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Autore: SusanTheGentle    04/09/2018    13 recensioni
Ricordo il periodo delle medie…
Nella mia scuola c’era un ragazzo che non parlava quasi con nessuno. Era diverso da tutti i miei compagni, privo di quell’aria anonima tipica degli studenti della Toho, la carnagione un po’ più scura di un comune giapponese, come se avesse passato tutta la vita sotto il sole. E, come il sole, brillava di luce propria. Fu per questo che attirò la mia attenzione.
Lui spiccava prepotente tra la folla, simile a un felino dentro un recinto di pecore tutte maledettamente uguali.
Genere: Romantico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Danny Mellow/Takeshi Sawada, Ed Warner/Ken Wakashimazu, Kojiro Hyuga/Mark, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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3. Con il piede sbagliato
 
 
 
Una giornata iniziata male era sempre sinonimo di giornata orrenda.
Mark avrebbe potuto descrivere così quel mattino. Erano solo le nove e glie n’erano già capitate di tutti i colori.
Dopo lo scontro con la ragazza con la bici si era sporcato i pantaloni di terra ed erba, e se fosse arrivato in classe con la divisa in disordine i professori avrebbero avuto da ridire.
Se doveva farsi notare preferiva aspettare di scendere in campo davanti a tutta la scuola.
Lasciatosi alle spalle il fiume proseguì di corsa l’ultimo isolato. Rallentò, spazzolandosi i calzoni alla bell’è meglio, quando udì la campana suonare in lontananza. Era la prima o la seconda campanella? Se era la seconda era fritto.
Appuntò mentalmente che aveva bisogno di un orologio. Con la paghetta delle ultime consegne dei giornali poteva comprarsene uno a pochi yen.
Mark scattò come un fulmine attraverso la strada, verso il cancello della scuola. Non vide un buco sul marciapiede e vi infilò dentro una scarpa. Imprecando in tutte le lingue che non conosceva, liberando la caviglia e ringraziando di non essersela storta.
Dov’era la manutenzione scolastica?
Si infilò nell’atrio, sorpassò gli armadietti e puntò le scale, quando udì una voce esclamare: «Mark, cosa fai?»
Era il mister Kitazume, in cima alla prima rampa di scale.
«Porta subito quel pallone nel tuo armadietto. Non sai che è vietato introdurre un oggetto simile nell’istituto?»
Merda, il pallone…
«Mi scusi, ha ragione». Se ne stava completamente dimenticando. Lo metteva sempre nell’armadietto. Poteva portarlo a scuola ma non in classe.
Mark tornò indietro in tutta fretta, sgommando con la suola delle scarpe sul pavimento lucido del corridoio producendo un suono stridente.
«Apriti, apriti»
Armeggiò con il lucchetto, aprendo e richiudendo l’anta così velocemente che si schiacciò un dito. Maledisse chiunque, sempre in svariate lingue sconosciute.
Sorpassò l’allenatore, un inchino accennato e su di corsa per le scale.
«Mark!»
Cosa, ancora? «Sì, mister?»
«Le scarpe!» esclamò indignato Kitazume.
Merda, le scarpe… Non le aveva cambiate. (1)
Mark ritornò agli armadietti, aprì il suo e agguantò il paio di ricambio, ficcandoci dentro quelle che aveva indosso. Una cadde, la rimise dentro, poi cadde anche l’altra, poi il pallone. Mark disse più parolacce in quei pochi secondi che in tutta la sua vita passata, presente e futura.
Era in un ritardo mostruoso.
«Buona giornata, mister». Il ragazzo si lanciò su per le scale a tutta la velocità possibile. Se Kitazume aveva risposto al suo saluto, non l’aveva udito.
Arrivò trafelato a lezione già inoltrata. Spalancò la porta della classe, ottenendo l’attenzione generale. Tutti gli sguardi si erano puntati su di lui, compreso quello dell’inflessibile professoressa di Giapponese. Alcuni bisbigliarono ma lui era troppo concentrato sull’espressione della prof.
Mark la detestava dal primo giorno, non sapeva bene il perché. Forse era quella sua aria da aguzzina, gli occhiali ovali con le lenti all’insù e quelle gonne improponibili da governante di inizio secolo.
«Vuoi accomodarti o hai deciso di seguire la lezione in piedi, Lenders?»
«Mi scusi per il ritardo, professoressa Amada». Mark fece un inchino profondo.
«La tua giustificazione?»
Mark rifletté: poteva dirle di essersi fermato ad aiutare una compagna che si era quasi ammazzata dentro il fiume con la bici?
No.
A parte il fatto che sarebbe stata una mezza bugia, perché aveva piantato l'operazione di soccorso a metà. 
«Ho avuto un contrattempo»
«Quando si ha un contrattempo è bene avvisare la scuola del ritardo» puntualizzò la professoressa.
Geniale, pensò lui. Come la chiamava la scuola dal ciglio del fiume? Non avrebbe potuto nemmeno volendo .Impossibile tanto quanto prevedere che una ragazzina scema gli facesse perdere un sacco di tempo.
Mark fece un altro inchino rincarando le scuse, per poi prendere posto vicino a Ed.
Il portiere gli lanciò un’occhiata interrogativa.
Dopo, mimò Mark con la mano: la Amada era rivolta alla classe, non potevano rischiare che li vedesse parlare.
Warner era piuttosto curioso. Non era da Mark fare tardi a scuola. Agli allenamenti era sempre il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarsene. Alle elementari, quando ancora lavorava al chiosco di oden del signor Sugimoto e consegnava i giornali, Mark lasciava i compagni di squadra al campetto mezz’ora prima proprio per non rischiare di arrivare fuori orario al lavoro. Il suo migliore amico poteva avere tanti difetti, ma non si poteva proprio dire che fosse un ritardatario.
«Che ti è successo?» chiese Ed a bassa voce, quando finalmente l’insegnante si voltò per scrivere alla lavagna un esercizio di grammatica. Ed credeva si trattasse di questioni familiari: forse Mark aveva indugiato nell’aiutare la madre a vestire e far fare colazione ai fratelli più piccoli. O forse si era semplicemente svegliato tardi.
Mark si nascose dietro il libro di grammatica. «Una cretina mi ha quasi ammazzato con la sua stupida bici».
Dapprima perplessa, l’espressione di Ed cambiò rapidamente a divertita.
«Ridi, Warner, e le ragazze non avranno più commenti per il tuo sorriso smagliante»
Ed gli diede una gomitata nello stomaco da sotto il banco. «Non prendermi per i fondelli e non minacciare. Stavo solo cercando di immaginare la scena»
«Mi sembra piuttosto che tu abbia voglia di prenderle in questi ultimi tempi».
La voce dell’insegnante richiamò l’attenzione della classe. Mark recuperò in fretta l’astuccio e il quaderno, iniziando a copiare dalla lavagna.
«Più tardi ti racconto» fu l’ultima cosa che disse a Ed per tutta l’ora.
L’irritazione divampata in rabbia così a sorpresa ardeva ancora. Sfogandosi con Ed sarebbe riuscito a smaltirne un bel po’.
Non era mai un buon segno quando le giornate iniziavano col piede sbagliato.
Era tutta colpa di lei se si sentiva così sin dal mattino. Tutta colpa della ragazza con la bici.
 
 
Jem Edogawa aspettava la sua amica da diversi minuti davanti al parcheggio delle biciclette della scuola. La puntualità non era il punto forte di Kira, ma quel mattino ci stava mettendo veramente troppo. Jem iniziò a preoccuparsi. Fu sul punto di passare in segreteria a domandare se per caso la madre di Kira avesse chiamato per avvisare che la ragazza sarebbe stata assente.
Proprio nel momento in cui rifletteva sul da farsi, però, ecco spuntare un'arrancante Kira Brighton che si trascinava dietro la sua bici.
Jem si chiese perché la portasse a mano e non vi fosse seduta sopra. Kira adorava quella bicicletta tanto quanto amava i suoi pattini da ghiaccio.
Dopo aver continuato ad osservare la figura dell’amica avvicinarsi, Jem iniziò a intuire che la bicicletta aveva qualcosa di sbagliato. Quando infine Kira fu a pochi metri da lei, riuscì finalmente a giudicare in che stato si trovavano entrambe.
«Kira-chan, che hai combinato?!»
«Un deficiente mi ha quasi spedita nel fiume con la bici!».
Lo sguardo cupo, i capelli in disordine, un ginocchio che ancora sanguinava e la cartella chiusa a metà, Kira trasportava la sua preziosa bicicletta attraverso il cortile deserto.
Jem la seguì da vicino, guardandola cercare di raddrizzare quello che era ormai una specie di trabiccolo.
«Ma come è successo? Chi era?»
«Non ne ho la minima idea! È spuntato fuori dal nulla» iniziò a spigare Kira, sistemando la bicicletta nel vano apposito del parcheggio. «Stavo pedalando in tutta tranquillità, quando a un tratto compare questo energumeno con un pallone da calcio che, tra parentesi, quasi mi colpisce in pieno. Ero proprio sulla curva del fiume. Ho dovuto sterzare all’ultimo per schivare la palla e non investire lui, solo che la manovra non mi è riuscita tanto bene…»
«Sei finita nel fiume?!» domandò Jem allarmata.
«Non io, la bici. Non vedi com’è conciata?».
«Nemmeno tu hai un bell’aspetto, Kira-chan»
«Grazie tante… Andiamo, sta dritta!». Kira trafficò per un po’ con la sua bicicletta. Anche con il cavalletto abbassato faticava a reggersi in piedi. Il vero problema era la ruota anteriore: i raggi si erano danneggiati nell’impatto della caduta.
«Ecco!» fece speranzosa. Provò a lasciarla andare, le braccia tese, pronta a sorreggerla nel caso fosse caduta di nuovo.
E infatti cadde.
La ruota sgangherata sbilanciò tutto il peso del mezzo.
«È inutile, è distrutta!». Kira si accasciò contro la bicicletta, piangendo amare lacrime. Un secondo dopo si rialzò con sguardo omicida. «Se lo becco lo ammazzo!».
«Hai detto che aveva il pallone…» Jem si fece pensierosa. «Era uno studente della nostra scuola?»
Kira rifletté. «Ora che mi ci fai pensare, credo avesse la divisa della Toho»
Jem era curiosa di scoprire l’identità del ragazzo in questione, mentre a Kira non importava un fico secco. Lei voleva solo trovarlo e dirgliene quattro.
«Che ne dici di andare prima in infermeria?» suggerì Jem. «Sanguini, non sei un bello spettacolo. Se ci sbrighiamo faremo in tempo prima dell’inizio delle lezioni, e così potrai raccontarmi com’è andata».
Salirono in infermeria, dove rimasero più del dovuto. L’infermiera era un tipo tanto apprensivo che costrinse entrambe nel suo ufficio, chiedendo vita e miracoli sull’accaduto. Era una donnona alta e corpulenta, dal viso rubicondo. Somigliava tanto a una di quelle zie da romanzo che pizzicano sempre le guance del povero nipote di turno.
Per sua fortuna, Kira non si prese i pizzicotti; in compenso arrivò una bella ramanzina. L’infermiera le ordinò di non muoversi dall’infermeria finché il ginocchio non avesse smesso di sanguinare.
«Farò tardissimo a lezione!» protestò la ragazza, soffiando sulla ferita. Il disinfettante bruciava da morire.
«Ci penserò io a dire al professore perché non sei arrivata in classe in tempo, non ti preoccupare» la rassicurò Jem, che era stata obbligata a farsi visitare per far contenta l’infermiera.
«Voi giovani non avete la minima considerazione per la vostra salute» ricominciò questa, quando Jem fu uscita. «Fa vedere in che condizioni sono le altre sbucciature».
Kira sospirò e si lasciò mettere garze e cerotti anche sui gomiti e l’altro ginocchio. Tutta quell’apprensione le parve eccessiva. Dopotutto era solo ruzzolata giù da un pendio erboso. Insomma, roba da nulla se paragonato a quando si era rotta il gomito dopo una brutta caduta sulla pista da ghiaccio. Il medico da cui mamma l’aveva portata non l’aveva fatta così lunga. Essere una sportiva comprendeva il potersi ferire molto peggio di così, era abituata a lussazioni e ammaccature. Quelle sbucciature nemmeno facevano così male.
A far più male era l’idea di quel che avrebbe detto la mamma quella sera, quando avesse scoperto in che stato si trovava la bicicletta. Le si aggrovigliava la pancia se ci pensava.
La mamma non era il tipo che ti accompagnava da un ciclista a verificare se era possibile far qualcosa per la ruota rotta. Più probabile l’arrivo di un rimprovero, e che la bici fosse poi rinchiusa in cantina – o peggio, che finisse direttamente nel cassone dell’immondizia – e che mamma avesse aggiunto di scordarsene una nuova almeno fino a Natale.
Risa era così, intransigente su tutto.
«Mi raccomando» disse ancora l’infermiera. «Non dovrai assolutamente prender parte agli allenamenti questo pomeriggio, intesi?»
«Ehm…sì, sì». Kira se ne andò dall’infermeria dopo un quarto d’ora, acciaccata e abbattuta, arrivando in classe a passo svelto quanto le gambe glielo concedevano. La pelle lacera sulle giunture tirava e dava un fastidio tremendo. Ma non avrebbe rinunciato ad allenarsi, l’infermiera poteva attaccarsi al primo tram che passava.
Il professor Holland, l’insegnante di matematica, non si pronunciò sul suo ritardo, tanto che Kira pensò che le scuse di Jem avessero funzionato.
Purtroppo, a fine lezione ebbe una brutta sorpresa.
«Brighton, vieni un momento qui» le disse il professore.
Kira si alzò in fretta e andò alla cattedra. «Sì, signore?»
«Sei arrivata tardi, stamani»
Kira si scusò con un inchino. «Mi dispiace. Ho avuto un piccolo incidente stamattina e ho dovuto recarmi in infermeria. Per questo ho tardato»
«Sì, lo so, Edogawa me lo ha spiegato. Niente di rotto?»
«No, niente»
«Mi fa piacere. Tuttavia, questo non ti esonera da un punto di demerito». Holland fece scattare la chiusura della valigetta. «Alla fine delle lezioni ti fermerai a fare le pulizie in classe»
Kira scattò sulla difensiva. «Non è il mio turno di pulizie, oggi» (2)
«Lo so»
«Ho gli allenamenti di pattinaggio, nel pomeriggio!» protestò più viva. «È importante!»
Al professore dispiacque ma le regole erano regole. «La puntualità è essenziale quando si ha un dovere da compiere. Il dovere di uno studente è lo studio, e tu sei arrivata in ritardo venendo meno a parte di quel dovere. Non è una punizione, è solo un richiamo, Brighton».
Il professor Holland salutò e uscì dall’aula.
Kira rimase davanti alla cattedra a fissare il nulla. Rimanere per il turno di pulizia significava perdere almeno venti minuti di allenamento.
Non era giusto.
Possibile che quella scuola fosse così severa? Le medie erano davvero diverse dalle elementari. La mamma aveva avuto ragione a metterla in guardia. E pensare che Kira aveva creduto fossero soltanto esagerazioni. Bastava così poco per punire uno studente? Perché Holland poteva dire ciò che voleva, per lei quella era una punizione.
«Non ci posso credere» sbuffò tornando al posto.
Jem la guardò preoccupata. «Ti ha castigata per il ritardo?»
«Pulizie extra. Salterò l’inizio degli allenamenti»
«M-ma il mister Kanagawa ha detto che questa settimana cominciamo a prepararci per la festa dello sport»
«Lo so, non mi ci far pensare». Kira appoggiò le braccia al banco e vi posò il mento. Avrebbe deluso la signorina Fukushima non presentandosi puntuale agli allenamenti. La co-allenatrice del club puntava molto su di lei, glielo aveva fatto intuire sin dalla prima lezione.
La Fukushima programmava di far partecipare anche le nuove leve all’annuale festival sportivo che si sarebbe tenuto in giugno. Per tradizione, da quando era nato il team di pattinaggio, i suoi allievi aprivano la manifestazione scolastica con un’esibizione collettiva. Kira voleva pattinare insieme ai suoi senpai. Non poteva saltare nemmeno mezzo secondo di allenamenti se voleva mantenere la fiducia che l’allenatrice riponeva in lei.
«Mi spiace, Kira-chan. Forse avrei dovuto essere più convincente con Holland»
«Ma quale mi dispiace, non è mica tua la colpa, Jem» la rassicurò Kira. «La colpa è dell’energumeno che mi ha tagliato la strada stamattina!». Alzò un pugno in un gesto determinato. «Lo troverò! Mi deve delle scuse e una bici nuova!». 
 
 
 
Alla fine della prima ora, Mark ripercorse insieme a Ed l’incidente – anzi, gli incidenti – di quella mattina. I due ragazzi se ne stavano sulla porta, come molti altri studenti delle altre classi, a sgranchire un po’ le gambe mentre i professori veleggiavano da un’aula all’altra per il cambio d’ora.
«Ora capisco perché non hai trovato una scusante adatta. Non è facile giustificare una serie di disgrazie» fu il commento di Ed. Non aveva mai abbandonato l’espressione divertita. «Come hai fatto a farti quasi travolgere da una biciletta? Non guardavi la strada?»
«Certo che guardavo la strada! Mi sono solo…distratto un attimo»
«Mark Lenders che si distrae e perde il controllo?»
«Ero impegnato in un palleggio particolarmente difficile»
«E la povera malcapitata dove l’hai lasciata?»
«L’ultima volta era ancora al fiume» disse Mark con nonchalance. «Poi…boh. Sarà arrivata a scuola, presumo»
«L’hai abbandonata?!»
«Abbandonata…che esagerazione». Non l’aveva abbandonata, pensò Mark – il senso di colpa che faceva capolino da un angolo misero misero della coscienza – aveva solo lasciato che il destino facesse il suo corso.
Ed si corresse. «Okay, diciamo che hai lasciato una ragazza nel fiume. E' la stessa cosa». 
«Non era nel fiume, era in riva al fiume. L’acqua era bassissima in quel punto».
«Va bene, ma l’hai lasciata sola»
«Cavolo, Warner, perché la fai tanto lunga? Mica l’ho affogata!»
Ed si coprì la faccia con una mano. «Da te me lo potrei aspettare»
Mark incrociò le braccia ed emise un verso annoiato.
«Lenders?»
Era la professoressa Amada che usciva dalla classe. Mark e Ed si spostarono all’istante per lasciarla passare.
«Grazie, ragazzi. Lenders, visto il tuo ritardo, alla fine delle lezioni dovrai trattenerti in classe alcuni minuti in più: recupererai il tempo che hai perso questa mattina»
«Cosa? Perché?» esclamò Mark, risentito.
«Te l’ho appena spiegato il perché, Lenders. La puntualità fa parte della disciplina che impartiamo in questo istituto. Se gli alunni non avvisano la scuola, siamo costretti a dare una punizione per far capire loro l’importanza di certe mancanze. Una persona puntuale è anche una persona affidabile». La Amada calcò sull’ultima parola.
«Non mi è stato possibile avvisare, altrimenti lo avrei fatto» replicò Mark con vivacità. «Non sono una persona incoerente».
Ed accennò un movimento della mano, come a intimargli di non esagerare.
La Amada strinse le labbra. Non ammetteva un atteggiamento ribelle nella sua classe. Lei era l’insegnante e lui lo studente. I ruoli erano chiari.
«Misura il tono, Lenders»
Mark si zittì, ingoiando i tanti insulti e le rimostranze che gli salivano alle labbra. Avrebbe voluto dirle ‘non è stata colpa mia’, ma suonava terribilmente classico e patetico...
«Un domani potresti trovarti ad arrivare tardi sul lavoro, Lenders, e all'ora non avrai un insegnante indulgente come lo sono io a risolvere la faccenda con un provvedimento tanto semplice». La professoressa raddrizzò gli occhiali sul naso. «Rimarrai in classe e userai quel tempo per fare i compiti che ti ho assegnato. Ti ho lasciato il foglio con degli esercizi sul banco. Li voglio pronti per le tre. Consegnali in sala professori, sarò là».
«Sì» ripose Mark afono.
«Bene. Buona continuazione, ragazzi».
La professoressa Amada scivolò fuori dall’aula. Non appena fu lontana, Ian Mellin e Nicholas Loson accorsero per sapere che cos’era accaduto.
«Ti trattiene in classe alla fine delle lezioni?» fece Ian. «Non sei arrivato così in ritardo! Io arrivo sempre in ritardo ma non ho mai…»
Ed gli diede di gomito. «Non rigirare il coltello nella piaga, se non vuoi che esploda».
«Scusa, Mark» disse Ian.
Ma Mark sembrò ignorarlo. Tornando al posto trovò sul banco un foglio scritto di pugno dalla professoressa con una serie di esercizi grammaticali. «Evidentemente, per i suoi standard, tu arrivi in orario, Ian»
«Poteva anche fartela passare, dopotutto» aggiunse Nicholas.
Mark strinse il foglio degli esercizi nel pugno, gettandolo sotto il banco e augurandosi che la Amada inciampasse in quella palandrana che portava addosso.
Per completare quei compiti extra occorrevano parecchi minuti. Non poteva far tardi anche agli allenamenti! Kitazume non era ‘indulgente’ quanto la Amada…sempre se lei si potesse definire tale.
«Ci penseremo noi a parlare con il mister» lo incoraggiò Ed, cercando di tirargli su il morale. Ma quando Mark sfoderava il solito cipiglio, fargli cambiare umore era come sperare di vincere la lotteria.
«Sì, vedrai che parlerà lui alla Amada e le dirà che non puoi assolutamente restare in classe» disse Ian.
«A lei non importa niente se tu salti gli allenamenti» riprese Ed, «quella odia ogni tipo di attività fisica sulla terra. Ma a Kitazume importa eccome! Se gli spieghiamo perché ti ha messo in punizione sono sicuro che la reputerà una sciocchezza e ti dispenserà da questo stupido reclamo».
Mark giocherellava con la biro, picchiettandola ritmicamente sul quaderno. «Tu dici?». Riteneva arduo un gesto benigno da Kitazume, ma apprezzò il sostegno di Ed. «Va bene, proviamoci»
Ed annuì. «All’ora di pranzo andiamo a parlargli»
Così fecero.
Trovarono il mister nel suo ufficio, il quale li accolse con aria un po’ sospetta. Era assai raro che i ragazzi entrassero lì dentro se non era lui a chiamarli, o se non dovevano chiedergli qualcosa di urgente che riguardasse la squadra.
«Sicché volete l’esonero da una punizione impartita da un insegnante»
«Non noi, Mark» precisò Ed.
Kitazume rifletté. «Ho capito. Mi dispiace, non vi posso accontentare»
Quattro voci si unirono e mischiarono in protesta.
«Ragazzi, per favore! So benissimo che ai vostri occhi appare come una cosa da niente, ma secondo il giudizio della vostra insegnante non lo è. E ad essere franco, anch’io avrei penalizzato un ritardo del genere»
«Una manciata di minuti!» protestò Ed.
«Erano più di una manciata di minuti, Warner. Stamattina ho incontrato Mark io stesso, ed era molto in ritardo».
Ed sospirò, avvilito.
«Non ho tardato per pigrizia!» replicò Mark con enfasi. «Sarei entrato in classe in perfetto orario se non fosse stato per…» una stordita, cretina, imbranata, «un inconveniente che mi ha trattenuto».
«Che tipo di inconveniente?» indagò il mister.
«Ecco…ehm, una ragazza è caduta sulla strada mentre venivo a scuola e mi sono fermato ad aiutarla»
Bugia.
Ian e Nicholas si scambiarono un’occhiata. Ed – che sapeva la verità - strabuzzò gli occhi come un gufo.
«Non è vero!» sibilò. Se Mark non aveva fatto altro che insultare il ricordo di quella poveretta per tutta la mattinata!
«Taci» soffiò Mark. Non aveva tempo né intenzione di spiegare la faccenda a Kitazume.
«Un gesto gentile» si congratulò il mister. «Tuttavia mi dispiace, non posso scavalcare un mio collega. Se la professoressa Amada crede sia bene per Mark rimanere in classe, non sarò io a lamentarmi con lei»
«Ma mister, non sì è trattato di una violazione alle regole» esclamò Ian.
«Mister, per favore…» pregò Nicholas.
Sebbene non fosse totalmente contrario al punto di vista dei ragazzi, Kitazume non poteva mostrarsi parziale. Mark era senza dubbio la punta di diamante della squadra che stava costruendo, un elemento essenziale. Però, se avesse parteggiato per il ragazzo, sia Mark che tutti gli altri si sarebbero aspettati di venir salvati da lui ogni volta che fosse sorta una difficoltà.
Un po’ di disciplina non faceva male. Kitazume stesso era di quel partito.
«Non posso, ragazzi. Non fatemelo ripetere di nuovo. Adesso sbrigatevi e andate negli spogliatoi. L’intervallo del pranzo è finito, vi voglio sul campo tra dieci minuti. Mark, tu devi tornare in classe».
Amareggiati e arrabbiati, i quattro ragazzi uscirono dall’ufficio dell’allenatore. Ed, Nicholas e Ian tagliarono per gli spogliatoi e poi scesero in campo, ognuno al suo posto. Mark si trascinò di malavoglia di nuovo dentro l’edificio.
«Dov’è Mark? È assente?» chiese Eddie Bright.
La squadra si riunì attorno ai tre compagni di classe di Lenders per saperne di più, mentre si esercitavano ai rigori.
«Siete stai troppo ottimisti» disse Eddie, posizionando la palla sul dischetto. «Pensavate veramente che il mister esonerasse Mark dalla punizione della Amada?». Eddie tirò, angolato in basso a destra.
Ed si tuffò e agguantò la palla. «Tentar non nuoce, no?» disse rialzandosi. «Anche se, in effetti, non ci speravo poi molto. Sail, tocca a te tirare!»
«Mark deve stare attento» disse Lucas Milton, mentre Henry Sail si metteva in posizione. «Mia sorella è in seconda media e non brilla in grammatica. Fa parte del club di pallavolo, e l’anno scorso è stata costretta a perdere l’inizio di ogni allenamento perché la Amada la tratteneva in classe di continuo».
«Può farlo?» chiese Ian.
Lucas alzò le spalle. «Penso di sì, visto che lo ha fatto. Mia sorella dice che ogni anno prende di mira uno studente e lo tartassa per un po’. Per me è sadica»
«Non esagerare»
«No, è vero, Ian»
«A me non sembra così male» ribatté Steven Newton.
«Tu sei un secchione» lo apostrofò Eddie – che era in classe con Steven – come fosse un insulto. «Non fai testo. Per te gli insegnanti hanno ragione a prescindere»
«Bè, è una brava insegnante» disse ancora Steven. «Sì, ha un brutto carattere: è isterica, severissima e tutto il resto, ma basta prenderla per il verso giusto».
Ed parò il rigore di Sail e rilanciò. «Speriamo non si faccia prendere di mira lui» pensò a mezza voce.
Era proprio quello il punto: Mark non la prendeva affatto per il verso giusto. Non prendeva nulla per il verso giusto, né la Amada né nient’altro. Per lui il bicchiere era sempre mezzo vuoto. Finché ogni rimprovero si trasformava in un affronto personale, Ed dubitava che la vita scolastica del suo capitano cambiasse in positivo. Mark non era un ragazzo irrispettoso, solo non sopportava di essere comandato da nessuno, nemmeno dagli insegnanti. Questo poteva trasformarsi in un serio problema se la Amada avesse scelto Mark Lenders come prossima vittima sacrificale.
 
 
«Al diavolo…» mormorò a denti stretti, mordicchiando distrattamente il fondo della penna.
Mark era chino sugli esercizi di grammatica da quasi un quarto d’ora, ma non riusciva a concentrarsi. Si accorse di aver commesso un errore, fece uno scarabocchio e riscrisse la risposta esatta accanto. Erano esercizi abbastanza facili, la testa però non c’era, se ne stava da tutt’altra parte.
Le finestre dell’aula erano chiuse ma da fuori risuonava ugualmente l’eco dei campi sportivi.
Se non si decideva a terminare quei compiti extra non sarebbe mai sceso.
Concentrazione, concentrazione…
Cosa gli avrebbe detto il signor Kitazume? Ai suoi occhi sarebbe apparso come una persona indolente e ritardataria? Mark non voleva prendersi i rimproveri del mister. Poteva sopportare quelli di tutti gli insegnanti messi assieme ma non quelli del suo allenatore. Anche con Jeff Turner era stato così. Lo sport era la materia più importante, benché non fosse una materia. Per Mark, una lode dal mister significava molto più che un bel voto in pagella.
Cancellò un altro errore, quando l’inchiostro della penna lo abbandonò.
«Dai!». Mark la agitò un poco ma quella decise di non scrivere più. Frugò nell’astuccio, sperando di averne un'altra.
Non l’aveva.
Si alzò dal banco per prenderne una dal portapenne sulla cattedra. Fortuna che i prof ne lasciavano sempre alcune di riserva.
Tornò a sedere, chinandosi sul foglio con una mano tra i capelli.
Quella giornata si stava rivelando un record di sfortune dopo l’altra.
Maledetta strega dalla palandrana a fiori… e maledetta la ragazzina che aveva incontrato sulla sua strada quel mattino!
Era cominciato tutto così. Era colpa sua se la sfortuna sembrava esserglisi attaccata come una sanguisuga.
Palleggiava così bene su quel viale da solo, non c’era quasi mai nessuno a disturbarlo. Era diventato una specie di rituale: passare sotto la cortina di petali danzanti nella brezza mattutina era rilassante, e correre con il suo pallone lungo i muri delle case gli dava la giusta carica. Il viale dei ciliegi era la sua scorciatoia segreta, un angolo di pace che sbucava sul fiume, quasi surreale nella caotica Tokyo. Passava poca gente da quel punto. Non esisteva un vero marciapiede sul greto del fiume, solo una svampita poteva pensare di pedalare a tutta velocità dove non c’era che una striscia di asfalto tra il muro delle case e il pendio erboso. Camminarci – correre – era un conto, ma andarci in bici…
In pochi secondi aveva trasformato in un incubo quella che doveva essere una normalissima giornata di scuola.
L’incubo finì mezz’ora più tardi.
Mark sospettava che la Amada avesse calcolato appositamente il tempo in cui quegli esercizi andavano svolti.
Gettò dentro la cartella le sue cose alla rinfusa, uscendo a passo spedito dall’aula, diretto in sala professori. Accontentata la vecchia ciabatta poteva raggiungere i suoi compagni di squadra, sperando che il mister non se la fosse presa troppo. Avrebbe chiesto a Kitazume di potersi allenare mezz’ora in più. Quello sì che era un buon modo di recuperare il tempo.
 
 
Kira si concedeva un minuto di pausa, mentre aspettava che uno dei due due compagni di pulizie tornasse in classe con il secchio d’acqua pulita..
Aprì la finestra, godendosi il venticello primaverile. Forse prima di sera avrebbe piovuto, l’aria sembrava cambiata, più pungente. Guardò giù, verso i campi sportivi. Da quel lato dell’edificio si vedeva benissimo quello da calcio. Il tizio di quella mattina doveva essere tra i ragazzi che si stavano allenando in quel momento. Le sarebbe piaciuto scendere e andare dritta là in mezzo, scovarlo e costringerlo a chiederle scusa.
Non poteva passarla liscia dopo averla lasciata giù al fiume in quel modo.
Quando Kira si legava una faccenda al dito, non c’era verso di distoglierla.
Il compagno di classe tornò con il secchio. «Brighton, se vuoi puoi andare, ci pensiamo noi a finire. Dopotutto era il nostro turno di pulizia, non il tuo»
«Veramente?»
«Certo» disse il secondo compagno. «Però fatti mettere in detenzione più spesso, così ci aiuterai di nuovo e anche noi termineremo prima»
«Spiritosi! Non credo proprio. Voi finite prima ma io faccio tardi». Guardò il suo orologio da polso. Venti minuti persi. L’ultima volta, il coach Kanagawa aveva detto che quella settimana avrebbero scelto la musica di accompagnamento per l’esibizione collettiva. Ci sarebbe voluto più di qualche minuto per mettere d’accordo tutti. Forse non avevano ancora cominciato il vero e proprio allenamento.
«Bè, allora vado. Bye bye».
Kira uscì dalla classe e attraversò il corridoio correndo. Non c’era nessuno in giro, perciò nessuno l’avrebbe rimproverata. Doveva sempre starsene tanto composta e zitta durante le lezioni, era una tale noia. A lei piaceva correre, era una ragazza energica. Mamma però voleva che sua figlia si comportasse adeguatamente, e Kira obbediva per farla contenta.
La mamma… la bici.
No, non voleva pensarci adesso. Più tardi, prima avrebbe dovuto prepararsi un discorso per affrontare la cosa… o magari poteva nascondere la bici in garage e non dirle niente. Già, e dopo? Lei non era capace di aggiustare una bicicletta e non aveva nessuno a cui chiederlo.
Accidenti!
Kira imprecò mentalmente, e nella sua memoria apparve il volto del ragazzo in riva al fiume. Stava diventando una fissazione, ma non poteva evitare di pensarci ogni secondo.
Era così grande e grosso che avrebbe potuto essere uno studente di terza media. Avrebbe anche tirato fuori la bici dal fiume in un secondo con il suo aiuto; invece era stata costretta a far tutto da sola, impiegandoci un tempo interminabile.
Tutta-colpa-sua.
Quella faccia dall’espressione insolente…se lo avesse rivisto, era sicura che lo avrebbe riconosciuto in un…
«AH!»
«Non si corre in corridoio!»
Un ragazzo era sbucato da una classe senza preavviso, e per poco Kira non era andata a sbatterci contro. Un ragazzo alto con un’espressione insolente...
Kira trattenne il fiato e gli puntò un dito contro. «Ti ho trovato!»
Mark la guardò fisso un secondo. Cosa voleva quella da lui? Poi… «Ma tu sei…»
«Mi fa piacere che ti ricordi di me. Mi devi delle scuse»
Mark alzò un sopracciglio. «Io? A te? Non credo proprio»
«Oh sì, invece! E anche una bici nuova»
Lei gli si parò davanti, fissandolo insistentemente. Lui pensò di scansarla con un gesto rapido ma cambiò idea. Aveva di fronte la causa dei suoi guai: non le avrebbe risparmiato nulla.
«Io non ti devo un bel niente, ragazzina. Casomai è il contrario».
Lei dover delle scuse a lui? «È la seconda volta che quasi mi investi, oggi».
Il tono di Mark si inasprì. «Non rimproverare me per la tua sbadataggine! Stamattina eri tu a correre con la bici, e adesso in corridoio. In entrambi i casi, vedi bene che la cosa non parte da me. Sei un pericolo per gli altri e per te stessa».
Kira boccheggiò. «Tu…tu mi hai lasciata a mollo nel fiume!»
«Sei tutta intera, mi pare»
«Che c’entra? Solo per il fatto che sono una ragazza, avresti dovuto dimostrare un minimo di spirito cavalleresco»
Mark le sbuffò in faccia una risatina. «Siamo quasi negli anni novanta, svegliati: la cavalleria è morta».
Kira era a bocca aperta. Cercò un insulto che non venne.
Mark non aspettò che ne trovasse uno, fece per andarsene ma Kira lo trattenne per un braccio. Non aveva intenzione di mollare.
«Voglio le tue scuse. E mi deve risarcire la bici»
Mark la inchiodò con un’espressione degna di un predatore. «Spostati»
«No» rispose Kira fissandolo. Se pensava di intimidirla facendo il duro, sbagliava.
Si guardarono, entrambi con le mani sui fianchi.
Mark si chinò verso di lei. «Mi hai quasi investito».
«E tu mi hai distrutto la bici. Sono anche dovuta andare in infermeria»
Mark la esaminò velocemente, notando che aveva un cerotto piuttosto grande su un ginocchio. Ma non si sarebbe scusato, non per primo.
«Possiamo risolvere in fretta la faccenda, anche perché ho da fare» riprese lui. Stava ritardando agli allenamenti. «Chiedimi scusa e sparisci»
«Nemmeno per sogno! Tu chiedi scusa»
«Non ti entra in testa, vero? La vittima sono io».
Lei per poco non scoppiò a ridere. «La vittima? Sei grande e grosso, non ti si addice il ruolo della vittima»
«Nemmeno a te, se è per quello» Quella ragazzina aveva una lingua fastidiosamente lunga
«Per causa tua ho avuto una giornata tremenda» continuò Mark, sfogando tutta la sua irritazione. «Sono arrivato tardi a lezione, mi sono beccato una punizione dalla prof, e sto facendo tardi agli allenamenti di calcio. Senza contare le varie sfortune che, senza dubbio, hai disseminato sul mio cammino».
«Per tua informazione, nemmeno io ho avuto una bella giornata» protestò lei.
«Allora dovresti capirmi»
«E tu dovresti capire me»
«Non ci tengo a entrare nella testa di una ragazzina stupida e maleducata»
«Chi sarebbe la stupida, brutto spilungone?»
Ribatteva di nuovo. Era veramente impertinente. «Tu credi sul serio di essere dalla parte del giusto?»
«Ovviamente»
Svampita, maleducata e…
«Presuntuosa»
Gli occhi di Kira mandarono scintille. Lei era la presuntuosa? Lei era la maleducata? Ed era anche stupida? Bè, se era così, lui vinceva il primo premio per la cafonaggine.
«Sei la persona più fastidiosa che abbia mai incontrato!».
«Ma guarda, finalmente siamo d’accordo». Mark non capiva perché lei gli suscitasse tanto nervosismo, a prescindere da quante glie n’erano capitate da quando era apparsa sul suo cammino. Dopotutto era solo una ragazzina come tante. Razionalmente sapeva che era sciocco farla tanto lunga, eppure non riusciva a sopportarla.
«Senti, svampitella, non ho nessuna intenzione di perdere altro tempo con te»
L’occhio destro di Kira parve preda di un tic nervoso. «Come mi hai chiamata?» Svampitella?
«Adesso ho da fare, se non ti spiace» le disse infine, tirando dritto per la sua strada.
Mentre lui scendeva i gradini di corsa, Kira si affacciò alla tromba delle scale e la sua voce si diffuse fino a lui.
«Ti defili di nuovo?» gli gridò dietro. «Non ti libererai di me!»
La voce di Mark risuonò per le scale. «Aspetto le tue scuse, svampitella»
«Nemmeno morta!». Se non fosse che non aveva da perdere altri minuti preziosi, non l’avrebbe lasciato andare. Ma ci sarebbe stato tempo per una rivincita.

 


 
***** ***** ***** ***** *****
Note:

1. Come si vede in tutti gli anime/manga, i giapponesi si tolgono le scarpe appena entrano in casa, questo perché non si portano le stesse calzature usate per camminare in strada dentro un luogo pubblico, che sia sul lavoro, nei ristoranti, negli alberghi, nei templi e ovviamente anche a scuola. Ad esempio, nelle case giapponesi esiste una piccola zona chiamata genkan, appena oltre la porta l’ingresso, dove ci si cambia le scarpe. Nelle scuole esistono apposite scarpiere/armadietti posti nell’atrio dell’edificio. Esistono persino le ciabatte da bagno, che non sono le stese da casa! Insomma, le scarpe ‘da esterno’ si lasciano all’ingresso. È una regola da osservare con molta attenzione.

2.​ Nelle scuole giapponesi non esistono i bidelli, la pulizia delle aule, dei corridoi e dei vari ambienti interni è affidata agli studenti e gli insegnanti. Tutti gli studenti, a turno, devono occuparsi delle pulizie della propria aula (di solito a gruppetti di due o tre), mentre per gli ambienti più grandi come i corridoi o le palestre, si fanno turni speciali che coinvolgono più studenti o intere classi. Per gli ambienti esterni, invece, le scuole utilizzano imprese con operai specializzati, i quali si occupano di curare i giardini tenere pulito il cortile. Le pulizie sono considerate come una parte fondamentale dell'educazione dell'alunno, che deve imparare a rispettare l'ambiente comune. Meno sporchi, meno pulisci, no?

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-Spazio Autrice-
 
Bentornata a me!
Non sono molto soddisfatta di com’è uscito questo capitolo, lo trovo lentuccio… Sì, mi sto criticando da sola, è una cosa che faccio spesso. Spero che a voi piaccia un po’ di più XD
Si aprono le danze: se nei primi due capitoli li ho presi singolarmente, da qui in avanti i due protagonisti iniziano ad intrecciare le loro vite. Sarà un po’ complicato riuscire a farli andare d’accordo, ma ci arriveremo. Voi seguitemi e non ve ne pentirete, promesso ;)
Volevo spiegare su una cosa che mi è stata fatta anche presente nelle recensioni: ho scelto di mantenere i nomi dell’adattamento italiano per Mark e tutti i personaggi originali (eccezioni a parte, vedi Kitazume, che ho scoperto nel manga poiché nell’anime non viene mai menzionato) perché sono troppo affezionata a questi nomi. Per quanto riguarda i personaggi originali, invece, avranno quasi tutti nomi giapponesi. Questo mix potrà risultare confusionario, ma l’ho valutato proprio in base al fatto che i protagonisti sono giapponesi e hanno nomi inglesi, perciò, perché mettermi paletti? Dopotutto siamo nel mondo delle fanfiction, posso pure prendermi un bel po’ di licenza poetica ;)
 
L’altra volta vi avevo detto che avrei spiegato il significato del titolo della storia. Allora: “Haru no toki” – ripetiamo – significa “Il tempo ( o momento) della primavera”. Dovrebbe almeno, io non so il giapponese, mi sono aiutata col traduttore XD In ogni caso, il titolo è questo per tre motivi: il primo è che la primavera rappresenta la rinascita dopo l'inverno e alcuni la considerano la stagione dell'amore; ancora, il termine 'primavera' viene usato a livello sportivo per indicare le squadre giovanili in cui non si superano i veni anni di età; in ultimo, il termine deriva dal latino "primo"-inizio, e "ver", che a sua volta viene dal una radice indoeuropea “vas”-“splendente”. Qui abbiamo Mark che sta affacciandosi a una nuova vita, giovane atleta promettente come lo è Kira, il cui nome in russo significa “luce”. Mi è piaciuta particolarmente una definizione di primavera che ho trovato sul web:
"La primavera è inizio. Inizio di splendore per tutti. Così, anche gli equilibri del cuore tendono ad allungare il giorno dei sentimenti, nuova energia di nascita e creazione fluisce intorno a noi, e dentro - ed è bene non farsela sfuggire, che ci metterà un anno a tornare"

 
Bene, dopo questo io vi lascio alle recensioni se volete. Sapete che mi fanno sempre piacere.
Spero di aggiornare prima del solito. Stay tuned!
 
Un bacio a tutti e un grazie a chi mi segue.
Susan <3

   
 
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