché no?” nel mezzo di quel monologo.

“Come perché? E la ricrescita? Sarebbe un circolo vizioso dal quale non uscirei mai più, con le sue mani sempre in testa e le sue unghie finte lunghe due centimetri che mi graffiano ovunque! Ho il terrore anche solo quando mi abbraccia! Lo sai che sono emofiliaco? Significa che un solo graffietto fatto nel punto giusto potrebbe farmi morire dissanguato.”

“Quanto la fai tragica, che cavolo...” sbotto, cercando di non sollevare gli occhi al cielo.

Lui fa spallucce, sistemandosi meglio sul sedile. Non ha fatto altro che muoversi per tutto il tempo. “Credi nella reincarnazione? Se un giorno rinascerai in un corpo simile al mio, ti capiterà di farla tragica molto spesso, credimi.”

“Potremmo scambiarci i rispettivi corpi in questo esatto momento, eppure sono certa che continueresti a lamentarti anche nel mio!”

“Oh no, nient’affatto!” ribatte energicamente, ispirato da questa ridicola ipotesi “Non potrei chiedere di meglio, qualsiasi fisico sarebbe meglio del mio! Sai quanti problemi mi lascerei alle spalle?”

“Ma come?” lo derido, sorpassando il cartello che indica l’uscita autostradale. Siamo quasi arrivati al confine. “E dovresti fare i conti con le mie ciocche rasta! Come farai, poi, a lavarti?”

“Posso sempre tagliarle” mi provoca con un sorriso stile Stregatto “ho un debole per le ragazze coi capelli corti.”

E cosa vuoi che me ne importi!, faccio quasi per rispondere, quando mi rendo conto che quel commento deve essere in qualche modo indirizzato a me e al mio aspetto. Niente con cui non abbia mai fatto i conti prima, sono consapevole di non essere miss universo, ma dopo aver sentito quelle parole mi sembra all’improvviso di essere tornata al liceo. Credevo di essermelo lasciato alle spalle nel momento in cui ho deciso di scappare di casa.

“I miei capelli non si toccano.” dico alla fine, lanciandogli quella che in teoria dovrebbe essere un’occhiata minacciosa, ma quando incrocio il suo sguardo mi si rizzano i peli delle braccia. Mi ero dimenticata il piccolo dettaglio dei suoi occhi e in effetti è il suo, lo sguardo spaventoso, anche se sta sorridendo. Gesù. A ben pensarci è questa, la cosa più agghiacciante: è inquietante mentre sorride.

Scrollo le spalle in un attacco nervoso, per scacciare la fifa blu che mi sta congelando le dita delle mani e dei piedi. Ovviamente lui si accorge del mio fremito – ho notato che è un osservatore fin troppo curioso – e chiede: “Che cos’hai?”

“Niente.”

“Oh.”

“Cosa?”

“Giusto per sapere, siamo a quel punto?”

“Quale punto?”

“Quello in cui una ragazza risponde niente, e l’uomo deve indovinare tutte le millantamila cose che in realtà non vanno.”

Spalanco la bocca, poi la richiudo, sbirciandolo di sottecchi. “Non so di che parli. Mi hai chiesto che cos’ho e ti ho risposto che non ho niente. Perché dovrebbe esserci qualcosa che non va?”

“Perché è così che funziona.” ribatte con una sicurezza che io non ho mai avuto in vita mia.

“E chi lo dice?”

“Gossip Girl.”

Tu guardi Gossip Girl?!

“Non io, mia sorella Bee. Spesso guardavo le puntate con lei, perché dopo iniziava Prison Break, che è la mia serie preferita. La tua invece qual è?”

“Non riesco a credere di aver incontrato un ragazzo che conosce Gossip Girl” non posso fare a meno di esclamare, ignorando la sua domanda.

L’acquazzone si sta calmando, finalmente. Ora scende solo una tiepida pioggerella che ci permette di parlare a volume di voce normale.

Epsi si stringe nelle spalle. Si è tolto la felpa zuppa, arrotolandola e appoggiandola sotto il sedile, davanti alla bocchetta d’aria calda. Sotto quella indossa una maglia color indaco e noto che ha una corporatura veramente esile. È magro come un chiodo e più bianco di un cadavere. Rabbrividisco di nuovo a quell’ultimo pensiero e stringo il volante tra i pugni, imponendomi di smetterla.

“Non avevo molta scelta; famiglia numerosa e un solo televisore...certe situazioni richiedono spirito di adattamento.” mi sorride, con l’aria di un uomo vissuto.

“Quanti fratelli hai?” adesso mi ha incuriosita.

“Sette.”

“Quanti?!”

“Set-te.” scandisce bene il numero, con voce tranquilla.

“Hai sette fratelli?”

“Be’, sei più una sorella, volendo fare i pignoli.” si corregge, pensieroso, abbassando lo specchietto sopra la sua testa per controllare se i suoi capelli sono asciutti.

“Come si chiamano?”

“Aaron, Bee, Caleb, Donnie, Florian, Godric, Henry.” risponde con una rapidità che mi lascia interdetta, e in un baleno mi faccio sospettosa.

“Ripetili.”

“Perché?”

“Fallo.”

“Inizio a pensare che tu abbia qualche problema alle orecchie. Aaron, Bee, Caleb, Donnie, Florian, Godric, Henry. Vuoi impararli a memoria, per caso?”

“Mpf” sbuffo, alzando gli occhi al cielo. Sette fratelli, wow. “Sono albini anche loro?”

“No, Bee ha i capelli rossi, ha preso tutto da nonna Millicent. Caleb, Donnie e Florian sono gemelli e hanno dieci anni più di me e sono tutti e tre già quasi calvi, mentre Godric è il preferito di mamma, penso sia perché ha i boccoli biondi, proprio come lei. Henry sì che è un’incognita: ha i capelli neri e nessuno in famiglia li ha, inoltre se te lo trovassi davanti penseresti immediatamente che ha origini messicane, penso sia il motivo per cui papà accusa sempre mamma di avergli fatto le corna con il giardiniere...”

“Insomma, si può dire che nella vostra famiglia ci siano tutti i colori dell’arcobaleno.” lo prendo in giro, ma senza cattiveria “Deve essere...movimentata. Immagino non ti sarai mai sentito solo.”

“Puoi scommetterci!” ribatte con uno slancio di entusiasmo ben controllato nella voce. “Non c’è mai da annoiarsi, nelle grandi famiglie. Immagino di essere stato molto fortunato!”

Gli lancio un’occhiata in tralice.

“E vai d’accordo con tutti?”

“Non rinuncerei a nessuno di loro, neanche per centomila dollari!” afferma con sicurezza, giusto prima che io lanci la bomba.

“E allora perché adesso non sei in macchina con uno di loro?”

Si zittisce all’improvviso.

La mia è stata una domanda a tradimento e ne sono perfettamente consapevole, così come so che lui sta pensando la stessa cosa; in quella frazione di secondi carichi di silenzio tra noi posso quasi percepire le rotelle nella sua testa lavorare, mentre lui si volta a guardarmi. No, non a guardarmi. A studiarmi con un’attenzione viscerale, che mi fa contorcere sul sedile dal disagio. È come se mi analizzasse, realizzando solo adesso di non aver capito che tipo di persona abbia a fianco e la cosa mi lascia perplessa, mentre un dubbio improvviso si fa strada nella mia testa: magari il sospetto non c’entra nulla, non è che gli ho fatto una domanda un po’ troppo personale?

“Il fatto è che” si mordicchia le labbra e la sua voce mi riscuote dal turbinio dei miei pensieri “ecco, nessuno di loro sa che sto andando nel Montana, in questo momento.”

Aggrotto la fronte. “E perché no?”

“Te lo direi, ma dopo dovrei ucciderti.”

A momenti mi sfugge di mano la leva, quando faccio per cambiare la marcia.

“Ma che…!” lo fisso con un’espressione sconvolta “Non è divertente, accidenti!”

Lui spalanca gli occhi, preso alla sprovvista dalla mia reazione.

“Stavo scherzando, non è così che si dice di solito?”

“Non me ne frega niente, non dirlo mai più!” bercio, con il terrore negli occhi. Cazzo, lo so benissimo che è una frase tipica e al posto suo anch’io forse avrei fatto la stessa battuta, ma un conto sono io, e io sono una persona perfettamente ordinaria, un conto è lui! Lui e quegli occhi demoniaci che stanno seriamente mettendo a dura prova la mia guida e la mia sanità mentale. Merda! Sono proprio ridicola.

“Ok. Scusa.”

Faccio un bel sospiro prima di voltare il capo verso il finestrino, per evitare che lui mi guardi in viso. Ha sempre lo sguardo puntato sulla mia faccia poi, oh, ma che cavolo ci trova di interessante? Non potrebbe limitarsi a guardare la strada, come faccio io? Che tipo snervante.

“Sei arrabbiata?”

Tengo gli occhi fissi sulla strada. In effetti sì, sono arrabbiata, mi sento particolarmente stizzita e non c’è nemmeno ragione di esserlo, e la cosa non fa altro che farmi incavolare di più.

“Sai, mio nonno Joseph dice di conoscere un metodo infallibile per far passare la xenofobia alle donne. L’ha fatto con mia nonna quando si sono conosciuti. Praticamente-”

“Xenofobia?” giuro, ci ho provato a stare zitta, ma 1) fare scena muta implicherebbe la ripresa dell’insopportabile cicaleccio da parte del fantasma al mio fianco e 2) che cavolo è la xenofobia? “Cioè? Cosa sarebbe, la paura dei gas?” mormoro, confusa.

Lui esita un attimo prima di mettersi a ridere e per un istante riesco addirittura a dimenticarmi la diffidenza e la stizza che provo nei suoi confronti. Ha una risata stupenda, niente a che vedere con il suo parlottio ronzante o il suo tono apatico e saccente.

“No, è semplicemente un altro termine per definire la diffidenza verso persone o cose estranee. Ad essere onesto, non credo esista un modo per definire la fobia per i gas. C’è la paura di morire soffocati, anche detta anginofobia.”

Ma santo cielo, come diavolo siamo arrivati a parlare di queste cose?

Xenofobia... anginofobia... e ho già mal di testa.

“Ti sei mangiato un dizionario o quello delle fobie è solo un hobby, per te?”

“Mi piace tenermi informato. Io per esempio sono ipocondriaco” ...e ti pareva. “e non ti dico quant’è lungo l’elenco delle mie personali fobie. Ne hai qualcuna anche tu?”

Sospiro rumorosamente, prima di brontolare che di certo non conosco i termini scientifici delle mie paure.

“Te li dico io!” ribatte, con le antenne improvvisamente dritte. Questi suoi scatti d’umore mi mettono in allarme, sono improvvisi e immotivati, e mi fanno sempre sussultare, mannaggia a lui. “Dai, sembra divertente! Descrivimi le tue paure e io ti dico il nome scientifico a cui corrispondono.”

All’improvviso intuisco il motivo del suo entusiasmo: per lui questo è un gioco. Lo vedo che mi osserva con curiosità e impazienza, con la massima attenzione, e in un attimo mi pento della piega che ha preso la nostra conversazione; non ho affatto voglia di fare questa cosa, significherebbe rivelare le mie più grandi paure, mettere allo scoperto una parte troppo intima e vulnerabile di me ad un completo sconosciuto.

Tuttavia comprendo anche che Epsi non sarebbe facile da dissuadere, per questo decido di truccare le carte.

“Come vuoi, mh. Ho paura degli animali.”

Con la coda dell’occhio, lo vedo accigliarsi. “Di tutti gli animali?”

“Non so...mh, sì?”

“Zoofobia.” borbotta, con aria quasi… delusa? “Sul serio hai paura di tutti gli animali?”

“A ciascuno le proprie fobie.” è ciò che di più intelligente mi viene da dire.

“Deduco che tu sia vegetariana.”

Cazzo.

“Ho anche paura dei tuoni.” aggiungo per cambiare argomento e sviare la sua deduzione, ovviamente sbagliata.

“Oh, quindi soffri di astrafobia? Strano, abbiamo guidato sotto un concerto di tuoni e fulmini fino a dieci minuti fa e non hai fatto una piega.” osserva, mentre il tono della sua voce nasconde un’implicita insinuazione che mi fa quasi imprecare per la mia stupidità. Non funziona, sta per accorgersene e si metterà a rompere.

Allora faccio un bel respiro, prima di confessare: “Ho sempre avuto paura dei ferri. Delle operazioni chirurgiche, intendo. È il motivo per cui sono l’unica a questo mondo a non amare Grey’s Anatomy, credo. C’è un termine anche per questo?”

“Certo che c’è. Tomofobia.” risponde con sicurezza, con un leggero sorrisetto sul viso eburneo. Si comporta come il secchioncello della classe che sa di poter far fessi tutti durante l’interrogazione a tappeto.

All’improvviso mi viene voglia di sfidarlo, sfidarlo sul serio però. Mi infastidisce il suo tono da dottorando e mi infastidiscono i suoi occhi vermigli. Se pensa di avere gioco facile con me, si sbaglia.

“Paura di finire sepolta viva. Ti avverto che appena sostiamo controllerò tutte le risposte.”

Il brillio nel suo sguardo mi comunica che accetta con piacere la sfida. “Mi sembra giusto. Tafofobia, comunque.”

“Paura del vomito delle altre persone!” esclamo, con aria vittoriosa. Questa è assurda, non può esistere una definizione per…

“Emetofobia.” replica lui, con il mio stesso entusiasmo, forse anche peggio.

Strabuzzo gli occhi, incredula. Non ci credo, non è possibile!

“Mi stai prendendo per il culo?”

“No! È la verità.”

“Paura dei contatti sociali.”

“Antropofobia.”

“Di quelli sessuali?”

“Erotofobia.” un leggero ghignetto prende forma per un secondo sulla sua faccia, prima che risponda.

“Paura di fallire.” inizio a incazzarmi.

“Atychifobia.”

“Di vedermi orribile.”

“...Atelofobia.”

La tensione tra noi si sta accumulando alla stessa velocità con cui continuo a parlare, senza quasi rendermi conto di quello che sto facendo.

“Di ammalarmi gravemente.”

“Patofobia. Ma, Kaia..”

“Della solitudine.”

“Autofobia.”

“E di soffrire. Continuamente.”

“Algofobia.”

Scalo di marcia, quando ci avviciniamo alle luci lampeggianti del casello autostradale.

“Be’, che dire. Complimenti.” mormoro, apparentemente rilassata. In realtà faccio una fatica terrificante anche solo a pronunciare quelle poche parole.

“Kaia...”

“Dammi cinque dollari, c’è da pagare.” allungo una mano nella sua direzione, arrestando l’auto davanti alla sbarra. Lui però non si muove ancora e la cosa mi fa stringere convulsamente il volante.

“Aspetta solo un secondo-” non fa in tempo a continuare, che lo interrompo bruscamente, quasi urlandogli addosso.

“Hai vinto, basta ora, ok? Non mi va più di giocare!”


 

Ɛ

 

 

L’atmosfera si è fatta decisamente pesante, da quando abbiamo superato il casello e siamo ufficialmente entrati nel Montana.

Guido nel più totale silenzio, facendo ben attenzione a fissare solo la strada, mentre il ragazzo seduto al mio fianco non ha detto una parola, sebbene più di una volta abbia preso fiato per dire qualcosa, per poi lasciar perdere. La tensione del silenzio è spezzata solo dal rantolio del suo respiro, so che non lo fa apposta, ma in questo momento sono talmente scombussolata che mi basterebbe pochissimo per esplodere e aggredirlo verbalmente solo per questo.

Ma...no. Mi impongo di non essere così meschina, di non fare una cazzata simile, in fondo Epsi non ha colpa per la sua salute cagionevole.

Però questo silenzio è orribile. Orribile.

E dire che prima avrei dato chissà cosa perché chiudesse il becco, adesso non sono più della stessa opinione; eppure non oso parlare per prima, anche se sono io ad aver creato il danno. Dio, che razza di codarda sono.

Mi dispiace, ok? Mi sento una merda per avergli sbraitato contro in quel modo, e per che cosa poi?

Sono una deficiente, una stronza. Epsi sembra un ragazzo spontaneo e, a suo modo, allegro. Oddio, forse allegro non è la parola adatta – non lo è per niente –, ma nonostante ciò possiede molta più gioia di vivere della sottoscritta. Ed è un signore, non ha provato a difendersi malgrado fossi io quella nel torto, il taglio di banconota più piccolo che aveva era venti dollari, mi sono tenuta il resto senza battere ciglio e non mi ha neanche mandata a fanculo.

Cazzo, devo chiedergli scusa. Devo farlo.

È inutile, non ci riesco!

Mi lascio andare sul poggiatesta del sedile, dichiarando la mia sconfitta morale e gettando nel cesso anche l’ultima briciola di dignità che potevo mantenere, prima che senza alcun preavviso, la sua voce mi strappi dalle mie elucubrazioni mentali.

“Possiamo fare sosta in autogrill? Devo usare il bagno.”

Meravigliosa, celestiale, la sua voce mi pare una manna dal cielo, una ciambella a cui mi aggrappo subito, come una disperata in mare aperto.

“Come? Certo, sì! Subito! Ehm, ce n’è uno tra nove chilometri!” leggo sul cartello indicatore a lato della strada, strizzando gli occhi da dietro le lenti dei miei occhiali.

“Grazie.” mormora, senza aggiungere altro.

“Prego.” rispondo con un po’ troppa enfasi, sentendomi una vera rincoglionita. Perfino un ritardato si accorgerebbe che voglio davvero continuare il dialogo, è solo che ho la lingua incollata al palato, la tensione e l’imbarazzo sono barriere insuperabili in questo momento ed Epsi sembra più che mai deciso a non interagire con me.

Dai, Kaia, tira fuori qualcosa! Qualunque cosa, chissene frega se è una minchiata! Entro l’anno, possibilmente…

“I tuoi fratelli hanno nomi normali. Come mai sembri essere l’unico della famiglia che i tuoi genitori hanno deciso di punire con un nome assurdo?”

Che cosa. Ho appena. Detto.

Mi mordo le labbra a sangue, rendendomi conto di quanto mi sia uscita male quell’osservazione, vorrei morire proprio adesso.

Lui pare riscuotersi, per poi cambiare posizione sul sedile, frugando con sguardo annoiato il paesaggio semibuio oltre il parabrezza.

“Epsi sta per Epsilon.” mi spiega, mentre cerco di captare qualsiasi traccia di ostilità nella sua voce. Non mi pare di sentirne e la cosa mi rincuora appena.

“Epsilon? Come la lettera dell’alfabeto greco?”

“Proprio quella.” sorride lui, tranquillamente. “Hai studiato greco?”

Mi ha sorriso. L’ha fatto. Grazie Signore, grazie.

“È tra i corsi elettivi che ho scelto di frequentare per il senior year.”

Di colpo la sua espressione si fa sospettosa e si volta a fissarmi.

“Aspetta, quanti anni hai?”

“E tu, quanti anni hai?” replico, incuriosita. È vero, accidenti, non ci avevo pensato, ma ora che ci faccio caso...Epsi è un’incognita, la sua voce suggerisce che sia un adolescente come me, ma il suo aspetto lascia pensare tutt’altro. Potrebbe avere sedici anni così come potrebbe averne...be’, molti di più.

“Te l’ho chiesto prima io.” battibecca, mettendo già un broncio che mi fa subito scattare nel panico all’idea di poterlo offendere nuovamente e far precipitare entrambi nel mutismo imbarazzante di poco fa.

“Diciassette.”

Solleva le sopracciglia, stupito. “Ma la patente di guida in Canada non è concessa dai diciott’anni in su? Come puoi guidare già?”

“Puoi ottenerla anche a sedici, se la tua famiglia è in una condizione particolare. A mio padre hanno sottratto la patente per guida in stato di ebbrezza e non si è mai preso il disturbo di riprenderla, e la mia sorellina aveva bisogno di passaggi a scuola, dato che da noi non passano mezzi pubblici, quindi...”

“E tua madre?”

Mi blocco, esitando. “Mia madre è venuta a mancare di recente.”

Epsi resta in silenzio per un paio di secondi, prima di riprendersi e presumo che ora stia per dire che gli dispiace, ma ancora una volta quello che dice mi coglie impreparata.

“Per questo piangevi?”

Lo fisso senza capire. Da dove siamo vedo l’insegna rossa e gialla dell’autogrill che brilla invitante da un lato della strada, facendosi sempre più grande e definita.

“Quando esattamente mi hai vista piangere?” gli domando, confusa, anche se un presentimento inizia farsi strada dentro di me.

“Quando hai rischiato di spalmarmi sull’asfalto” mi rinfresca la memoria, mentre si abbassa a recuperare la sua felpa umida. “Quando hai fermato l’auto mi sono avvicinato. Ho visto il tuo viso rigato di lacrime attraverso il riflesso del vetro.”

Con un soggetto del genere, mi domando a cosa possa servire provare a mentire. I suoi occhi sembrano scavarmi nell’anima, la luce dell’insegna dell’autogrill illumina le sue iridi di un’intensa sfumatura color rubino che mi impedisce di spostare lo sguardo altrove e in meno di un battito del cuore, mi trovo a dire la verità.

“Se n’è andata sette giorni fa. Mio padre ha dato il consenso per staccare la spina senza avvertirmi, perché sapeva che gliel’avrei impedito. Non mi ha concesso nemmeno di salutarla.”

Da parte di Epsi, un profondo silenzio.

Credevo avrebbe fatto più male dirlo ad alta voce. Ero certa che mi sarei messa a piangere di nuovo e invece mi riesce fin troppo semplice sostenere lo sguardo del ragazzo dai capelli bianchi, che batte le palpebre, incerto su cosa dire. È in difficoltà.

Che tenero, mi trovo a pensare inconsciamente, proprio lui che ha sempre la risposta pronta.

In questo caso, però, apprezzo molto il suo rispettoso silenzio.

“Io ho fame.” il brontolio nel mio stomaco suona un po’ come una conferma, e anche se in realtà potrei resistere fino a domani senza mangiare niente, il mio intervento serve a dare un taglio netto all’atmosfera pesante a cui ho dato vita “Mi sono portata dietro solo pane e burro d’arachidi e qualche lattina. Se devo guidare fino all’alba avrò bisogno di qualcosa di più sostanzioso, quindi via al saccheggio selvaggio, tanto paghi tu, no?” ridacchio, per poi indugiare mentre faccio per aprire la portiera, una volta accostata l’auto. “A meno che tu non voglia darmi il cambio e...”

“No, no!” si affretta a dire, sollevando le mani. “Sto bene al mio posto, grazie.”

“Non ti piace guidare?”

“Non so guidare.” ammette, guardandosi le scarpe sporche.

“Che cosa?” squittisco, incredula. Sto parlando con lo stesso tizio che un’ora fa osava darmi consigli tecnici su come dosare il peso del piede sull’acceleratore, per evitare gli strattoni dopo che cambio la marcia? Questa è bella. “Ma allora, prima, come cavolo ti sei permesso di contestare la delicatezza della mia guida, eh?! Vuoi che ti scarichi in tangenziale e tanti saluti?” continuo indispettita, mentre parlo alla sua testa bianca, visto che si rifiuta di guardarmi. Lo vedo aprire rapidamente il suo zaino e tirare fuori un’altra felpa asciutta, che si infila con gesti rapidi, per poi tirare su il cappuccio.

“E come mai?” gli domando mentre lui sgattaiola fuori dalla macchina.

“Amaxofobia.” borbotta, con un sorriso imbarazzato.

“Cosa?”

“Guidare mi mette una fifa blu.” mi confessa, prima di chiudere la portiera e svignarsela all’interno dell’autogrill.

Mi sgancio rapidamente la cintura, per poi affrettarmi a raggiungerlo.



 

 

SPOILER capitolo 3:

 

“Cazzo!! Ecco, visto? Mi hai fatto sbagliare l’uscita!”

“Io? Ah, è di nuovo colpa mia, quindi? Scusa, ma chi di noi sta guidando?”

“No!! Non ci provare nemmeno, capito?! Non dopo quello che mi hai fatto, perché ti giuro, sono a tanto così dall’ammazzarti!”

“Ma non l’ho fatto apposta-”

“E invece sì! Bastardo!”

“Ti dico di no, non avevo letto che era una bibita gassata.” Epsi indugia, indeciso se onorare la sua causa, e naturalmente prende la decisione sbagliata. “E poi tu non mi hai mai informato di essere allergica alle prugne.” borbotta, pentendosene subito quando sembro sul punto di saltargli alla gola. Purtroppo si salva perché al momento non posso accostare.

“Sì e infatti chi cavolo compra una bevanda energetica al gusto di prugna?! Nessuno sano di mente lo farebbe! Compri un succo d’arancia, di mela, di pesca, d’uva, di carciofo, ma non di prugne! Che schifo!”...e che male. Ho il viso butterato e rosso per via della reazione allergica. Ha iniziato a gonfiarsi subito dopo che Epsi ha aperto quella fottuta lattina, schizzandomi in faccia metà del contenuto e ora sto soffrendo come un cane. E ho lasciato la pomata per emergenze come questa a casa.

Tra gli insulti e gli spergiuri contro Epsi, credo di averlo anche minacciato che di questo passo solo uno di noi raggiungerà Fort Grove tutto intero; a pensarci bene però, visto come sono messa, mi domando chi di noi due. [...]

 



 

Eccoci col secondo capitolo.

...Che coppia di imbecilli XD * l’autrice porge le più sentite scuse, ma andava detto. Maggiori chiarimenti nel prossimo capitolo *

Essendo una storia di pochi capitoli verremo presto incontro a situazioni imbarazzanti, scomode rivelazioni e un possibile avvicinamento tra i nostri sprovveduti ragazzi. Qui non si perde tempo >:D

 

Grazie a chi ha inserito la storia tra le seguite/preferite/ricordate e a chi mi ha fatto conoscere la propria opinione nel capitolo precedente!

A presto!

 

LL

*Nella foto: Kaia Birkbeck
   
 
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