Le onde della memoria
Faceva
freddo, quel settembre. Un
freddo insolito, persistente, come se di colpo fosse arrivato il pieno
dell'inverno senza passare per la mitezza dell'autunno.
Il vento lo aveva costretto a tirare
fuori dall'armadio una giacca che in altre occasioni non avrebbe
rispolverato
prima di metà novembre. Aveva infilato le maniche e
sistemato il colletto, che
come al solito si era girato verso l'interno, poi era uscito e una
raffica
gelida lo aveva travolto, mulinandogli davanti al viso un paio di
foglie già
secche che si rincorrevano nel vento. Le aveva scacciate con la mano,
innervosito, per poi restare a guardarle: sembravano due ragazzi che
giocavano.
I ricordi lo avevano travolto, ma si era fatto trovare pronto e li
aveva
ricacciati indietro, come la marea che risucchia le onde. Inspirando,
si era
incamminato per strada stringendosi nella giacca, le mani ben piantate
nelle
tasche.
Trost era profondamente diversa da
come l'aveva conosciuta da ragazzo. Quanti anni aveva, quando vi si era
rifugiato?
Undici? Di certo a dodici era già lì, arruolato
nel 104° Reggimento. Da quel
momento in poi, salvo sporadiche occasioni legate per lo più
alla guerra, non
aveva più lasciato la sua città adottiva. Del
resto, non aveva un altro posto
in cui andare.
Il villaggio di Ragako era stato
distrutto quando lui, di anni, ne aveva appena compiuti quindici. Ora,
al posto
delle vecchie rovine, abbandonate per due anni prima che vi tornasse
qualcuno a
insediarsi, sorgeva un piccolo agglomerato urbano dipendente da Trost.
C'era
una chiesetta, il mercato settimanale, una sorta di ambulatorio medico
e
perfino una scuola elementare. Chi ambiva a un futuro migliore,
ovviamente, era
costretto a emigrare verso la Capitale o in alternativa a Shingashina.
Trost,
invece, era diventata un avamposto militare, sede di importanti uffici
legati
all'attività dell'esercito. E lui, Connie, proprio
all'esercito era rimasto
fedele. Perché, d'altronde, non aveva altro a cui tornare.
Molti dei suoi vecchi compagni avevano
preferito lasciare la milizia e costruirsi una vita lontana da lotte,
morte e
sangue. Non che li biasimasse, anzi. Mikasa era stata la prima a dire
addio:
non era mai stata sua intenzione proseguire una carriera che, di fatto,
le era
stata imposta da Eren e per un periodo era tornata a Shingashina,
lavorando in
una sartoria e pagando la pigione della pensione in cui alloggiava con
il suo
stipendio. L'aveva incontrata di rado e solo quando era stato assegnato
alla
Guarnigione per dei turni speciali nella città
più a sud delle Mura, ma le era
parsa felice, seppur ancora provata dalla morte del fratello prima e di
Armin
in un secondo momento. Forse – e questa era la conclusione a
cui Connie era
giunto dopo averci rimuginato su – era stata proprio la
perdita di quella sua
seconda famiglia a farla desistere dal tornare a vivere tra i boschi,
lì dove
era nata. Se il suo desiderio era stato quello di vivere tranquilla in
una
piccola casa coltivando la terra con gli altri due ragazzi, be',
inutile dire
che quel sogno, purtroppo, si era infranto fin dal giorno in cui Eren
aveva
scoperto che il Potere dei Titani condannava a morte chiunque ne fosse
in
possesso.
Poi era venuto il turno di Jean.
Connie si era fatto cogliere impreparato dalla sua richiesta di
allontanamento
dall'esercito: aveva creduto che, con la straordinaria carriera fatta,
il suo
amico sarebbe rimasto a fargli compagnia. Invece no: addio alle armi.
Al
contrario di Mikasa, però, Jean era rimasto a Trost,
tornando sotto lo stesso
tetto dei suoi genitori, e si erano dati appuntamento in più
di un'occasione
nei giorni in cui Connie era libero dal lavoro. Era stato perfino
invitato a
casa Kirschtein per dei pranzi e delle cene; all'inizio aveva desistito
– non
se la sentiva proprio di assistere Jean fare il figlio felice di una
famigliola
felice – ma poi, su insistenza dell'amico, aveva accettato e
aveva dovuto
ammettere di aver fatto bene: i signori Kirschtein lo accolsero come se
fosse
stato un secondo figlio. Di questo Connie fu immensamente grato.
Così come fu
entusiasta di sapere che alla fine, dopo anni di tentativi andati a
vuoto o
semplicemente procrastinati, alla fine Jean aveva trovato il coraggio
di
dichiararsi a Mikasa. Inutile dire che le cose tra i due fossero andate
a
rilento, ma d'altra parte c'erano grosse difficoltà da
superare, prima di poter
stare insieme. Avevano impiegato tre anni prima di uscire allo scoperto
come
vera coppia, seguiti da altri quattro prima di prendere la fatidica
decisione
di sposarsi. Il loro era stato un matrimonio estremamente intimo e
Connie non
era potuto mancare, essendo stato tra l'altro scelto da Jean come
testimone.
Così i novelli sposi avevano stabilito la propria residenza
proprio a Trost,
ben lontani, però, dalla casa della famiglia Kirschtein.
Mikasa aveva ripreso
il suo lavoro in sartoria, venendo indirizzata da sua suocera, mentre
Jean
aveva iniziato a collaborare con la banca locale. Finalmente una vita
normale
dopo un'infanzia e l'intera giovinezza trascorse nella paura che ogni
giorno
potesse essere l'ultimo.
Mentre Connie camminava a passo
spedito, dunque, ripensava a tutto questo. Rifletteva, inoltre, sul
senso che
stava dando alla propria, di vita: alzarsi tutte le mattine e procedere
alla
ronda per dodici ore consecutive era estenuante, ma tutto sommato non
gli dispiaceva.
Il suo stipendio era buono – senza contare i premi in denaro
derivanti
dall'aver prestato servizio durante la guerra prima contro il regime
corrotto
dei Fritz, poi contro la potente nazione di Marley – e poteva
soddisfare ogni
suo desiderio, almeno materialmente. Certo, c'erano cose che non si
potevano
acquistare con il denaro. C'erano cose che non avrebbe più
potuto ottenere a prescindere dai
soldi. Ma anche quella
era acqua passata.
Il vento gli soffiò ancora sulle
guance e stavolta Connie si riparò dietro il colletto della
giacca, appena
rialzato con un movimento veloce della mano, subito tornata nel tepore
della
tasca destra. Le strade di Trost erano tempestate di foglie gialle, un
colore
che gli riportò alla mente le distese di grano coltivate dai
suoi genitori nei
tempi ancora felici della sua prima infanzia. L'immagine delle spighe
ondeggianti sparì in secondo piano, lasciando emergere prima
il viso di Armin,
poi quello di Annie e Historia. Tre persone che avevano in comune, per
l'appunto, solo il colore di occhi e capelli. Capelli biondi come
quelle foglie
invecchiate. Connie si chiese se Annie, ovunque si trovasse in quel
momento,
non avesse alla fine trovato la pace che tanto cercava; allo stesso
modo si
domandò se Historia, ora che i suoi domini erano
decuplicati, non si sentisse
schiava del proprio ruolo di sovrana. Si disse che avrebbe dovuto
indagare
cercando una risposta dalla diretta interessata, magari la prossima
volta che
ci fosse stata la possibilità di incontrarla di persona.
Camminò ancora a lungo, arrivando a
costeggiare il fiume che attraversava il lato est della
città. Superò un ponte
e si trovò dall'altra parte, in un quartiere che solo di
recente era diventato
residenziale; ricordava, infatti, che proprio nelle vicinanze, fino a
poco
prima della fine della guerra, erano stati confinati i profughi
provenienti da
Shingashina e dai villaggi disseminati nel territorio circondato dal
Muro
Maria. Incredibile, rifletté, come le cose fossero cambiate
nell'arco di appena
dieci anni.
La sua passeggiata lo spinse a
fiancheggiare nuove case a due e tre piani, tutte circondate da
giardinetti e
da recinzioni in ferro battuto. Proseguì ancora per un paio
di minuti, finché
non svoltò in una zona dedicata alla movida di Trost. E
lì, finalmente, proprio
all'angolo tra una strada secondaria e l'arteria principale che
riportava al
centro della città, trovò il suo vecchio bar
preferito.
Si trattava di un locale che era nato
nell'anno 840, cinque anni prima della caduta di Shingashina. A quei
tempi – questo
era ciò che i proprietari gli avevano raccontato –
il bar non occupava più di
dieci metri quadri. C'era posto solo per il bancone e un tavolino
stretto in un
angolo: gli avventori erano costretti a darsi il cambio per fare in
modo che
tutti, prima o poi, venissero serviti. Allora si poteva scegliere solo
tra
birra chiara e scura, al massimo vino se da Shingashina era arrivata
una buona
vendemmia. Con la caduta del Muro Maria, però, le cose si
erano complicate e il
bar aveva rischiato di chiudere. Si era ripreso lentamente nel corso
dell'850,
con una crescita esponenziale dall'anno successivo. Solo a quel punto i
proprietari avevano allargato il locale, trasformandolo in qualcosa di
più
ricercato. Non più solo birra e vino, ma anche super
alcolici e analcolici. Il
tutto in un ambiente decisamente più sano –
l'igiene non era stata mai al primo
posto, almeno inizialmente – e finalmente aperto a clienti
che non
appartenessero solo ai ceti sociali più bassi di Trost.
Connie aveva assistito all'evoluzione
di quel bar proprio dall'850. Lo aveva scoperto per puro caso,
girovagando
insieme a Thomas e Datz durante una ricognizione di allenamento, e si
era
ripromesso fin da subito che sarebbe tornato. Aveva mantenuto la
parola,
diventando praticamente un cliente abituale – adorava la
birra scura, non ne
aveva mai assaggiata una qualità così buona
– e alla fine aveva trascinato nel
giro anche Sasha. Appena avevano del tempo libero ne approfittavano per
andare
a bere qualcosa, eccitati dal pensiero di dover agire in tutta
segretezza per
non farsi scoprire dai loro superiori.
I pomeriggi o le serate che avevano
trascorso insieme in quel locale erano ben scolpiti nella memoria di
Connie.
Prendevano sempre lo stesso posto al bancone e non uscivano dal bar se
la birra
non faceva il suo effetto. Dopo settimane trascorse nell'angoscia
totale, con
la paura che uno qualunque dei loro compagni – se non loro
stessi – potesse
morire, il minimo era annegare la disperazione in un bel boccale
schiumoso. Non
erano state poche le occasioni in cui si erano allontanati dal locale
sorreggendosi l'un l'altra, troppo deboli e troppo presi dagli
schiamazzi per
poter stare dritti sulle proprie gambe.
Connie giunse all'angolo della strada
e scrutò l'entrata del bar. Be', chiamarlo bar era ormai
improprio. I
proprietari avevano apportato ulteriori modifiche e adesso il locale si
era
allargato fin sul marciapiede, occupato da quattro tavolini forniti di
ombrelloni per riparare gli avventori dal sole. Non trattenne un
sorriso
malinconico e, facendosi avanti, sedette non lontano dall'ingresso.
Fissò prima
la strada, poi la sedia vuota che gli stava di fronte.
Sospirò, mentre una
giovane ragazza gli si avvicinava chiedendogli se volesse ordinare
qualcosa.
-Può portarmi il menù?-, domandò
gentilmente. La cameriera, poco più che diciottenne,
assentì e rientrò nel
locale, comparendo subito dopo con il foglio cartonato pieghevole su
cui era
raffigurata la maggior parte delle bevande a disposizione.
Connie si girò il menù tra le mani e
lo soppesò. Dio, se quel posto era cambiato. Era
così diverso, così differente
da come lo aveva conosciuto... E come si sentiva diverso lui stesso,
ora che la
guerra era finita da un pezzo e con lei la fase più
avventurosa della sua vita
di soldato.
Scrutò l'elenco degli alcolici, pur
conoscendolo a memoria, e si stupì di trovare
novità mai sentite prima; mentre
leggeva, le onde dei ricordi depositarono sulla spiaggia della sua
memoria il
riflesso di un lontano pomeriggio di primavera.
Era l'anno 850. Eren aveva scoperto da
pochissimi giorni di saper padroneggiare quella che, in un secondo
momento,
avrebbero tutti imparato a conoscere come Coordinata.
Allo stesso tempo, la vita di Connie era completamente cambiata. Da
quel
momento in poi, niente sarebbe più stato uguale a prima.
Era partito con Hanji e la sua Squadra
alla volta del devastato villaggio di Ragako. Ciò che aveva
visto e appreso
stando sul posto lo aveva profondamente destabilizzato. Per una
settimana non
aveva avuto notizie dei propri compagni; sapeva soltanto che erano
tornati
tutti a Trost, in attesa che Eren, il Comandante Smith e tutti gli
altri si
riprendessero dallo scontro con il Titano Corazzato. Quando poi era
rientrato
anche lui in città, Hanji non gli aveva permesso di riunirsi
subito al resto
della truppa. C'erano voluti ancora diversi giorni prima di poter
riabbracciare
gli amici: la priorità era stata raccontare a Erwin quanto
scoperto a Ragako
sulle possibili origini dei Titani. Era stato lui stesso a mostrare la
verità
al Comandante e quell'incontro lo aveva semplicemente accecato di
dolore.
Perciò, quando finalmente Hanji gli aveva concesso di
andare, il suo primo
pensiero era stato parlare con la persona di cui più si
fidava al mondo. La
sola che gli fosse rimasta, dopo aver perso la propria
famiglia.
Aveva fatto recapitare un biglietto a
Sasha e la ragazza si era presentata puntuale all'appuntamento. Erano
da poco
passate le cinque del pomeriggio quando entrambi si erano ritrovati di
fronte
al piccolo bar all'angolo.
Connie ricordava come lei gli fosse
corsa incontro, tutta trafelata. Lo aveva abbracciato e si era
assicurata che
le sue condizioni fossero buone.
-Non preoccuparti-, le aveva detto
lui, -niente di rotto. Solo... Ho bisogno di raccontare delle cose e
voglio che
tu sia la prima a saperle. Non so se riuscirei a parlarne davanti agli
altri,
ora come ora... Io...-.
La sua voce si era spezzata e Sasha
gli aveva circondato le spalle con un braccio, da brava amica qual era.
Lo
aveva accompagnato nel locale e si erano seduti al bancone, prendendo
però
posto nell'angolo più lontano, così che Connie
potesse raccontare senza aver
paura di essere ascoltato da orecchie indiscrete.
-Vuoi la solita birra scura? Offro
io-, gli aveva detto Sasha, sistemandosi sullo sgabello di legno alla
sinistra
di Connie. Lui aveva impiegato qualche secondo prima di annuire con un
cenno
della testa.
-Una bionda e una scura, per favore-,
la ragazza aveva ordinato lanciando una rapida occhiata al barista,
tornando
subito dopo a fissare l'amico. -Quando ti senti pronto, io sono qui per
ascoltarti-.
Probabilmente era stato il tono mite e
caldo della sua voce a spazzare via i dubbi e le paure che gli stavano
divorando lo stomaco già da dieci giorni. Connie aveva
alzato lo sguardo: negli
occhi castani di Sasha aveva letto comprensione e sincera voglia di
aiutarlo.
Perciò non aveva esitato oltre e le aveva raccontato tutto,
senza lesinare
alcun particolare.
-Mia madre si è trasformata in un
Titano-, aveva sussurrato, la voce di nuovo interrotta da un singulto
che
presto si sarebbe convertito in pianto, -e così sicuramente
mio padre e i miei
fratelli. Loro... Non ci sono più, ormai. Non
potrò riaverli indietro-.
Mentre il barista lanciava nella loro
direzione i due boccali di birra, prontamente afferrati da Sasha,
Connie aveva sentito
grosse lacrime rigargli il viso. Se le era strofinate via in fretta per
evitare
che l'amica lo guardasse piangere, temendo che potesse giudicarlo
debole, ma
Sasha, come in seguito avrebbe imparato a riconoscere, non era il tipo
di
persona che puntava il dito contro le presunte debolezze altrui. Al
contrario,
la ragazza gli aveva afferrato le mani e le aveva allontanate dal suo
viso,
fissandolo negli occhi.
-Non hai niente da nascondere, Connie.
Se devi sfogarti, fallo pure. Piangi, se ne hai bisogno. Io sono qui
per
sostenerti e lo farò sempre, proprio come tu hai sostenuto
me in questi anni di
addestramento. Siamo amici e gli amici si dicono tutto. Gli amici si
ascoltano
e sono pronti ad aiutarsi a vicenda, quando ce n'è bisogno-.
Connie non era abituato a sentirla
parlare con tono così serio, perciò quella
decisione nella sua voce gli aveva
strappato una mezza risata tra le lacrime che ancora gli imperlavano le
guance.
Sasha aveva riso a sua volta, con una dolcezza che Connie non avrebbe
mai creduto
di poter vedere, e poi gli aveva detto ancora: -Non sto scherzando,
è questo
che fanno gli amici. Ma adesso bevi la tua scura; sarà
meglio che io assaggi la
mia, magari lo stomaco smetterà di gorgogliare. Dico, non si
potrebbe
anticipare di qualche ora la cena, invece di aspettare sempre le otto
in
punto?-.
Era il suo modo di sdrammatizzare che
la rendeva unica e incredibilmente comica. Dopo aver trangugiato la
propria
pinta di birra in compagnia di Sasha, Connie si era sentito
incredibilmente
meglio. Certo, era ufficialmente orfano di entrambi i genitori, senza
contare
la perdita dei due fratelli minori, ma c'era ancora qualcosa a cui
aggrapparsi.
O meglio, a qualcuno. E quel
qualcuno, da quel momento in avanti, sarebbe stata sempre Sasha.
-Cosa le porto, signore?-.
La voce della cameriera lo riscosse
dai pensieri. Si affrettò a scorrere un'ultima volta il
menù e poi,
ripiegandolo, lo consegnò alla ragazza: -Una birra scura. E
una bionda, formato
grande-.
-Boccale grande anche per la scura?-.
-Sì, grazie-.
La giovane rientrò e lui rimase solo,
l'unico avventore del locale a sfidare il freddo vento di fine
settembre
restando seduto all'aperto. Non che la cosa gli dispiacesse, anzi: gli
trasmetteva un senso di pace che, di tanto in tanto, era intervallato
da scatti
di profonda malinconia.
Ma a cosa stava pensando, prima che il
flusso dei ricordi fosse interrotto? Ah, sì, a quel lontano
pomeriggio in cui
due quindicenni avevano affrontato un discorso molto più
grande di loro.
Ora che ci rifletteva con più calma e,
soprattutto, a mente lucida, Connie dovette constatare che era stato
proprio
quello il periodo in cui aveva cominciato a nutrire un sentimento molto
forte
per la propria compagna di Squadra. Il modo in cui lei gli era corsa
incontro
dopo dieci giorni in cui non si erano potuti né vedere
né sentire, senza
contare l'atteggiamento confidenziale con cui Sasha si era approcciata
al suo
triste racconto, avrebbero dovuto fin da allora indurlo a pensare che,
forse,
anche lei nutriva qualcosa per lui. Qualcosa di non ancora ben
definito;
d'altra parte avevano solo quindici anni e ben altri problemi,
purtroppo, a cui
pensare. Però... Si erano sempre definiti amici e quel bar,
sviluppato solo
attorno al bancone e ai cinque sgabelli disponibili, era stato il luogo
fisico
che avevano inconsapevolmente scelto per alimentare il proprio
rapporto.
Un'amicizia che, come quel locale, era nata da pochi punti in comune,
per poi
allargarsi e diventare qualcosa di decisamente più grande.
-Scura e bionda a lei. Questo è lo
scontrino. Lasci pure i soldi sul tavolo, quando avrà
finito-, venne ancora
disturbato dalla cameriera.
-Grazie-, la congedò, vedendola
sparire di nuovo nel bar. Poi scrutò attentamente il colore
della sua birra e
lasciò che la mente si perdesse nella consistenza della
spessa schiuma bianca
che sfiorava il bordo del boccale.
Quante volte lui e Sasha erano stati
lì? Mah, dire innumerevoli
era
perfino riduttivo. Per non parlare del tempo che avevano trascorso
seduti a
quel bancone! Ne perdevano davvero la concezione, una volta entrati nel
bar.
Forse perché bevevano e l'alcol inevitabilmente li stordiva,
forse perché
stavano così bene da dimenticare tutto ciò che
c'era e avveniva fuori dalla
porta del locale; sta di fatto che il tempo, una volta insieme,
assumeva un
significato e una logica completamente diversi rispetto a quando erano
sul
campo di battaglia o con il resto dei compagni. Che passassero solo
cinque
minuti o due ore a ridere e a scherzare davanti a una bella pinta di
birra,
nella loro testa non sembrava trascorso più di un minuto.
Erano appena entrati
e già dovevano scappare. Strana convenzione, il tempo, e
ancora più strano il modo
di percepirlo. Ma mentre contemplava il suo boccale, Connie non
poté fare a
meno di pensare ad altre due particolari occasioni in cui la vita sua e
di
Sasha si erano intrecciate tenendo come sfondo, appunto, il loro
adorato bar.
La prima era avvenuta qualche
settimana dopo la battaglia di Shingashina. Erano stati giorni
frenetici,
quelli successivi allo scontro con il Titano Bestia e all'abbattimento
del
Colossale: il ritorno a Trost con il resoconto di una parte della
verità sulla
storia del loro mondo, le esequie del Comandante Smith, la cerimonia di
consegna della medaglia al valore per tutti i componenti della Squadra
Levi...
Insomma, mille e più avvenimenti concentrati in appena tre
settimane. Connie li
aveva vissuti in compagnia dei propri compagni, ovviamente, ma la
mancanza di
Sasha si era fatta sentire più di quanto previsto.
Dov'era la ragazza? Be', costretta a
letto con un paio di costole rotte. Aveva riportato le fratture durante
lo
scontro con il Titano Corazzato ed era corsa pericolosamente vicino al
rischio
di rimetterci la pelle. I superiori le avevano impedito anche il minimo
movimento, sperando che si rimettesse in fretta; d'altronde, del Corpo
di
Ricognizione non restavano che nove superstiti e perdere un membro
importante
come Sasha a causa delle ferite di battaglia non avrebbe garantito
alcuna buona
pubblicità presso le nuove reclute.
Proprio per il fatto che fosse a letto
al pari di una qualsiasi persona malata, Connie non aveva mancato di
farle
visita, quando possibile. Gli incontri, però, erano stati
sempre fugaci, sotto
la costante minaccia che "Braus non deve sforzarsi in alcun modo,
quindi
spicciati se devi portarle un mazzo di fiori". In realtà gli
unici fiori
che le aveva praticamente contrabbandato erano delle rosette di pane,
conoscendo
bene l'appetito insaziabile della compagna di Squadra.
-Quando ti sarai rimessa, andiamo a
bere qualcosa, ti va?-, le aveva proposto un giorno, mentre lei
sgranocchiava
voracemente il pane che le aveva portato.
-Certo-, aveva risposto lei, con gli
occhi che le brillavano. -Quella bella birra...-.
-E se provassimo qualcos'altro? Vino,
magari? O...?-.
-Il vino me lo concedo solo per
sfumare la carne. È un peccato berlo così
com'è-.
Connie si era passato una mano sul
viso, fingendosi rassegnato, e si era lasciato sfuggire un sorriso. -Va
bene,
allora. Vedi di rimetterti presto, sono stanco di aspettarti-.
-Quanto tempo è passato dalla
battaglia?-.
-Quasi un mese. E ne sono passati
cinque dall'ultima volta che siamo andati a farci una bevuta-.
-Connie, stai diventando noioso. Te
l'ho detto, ci andremo, spero il prima possibile. Se sei stufo di
aspettare,
vai con Jean o Armin-. Si era fermata per un secondo a riflettere e
poi,
ridendo, aveva aggiunto: -Ti immagini Armin sbronzo? Non sarebbe
meraviglioso?-.
Anche lui aveva riso, figurandosi il
compagno delirante e in preda ai fumi dell'alcol. Ce lo vedeva proprio
bene a
dare di matto.
-Scema, certo che ti aspetto. Voleva
essere un incoraggiamento per farti sbrigare-.
-Però dai, prendi in considerazione la
possibilità di far ubriacare Armin-.
Si erano lasciati così, tra le risate
mezze soffocate a causa dell'arrivo improvviso di Hanji. E si erano
rivisti al
bar due settimane più tardi.
-Finalmente in piedi!-, aveva
esclamato Connie vedendola arrivare. A dire il vero Sasha arrancava,
non ancora
abituata a lunghe passeggiate come quella a cui il compagno l'aveva
appena
costretta. Ricordava di essersi immediatamente sentito in
colpa e quindi
l'aveva invitata ad entrare, accompagnandola all'interno.
-Ma cosa è successo, qui?-, aveva
chiesto lei, guardandosi intorno.
L'opera di allargamento era appena
cominciata. I proprietari del locale dovevano aver acquistato il
vecchio banco
del pesce che per un decennio li aveva fiancheggiati; in questo modo
era stato
possibile abbattere la parete che divideva le due attività e
finalmente il bar
si era potuto dotare di veri e propri tavoli e sedie per far accomodare
maggior
clientela.
-Già che ci siamo, sediamoci qui-,
Connie l'aveva guidata verso il tavolo più vicino,
aiutandola a prendere posto.
Poiché a Sasha, pur stringendo i denti, era scappato un Ahia! bello deciso, l'amico le aveva
subito chiesto se sentisse
ancora dolore.
-Ogni tanto sento delle fitte
intercostali, proprio come un attimo fa. Il medico mi ha proposto di
indossare
un busto sotto la camicia. Sai, per favorire ulteriormente il contatto
tra le
costole incrinate-.
-Bella scocciatura-.
-Mh, se serve... Ma dimmi, adesso:
novità dell'ultimo minuto? Nessuno mi ha ancora detto cosa
ha trovato Eren in
quella dannata cantina-.
-Oh, be'... Non ha trovato risposte,
se è quello che intendi. Al massimo ci siamo ritrovati tutti
con più domande di
prima-.
-Come dice il proverbio? Si chiude una
porta...-.
-E si apre un portone. Di grossi guai,
però. Aspettami qui, vado a ordinare le nostre birre. Sono
argomenti di cui è
meglio discutere bevendo qualcosa, di tanto in tanto-.
Era tornato dopo pochi minuti e le
aveva riassunto le ultime scoperte, oltre a raccontare in dettaglio gli
avvenimenti che avevano movimentato quell'ultimo mese e mezzo.
-Ho io la tua medaglia al valore. Te
la sei meritata-.
-...Avrei preferito che Historia mi
facesse recapitare una partita di carne come quella che avete mangiato
voi al
banchetto, piuttosto. Sarebbe stata decisamente più
succulenta-.
-Ma piantala, tuo padre sarà fiero di
te, quando saprà cosa hai fatto!-.
-Papà sarà molto più orgoglioso quando
saprà che ho abbattuto un cinghiale di duecento chili con
una sola freccia, te
lo dico io-, aveva sbuffato lei, portandosi alle labbra il boccale e
sporcandosi la punta del naso con la schiuma della birra.
-Ah, storia vecchia. Non te ne uscire
così davanti a Jean, potrebbe essere ancora suscettibile al
riguardo. Ma
aspetta-, le aveva detto, sporgendosi sul tavolo e allungando il
braccio,
-guarda cosa hai fatto...-.
Le aveva raccolto la schiuma dal naso
con la punta dell'indice. Un gesto del tutto innocente, dietro cui non
si
nascondeva niente; eppure, dopo averla sfiorata, Connie aveva
chiaramente
percepito un uncino di ferro arpionargli la bocca dello stomaco. Aveva
ritirato
il braccio e aveva asciugato i resti di schiuma strofinando l'indice
contro il
palmo della mano sinistra. Sasha lo aveva guardato per tutto il tempo
senza proferire
parola.
-Scusa, stavamo dicendo?-, aveva
provato a tirarsi fuori dall'improvviso imbarazzo.
-Che vale di più uccidere un cinghiale
rispetto a rischiare di morire per niente-.
-Sì, be'... Non sono affatto
d'accordo, ecco. Ci hai fatto davvero preoccupare-.
-Prova a pensare in positivo: se fossi
morta, avreste avuto una razione di cibo in più da
spartirvi-.
Quella frase aveva innescato in lui
una reazione forse fin troppo esagerata, doveva riconoscerlo; ma
allora, dopo
un mese e mezzo trascorso in attesa di rivedere la compagna
più in forze che
mai, quel tentativo di sdrammatizzare gli era parso totalmente fuori
luogo: -Ma
che accidenti dici?-, aveva battuto un pugno sul tavolo, facendo
schizzare
fuori dal boccale non poche gocce di birra. -Ero spaventato a morte,
credevo
che... Insomma, ti rendi conto di quanto hai rischiato? Potevi morire sul serio, poi... Cosa ne sarebbe stato
della Squadra? E io? Cosa avrei fatto se tu non ci fossi stata
più?-.
Sasha aveva abbassato gli occhi sulla
propria pinta, rialzandoli nel sentirlo pronunciare quell'ultima frase.
Come se
non fosse bastato, Connie aveva aggiunto: -Ti ho portata io al riparo,
mentre
Jean e Mikasa continuavano a combattere contro Reiner. Perdevi sangue,
eri
priva di sensi... Ho avuto paura. Perciò non cercare di fare
la simpatica
dicendo cose che non stanno né in cielo né in
terra, per favore. Ma d'accordo-,
aveva sospirato, -per fortuna tutto si è risolto per il
meglio. E scusami se ho
alzato la voce-, si era rammaricato, -non ti ho invitata qui per
urlarti
contro. Solo che... Cerca di non correre rischi la prossima volta,
d'accordo?-.
Lei non aveva detto nulla. Aveva
bevuto la propria birra e aveva fissato il fondo vuoto del boccale,
specchiandosi con aria distratta.
-Mi dispiace di averti fatto preoccupare.
Mi dispiace che tutti voi siate stati in pensiero per me-, aveva
commentato
dopo un paio di minuti di silenzio. -Prometto di stare più
attenta. Però sappi
che questo stesso discorso vale anche per te. Ti ho salvato in un paio
di
occasioni, se non sbaglio. Nella grotta sotterranea dei Reiss, per
esempio:
stavi per farti colpire in pieno petto-.
-Be', ma...-.
-Quindi vedi di non cacciarti nei
guai. Così eviteremo di preoccuparci a vicenda-.
Nonostante avesse parlato con aria
seriosa, un sorriso le aveva disteso le labbra e Connie aveva capito
che,
ancora una volta, tra loro era tornato il sereno. E il loro rapporto si
era
mantenuto stabile per un tempo lunghissimo, o almeno così
era sembrato a
entrambi. Nell'anno 851 tutti i Titani erano stati abbattuti e
finalmente il
Corpo di Ricognizione aveva potuto avviare le spedizioni di
esplorazione di
quella che poi si era rivelata essere davvero un'isola, seppur di
discrete
dimensioni. Dall'852, poi, la Squadra di Levi era stata divisa in due
tronconi
che avevano operato in zone separate e fino all'anno successivo Connie
e Sasha
non si erano più visti. Avevano mantenuto i contatti tramite
lettera, ma nulla
di più.
Fissò il boccale di birra bionda e
nella sua mente tornò vivido il ricordo di un terzo
appuntamento, il secondo a
cui aveva pensato. Era l'aprile dell'853. Ancor più
precisamente, il giorno in
cui lui e Jean erano tornati dalla missione nell'estremo nord di
Paradis.
Il rientro della truppa a Trost era
stato salutato con grande favore da tutta la popolazione, che aveva
accompagnato i soldati fino ai campi di addestramento militare. Qui i
cancelli
si erano aperti e i soldati avevano fatto il loro ingresso, accolti dai
compagni rimasti a sud. Tra i superstiti del 104° Reggimento,
però, non
figuravano né Sasha né Mikasa.
-Sono di guardia con alcune Squadre
della Guarnigione-, aveva spiegato Armin durante il pranzo, seduto
proprio con
Connie e Jean, oltre che a Eren e Flocke. -Torneranno entro l'ora di
cena, o
almeno questo era quanto previsto dal piano di giornata. Vi aspettavamo
già
ieri, a dire il vero; infatti avevano chiesto di poter spostare il
turno
proprio per essere presenti al momento del vostro ritorno-.
-Ci sono state delle piccole
complicazioni, scendendo verso sud-, aveva raccontato Jean. -Niente di
cui
preoccuparsi. Solo alcune manifestazioni di dissenso nei nostri
confronti,
sempre ad opera dal solito Culto delle Mura... È incredibile
come dopo tre anni
ancora ci accusino di aver rovesciato la legittima monarchia-.
-Come se Historia non avesse alcun
diritto a sedere sul trono-, aveva aggiunto Connie. -Abbiamo dovuto
sedare un
paio di rivolte, prima di poter proseguire la marcia. Ecco
perché abbiamo
tardato-.
-Capisco-, Armin aveva annuito. -Be',
saranno davvero felici di rivedervi. Sasha non stava più
nella pelle fin dalla
settimana scorsa. Credo che abbia fatto il conto alla rovescia-, aveva
riso,
mentre Connie aveva sentito le guance prendere colore.
-Chissà cosa dirà di quei capelli,
allora-, si era inserito Eren, rimasto in silenzio fin dall'inizio del
pasto.
-Chissà cosa penserà Mikasa di quelli
di Jean-, Connie aveva dato una gomitata all'amico, che per poco non si
era
strozzato con la zuppa di cereali. Dopo un rapido scambio di sguardi,
avevano
tacitamente deciso che non si sarebbero stuzzicati a vicenda. Non in
presenza
degli altri, almeno.
Il pomeriggio era passato con una
lentezza esasperante. Connie aveva tentato di riposare – la
lunga marcia da
nord era stata estenuante – ma l'impazienza di rivedere Sasha
lo aveva reso
nervoso, impedendogli di chiudere gli occhi anche solo per cinque
minuti
consecutivi. Steso sulla propria branda nel dormitorio maschile, aveva
fissato
il soffitto per un tempo che gli era parso interminabile, girandosi
prima su un
fianco, poi sull'altro. Ricordava di essere stato preso in giro da
Jean, ma non
aveva più idea di cosa gli avesse detto il compagno di
Squadra. Qualcosa che
doveva averlo solo infastidito di più, comunque.
Quando le campane di Trost avevano
finalmente suonato, facendo sapere a tutta la popolazione che erano
ormai
giunte le sette della sera, Flocke era entrato nel dormitorio
spalancando la
porta, trafelato: -Mikasa e Sasha sono tornate. Se volete...-.
Non aveva fatto in tempo a finire la
frase. Connie era saltato in piedi ed era corso fuori, seguito a ruota
da Jean
e dallo stesso Flocke. Investito dagli ultimi raggi del sole morente,
l'aveva
vista.
Le due ragazze stavano varcando in
quel momento la soglia dell'accampamento. Al centro dello spiazzo
c'erano anche
Eren e Armin ad aspettarle.
-Connieee!-.
Un solo grido e uno scatto da far
invidia a un velocista. Sasha gli era corsa incontro, senza badare a
nessuno
degli altri, e spalancando le braccia gli si era precipitata addosso.
Avevano
rischiato entrambi di perdere l'equilibrio, ma anche se fosse successo
probabilmente non sarebbe importato a nessuno dei due. Connie ricordava
vividamente la sensazione di felicità pura che lo aveva
travolto sia prima sia
durante quell'abbraccio così caloroso, senza contare il
pizzico di imbarazzo
che probabilmente chiunque avrebbe potuto leggergli sul viso. Troppo
preso
dalle emozioni che lo stavano frastornando, non aveva prestato
attenzione a
quanto gli accadeva intorno; non ricordava assolutamente nulla di
quanto detto
da Mikasa o da uno degli altri amici. La sua preoccupazione, i suoi
pensieri si
erano focalizzati esclusivamente su Sasha. D'altronde aveva passato i
precedenti dodici mesi nella smania di rivederla e quando aveva potuto
stringerla tra le braccia – un qualcosa che, riflettendoci,
probabilmente non avrebbe
avuto neanche il coraggio di fare, se non fosse stata lei a prendere
l'iniziativa – il resto del mondo non aveva fatto altro che
perdere qualsiasi
significato.
-Non sai quanto mi sei mancato-, aveva
continuato Sasha, distaccandosi e guardandolo in viso con quel modo di
fare fin
troppo diretto che era sempre stato tipico di lei. -Sono successe un
sacco di
cose mentre tu e Jean non ci siete stati! Ma sai qual è la
più sorprendente?-.
Connie aveva scosso la testa,
sorridendo. A ripensarci adesso, doveva aver avuto un'espressione fin
troppo
accondiscendente.
-Non ci crederai, ma il cibo della
mensa è migliorato! Non è più il
rancio di una volta, adesso possiamo
finalmente mangiare qualcosa di davvero commestibile! Ma il merito
è tutto dei
Volontari Marleyani, sono fenomenali in cucina. Soprattutto Nikolo...
Te lo
ricordi, vero? Prepara dei piatti buonissimi, mi viene da piangere per
quanto
sono deliziosi. E non è finita, c'è anche...-.
Mikasa aveva interrotto il flusso
delle sue parole e lui si era ridestato. A quel punto tutta la Squadra
si era
diretta proprio verso il capanno della mensa, dove di lì a
poco avrebbero
cenato. Anche di quella sera Connie ricordava solo degli sprazzi. Le
memorie
più limpide coinvolgevano inevitabilmente Sasha. Tra i
pensieri si fece spazio
un bel ritratto della ragazza, ora sorridente, ora in preda al
più devastante
attacco di ingordigia. Focalizzò le sue labbra sporche di
salsa, le guance
gonfie di cibo, gli occhi spalancati davanti alle pietanze portate in
tavola;
poteva ancora sentire l'eco della sua risata e il rumore del momentaneo
attacco
di tosse causato da qualcosa che non doveva aver deglutito per bene. In
quella
quotidianità Connie si era perso già allora, ma
anche adesso, contemplando ogni
singola onda della memoria, provò la sensazione di essersi
smarrito nel
passato.
Dopo cena i componenti della Squadra
erano rimasti ancora un po' insieme, prima di decidere di disperdersi.
Sasha,
invece, aveva insistito per poter chiacchierare ancora, come se non
fosse stata
soddisfatta da quanto raccontato fino a quel momento da Jean e Connie.
-Non dirmi che vuoi andare a dormire
anche tu!-, aveva esclamato. Per tutta risposta – e mentendo
– lui aveva scosso
la testa.
-Niente affatto. Sono in formissima,
io. Sono gli altri che si stanno rammollendo-.
-Mh, sarà... Cosa facciamo?-.
Ci aveva pensato un po' su prima di
avanzare la propria proposta: -Che ne dici se ce ne andiamo...-.
-A bere!-, lo aveva anticipato lei.
-Shhh!-. Connie le aveva tappato la
bocca con una mano, abbassando il tono della voce: -Vuoi urlarlo ai
quattro
venti? Lo sai che succede se ci beccano brilli, no?-.
Si era accertato che Sasha avesse
capito e poi aveva mollato la presa sulle sue labbra, sospirando. Non
c'era
niente da fare: gli anni passavano, ma la ragazza non cambiava mai.
-Hai ragione-, anche lei aveva
adeguato il volume della voce. -Quindi andiamo a bere?-.
-Perché no? Facciamo che beviamo per
festeggiare-.
-Sì, esatto! E magari mangiamo anche
qualcosa. Per accompagnare la birra, intendo-.
Così, di soppiatto come avevano sempre
fatto, erano sgattaiolati fuori dall'accampamento e, non visti, si
erano
mescolati al flusso di gente che movimentava le strade di Trost.
A differenza di soli due anni prima,
infatti, la città era molto cambiata, così come
lo stile di vita dei suoi
abitanti. Erano fiorite nuove attività commerciali ed erano
stati aperti negozi
mai visti prima. Complice il primo caldo di primavera, in molti si
attardavano
per passeggiare nelle vie principali, rendendo quindi molto semplice a
due
ragazzi come lui e Sasha di confondersi tra la moltitudine.
Raggiunto il loro amato bar, questa
volta era stato proprio Connie a restare stupito. In un solo anno il
locale si
era ingrandito ulteriormente e adesso non solo c'era una vera e propria
fila di
avventori ad aspettare fuori dalla porta, ma c'erano anche i primi
tavolini
posti all'esterno, proprio sul marciapiede. Una novità,
quella, che contribuiva
ad attirare clienti mai visti prima di allora.
-Andiamo a sederci lì-, aveva proposto
Sasha, indicando un tavolo a poca distanza dall'entrata del bar.
-Ma ci sono due ragazzi che stanno
bevendo!-.
-Stanno per andare via-.
-Ah, davvero?-, aveva chiesto con
scetticismo, alzando un sopracciglio. -E come lo sai?-.
-Stanno litigando o hanno appena
litigato, si vede-.
-Sì, come no. E magari adesso uno dei
due si alza prima, sbatte i soldi sul tavolo e se ne va-.
-Può darsi. Questo non so dirlo, ma...
Ecco, hai visto?-.
Connie aveva sgranato gli occhi. Uno
dei due giovani aveva appena trangugiato in un sol sorso la sua
bevanda, aveva
poggiato il boccale e si era alzato di scatto, facendo stridere la
sedia contro
il selciato del marciapiede e rovistando nelle tasche alla ricerca di
qualche
spicciolo.
-Impossibile-, aveva esalato, mentre
anche l'altro ragazzo, inizialmente rimasto seduto, imitava l'amico,
togliendo
di fatto il disturbo e liberando il tavolino.
-Che ti avevo detto?-, gli aveva
sorriso Sasha. -Dai, sediamoci, prima che qualcuno ci rubi il posto-.
In tutta fretta si erano sistemati
l'uno di fronte all'altra. Si erano guardati intorno e avevano fatto
qualche
commento sui miglioramenti del bar. Poi Connie si era offerto di
entrare per
andare a prendere le birre.
-La solita bionda?-, le aveva chiesto.
-Sì. Boccale grande, mi raccomando-.
Aveva sorriso di fronte a quella
specifica – non ce n'era alcun bisogno, conosceva Sasha e i
suoi gusti fin
troppo bene – poi si era addentrato nel bar e ne era uscito a
fatica non meno
di dieci minuti dopo.
-È un inferno, lì dentro!-, aveva
sbottato, servendo la pinta alla ragazza e tornando a sedere. -Mai
vista così
tanta fila. E pensare che non molti anni fa era considerata solo una
bettola-.
-Le cose cambiano, qualche volta in
meglio. Come i tuoi capelli-, lo aveva preso in giro lei.
-Be'? Hai sempre detto di essere curiosa
di vederli lunghi-.
-Non sono ancora lunghi-.
-Ma è comunque qualcosa, rispetto alla
rasatura completa-.
-Sì, però...-.
L'aveva interrotta: -Che ne pensi?-.
Lei ci aveva riflettuto per una
manciata di secondi: -Ti stanno bene, ma... Mi fa strano-.
-Davvero?-, aveva riso Connie.
-Ero abituata al tuo testone, eppure
in un solo anno è cambiato tutto-.
-Ehi, io sono sempre lo stesso. Magari
i capelli sono cresciuti, ma ti posso assicurare che sono ancora il
Connie che
è partito mesi fa. Quello che conosci da anni-.
Sasha non le era parsa convinta fino
in fondo e le sue parole successive glielo avevano confermato:
-Sarà, però mi
sembri davvero diverso. Un po' come questo bar-.
Di colpo la sua espressione gioiosa si
era rabbuiata e Connie si era chiesto quale potesse essere il motivo.
Era
davvero insolito che Sasha si rattristasse o che manifestasse di avere
l'umore
a terra. Per lo più era lei quella brava a sdrammatizzare
anche nei momenti
peggiori.
-Ehi, che ti prende?-, le aveva
domandato, piegando leggermente la testa. -Qualcosa non va?-.
Sasha non gli aveva risposto subito.
Aveva tenuto gli occhi abbassati sul boccale, saggiando poi la birra e
sporcandosi il labbro superiore con la schiuma. -Prima dicevo sul
serio,
all'accampamento. Mi sei mancato davvero tanto, durante questo anno.
È stato
difficile saperti lontano-.
Al sentirla parlare, Connie aveva
tossito, battendosi il pugno sul petto per liberarsi della birra che
aveva
preso la via della trachea. Non si era di certo aspettato che Sasha
volesse
parlargli di questo.
-Anche tu mi sei mancata-, aveva
confermato a sua volta. -Per fortuna ci siamo scritti, ogni tanto-.
-Scriversi non è la stessa cosa. Non
ero abituata a non averti intorno e mi sono sentita sola-.
Lui aveva chiaramente percepito il
proprio cuore iniziare ad accelerare. -Perché sola? C'erano
Mikasa, Eren e
Armin, Flocke...-.
-Ma non c'eri tu-.
Connie si era preso un minuto prima di
dire qualsiasi cosa. Imbarazzato, aveva sorseggiato un po' della sua
scura e
aveva lasciato vagare lo sguardo al tavolo vicino, dove quattro
vecchietti
stavano terminando una partita a carte che doveva averli tenuti
impegnati a
lungo.
-Sai che non me ne sarei mai andato,
se Hanji non lo avesse ordinato. Quando ha dato l'incarico a me e a
Jean,
nessuno dei due era entusiasta dell'idea di dover partire. Non ti avrei
mai
lasciata. Noi-, e, mentre stava parlando, Sasha gli aveva puntato gli
occhi
dritto nelle pupille, come trepidante, -siamo una squadra, no?-.
La ragazza aveva stretto le mani
intorno alla propria pinta, portandosela alle labbra. -Sì-,
aveva annuito dopo
una lunga sorsata, -siamo una squadra-.
A Connie era sembrato di rilevare una
nota di delusione nella sua voce, ma si era subito detto che
probabilmente non
era così. Quanto gli sarebbe piaciuto, però, che
davvero Sasha provasse per lui
un sentimento più grande della semplice amicizia! A distanza
di anni e
ripensando a quell'episodio, si disse che forse allora ci aveva visto
giusto.
Peccato non poterne avere l'assoluta certezza.
-Se hai qualche dubbio su di me, pensa
che la birra qui è sempre buonissima. Anzi, forse
è persino migliorata-, aveva
aggiunto, cercando di smorzare l'atmosfera un po' tesa che si era
creata.
-Su questo posso darti ragione. La
bionda, per lo meno, è ottima-.
-Anche la scura. Dovresti provarla,
qualche volta. Vuoi assaggiare?-.
-Mh...-.
-E dai!-, aveva insistito lui. -Solo
un sorso!-.
-Non sono molto convinta. E poi
abbiamo sempre fatto così, a te la scura e a me la bionda.
Perché vuoi
cambiare?-.
-Non è cambiare, ma provare. Su,
assaggiala-.
Le aveva porto il boccale e Sasha, pur
riluttante, lo aveva afferrato, bagnandosi appena le labbra con la
bevanda
ambrata. -No-, aveva scosso la testa, riconsegnando tutto a Connie,
-non fa per
me. Ma che gusti orribili hai?-.
Lui aveva riso di fronte
all'espressione quasi disgustata della ragazza – che si era
subito rifatta la
bocca con la sua bella bionda – poi aveva finito di bere a
sua volta la propria
scura. Solo in un secondo momento si era accorto di aver sorseggiato
nello
stesso punto in cui le labbra di Sasha avevano incontrato il vetro
spesso del
boccale. Quel pensiero lo aveva agitato e aveva ringraziato il Cielo
che fosse
buio, certo di essere arrossito.
I minuti successivi li avevano
trascorsi per lo più in silenzio, finendo di gustare le
birre senza sforzarsi
di parlare di qualcosa. Molti argomenti li avevano esauriti nel corso
della
cena e non c'era stato nient'altro in particolare da raccontarsi.
Eppure quel
silenzio a Connie era sembrato comunque carico di tensione, nonostante
il tentativo
di sdrammatizzare che aveva messo in pratica poco prima. Ricordava di
aver
desiderato che fosse Sasha a iniziare un nuovo discorso, ma la ragazza
pareva
troppo assorta, troppo presa da pensieri che di solito non offuscavano
la sua
spensieratezza. Connie stesso era concentrato a riflettere su alcune
cose che
lei aveva detto durante la serata, analizzandole una ad una nella
speranza di
trovare indizi che provassero un cambiamento dei sentimenti che lei
provava nei
suoi confronti. Per quanto avesse ragionato, non era comunque riuscito
a cavare
un ragno dal buco. Sì, in due occasioni il tono della voce
di Sasha era stato
molto diverso dal normale, senza contare che le era parsa davvero
rammaricata,
però... A quei tempi, la somma di questi fattori non gli era
parsa una
testimone sufficiente di un possibile interesse della ragazza. Ora,
trascorsi
molti anni, Connie non poteva fare altro che darsi dello stupido.
-Sai-, aveva provato a dire a un certo
punto, senza sapere bene da dove cominciare, -a volte penso che, quando
mi sono
arruolato, non avrei mai immaginato di incontrare un gruppo di persone
che
sarebbero diventate così importanti per me. A dire il vero,
non avrei neanche
immaginato di restare vivo tanto a lungo-. Si era sforzato di ridere
anche per
notare la reazione di Sasha, ma la ragazza era semplicemente rimasta ad
ascoltare. -Quando ti ho conosciuta, mi sei sembrata solo una pazza che
aveva
voglia di sfidare l'Istruttore. Credo proprio che non
dimenticherò mai tutti
quei giri di campo che Shadis ti fece fare dopo la storia della patata-.
-Nemmeno io, se è per questo-, era
rabbrividita lei a quel ricordo.
-Ti ho osservata per tutto il tempo,
quella volta. Ero curioso di sapere se e a quanti giri ti saresti
fermata-.
-Non ne avrei fatto nemmeno uno, se avessi
potuto. È stata un'ingiustizia-.
-E invece li hai fatti tutti.
Cinquanta giri di campo senza fermarti mai. Ho pensato che,
sì, sicuramente eri
scema, ma anche molto simpatica-.
-Quindi è così che mi hai considerata,
prima di conoscermi meglio? Un'idiota e basta?-.
-No, affatto. Ho solo pensato che
probabilmente saremmo potuti andare d'accordo. E ora, sei anni dopo,
eccoci
qui, seduti ad un tavolino mentre finiamo di bere due birre prese in un
locale
che proprio io ti ho fatto conoscere-.
Le aveva sorriso e finalmente aveva
visto il volto di Sasha distendersi come era accaduto nel pomeriggio,
quando
gli era corsa incontro per abbracciarlo. Vedendo i suoi occhi
illuminarsi,
Connie aveva percepito il cuore fargli un salto nel petto,
evidentemente colto
impreparato dalla bellezza semplice che emanavano.
-Sei la persona più importante tra
tutte quelle che conosco, non dimenticarlo mai-, le aveva detto. -Tu e
Jean
siete... Speciali-.
Non era stato in grado di decifrare il
significato dell'espressione sul viso della compagna di Squadra, ma le
sue
speranze si erano infrante quando lei gli aveva domandato, quasi in un
sussurro: -Come fratelli?-.
Quella parola aveva avuto il sapore di
una sentenza. Il martello inesistente di un giudice immaginario gli
aveva battuto
contro la parete dello stomaco, privandolo per alcuni secondi del
fiato.
Avrebbe voluto rispondere che no, non li considerava suoi fratelli.
Jean sì,
ovvio, ma lei... Lei no. Lei era ben più di una sorella, ben
più di un'amica.
Era...
-Sì-, gli era uscito dalla bocca
meccanicamente e senza alcuna consapevolezza, -fratelli-.
Per un istante aveva visto Sasha
rabbuiarsi, poi, senza preavviso di sorta, la sua bocca si era
spalancata in un
grande sorriso e lei aveva aggiunto: -Allora io e te siamo come
gemelli! Siamo
praticamente identici, se escludiamo la tua pessima passione per la
birra
scura-.
Lui aveva riso a sua volta, ma la
voglia di smentire tutto aveva continuato ad essere grande. Si era
detto già
mille volte di dover trovare il momento giusto per dirle quanto teneva
a lei,
quanto la volesse al suo fianco a
prescindere dalla Squadra, ma l'occasione non era mai
arrivata e anche
quella sera era scivolata via proprio quando il discorso era ormai
giunto al
suo punto centrale. Perciò, spinto dal grande rimpianto
provato, era stato
vicino a dirle la verità. Ma poi...
-Sasha, c'è qualcosa che vorrei
dirti-.
La risata della compagna si era spenta
di colpo. -Sì?-.
-Ecco... Hai presente quello che tu,
Mikasa e Armin stavate dicendo a cena? Intendo la questione del piano
contro
Marley-.
-Sì, certamente. Perché?-.
-Niente, sono solo un po' preoccupato.
Infiltrarci nei ranghi di quell'esercito, valutare la situazione
direttamente
sul campo...-.
-Connie, cosa devi dirmi?-.
-Be', niente di importante, alla fine.
Anzi, sai cosa ti dico? È un discorso troppo stupido e
adesso dobbiamo
concentrarci sulla prossima missione. Ne parleremo quando torneremo da
Marley,
d'accordo? Magari proprio qui, davanti a un altro bel boccale di birra.
Sasha aveva fatto spallucce,
racimolando con la punta della lingua l'ultima stilla di schiuma fatta
scivolare fin sul bordo del boccale: -Come vuoi. Non scordarti niente,
perché
vorrò saperlo-.
-Contaci. Che ne dici se andiamo a
dormire, adesso? Comincio ad essere un po' stanco-.
-Ah, ma allora anche tu ti stai
rammollendo!-.
-Cosa? No!-.
-Allora facciamo una gara. Chi arriva
prima all'accampamento domani mattina farà doppia colazione
con il cibo
dell'altro. Sei pronto?-.
-Ma non possiamo iniziare a correre
nel bel mezzo del...-.
-VIA!-.
Sasha era scattata dalla sedia,
percorrendo il lungo marciapiede a grandi falcate. Connie aveva avuto
giusto il
tempo di rendersi conto di ciò che stava succedendo, poi, a
fatica, aveva
iniziato a seguire i passi della compagna, travolto dalla voglia di
prendersi a
pugni per aver perso il coraggio di dirle quanto fosse davvero speciale
per
lui.
La birra adesso era veramente finita.
Davanti ai suoi occhi non restava altro che il fondo ancora avvolto da
una
leggera schiuma biancastra ormai sul punto di dissolversi. Assieme a
lei, si
diradarono anche i ricordi su cui aveva tanto a lungo indugiato.
Tre incontri, tutti nello stesso bar.
In quel momento, tra l'altro, stando seduto allo stesso tavolino
dell'ultima
volta.
Il boccale di bionda se ne stava
intonso proprio di fronte a lui, lì dove lo aveva poggiato
la cameriera.
Sembrava gustoso, ma Connie non fu sfiorato nemmeno per un secondo
dall'idea di
poterlo assaggiare. No, la bionda non era per lui. Era
sempre stato così.
Restò ancora un po' a fissare
quell'oro liquido, stavolta senza pensare a nulla. Si sentiva svuotato.
Nemmeno
la birra scura che gli aveva tenuto compagnia era riuscito a riempirlo.
Così
come non ci erano riusciti tutti quei ricordi, che, anzi, non avevano
fatto
altro che scavare ancora più a fondo.
Si frugò nella tasca della giacca e
trovò, tra i resti di un fazzoletto usato e la carta di una
caramella, una
piccola banconota stropicciata. La tirò fuori, la distese
sul tavolo e ci passò
sopra per tre volte il boccale vuoto, sperando di eliminare le pieghe.
Quando
ebbe completato l'operazione, si alzò, facendo attenzione a
non far stridere la
sedia, e bloccò la banconota con il boccale per evitare che
il vento la
portasse via come quelle due foglie che aveva visto poco prima uscendo
di casa.
Fissò un'ultima volta la bionda e la sedia vuota destinata
ad un cliente che
non sarebbe mai arrivato, poi, con il cuore pesante, si
allontanò dal bar,
lasciandoselo alle spalle.
Proseguì la propria camminata lungo una
strada secondaria. Svoltò a sinistra alla fine del vicolo,
poi ancora a
sinistra e infine a destra, ritrovandosi su una delle vie principali di
Trost.
Fiancheggiò la piazza principale e il monumento ai caduti in
guerra, ma non gli
rivolse la minima occhiata. La sua meta era un'altra.
Camminò per parecchi minuti standosene
sul corso, prima di immettersi di nuovo in una viuzza laterale. Si
trattava di
una strada che conduceva lontano dal centro, in una zona periferica
considerata
molto importante da tutta la cittadinanza. Per lui, poi, era diventata
fondamentale.
Percorse la strada rimanente cercando
in tutti i modi di non farsi dissuadere dal forte vento che aveva di
nuovo
cominciato a soffiare. Parlando a se stesso, si incitò a
sfidare il freddo: chi
come lui aveva visto gente morire non poteva di certo farsi abbattere
dal primo
gelo, seppur anticipato a settembre.
Ben deciso a continuare, giunse infine
a destinazione. Si era lasciato indietro le ultime abitazioni e adesso
aveva
davanti a sé solo una distesa piatta delimitata da un basso
muretto e da una
bella recinzione in ferro battuto, il tutto completato con un enorme
cancello
che era ancora spalancato, nonostante fosse ormai prossimo l'orario di
chiusura.
Connie oltrepassò il cancello e si
diresse verso uno dei punti più lontani della zona.
Superò molti suoi
commilitoni, abbandonati da quegli stessi cari che avevano tentato di
proteggere in vita, e non si fermò a commemorare la statua
eretta in onore del
Comandate Erwin Smith. Proseguì fino al limitare dell'area,
finché non si
fermò.
La luce opaca del primo tramonto
autunnale illuminava fiocamente i caratteri dorati che spiccavano sulla
lapide.
Non un disegno, non una fotografia a ricordare chi giaceva nella terra
ancora
umida per la pioggia dei giorni precedenti.
Connie restò in piedi a fissare quel
nome. Lo ripeté tra sé e sé, sperando
che prima o poi potesse perdere il suo
significato. Invece no: il senso di quelle lettere rimaneva
lì, scolpito nella
sua mente, rivangando tra i ricordi che le onde della memoria avevano
riportato
a riva.
SASHA BRAUS
Paradis, 26 Luglio 835 - Marley,
854
La Patria le rende onore
-La
Patria le rende onore-,
lesse a voce alta, stringendo i pugni nelle tasche.
-Quale onore? Quello di una scritta dorata su una lapide dimenticata?
Senza una
medaglia al valore perché è morta prima di poter
assaporare finalmente la
pace-.
Sentì
riversarsi nel vuoto dentro di
sé un'onda di ira repressa. Avrebbe voluto urlare o
distruggere qualcosa, ma
sapeva di non poter compiere nessuna delle due azioni.
Osservò ancora la
lapide.
Non le avrebbe mai
potuto dire la
verità. Non c'erano e non ci sarebbero più stati
incontri al loro bar
preferito. Non ci sarebbero stati altri scherzi o prese in giro, non
una parola
o un abbraccio. Non ci sarebbe stato niente come, d'altra parte, non
c'era mai
stato nulla. All'ira si unì altro rimpianto, poi vennero le
lacrime.
-Da quando non ci
sei, un minuto è
come un giorno, un giorno come un anno e un anno come un secolo-,
singhiozzò,
cercando di asciugarsi le guance. -Ora sono io a dirti che non hai idea
di
quanto mi manchi-.
Pianse e represse
altri singulti, ma
gli fu sempre più difficile placare il dolore che gli
premeva nella gola.
Sentiva le corde vocali impastate da un grumo di sofferenza,
così come la mente
era soffocata dai ricordi che si affastellavano l'uno sull'altro,
portandogli
davanti agli occhi solo le ultime, terribili immagini della vita che
pian piano
abbandonava Sasha. La memoria lo condannò ancora una volta a
rivivere tutto: il
tonfo di qualcuno o qualcosa che sbatteva contro il dirigibile, il
rumore di
uno sparo e poi lei che cadeva molle a terra, tra sangue e capelli
sparsi,
accasciata come una martire. Le labbra che diventavano violacee, gli
occhi
contornati di nero che pian piano si appannavano, ultime, stupide
parole
pronunciate nel male provocato da una singola pallottola.
Poi il cuore che
smetteva di battere.
E il lamento dei compagni che saliva al cielo, terribile nenia che
accompagnava
la sua anima verso l'infinito e indefinito mondo della morte.
Il pianto si fece
più forte. Connie
non riusciva calmarsi: le tempie pulsavano, il nodo alla gola gli
impediva di
respirare e i ricordi lo assalivano colpendo come pugnali affilati.
Finì in
ginocchio, sporcandosi il bordo della giacca e i pantaloni con la
fanghiglia
del cimitero.
-Tu eri tutto per
me-, singhiozzò
ancora. -Avrei lasciato l'esercito, un giorno, se te ne fossi andata.
Ti avrei
seguita ovunque per restarti vicino. Ma tu non te ne sei mai andata, te
l'hanno
impedito. E io, senza te, non ho nessuno da cui tornare-.
Altre lacrime
caddero a bagnare la
terra già umida, confondendosi tra i radi fili d'erba.
Connie tentò di farsi
forza, prese dalla tasca ciò che rimaneva del vecchio
fazzoletto e si soffiò il
naso. Per parecchi minuti rimase a contemplare i caratteri dorati che,
muti, lo
fissavano senza potergli rispondere. Aspettò pazientemente
che la crisi di
pianto passasse, prima di poter aggiungere altro. Parlò solo
quando si sentì
pronto. Si rialzò, si spolverò i pantaloni,
macchiandosi inevitabilmente i
palmi delle mani, e poi restituì un'ultima occhiata alla
lapide.
-Forse per te ero
davvero solo come un
fratello gemello. Ma per me... Eri tu la
mia casa-.
Angolo dell'Autrice
Piccolo - ma nemmeno tanto - omaggio alla Springles, trattata in modo becero da Isayama. Non so voi, ma la morte di Sasha è stata (e cito le parole di Nikolo nel capitolo 107) "troppo stupida per essere vera". Stupida per come è stata messa in scena, stupida perché le sue ultime parole sono state "Voglio la carne", stupida perché un personaggio ormai entrato già da tempo immemore tra i principali di SNK non può, dopo la bellezza di oltre cento capitoli, essere ancora trattato come una macchietta da quattro soldi. Spero che Isayama non riservi un trattamento simile anche a Connie, perché, davvero, sarebbe imbarazzante.
Grazie a tutti i coraggiosi lettori che sono giunti fin qui. Mi farebbe davvero piacere ricevere un parere da chi sta leggendo il manga, così da aprire, se possibile, una piccola discussione tra appassionati ^^
Alla prossima!