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Autore: alessandroago_94    23/07/2018    13 recensioni
Isabella è una ragazza come tante altre, senza alcuna pretesa di troppo dalla vita.
Tuttavia, da quando la relazione con il suo ragazzo è entrata in crisi, la felicità ha lasciato spazio alla più profonda tristezza.
Quello che non sa è che, a volte, la vita sa donarci piacevoli sorprese. E l’amore può annidarsi dove neppure lei avrebbe mai creduto di poterlo trovare.
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo dieci

CAPITOLO DIECI

 

 

 

 

 

 

 

La notte non mi aiutò, anzi. Purtroppo, accadde una disgrazia molto spiacevole, che fece davvero incrementare incredibilmente la mia tensione e la mia ansia.

Infatti, dormivo profondamente quando udii un gridolino strozzato, che riuscì comunque a farmi svegliare. Non riuscivo a capire bene, appena aperti gli occhi, cosa fosse accaduto, ma mi era parso che il lamento provenisse dalla stanza di mia madre.

Accesi la luce, e guardai la sveglia, che segnava le due di notte. Non avevo dormito molto, ed ero ancora tutta segnata dagli eventi recenti, e mentre mi stavo alzando dal letto per andare a controllare se fosse tutto a posto, seppur a malincuore e con poca voglia, tornai ad udire un altro gemito, quella volta più distinto. Si trattava indubbiamente di mia madre.

Mi diressi prontamente e di scatto verso la sua stanza; sapevo che soffriva di disturbi piuttosto seri di cuore, e temevo che stesse avendo una crisi o un malore.

Non appena mi avvicinai, trovai la porta della camera da letto spalancata, e la mia povera mamma, immersa nel sudore e distesa sul letto matrimoniale nel quale aveva continuato a dormire per tutti gli ultimi anni, lanciava gemiti strozzati.

“Mamma!”.

Mi precipitai subito su di lei, ma non la toccai; la donna si sfiorava il petto, e non appena accesi l’abatjour che era posata sul comodino, fu illuminata una scena straziante. La poveretta si stringeva il petto con forza, le mani unite l’una sull’altra, e dalla bocca non usciva altro che dei suoni spaventosamente dolorosi.

Non era cosciente, o almeno non mi rivolse alcuna parola, ma nella situazione in cui si trovava di certo aveva altro di cui pensare che interagire con me.

Spaventatissima, telefonai col mio cellulare al 118, senza attendere altro prezioso tempo. Sapevo che la mamma era in pericolo, e temevo addirittura che l’ambulanza non arrivasse abbastanza in fretta per salvarla.

 

Di quei concitati momenti, nulla mi rimase, se non quell’attesa che mi parve infinita, e il mio tentativo di stringere una mano di mia madre tra le mie.

“Resisti”, le dicevo, incessantemente, tra le lacrime.

“Resisti, so che sei una guerriera”, continuavo a ripeterle, e smisi solo quando le sirene dell’ambulanza si udirono distintamente.

Andai ad accogliere subito i soccorritori, e li indirizzai verso la stanza al piano superiore, mentre uno di loro si soffermava a scaricare la barella dal mezzo di emergenza.

“Problemi al cuore, senza dubbio”, disse un giovane con la divisa dei volontari. Poi, si chinò sulla mamma e cominciò a massaggiarle il petto.

“Lei è la figlia?”, mi chiese un secondo soccorritore, sopraggiungendo alle mie spalle e costringendomi a distogliere l’attenzione dalla scena, che preannunciava un massaggio cardiaco.

“Sì, certo”.

“La situazione pare già più grave del previsto. Ora la carichiamo subito a bordo, dove applicheremo le prime cure, che potranno permetterle di sopravvivere fino all’arrivo in ospedale, dove i medici la seguiranno e verranno fatti degli accertamenti e degli esami specifici. Ci segua in auto, per favore, se le è possibile e se le vuole stare a fianco”, disse l’uomo, poi andando ad aiutare il terzo ragazzo alle prese con la barella, per poi spostarla all’interno della stanza.

Col volto totalmente inondato di lacrime, mi scansai e smisi di occupare dello spazio utile per i soccorritori.

In pochi minuti, mia madre aveva smesso di dimenarsi e di lamentarsi, e i volontari agirono con grande premura e attenzione, portandola via distesa sulla barella, fino al piano inferiore e poi direttamente all’interno del mezzo di soccorso.

Feci per seguirli, ma l’uomo che mi aveva parlato poco prima, che era salito per ultimo, fece cenno di allontanarmi, siccome doveva richiudere gli sportelloni anteriori dell’ambulanza.

“No, signorina, è la regola. Non può salire a bordo. Se ci tiene e se le è possibile, ci segua in automobile”, mi disse, richiudendo tutto e lasciandomi sola. Qualche secondo dopo, la sirena ricominciò a suonare e il mezzo sfrecciò via, verso l’ospedale della nostra cittadina.

Non avevo idea se quella fosse stata una struttura idonea per la mia povera mamma, e quale fosse il suo reale stato di salute e quanto fosse grave il suo problema, e c’era caso che la dovessero spostare in un altro ospedale più attrezzato.

Non ci pensai ulteriormente su a quella possibilità e mi catapultai a mettermi una maglietta addosso, e poi in auto, per non lasciarla sola.

 

La sosta al pronto soccorso fu di una durata infinita, o almeno così mi parve.

Mia madre era già stata affidata alle cure dei medici, quando giunsi a destinazione, e non mi rimase altro che aspettare… in realtà solo pochi minuti, forse tre quarti d’ora, che mi parvero un’infinità.

Nonostante fosse ancora piena notte, il pronto soccorso era già pieno di persone in attesa delle prime cure. C’era una donna straniera con la testa blandamente fasciata, e il sangue che le scendeva giù lungo il viso; anziani che gemevano, alcuni distesi sulle barelle, e un giovane ricurvo su sé stesso, avrà avuto la mia età, mentre una donna gli parlava confusamente all’orecchio, come per volerlo rassicurare.

Sembrava impossibile che una cittadina di dimensioni così modeste come la nostra fosse così ricolma di sofferenza. Proprio mentre cominciavo a lasciarmi assuefare da quella valanga di dolore, un’infermiera molto gentile mi avvicinò.

“Lei è la figlia della signora Castaldini?”.

“Sì, sono io”.

Mi alzai immediatamente in piedi, trepidante, e lasciando che le mie mani riprendessero a strofinarsi l’una contro l’altra, dall’ansia che provavo. Subito, un medico mi venne incontro, dopo che la donna mi aveva individuato e segnalato con un cenno.

“Bene, sua madre mi aveva avvisato che l’avrebbe seguita fin qui. La signora ora è perfettamente cosciente e stabile; ha rischiato l’arresto cardiaco, ma il primo soccorso è avvenuto correttamente, e anche se al momento non è in grave pericolo, ha rischiato qualcosa di grosso. Forse i farmaci consigliati dal cardiologo non sono più sufficienti a tenere a freno i suoi disturbi”, esordì il medico, provato, senza fare giri di parole.

“Oh…”, riuscii a dire, inebetita. Dovevo sembrare una sciocca, a chiunque mi avesse osservato in quel preciso istante.

Non riuscivo neanche a parlare o a dire qualcosa di concreto.

“Qui non abbiamo strumenti adeguati per poter fare gli accertamento necessari. Per questo, sua madre sarà trasferita immediatamente, tramite ambulanza, nella clinica specializzata Villa Silvia, a Rimini, la struttura ospedaliera più accessoriata e pronta per casi come questo”, proseguì il medico, non badando alla mia situazione. Ci doveva essere abituato ai familiari spauriti.

“E’… una struttura privata, però”, riuscii a dire, scioccamente.

“Sì, però è preparata per accogliere i pazienti che noi non possiamo ospitare. Non si preoccupi, vedrà che lì sua madre si troverà molto bene e potrà essere seguita al meglio”, concluse il medico, tornandosene poi a fare il suo lavoro. Non lo invidiavo affatto…

Con ancora il batticuore per l’ansia e la paura di poco prima, andai in macchina ed attesi che l’ambulanza partisse. Non mi restava altro da fare che riprendere a seguirla.

 

Rimini non era la città adatta a me. Sembrava una metropoli, ai miei occhi di ragazza di campagna, cresciuta ai margini di una cittadina dove gli edifici più alti erano i campanili delle chiese e le abitazioni più elevate non andavano oltre ad un terzo piano.

Mi ritrovai spaesata, e per fortuna non avevo altro da fare che seguire l’ambulanza, senza perderla di vista, e le strade alle tre e un quarto del mattino erano perlopiù deserte.

Non fu un problema giungere alla struttura ospedaliera, a questa Villa Silvia che non avevo mai visto fino a quel momento, e mi fece impressione osservarla per la prima volta, di notte.

La sua era comunque una mole abbastanza impressionante, anche se non al livello degli ospedali pubblici più famosi della città. Illuminata da numerosi lampioni, e con un ampio giardino davanti a sé, Villa Silvia mi apparve accogliente.

Parcheggiai nell’apposito parcheggio, ad una trentina di metri di distanza, e mi precipitai verso il vialetto sovrastato da numerosi ed altissimi pini nel quale si era inoltrata l’ambulanza. E poi, l’amara scoperta.

Come uno zombie disperato, atterrito e dal volto arrossato dalla tensione, mi ritrovai dopo poco di fronte all’ingresso della struttura, senza riuscire ad entrare; infatti, la grande porta automatica non si apriva, neppure se le andavo addosso.

Dopo aver paciugato per un po’, riuscii a trovare quello che doveva essere un campanello, e tentai di suonarlo, anche se non lo feci, siccome una giovane infermiera aprì quello che mi era sembrato fin da subito come una barriera invalicabile, e dall’interno si sporse verso di me.

“E’ impazzita, per caso? Cosa crede di fare? È da un po’ che le telecamere la segnalano. La smetta o chiamiamo la polizia”, mi sgridò, piuttosto acida.

Alzai le mani in segno di resa, e dimenticando quello che stavo facendo, mi mossi verso di lei.

“Mi scusi, mi perdoni tanto, è solo che mia madre è appena giunta qui in ambulanza, ha problemi di cuore… vorrei starle accanto…”, ricominciai a balbettare, confusa.

“Ah, capisco”, si calmò l’infermiera, “ma non può entrare. Immagino che sua madre sarà ricoverata. Quindi, di conseguenza, dovrà attendere l’orario delle visite, e se sarà tutto a posto, le comunicheremo il reparto dove sarà alloggiata, e il numero della stanza”.

“Sì, va bene… e quando potrò entrare, allora?”, andai al punto.

“Abbiamo due orari, per le visite dei familiari dei pazienti. Potrà varcare questa soglia tra poche ore, cioè dalle sei del mattino fin alle otto e trenta, oppure se preferisce potrà venire questa sera, dalle diciotto e trenta fino alle venti. Siamo molto fiscali a riguardo”.

“Ho capito”, mormorai, abbattuta, e incassando il verdetto.

“Bene, a tra un po’. Buon proseguimento di nottata”, si congedò l’infermiera, non in modo proprio educato, e richiudendo dietro di sé la porta automatica.

“Cazzo”, mormorai tra me e me, esasperata. Non avevo modo di andare a casa, e non potevo entrare da nessuna parte. Ci stavo troppo male, e cominciai ad imprecare a voce bassissima, mentre tornavo ad allontanarmi dall’ingresso sorvegliato dalle telecamere, siccome non volevo che telefonassero davvero alla polizia, dall’interno.

Villa Silvia, dopo un primo impatto positivo, aveva cominciato a starmi seriamente sulle scatole.

Erano le tre e un quarto, arrivare alle sei in macchina non sarebbe stato proprio il top o la mia serata ideale, tuttavia non potevo fare altrimenti. Mi rendevo conto che non avevo molte chances di fronte a me.

Tornai quindi alla mia Toyota Yaris metallizzata, mentre il mio cuore si quietava, pian piano, assieme al nervosismo che provavo, e mi sistemai sdraiata sui sedili posteriori, chiudendomi dentro ad osservare la calma vita notturna dal finestrino che avevo di fronte.

Non era un gran panorama, siccome dalla mia scomoda posizione riuscivo a scorgere solo un misero lampione che fendeva il buio circostante con la sua luce abbagliante, illuminando parte del parcheggio in cui sostavo.

Presi allora la felpa che tenevo sempre in auto per eventuali emergenze, e l’appallottolai sotto la testa, in modo da formare un alquanto scomodo cuscino, cercando di lasciarmi un po’ andare, tanto non valeva la pena stare lì tre ore a rodermi come una pazza.

Non mi accorsi quando mi addormentai, seppi solo che trascorse un lasso di tempo indefinito, prima che riuscissi a crollare.

 

Inutile sottolineare il fatto che dormii malissimo. In modo terribile.

Mi risvegliai con la luce dell’alba che colpiva il mio viso, e cominciai la mia giornata abbagliandomi e gemendo, essendo rimasta tutta rattrappita su quei sedili per diverse ore.

Mi tirai su un una posizione seduta facendo uno sforzo enorme, mentre sudavo e pativo il caldo di quell’estate da incubo, e, inconsciamente, come prima cosa afferrai la mia borsa e ne estrassi lo specchietto che portavo sempre con me.

L’orrore che rifletteva quasi mi spaventò. Avevo un paio di occhiaie terribili, un paio di zampe di gallina che le evidenziavano, e una chioma tutta ribelle come non mai. Il volto era arrossato e in disordine.

Guardai l’orologio sempre attivo nel cruscotto; erano le sei meno un quarto. Puntualissima.

L’alba prematura di mezza estate si era rivelata una sveglia perfetta.

Afferrai uno dei fazzolettini umidificati che portavo sempre con me, nel loro apposito involucro, e me lo passai sul volto, delicatamente, ripulendolo per bene dai residui di quella caotica nottata, per poi pettinarmi un po’ e in tutta fretta.

Quand’ebbi concluso la mia frettolosa toeletta, il mio orologio segnava le sei e quattro minuti. Ero pronta all’azione.

Uscita dall’auto, mi stiracchiai, e dopo averla richiusa, cominciai a muovermi con passo baldanzoso verso la mia meta, con addosso la mia misera magliettina a mezza manica, incurante della frescura dell’alba.

Quando mi ritrovai di nuovo di fronte a quell’ingresso che mi era stato precluso durante la notte, dopo aver attraversato il parchetto antistante, fui colta di nuovo dall’ansia, e tutta la mia baldanza svanì in un attimo. Mi venne da pensare che dentro mi attendesse quell’infermiera scorbutica che mi aveva trattato da schifo qualche ora prima, e che magari riconoscessero quella pazza che sbatteva contro la porta chiusa del complesso, ripresa e controllata dalle telecamere.

Con un profondo sospiro, mi feci forza, sapendo di non avere alternative, e mi avvicinai alla porta automatica, che ovviamente quella volta si spalancò non appena avvertì la mia presenza.

Una volta all’interno, mi accorsi che non riuscivo a cambiare pensiero su Villa Silvia, che era una realtà che non mi piaceva e non mi convinceva. La mia repulsione per gli ospedali in generale era qualcosa che andava ben oltre alle mie capacità d’intendere e di volere, in quel momento.

“Scusi, io sto cercando il reparto di Cardiologia. Mia madre dovrebbe essere ricoverata lì”, esordii, avvicinandomi allo spazio riservato alle informazioni, dove dietro un ampio bancone c’era seduto un uomo intento a guardare lo schermo di un voluminoso pc.

“Generalità della paziente?”, mi chiese, in modo meccanico.

“Valeria Castaldini, di anni cinquantasei, giunta questa notte attorno alle tre per problemi cardiaci, dopo una visita e un primo soccorso al pronto soccorso”.

L’uomo, senza guardarmi, digitò tutto nel computer.

“Quarto piano, camera due”, disse, dopo qualche istante.

“Grazie”.

Ripresi il mio cammino, e sfruttando l’ascensore deserto, non ebbi difficoltà a raggiungere il reparto. Anche lì il grande portellone era aperto, e non appena ne varcai la soglia, mi ritrovai ad osservare i numeri delle stanze ben stampate in grassetto sugli appositi listelli a fianco delle porte.

La stanza numero due era proprio all’inizio, e questo mi risparmiò di dover attraversare quel luogo che in quel momento mi appariva tanto inquietante. Entrai con cautela, e per qualche istante mi fu preclusa la vista dei pazienti all’interno, siccome una giovane infermiera si stava dando da fare a pulire un tavolino all’ingresso.

“Mamma”, dissi, dolcemente e senza badare ad altro, non appena riconobbi la mia cara, distesa sul primo dei due letti presenti.

Mia madre era con gli occhi chiusi, ma non appena udì la mia voce, li spalancò. Ci rimasi male a vederla nel suo stato; aveva un respiratore al naso, ed una flebo al braccio. Sembrava molto provata, e non mi parlò.

“Signorina, sua madre è molto stanca. La prego di non stressarla e di non agitarla troppo”, intervenne cautamente l’infermiera, ed io le sorrisi.

“Va bene, ok, capisco”, mi rassegnai, “ma potrei anche parlare con un medico? Si sa cos’ha avuto?”.

“Beh, ora la signora Castaldini è una nostra paziente, ed è stata ricoverata qui. Le sono stati fatti degli esami specifici, ma le carte le ha il medico che si occupa del suo caso, il nostro bravissimo dottor Ceccarelli, che non si farà problemi a parlarle con lei tra poco, nella stanza qui accanto, dove riceve i parenti dei pazienti durante l’orario delle visite”, rispose la giovane, esaudiente.

Mi limitai ad annuire e a mostrarmi accondiscendente, e poi, vedendo che la mamma al momento sembrava più incline all’addormentarsi che al dedicarmi un attimo del suo tempo, e come non comprenderla, decisi di andare dal medico.

Scoprii di essere l’unica che in quella mattina si era presentata lì subito all’alba, e anche se pareva che il reparto fosse praticamente vuoto, dal silenzio che regnava ovunque, un pizzico di vivacità lo portavano solo le infermiere, che gironzolavano senza sosta con i carrellini delle medicine, come per non volersi annoiare.

Dopo poco, la porta della stanza davanti alla quale stavo attendendo pazientemente si aprì, e un’infermierina tutta sorridente mi osservò, prima di passarmi a fianco ed allontanarsi.

“Se deve parlare con il medico, entri pure. È un po’ stanco, ha dovuto affrontare il turno di notte, ma c’è”, mi accennò, sottovoce, andandosene dalle altre sue colleghe.

“Permesso”, esordii allora, affacciandomi dentro all’ambiente sconosciuto.

“Prego, venga pure avanti”.

Una voce… una voce che mi sapeva di conosciuto. Ma non la seppi ricollegare su due piedi, agitata com’ero.

Il medico era seduto dietro ad una cattedra, con un paio di fogli grandi e scritti in piccolo alzati davanti al volto. Solo quando li abbassò per guardarmi, scoprii che avevo di fronte a me Piergiorgio.

“Salve!”, salutai, sbigottita.

Ma la mia sorpresa era nulla di fronte a quella che mostrava il mio conoscente, che ormai dimentico fogli che stava leggendo, ed avvolto nel suo camice bianco, mi dedicava tutta la sua attenzione con gli occhi sgranati.

“Isabella! Come mai sei qui?”, m’interloquì, dopo che gli furono passate le sensazioni del primo impatto. Non doveva proprio aspettarsi di ritrovarmi lì, di fronte a lui, proprio come anch’io ne ero ancora stupita. Ma si sa, la vita è fatta anche di coincidenze, molto spesso…

“Mia madre è stata ricoverata questa notte, nella camera due. Ed è una sua paziente, ora, a quanto pare”, gli dissi, osservandolo per bene, mentre si alzava e mi veniva cordialmente incontro.

Aveva un’aria molto professionale, e riconobbi che quella che avevo scambiato più volte per una camicia in realtà non era altro che il camice bianco.

Non mi sarei mai aspettata di trovarmelo di fronte proprio in un ospedale, siccome Piergiorgio mi appariva come una personcina minuta e a posto, ma di certo non un medico. Eppure sembrava davvero molto convincente, con addosso il suo camice e quella sua solita espressione gentile ben impressa sul volto.

“Oh, la signora Castaldini, intendi? Sì, certo, è una mia paziente, ora”, mi disse, rivolgendomi un sorriso e una cordiale pacca su una spalla. Mi arrivava al mento, e nonostante non fossi una stangona, ma una giovane di statura nella media, ai miei occhi mi appariva come un nanerottolo, e mi ritrovai a notare tante cose di lui che non avevo mai osservato prima di quel momento.

“Mi dispiace, Isabella. So che per te è un periodo molto sfortunato, questo”, aggiunse, notando il mio silenzio.

“Mi parli di mia madre, per favore”, lo quasi lo rimbrottai, alla ricerca della verità sulla questione che mi stava più a cuore da diverse ore.

Piergiorgio mi guardò di nuovo, con attenzione, mentre tornava alla sua postazione dietro la scrivania bianca.

“Sua madre è giunta qui dal P.S. in uno stato generale piuttosto grave. Non ti dirò paroloni tecnici inappropriati, ma andrò direttamente al punto”.

“Devo preoccuparmi?”, mormorai, piuttosto scossa.

“Un po’. La situazione della signora non è ottimale, il suo cuore fa le bizze e noi lo dobbiamo curare. Quando è giunta qui, l’abbiamo sottoposta subito ad un paio di esami urgentissimi, e purtroppo… non è che possiamo farci molto. È malata di cuore da molto tempo, e assume già farmaci specifici molto pesanti per il suo fisico. Tuttavia, credo che ce la farà a ritornare a casa, e a vivere ancora per un po’ una vita abbastanza serena”.

Sorrisi, e lui lo notò.

“Però, prima dovrà sottoporsi ad un piccolo intervento di routine alle coronarie, e dovremo controllargliele per bene. Nel frattempo, resterà qui ricoverata per almeno quattro o cinque giorni, se accetterà subito di affrontare la terapia che abbiamo preparato per lei”.

“Accetterà subito di sicuro”, garantii, certa che mia madre non desiderasse altro che star meglio.

“Bene, allora mi munisco dei fogli che deve firmare per accettare di affrontare l’esame, e prendo una penna. Ed ecco qui… andiamo da lei!”, mi affiancò baldanzoso, con le mani diligentemente impegnate dagli oggetti citati nel suo discorsetto.

Andammo da mia madre, e la ritrovai più vigile di poco prima. Ad aprirmi la strada era stato Piergiorgio, che avevo lasciato camminare davanti a me.

“Signora, ecco sua figlia!”, mi presentò.

“C’eravamo già viste”, disse debolmente la mamma, cercando di sorridermi e socchiudendo gli occhi.

“E’ una gran brava ragazza, sa. Le vuole molto bene”.

“Lo so”.

“Bene”, disse abilmente Piergiorgio, cambiando discorso, “qualche ora fa le ho accennato l’intervento che ho previsto per lei. Se la sente di affrontarlo? È una cosuccia da nulla, non si preoccupi, in meno di mezz’ora abbiamo finito. Basta che ponga la sua firma qui, e lei sarà prontamente portata, alle otto, ad affrontarlo, e poi dopo qualche giorno di ricovero potrà tornare a casa e riprendere a vivere la sua vita come prima”.

“Come prima?”.

La mamma sembrava davvero abbattuta, e mi faceva molto male vederla in quello stato. Mi ero commossa e non sapevo che dire, per fortuna che il medico aveva una parlantina sostenuta e chiara.

“Certamente. Dobbiamo considerare anche qualche attenzione in più, ma per il resto, tutto può restare com’era prima di questo ultimo malore”.

“Va bene, mi dia da firmare”.

Mia madre si convinse ed accettò l’esame. Io la guardavo, commossa, mentre firmava con dolcezza, dopo essersi alzata un po’ con la schiena dal lettino che occupava.

“Grazie. Ci vediamo dopo, allora, e mi raccomando, stia tranquilla che non è niente”, la rassicurò di nuovo Piergiorgio con premura, e poi tornò a volgersi verso di me, e mi fece un rapido cenno con la testa, invitandomi a seguirlo.

“A tra poco”, riuscii a dire, emozionatissima, a mia madre, prima di seguire colui che avevo scoperto da poco come medico.

Il signore frequentatore de L’angolo della bontà mi affiancò dopo pochi passi, una volta giunti nel corridoio, e mi guardò con un sorriso sincero impresso sulle labbra.

“E te, Isabella, che intenzioni hai?”, mi interloquì con fare molto paterno. Mi attendevo qualcosa a riguardo di mia madre, e invece mi aveva colto di nuovo di sorpresa, spiazzandomi con una delle sue solite domandine a trabocchetto.

Smossi qualche istante le labbra, prima di riuscire a pronunciare qualcosa. Ero serissima, mi sentivo il volto in fiamme per l’agitazione, e mi pareva di essere un’indemoniata, o sicuramente una persona con dei seri problemi, così conciata; insomma, un po’ mi vergognavo di apparire così di fronte ad una persona che già un po’ mi conosceva, almeno di vista.

“Mi metterei qui ad attendere che mia madre vada ad affrontare l’esame, e che lo concluda. Non voglio lasciarla sola proprio ora. E ammetto che da lei mi attendevo una domanda sulla sua paziente, e non su di me”, lo punzecchiai, senza ferirlo e in modo molto pacato. Non mi aveva fatto nulla, anzi, ero anche un pochino in debito con il signore, e quindi non volevo e non potevo permettermi di essere scortese nei suoi confronti. Piergiorgio, infatti, continuò a sorridermi.

“Beh, sono più preoccupato per te che per lei! Sappi che tua madre è in buonissime mani, e ti garantisco che sarà tutto semplice ed andrà tutto alla perfezione. Tu, invece, sei molto abbattuta e allo sbando…”, notò.

“Lei è incorreggibile. Lo sa che ha un bel carattere? Gliel’hanno mai detto?”.

Mi venne a mia volta da sorridergli, per la prima volta durante quella mattinata.

Il signore scosse la testa, divertito, e si ritirò verso la stanza che gli fungeva da ambulatorio, e dove accoglieva i familiari dei ricoverati.

“Non me l’hanno mai detto, fidati”, disse, ed accennò un saluto con la mano destra, “ci vediamo più tardi. Ora vado a prepararmi per il piccolo intervento, e non stare in ansia, andrà tutto bene”.

Con un sospiro, e di nuovo sola, mi lasciai andare contro il muro dell’ospedale, stanca morta. Ma dovevo resistere, e farlo per mamma.

Tornai nella stanza in cui era stata alloggiata, pronta a starle vicino e a non lasciarla sola in un momento così tanto delicato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

 

Ancora altri problemi per la povera protagonista e per sua madre… incrociamo le dita per loro… ^^

   
 
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