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Autore: Avareil    27/07/2018    4 recensioni
Mito ancestrale, fondativo, quello di Ade e Persefone narra del legame tra Superficie e Oltretomba, avvinte in una danza ciclica e imperitura.
Un'unione ostacolata, un sentimento messo a tacere, il destino dell'uomo minacciato dall'egoismo.
I miti raccontano l'immortalità degli dei, tralasciando il loro essere vivi e pervasi da sentimenti umani, troppo umani.
Celebriamo la vittoria della fiamma sulla brace.
Cantiamo la storia di una vita promessa alla morte.
*In revisione*
Genere: Avventura, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ade, Estia, Persefone
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Quello che viene dopo
Parte 1 


Era lì, fisicamente.

Il cimiero vermiglio della kunée svettava imponente ai suoi piedi, una leggera brezza disperdeva l’odore malsano della tomba scoperchiata.

Nobile, austero, Ade presenziava il rito con espressione assorta e sguardo assente.

Distante da quella celebrazione, lontano da quei luoghi in cui la benevola Estia veniva onorata, il dio nero non aveva saputo ignorare il cuore colmo di amarezza e angoscia nemmeno per un istante.
Tutto sembrava trapassarlo, attraversarlo senza mai sfiorarlo: erano stati intonati canti, recitate preghiere, sparse libagioni sul sentiero che conduceva al piccolo e decorato seggio del tempio; alcuni ridevano, altri, emozionati, asciugavano timide lacrime ma lui, stretto nel pesante mantello per scacciare il gelo dell'animo, non era riuscito a non pensare a lei.

“Ade?”
Scosso da quel nome pronunciato con benevolenza e una nota di affanno, aveva riorientalo lo sguardo verso quella piccola mano richiedente supporto: la dea rediviva chiedeva il suo aiuto e la sua presenza.

Solo il quel momento gli occhi avevano riguadagnato una parvenza di vitalità.

Abbracci, urla di giubilo e carezze gentili avevano sancito la fine del rito: Estia ritornava alla luce, il suo tempio alla consueta calma solitaria.

Presso il braciere scoppiettante rimanevano in tre, quattro per la precisione, considerando il giudice avernale oramai prossimo ad una crisi di nervi per l’immobilità alla quale veniva da troppo tempo forzato.

“Caro fratello” Estia, in un sospiro affaticato mascherato da pacata compostezza, aveva richiamato l’attenzione dell’assorto avernale,
“come sta la vostra divina ospite? E' passato molto tempo dal nostro ultimo incontro…”

Sprofondato nuovamente in angoscia senza speranza, Ade si era limitato a distogliere lo sguardo, digrignare i denti, stringere le mani in pugni serrati mentre Zeus, al suo fianco, osservava a suo agio l’orizzonte lontano colorato di tinte aranciate.

“Ade?”

Preoccupata da quella reazione, la dea del focolare aveva provato a rialzarsi, farsi vicino all’oscuro fratello ma, infinitamente stanca, si era limitata a protendere una mano verso quel volto distante e logorato.

“Sua madre impedisce ancora la vostra unione?”

“Il Fato, torbido come di consueto, mi bandisce dai miei domini, mi preclude la conoscenza. Come un cane in catene mi tiene lontano da colei che amo e la sottopone a meschine prove per saggiarne il valore. Come credi che stia, sorella?”.

Gli occhi accecati, le orecchie sorde a qualsiasi preghiera, il corpo mutilo di quella parte che sapeva di vita: tutto in lui urlava mancanza e assenza di lei.

Un colpo di tosse aveva interrotto il silenzio grave,

“È giunto il momento che ritorni presso i miei altari”, Zeus, attento allo scambio di battute tra i due, decideva di lasciare campo libero.

In lui, per la prima volta, brillava una scintilla di buon senso, ed urlava sgraziatamente: “NON TI INTROMETTERE NELLE QUESTIONI ALTRUI!”.

Così, sorridendo bonariamente- come colui che conosce ma tace-, aveva prima rivolto un profondo inchino alla giovane sorella incoronata e poi, data una pacca sulla spalla del dio avernale a mo’ di saluto, aveva concluso enigmaticamente:

“Ti auguro serenità, fratello mio.”

“Cosa?”

Sovrappensiero, Ade non aveva sentito il fratello né notato Demetra giungere da lontano, a dispetto di Zeus che, sornione, non aveva esitato un istante per sfoderare un magnetico ghigno accattivante.

“Demetra, finalmente!”

Il dio del cielo a braccia aperte attendeva l’arrivo di quella mentre un’Estia basita, con una mano sul volto per schermare lo sdegno, bisbigliava il suo sconcerto dinnanzi a quell'ennesima spudoratezza.

“Fratelli…”

Demetra, mani giunte sul ventre e occhi lucidi, avanzava verso quelli con fare lento e sfinito.

“...sorella, perdonami. Perdonami divina Estia. Perdona la mia assenza.”

Gettatasi ai piedi di quella con fare supplichevole, Demetra aveva baciato i piedi dell’amata  prima di ricevere da questa una benevola carezza sul capo.

“Io so, disperata, il motivo della tua assenza. Cerchi la figlia di cui ignori la sorte ma dimmi, hai avuto notizia della tua dolce Kore?”

Estia, stanca ma furba, aveva modulato la voce affinché tutti, in quella grande sala, udissero la domanda, soprattutto Ade.

“Kore…Kore non esiste più.”

Demetra, a capo chino, proferiva parole in bisbiglio addolorato.

Impietrita, Estia aveva immediatamente rivolto il capo verso l’entità nera che sentiva improvvisamente pulsare all’angolo dell’immensa cella.

Aveva udito il dio dell’Averno, cupo in volto e ammantato di mortifera essenza.

Aveva udito e, con quelle parole, aveva perso senno e ragione.

Senza un cenno del capo o reverenza alcuna, aveva dissolto la propria entità per slanciarsi in una folle discesa verso i suoi domini.
 
“Demetra…”

Estia, ora con entrambe le mani poste a coppa sul volto esangue della sorella minore, aveva espresso tutta la propria angoscia in quel nome pronunciato in bisbiglio.

“Tenera Estia, non disperate. Kore, la mia bambina, è persa per sempre ma, al suo posto, è sorta Persefone, la dea che Zeus ha incoronato, colei che è capace di vedere ciò che oltre.”
Emozionata, sebbene con una stilla di tristezza nel cuore, Demetra aveva addolcito lo sguardo.


“Ma allora perché avete lasciato che lui intendesse nella peggiore delle maniere?”

Volevo tornasse da lei.”
 

°°°

 
Era sola.

Finalmente.

Il sorriso indossato con disinvoltura lasciava adesso posto ad una smorfia di dolore.

Ogni singolo centimetro di quel corpo ritrovato le doleva così tanto da toglierle il fiato. Il ventre, contratto e ritorto, la spingeva ad incurvarsi, abbracciarsi, farsi calore in quella parte di sé che sentiva gelida e vuota.

L’avevano aperta, rivoltata e svuotata del nulla e di tutto.

Entità benevole le restituivano l’esistenza a caro presso.

Ricordi degli atroci supplizi si presentavano all’occhio della mente in un caos fatto di immagini e sensazioni inumane: turbata, ben distante dalla calma apparente offerta in spettacolo ai divini convenuti, la dea si consumava in lacrime di pura sofferenza.

Con fatica, con dolore, aveva riguadagnato la stazione eretta tra gemiti e scricchiolii di ossa nuove e muscoli tesi come le corde dell’arpa di Apollo.

Il primo singhiozzo aveva squarciato il silenzio, il secondo i muscoli dello stomaco ritorti.

Dopo, il pianto trattenuto a stento tra i denti si era fatto urla di rabbia scagliate contro il nulla del bosco.

Tormentata da quell’immagine, quella dannata immagine di sé stessa intenta a cullare un cencio insanguinato, aveva coperto gli occhi con le mani e, tremando, si era inginocchiata al suolo.

E se i pugni colpivano con forza il marmoreo pavimento non era per invocare Ade, padrone del sottosuolo.
 



Eccola, la divinità che tutti celebrano senza vedere.
Ecco Estia, rediviva a caro prezzo.
Radamanto aveva osservato in silenzio la terribile e nascosta verità della dea e, folle di dolore e bruciante di desiderio, si era slanciato verso quella, adesso inginocchiata al suolo, intenta a battersi il petto e il volto e le gambe e le braccia con fare terribile e sragionato.

Una scena che sapeva di angosciante sogno sbiadito.
 
 

Due mani forti e gelide, calde, decise e delicate si erano strette intorno ai fianchi sottili rivestiti di candida veste mentre un busto di uomo o dio la cingeva da dietro in un abbraccio serrato e disperato.

“Estia, divina Estia…”

Quella voce.

Pietrificata e intimamente travolta, ella aveva stretto tra le proprie le mani che ricadevano intrecciate sul ventre piatto. Ad occhi sgranati e respiro mozzo percepiva con emozione quel corpo contro la schiena ricurva.

In un soffio aveva pronunciato il suo nome.

Poi, finalmente, si era girata.

I gemiti di dolore e paura avevano trovato consolazione contro l’ampio petto del giudice avernale, intento a cullare quel corpo di divinità nuovo e puro, infinitamente turbato.
La sentiva tremare, risate sottili si sostituivano ai gemiti di dolore in un ordine caotico, alcuni movimenti le creavano dolore, altri invece, ne distendevano le membra, regalandole sospiri di sollievo.
Con la morte nel cuore, lui che era un morto toccato da un barlume di vita, scrutava quel viso pallido in cui occhi gonfi, profonde occhiaie e colorito insano poco potevano contro un’innata forza, più simile alla disperazione che al coraggio.

“Vi amo. Perdutamente.”

In un bisbiglio proferito a fior di labbra, il giudice aveva suggellato la propria devozione con un bacio leggero.

Ci vuole un tocco gentile per sfiorare chi soffre. Ed una forte presa per poterlo aiutare.

Come scossa e ristorata da quel vi amo perdutamente che, come un’onda, rimbalzava da una sponda all’altra del suo cuore, ella aveva allacciato lentissimamente le braccia intorno al collo dell’avernale.

Era viva.
Respirava aria pura.
I suoi occhi avrebbero nuovamente scrutato la volta celeste alla ricerca del sole brillante.
Era viva…

E lui l’amava…perdutamente.

Un gridolino interno che sapeva di gioia e spensieratezza, lottava contro tutto il dolore ammucchiato negli angoli del suo corpo e, sebbene la battaglia fosse solo all’inizio, si mostrava determinato nel perseguimento del suo obiettivo: richiamare Estia alla vita per la quale aveva lottato con fierezza.

Staccatasi da quel giudice in un sospiro, ne ammirava ora le fattezze.

Anche lui sembrava distrutto.
Gli occhi cerchiati di viola, le pupille strette di un nero mortifero, la pelle del volto tesa, le spalle contratte. sembrava più vecchio e più lacero, un po' più morto dell’ultima volta in cui l’aveva visto.

Un sorriso, adesso, le incurvava le labbra: tutto in lui palesava malessere eppure, in quella bocca morbida da gatto e timidamente arcuata in sorriso, lei aveva trovato un nuovo braciere nel quale ardere.

Felice.
 

Ma la vita dei divini non è imperturbabile ed il Fato, balordo giocatore di dadi, sta sempre in agguato e con la mano tesa.

Oramai avvezza alle storture della vita, Estia aveva stretto gli occhi alla ricerca di una qualche fregatura e lì, dopo un attimo, l’aveva trovata.

“Radamanto, voi non appartenete alla terra.”

Sottotesto:

“Come diavolo fate ad essere al mio cospetto?”
 
Ne aveva cercato lo sguardo ma quello, assolutamente in pace con se stesso, giocava con una ciocca rosso fiamma.

“Il sovrano dell’Averno mi ha concesso del tempo. Egli sapeva del nostro legame e, benevolo, mi ha condotto con sé, affinché vedessi con i miei occhi il vostro ritorno alla vita”.

Stupita dalla calma appagata di quello, Estia aveva risposto in un soffio,

“Sarei venuta, anche solo per vedere la vostra faccia severa per poi scomparire nel fuocherello della vostra camera.”

Sorrideva Estia, un sorriso tirato ma genuino.

“Non voglio che vi affatichiate.”

“Avete promesso la vostra vita a me, Estia, dominatrice del braciere domestico. Dovrete rassegnarvi al fatto che sarò io a raggiungervi presso i vostri alloggi nel buio e ombroso e noioso…

Uno sguardo offeso aveva fatto sorridere la dea,

“noioso ma bellissimo Averno, la vostra casa. Non ho intenzione di lasciarvi fuggire.”

Fintamente offeso, intimamente felice, egli aveva sollevato il mento della dea per cercarne gli occhi verdi e brillanti.

“Ecco la mia pestifera dea, il pessimo e borioso caratteraccio ve lo siete portata dietro…”

“Baciatemi adesso, allora, se volete restituirmi un po’ di dolcezza.”

Ad occhi chiusi, ella offriva le labbra sorridenti all’avernale

e lui non aveva atteso oltre.

Lungi dal timido sfioramento di pochi istanti prima, l’aveva stretta a sé con calibrata forza e, chiedendo permesso a suon di baci, ne aveva schiuso la bocca per saggiarne la lingua. Un istante dopo, quando il bacio diventava lo sfondo di carezze delicate distribuite sul tutto il corpo, la dea si era scostata facendo una leggera pressione contro il petto del giudice:

“Sareste così gentile da aiutarmi ad alzarmi?”

La gentile richiesta, accolta con leggera sorpresa, aveva trovato compimento tra le braccia dell’avernale che, ora confuso, chiedeva indicazioni su dove poggiarla.

Mio dolce giudice, mi stupisco sempre della delicatezza che dimostrate nel farmi sentire una cesta di cenci sporchi”.

Una bellissima cesta di cenci sporchi”.

La correzione amabile aveva guadagnato al giudice uno sguardo incredulo e divertito mentre i piedi si dirigevano verso la camera da letto della dea, celata ai più da un’infinita serie di corridoi e viuzze.

Dinnanzi all’immenso letto Radamanto aveva arrestato il passo tanto bruscamente da farla gemere.
Desolato, mormorando scuse e pentimenti sconclusionati, l’aveva adagiata sulle morbide coltri mentre una mano correva al volto nel vano tentativo di nascondere turbolenti pensieri che, per la prima volta, trafiggevano la mente casta.

“Stendetevi al mio fianco, restate con me finché potete. Non lasciatemi sola. Ho paura…” la voce della dea, per un istante incrinata, rivelava il timore di abbandonarsi ad un sonno che sapeva costellato da terribili ricordi.

Così, con infinita cautela, le si era steso di fianco e, al pari di una bella statua, aveva offerto il braccio come cuscino e il petto come scoglio al quale aggrapparsi. Estia, raggomitolata contro di lui, aveva infine bisbigliato un grazie a fior di labbra per poi cadere tra le braccia di Ipnos.

Radamanto, in quel poco tempo rimastogli, contemplava, accarezzava, osservava il volto della dea tra le sue braccia.

Una timida speranza brillava in quel cuore rattrappito, eppure vivo e pulsante.
 
 
°°°

 
Silenzioso, il regno delle ombre, accoglieva il suo signore.

Un’aria fresca e leggera riempiva i polmoni contratti in rapidi respiri affannati.

A prezzo di cosa ti mostri florido?

Di chi hai esatto il sacrificio, regno di morte?

Il dialogo interiore, rapido e letale alterco tra razionale e irrazionale, faceva da sfondo ad una sconclusionata e disperata ricerca. Avvolto nell’ombra di cui era signore, si muoveva lesto per l’immenso regno ma, ogni passo compiuto in direzione ostinata e contraria rispetto all’immenso suo tempio, lo ancoravano al suolo. Incatenato, tirato come da cento corde, il dio veniva richiamato presso i suoi altari.
Un posto dal quale, inconsciamente, fuggiva.

L’immagine di lei, abbandonata al gelo della morte, stesa scompostamente su quell’altare a mo’ di offerta votiva con gli occhi vitrei rivolti verso di lui, lo faceva tremare nel profondo. L’angoscia, bestia famelica, divorava le sue interiora.

Rivelami il suo destino, ti prego.

Gli occhi stretti in due fessure scrutavano il presente, scandagliavano il passato ma nulla potevano contro la matassa intricata del futuro sempre in movimento.

Gli era stata strappata via, un vuoto poco più in basso rispetto allo sterno, gridava assenza e si contorceva dolorosamente alla ricerca di quel legame che, come scintilla fatua, aveva rischiarato gli ultimi flussi di quella vita promessa all’invisibile.

In mente echeggiava la promessa violenta fatta a sé stesso, ad Eaco e all’Averno tutto.

La kunée calata sul capo, il pesante mantello stretto intorno alle spalle, l’armatura scintillante e tetra: tutto in lui sapeva di aristocratico disfacimento.

Un respiro aveva separato il tormento dell’attesa dall’azione concreta.

Non vi era stato alcun bisogno di smuovere le pesanti porte: la sua essenza manifesta schiudeva il pesante uscio e lì, aveva veramente visto.

Immobile, sulla soglia di quella immensa sala che sapeva di casa e luogo sconosciuto al contempo, si ergeva contro il soffitto nero l’imponente trono
del dio, adesso stranamente occupato.
Lo sguardo fiero rivolto verso l’anima al suo cospetto, la dolcezza nelle labbra arcuate in sorriso, le mani giunge poggiate sulle cosce; era avvolta in una tunica lunga, purpurea, larga e semplice capace di far risaltare un volto stanco, pallido eppure sereno.
Incredulo, muto e celato alla vista dall’elmo prodigioso, Ade aveva lasciato libero sfogo alle emozioni represse: una mano corsa alla bocca nascondeva un sorriso luminoso e sollevato mentre il cuore batteva forsennato come un tamburo percosso a guerra.
Serena, Persefone amministrava quel regno terribile nella più materna delle maniere mentre il sovrano ne ammirava l’indole giusta e matura, quasi trasmutata.

Il sorriso sornione di Zeus, la terribile confessione di Demetra, tutto, in quel preciso istante, acquisiva un senso.

Non più Kore, ma Persefone, vera dea e vera regina, sedeva sullo scranno di marmo gelido: l’eterna bambina, custodita nel cuore, nascosta dietro una risata.
 
Eaco, poco lontano da lei, annotava con precisione la sentenza mentre un sorriso sereno incurvava le labbra raggrinzite.

Si respirava un’aria diversa, lì, nel buio e tetro Averno.


Dopo lunghi momenti, la mano, leggermente tremante, era corsa al cimiero e, afferratolo con incantata lentezza, lo sollevava, rimuovendo con l’elmo la malia che lo rendeva invisibile,
ed ella lo aveva percepito prima che visto.

Una stilettata al cuore, le viscere strette in spire attorcigliate, gli occhi socchiusi a trattenere lacrime emozionate: aveva alzato la mano in un gesto di saluto infantile e dolce, gli aveva detto “bentornato” e poi, incapace di rimanere seduta su quell’immenso e freddo trono, aveva mosso dei passi verso quel dio che, ancora muto, la fissava con una strana luce ad illuminare gli occhi di metallo liquido.

“Il mio sposo mi ha infine raggiunta. Vi ho aspettato tanto, mio signore.”

Una testa ricoperta di ricci morbidi si era poggiata su quel petto ricoperto di ferrigna armatura mentre braccia piccole lo cingevano in vita senza vergogna alcuna.

“Io…vi ho attesa per secoli.”

Parlava con lentezza, saggiando come si fa con un piatto prelibato, ogni parola di quella frase sconvolgente e, quando l’abbraccio si era fatto più stretto e Persefone aveva cercato i suoi occhi, non aveva resistito oltre calando impetuoso su quelle labbra che sapevano di vita e morte.

L’aveva afferrata, abbracciata, il volto immerso nell’incavo tra la spalla e il collo per respirare il profumo di quella donna potente e viva che, tra le sue braccia, sapeva di calore e passione; i baci casti e devoti intraprendevano la strada dalla fronte alle labbra tra sospiri e preghiere di ringraziamento – a chi fossero rivolte non lo sapeva nemmeno lui.

E quando, nell’impeto della gioia, l’aveva sollevata in un abbraccio sospeso, Persefone aveva riso di gusto, solleticata dalla barba ricciuta.

Kore, eccola Kore.

 “State bene? Veramente bene?”

Riaccompagnata al suolo, un’Ade improvvisamente preoccupato, la scrutava con attenzione alla ricerca di lesioni o, ancor peggio, tormenti.

“A dire il vero, mio signore, ho delle cose da dirvi.”

Persefone, prima sorridente, aveva mosso un passo indietro di modo che tra lei e il dio vi fosse il gusto spazio per una conversazione seria e sostenuta da sguardi profondi.

“Quando avete sancito la condanna per Menta, tempo fa, non ero contenta, non lo ero per niente. Ella, attentando alla mia vita, ha offeso me, mia madre, voi e questo regno che tanto amate.”

“Persefone…”
 
Pizzicata dall’immagine di Menta che, stretta ad Ade, si permetteva carezze che non le spettavano, la dea aveva continuato,

“È stata la vostra amante, lo so e, sebbene odi pensarlo, è stato un gesto di pietà mal riposto, il vostro. Ella mi ha cercata, tormentata e torturata. Ha profanato il nostro vincolo e l’ha calpestato senza alcun riguardo. Povera stolta, ha sancito il mio legame all’Averno con la sua disfatta: l’ho condannata all’immobilità perenne e…ora giace sulle soglie delle porte nere, profumosa e sterile in mio onore.”

Questa volta la dea aveva distolto lo sguardo, le guance imporporate testimoniavano una leggera gelosia,

“e mi spiace per voi che tanto volevate proteggerla, ma io non potevo tollerare la sua rabbia, il suo odio. Avrei dovuto mettervi a parte di questi miei sentimenti ma, mi vergognavo. Non avevo mai provato sensazioni tanto grevi e non volevo mi consideraste una sciocca ragazzina di superficie.”

“Mi spiace.”

Costretta al silenzio da quel “mi spiace” sospirato occhi negli occhi, Persefone osservava muta il sovrano chinato su di lei con devoto rammarico.

“Il mio giudizio era viziato ma non per quello che il vostro cuore teme. Menta era una creatura dei miei domini, questo mi ha mosso alla pietà. Non amore, non amicizia. Ma, per colpa mia e del mio giudizio, avete rischiato l’esistenza. Vi porgo le mie più sincere scuse, mia signora.“

Il volto serio, le guance smunte e le occhiaie profonde conferivano al dio un’espressione ancora più spettrale del solito ma, quel “mia signora”, pronunciato così, a pochi centimetri dalle labbra schiuse, con tono roco e profondo, aveva sancito il suo perdono: in punta di piedi e ad occhi chiusi, la regina aveva allacciato le braccia intorno al collo del sovrano e, in un impeto assolutamente poco serio, poco regale e poco solenne, l’aveva baciato con slancio.

Clap, clap, clap

Entrambi, persi l’uno sulle labbra dell’altra, avevano riguadagnato la consapevolezza di loro stessi per colpa di quel battito di mani allegro: Eaco, il volto della saggia vecchiaia, applaudiva compiaciuto alla felicità dei sovrani d’Averno ma, pur sempre legato ad un certo modo di fare le cose, li aveva richiamati con la leggerezza di un anziano benevolo.

“Signore, solitamente la sposa va baciata dopo la cerimonia di legame.”

Quella battuta, lanciata con leggerezza, aveva fatto arrossire mortalmente la giovane dea.

“Povera me, se solo sapesse con che spudorata audacia vi invocavo presso i vostri altari….”

 Persefone, occhi lucidi e sorriso malizioso, aveva bisbigliato a pochi centimetri dalla bocca di Ade.

“Andiamo, mia dea. Ho bisogno di sapere cosa è successo, seguitemi”.

Un cenno del capo affermativo aveva trasformato l’abbraccio in due mani intrecciate,

“Eaco, fa in modo che tutto sia pronto per questa sera e… richiama Radamanto.”

 “Certo mio signore.”

Un inchino profondo e un’espressione pensierosa dipinta sul volto di Eaco, accompagnava i sovrani fuori da quei luoghi.
 


“Non riuscivo a trovarvi, a sentirvi. L’unico cuore che a stento percepivo battere era il mio. Per il resto, tutto taceva”.
Iniziava in quel modo il lungo racconto di Persefone mentre, mano nella mano, procedevano a passo lento verso le profondità del regno, diretti verso quella conca che da tempo immemore fungeva da palco per i peggiori spettacoli.

Ade, in religioso silenzio, si limitava ad ascoltare, percependo di tanto in tanto l’angoscia e la paura nella voce di quella.

Il volto di Persefone segnato dalla gravità del ricordo.

 “Temevo di non rivedervi più…temevo di perdervi per sempre.”

Quella confessione, forse unica frase pronunciata con un disperato ardore, avevano fatto tremare il dio nel profondo.

“E poi… lo ha fatto. Spregevole mostro, ha osato prendere ciò che mi apparteneva.”

Trasfigurata in volto da una cieca furia, Persefone aveva puntato il dito contro il luogo in cui giacevano i resti della melograna, ora amabilmente interrata.

“Con rabbia ha strappato al suolo il frutto e con tracotanza folle ha osato spaccarlo dinnanzi a me, colei al quale quel dono era dedicato. Con le mani lorde di terra e sangue ha afferrato i semi e così, in un unico gesto, li ha ingurgitati. Alla mia salute, ha detto.
Poi ho visto.”

Immobile, gli occhi persi in chissà quale ricordo, rendevano Persefone essenza vera di quel regno ambiguo e incomprensibile: la dolcezza e la furia si intrecciavano in lei come il miglior capolavoro di sentimenti.

Pronta all’amore così come alla guerra.

 “Mia signora…”

Ade, grave, aveva cercato lo sguardo smarrito della dea ma quella, adesso nuovamente presente a se stessa, aveva svelato il turbamento.

“Ho visto lei incoronata al vostro fianco. Ho visto lei, stringervi con lascivia, ho visto lei, ridere di gusto dinnanzi alle sofferenze… in quel momento ho capito cosa mi veniva richiesto.
Sentivo nel mio orecchio la voce dell’Averno bisbigliare, mi chiedeva cosa volessi essere in questo regno fatto di ragione e sragione. Mi si domandava se fossi pronta ad abbracciare ciò che di più turbe avevo sempre allontanato dalla mia essenza. Ho capito che, a volte, il male è necessario.”

Con gli occhi lucidi ella aveva afferrato le mani gelide del dio,

“ma ho agito troppo tardi, sposo amato. Ho perso il tempo, l’occasione e, adesso, il mio animo risulta legato al vostro solo per metà. Io ho già mangiato il frutto sacro. Menta l’aveva spaccato, macchiato di spudoratezza, lacerato e ammorbato…io l’ho punita e dopo, pacificata con me stessa e col regno che mi metteva alla prova, mi sono nutrita dei chicchi superstiti allo scempio.”

“Quanti?”

Raggelato, egli aveva formulato una e una sola domanda.

“Sei. Sei chicchi”.

Occhi persi la guardavano senza vederla: un caos di pensieri gli affollavano la mente mentre una mano correva sugli occhi per celarne lo sgomento.

“Mio signore?”


“Sei chicchi, sei mesi. Allo scadere di questo tempo, ritornerete da vostra madre.”

Con le lacrime agli occhi, Persefone aveva accolto il monito del sovrano ma, turbata dal tono lugubre e assente di quello, ne aveva tirato con forza il mantello, vano tentativo di farsi guardare.

“Io non posso lasciarvi. Ne morirei”.

Disperata e in lacrime, la dea aveva continuato a strattonarlo.

“Guardatemi negli occhi!”

“Avete diviso voi stessa. Andrete e tornerete. La vostra natura è duale come il vostro fato. Vostra madre non soffrirà più la vostra perenne assenza ed io… aspetterò sempre il vostro ritorno. Siete già la mia sposa.”

Sconvolta, sentiva adesso una voce bisbigliarle all’orecchio:

“Dividi te stessa, giovane dea, mangia il frutto e dividine il tempo.
Questo farà di te una brava regina, un’amorevole moglie, una devota figlia.”
 
Le parole, percepite e mai comprese, adesso echeggiavano nelle cavità del suo corpo. Il Flagetonte l’aveva avvertita e lei, ora consapevole, sentiva un’amara gioia solleticarle il cuore.

Aveva tutto, poteva avere tutto.

Sorridente, sconvolta ma sorridente, aveva osservato con occhi lucidi quel sovrano misterioso calarsi su di lei in un bacio esigente.

Siete già la mia sposa, aveva mormorato ancora e ancora sulle labbra di quella tormentandole di baci ardenti.

 
 
Non avevano voluto aspettare.

A nulla erano serviti i rimbrotti anziani di Eaco, stupito dal fervore del suo sovrano che, spalancata l’immensa porta nera, aveva affermato a gran voce:

“Eaco, prepara tutto, adesso”.

Il vecchio giudice non era riuscito nemmeno a carpire dalla sua parte il giovane Radamanto, perso com’era in qualche splendido ricordo che gli annebbiava la vista e incurvava le labbra in un sorriso ebete.

“Mio signore, il rito necessita dei suoi tempi. Dobbiamo convocare il padre degli dei, la madre della giovane e tutte le altre divinità di superficie. Senza dimenticare, ovviamente, gli ornamenti e i doni che la cerimonia esige…”

“Fedele giudice, il tempo è l’unica cosa di cui non disponiamo a nostro piacimento. Procediamo adesso, una cerimonia semplice, pochi invitati, i più cari a me e alla mia dolce sposa. Ho bisogno di tempo, ho bisogno di lei.”

Il sorriso che fino a qualche secondo prima aveva illuminato il volto stanco, sembrava quasi oscurato da un’ombra fuggiasca.

“Farò come desiderate mio signore, non preoccupatevi di nulla se non del vostro aspetto”.

Lo scambio di battute avvenuto tra i due avernali non aveva affatto avuto un effetto calmante.
Persefone, labbra turgide di baci e petto ansante, accoglieva quell’inaspettato risvolto degli eventi con gioia e preoccupazione.

Era infine giunto il momento, per lei, di salutare solennemente l’infanzia.

Uno sguardo alla ricerca degli occhi grigi del sovrano, una mano corsa averso quella forte e gelida nella speranza di trovare sostegno e supporto.

“Conducetela presso le sue stanze. Che venga rivestita di pietre splendenti e abiti meravigliosi. Oggi Persefone diviene mia sposa, agli occhi dell’Averno e del cielo di superficie, saremo legati.”

L’emozione vibrante colorava la voce solitamente pacata.

Chiusa in un silenzio che sapeva di commozione, ella aveva fatto cenno affermativo col capo, un singhiozzo sfuggito dalle labbra denunciava il cuore tremolante. Solo a quel punto, incurante dei giudici e dell’ancelle richiamate per il corteo della sposa, il sovrano dell’Averno si era chinato su di lei e, con le labbra terribili aveva soffiato a pochi centimetri dal suo orecchio.

“Tornate da me quanto prima. Non ho più la forza di aspettare…”

Un bacio leggero sulla guancia rosata aveva fatto scattare il cuore in pericolosissime acrobazie.




Travolta, la dea aveva seguito il corteo di tenui fiammelle: un canto gioioso e frizzante riecheggiava per le lande avernali.
 









L'angolo di Avareil
Perdonate il ritardo ma oramai i giochi sono quasi alla fine e ci tenevo affinchè fosse tutto come l'avevo immaginato.
Questa è solo la prima parte di un capitolo altrimenti lungo più di trenta pagine. La seconda arriverà a breve, giusto il tempo per effettuare un'approfondita revisione.
Che dire? 
Vi ringrazio per ogni supporto e parola gentile, ribadendovi come sia fondamentale, per uno scrittore, poter sapere cosa si pensa di lui.
Nella speranza, dunque, di sentirvi presto, vi saluto e vi ringrazio di cuore.
Un bacio 
  
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